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[personal profile] hakurenshi
 

Prompt: La stella
Missione: M11
Parole: 1687





I rumori di casa sua sono difficili da ignorare, una volta che si è imparato a riconoscerli. Tatsuya ha tredici anni e pressoché nessun amico quando diventa in grado di riconoscerli tutti alla perfezione e, soprattutto, quando diventa abbastanza bravo da trovare un paio di modi per fare finta di non sentirli nemmeno, o per lasciarli passare in secondo piano tanto che, a volte, sembrano sparire del tutto.
Uno dei momenti migliori, però, è la mattina presto o la sera tardi; nel primo caso crede che sua madre ormai non creda più al suo svegliarsi presto per ultimare le cose della scuola - non ha mai avuto problemi a gestire le tempistiche per lo studio e non fa parte di alcun club, senza contare che è incapace di mentire a sua madre - e sia per questo che anche lei ha preso ad alzarsi di buon’ora, facendogli compagnia. Tatsuya ama avere del tempo con lei, e se non ci sono rumori a disturbarli tanto meglio. Quanto alla sera tardi, invece, quando la maggior parte dei membri del gruppo è in giro o - più raramente - a riposare in qualche angolo della sede, lui ne approfitta per starsene nella stanza del Miyukigumi che suo padre ha messo a sua esclusiva disposizione, quando non torna a casa.
E ultimamente , Tatsuya è sicuro che tanto lì quando a casa propria qualcuno lo osservi. Sebbene abbia un controllo più che buono della sua abilità, è pur vero che non ha ancora mai azzardato l’utilizzo su un altro essere umano e l’idea di farlo solo per smascherare quel qualcuno rischiando di causare qualche danno che lo farebbe scoprire non lo rende proprio entusiasta.
Per questo, sentendosi osservato per l’ennesima volta, decide di provare la cosa più stupida del mondo - specie nel caso si dovesse trattare di un rapitore come qualche anno fa. Ma per quello c’è la katana al suo fianco, supponse.
«Puoi smettere di guardarmi da lontano come se fossi un maniaco, per favore?» pronuncia, senza bisogno di alzare poi tanto il tono di voce visto il silenzio circostante. All’inizio la mancanza di risposta gli fa supporre di dover abbandonare la propria posizione e di dover indagare da vicino. E’ quasi in procinto di alzarsi, quando un rumore lo fa fermare, a eccezione della mano che si avvicina appena all’arma alla sua sinistra. Stringe appena gli occhi per mettere meglio a fuoco la figura che, nella penombra del giardino, esce finalmente allo scoperto.
E’, senza dubbio, qualcuno che con il gruppo non ha nulla a che fare e che lui, Tatsuya, non ha mai visto prima: ha l’aspetto di un ventenne o poco più - uno che non si cura molto di come vestirsi, a giudicare dal fatto che maglia e pantaloni che indossa sono chiaramente di una taglia più grande - ma persino lui sa riconoscere una persona bella, quando ne vede una.
Il ragazzo mantiene una distanza precisa, rimanendo dove la luce lunare lo illumina abbastanza da rendere visibili i suoi lineamenti, ma senza invadere il suo spazio vitale o mettersi vicino quanto servirebbe per instaurare un contatto. Rimangono lì a guardarsi, e Tatsuya ha tutto il tempo di osservare i dettagli del suo aspetto: non sono tanto i capelli neri e lunghi a colpirlo, per quanto non gli sia capitato così spesso di vedere ragazzi con la chioma lunga abbastanza da farsi una treccia morbida che poggi sulla spalla a quel modo; il vero punto di forza sono gli occhi di quel giovane, di un blu incredibile già a vederli da lontano. E’ difficile leggere la sua espressione, però: Tatsuya non riesce a comprendere se si aspettasse o meno di essere scoperto, né se la cosa lo preoccupi.

Dopo diversi istanti Tatsuya lo vede avvicinarsi. Rimangono ancora entrambi in silenzio, fino a quando il ragazzo sconosciuto non gli chiede «Posso sedermi?» come se potessero saltare a pie’ pari tutti i convenevoli con estrema tranquillità - come se quel ragazzo non si fosse intrufolato in una proprietà che non è la sua, tanto per cominciare. Ma a Tatsuya non sembra che abbia cattive intenzioni, così dà un paio di pacche sul pavimento in legno, invitandolo tacitamente a sedersi alla sua destra. Il ragazzo non se lo fa ripetere due volte e gli si accomoda vicino, in silenzio.
Alla fine la cosa comincia a essere così surreale che, nonostante Tatsuya non sia proprio un esperto dell’arte della conversazione (non ancora) finisce con il cercare di intavolarne una.
«...Quindi tu chi sei?»
«Alphard.» gli risponde quello, ravvivando la sua attenzione, forse senza volerlo. Tatsuya lo scruta per un breve momento, quasi a cercare la menzogna nella sua espressione, ma arrendendosi quando non la trova.
«La stella?» gli chiede quindi. Quello che intendeva dire era “Alphard come la stella?”, e invece in risposta riceve non soltanto il primo cambio di espressione sul viso del ragazzo, quando il puro stupore glielo attraversa, ma anche un inaspettato «Come fai a sapere che sono una stella?»
Tatsuya on crede che esista qualcuno della sua età capace di credere ancora a cose come le stelle scese dal cielo in forma umana per un qualsiasi motivo - che poi non ricorda nemmeno una fiaba con qualcosa del genere, figurarsi. E’ inevitabile, quindi, aggrottare un sopracciglio con fare a dir poco perplesso.
«Come scusa?»
«Hai riconosciuto che sono una stella e non una persona come te.» riprende quello con espressione serissima «Non mi era mai successo. E poi» aggiunge, in un momento stranamente loquace a quanto sembra «in pochi conoscono la stella Alphard.»
A questo Tatsuya può dare il beneficio del dubbio - lui non è un esperto delle stelle a dire il vero, anche se gli piacciono e lo diverte imparare i nomi - ma per una stella conosciuta come “la solitaria”, non è difficile immaginare che sia difficilmente la preferita di qualcuno. Continua a non credere di poter avere davanti una stella, ma a tredici anni perché dovrebbe prendersi la briga di credere ad altro piuttosto che a questo? Al contrario, qualsiasi cosa dirà avrà senso, no? D’altronde è con un corpo celeste che sta parlando.
«E perché una stella viene nel mio giardino a quest’ora?»
Alphard - per adesso è l’unico modo in cui può chiamarlo - lo guarda in silenzio, tanto che Tatsuya pensa non sia intenzionato a rispondere; quando lo fa, però, dice qualcosa che proprio non si aspettava.
«Perché anche tu sembravi solo.» dice, e come se gli avessero tolto un tappo che continuava a impedirgli di parlare, prosegue senza quasi dare il tempo all’altro di metabolizzare «Guardo spesso giù e ogni tanto scendo in mezzo alle persone, come ora.» continua una spiegazione richiesta ma che lui non è più sicuro di voler ascoltare «Non mi faccio vedere quasi mai, ma...» esita, alzando lo sguardo verso il cielo. Che effetto deve fare guardare le stelle quando sei una di loro? Sarà la stessa di quando lui guarda una folla di esseri umani?
Anche Alphard si sente fuori posto in mezzo agli altri corpi celesti, a volte?
«ma osservo gli altri. Tu sei distante. E’ come se non toccassi gli altri esseri umani.» commenta con una totale assenza di tatto che forse bisogna aspettarsi. D’altra parte è probabile non conosca nemmeno la metà dei modi di fare degli umani o dei metodi più corretti per approcciare discorsi simili. Se Tatsuya fosse più grande, sarebbe capace di dissimulare per evitare di rispondere a un argomento scomodo quanto la realtà di cui fa parte; ma ha soltanto tredici anni, e l’unica cosa alla quale riesce a pensare per mettere un muro tra sé e quella stella è imbronciarsi - per quanto sia istintivo, in verità - e spostare l’attenzione su altro (o così crede lui. Tra qualche anno non sarà così folle).
La cosa sbagliata, però.
«Beh, anche tu sei distante dalle altre stelle.»
«Però parlo con la mia costellazione.»
«E io con la mia famiglia.»
«Solo con la donna con cui passi alcune sere.» gli rinfaccia, quasi «Le persone hanno paura delle altre persone?» gli chiede poi.
«Io non ho paura.» ed è vero, non teme le altre persone più di quanto tema qualsiasi altra cosa.
«Forse loro hanno paura di te?»
Beh, considerato chi è suo padre non esclude che alcuni abbiano il timore di parlargli o che ad altri sia stato detto dai genitori di non avere troppo a che fare con lui. Ma non lo preoccupa troppo; in generale non è bravo, a fare amicizia, lo dimostra il fatto che il suo unico amico sia Jin. E una stella. A quanto pare.
«Ho pensato tu fossi solo come me» riprende la stella «e mi sono incuriosito.»
«Sono solitario anche io?» lo prende in giro, ma più per non far vedere che l’idea non sarebbe così strana - ci ha pensato anche lui, ci si considera davvero anche se non in modo poi tanto negativo come potrebbe sembrare agli altri.
«Forse sì. Sei un po’ strano, per essere un bambino umano.»
«I bambini umani non controllano il Tempo, io sì. Direi che sono strano da prima che venisse a dirmelo una stella.» ribatte occhieggiandolo di traverso per un momento, tornando poi a guardare il cielo. Ce ne sono tanti di puntini luminosi, ma chissà quanti sarebbero in grado di prendere forma umana e scendere a parlare con lui. O quanto abbiano davvero il desiderio di scendere da un posto che sembra tanto bello (e facile, molto più facile del suo mondo) per trovare… beh. Nulla di così entusiasmante.
«Il Tempo è un dono prezioso.» gli sente dire, ma percepisce anche la sensazione della punta delle dita fredde contro la guancia. Non si volta, perché non vuole ammettere di trovare il Tempo un dono orribile.
«Le stelle di più. Anche solitarie e quando vengono a rompere le scatole.»
«...Non posso tornare?»
Lo guarda, adesso, e ancora non sa distinguere la sua espressione ma non ne ha bisogno. Sono soli entrambi, solitari forse in modo fin troppo simile e cosa c’è di male ad avere una stella per amica? Non sarebbe la prima stranezza, e non crede proprio che sarà l’ultima.

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