hakurenshi: (Default)
 

Prompt: evoluzione

Missione: M2 (week 6)
Parole: 7136
Rating: teen up
Warnings: shonen-ai



Hitoshi ha ancora addosso l'adrenalina dello scontro ma anche, insieme a quella, la sensazione di aver comunque fallito. Con se stesso, non certo nei confronti di altri; importa poco che la sua classe si sia sgolata per tifare per lui, lasciandosi trascinare dal senso di appartenenza e di rivalsa di chi è considerato "meno". Perché i veri, futuri eroi sono quelli della 1-A e lo saranno sempre. Il divario di capacità è evidente, abissale. Persino lui, che a detta di tutti ha il quirk degno di un futuro villain, non ha potuto nulla contro Midoriya Izuku alla fine. 


Siede nell'area meno affollata di tutte, quella che collega tramite dei tunnel la zona degli scontri del festival sportivo agli spogliatoi dove si attende il proprio turno. Ha preferito evitare gli spalti con i suoi compagni di classe, così come le zone dove i professori passano per assicurarsi che tutto funzioni come deve. E' un posto quasi d'onore, a modo suo, quello dal quale può guardare gli scontri dopo il suo. E' questa l'occasione in cui si sofferma su Todoroki Shouto più di quanto abbia mai fatto prima e, certamente, più del necessario. Perché è il protagonista dello scontro con Midoriya, è chiaro. Eppure in lui c'è qualcosa che spinge Hitoshi a non distogliere lo sguardo, nonostante lo abbia sempre considerato né più né meno del privilegiato figlio di Endeavour che deve aver avuto la strada spianata fin dall'infanzia. Uno di quelli destinati alla grandezza senza nemmeno impegnarsi per averla - è stata l'invidia a parlare per lui, Hitoshi ne è del tutto cosciente. Ma è anche solo un ragazzo di quindici anni che, al contrario dell'erede dei Todoroki, di regalato non ha mai avuto nulla.


Nonostante questo, si rende conto di non riuscire a fare altro che guardarlo. Succede soprattutto quando gli vede sul viso l’espressione disperata in cui gli risulta molto più facile riconoscere se stesso anziché Todoroki - o, per meglio dire, l’idea che si è fatto di Todoroki.


E' una disperazione che si presenta come un'amica di vecchia data, un mantello invisibile che per anni è stato poggiato sulle proprie spalle, capace di proteggere dall'esterno e al tempo stesso di pesare come un macigno. Si trascina dietro l'inadeguatezza di aspettative sbagliate o alle quali non si vuole rispondere, perché è quanto tutti si aspettano. Tranne lui. Tranne, forse, Todoroki. A Hitoshi risulta complicato immaginarsi cosa ci possa essere di così difficile, quando si hanno ben due quirk di inimmaginabile potenza e potenziale, entrambi adatti a essere uno dei futuri eroi in lista per la posizione numero uno. Se il mondo prova a immaginare qualcuno a successione di All Might, non si figura persone come Hitoshi, ma persone come Shouto. Eppure quell'espressione è inequivocabile per lui: incomprensibile, anche, ma non si può non riconoscere un peso enorme che si porta sulle spalle. Nemmeno quando lo si scorge sulle spalle di un altro. 


Così guardare il suo scontro con Midoriya perde d'importanza, o magari di senso, e diviene un osservare qualcuno che - sulla carta - dovrebbe essere il suo esatto opposto e avere tutto ciò che Hitoshi non avrà mai.


*


Todoroki Shouto è una creatura incomprensibile. Hitoshi è ben consapevole che, se dicesse questa cosa ad alta voce, a seconda del proprio interlocutore potrebbe ottenere delle reazioni ben diverse. Se lo dicesse a Midoriya Izuku, per esempio, o in generale a chiunque della 1-A, sospetta che rimarrebbero quasi straniti. Convinti, immagina, che l’erede dei Todoroki sia da considerarsi invece un adolescente quasi più semplice da comprendere di molti altri. Al contrario, Hitoshi non vuole nemmeno immaginare come potrebbe essere affrontare il discorso con qualcuno della 1-B - poi ricorda che, in fondo, non è così vicino a nessuno dei suoi compagni di classe da voler avere una conversazione incentrata sulle sue impressioni riguardo a uno degli studenti del corso Hero. 


Il solo pensare come potrebbe essere parlarne e avere Monoma a infilarsi nella discussione è sufficiente a fargli già venire il mal di testa. In ogni caso, non ha davvero motivo di esternare le sue considerazioni e può lasciare che rimangano tali e personali, niente più di pensieri fugaci e improvvisi quando gli capita di intravedere Todoroki nell’area sportiva a correre oppure nel tragitto verso i dormitori. O, ancora, per i corridoi. 


Magari, si dice a un certo punto Hitoshi, quella del festival sportivo è stata solo una sensazione data da diversi fattori che non sussistono già più. E, se è così, la realtà dei fatti rimane la stessa: lui e Todoroki non hanno nulla da spartire. 


*


Hitoshi non saprebbe dire come succeda, ma di sicuro quanto sia strano è molto più facile da descrivere. Todoroki, di fianco a lui, si sta occupando in silenzio di una pila di fogli riguardanti l’attività esterna della 1-A che dovrebbe tenersi di lì a poco, qualcosa che Hitoshi era convinto sarebbe stata prerogativa dei due rappresentanti di classe. D’altronde, lui stesso è un intruso in tutto questo, solo in virtù di un favore personale a Kendo. 


Da quando sono entrati non hanno aperto bocca e si sono semplicemente sistemati seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all’altro, lavorando nel completo silenzio. Hitoshi ne è grato, a modo suo: non reputa di essere il tipo da chiacchiere casuali. Todoroki sembra essere persino meno capace di lui, se non altro, perciò immagina non ci siano aspettative da parte sua.


«Midoriya voleva invitarti a pranzo, oggi.» se ne esce Todoroki, come se nulla fosse. Hitoshi ferma a mezz’aria il movimento di posare il foglio sulla pila di quelli sistemati, mentre quella da lavorare è ancora tristemente piena. Alza lo sguardo e lo punta sul giovane di fronte a lui che, per tutta risposta, sta continuando imperturbabile il suo lavoro. Shinsou, invece, ha bisogno di fare un ordine specifico nella sua mente, cercando di capire quale sia l’informazione che lo destabilizza di più e quale quella più trascurabile. Immagina sia il tipo di analisi che tutti i loro insegnanti vorrebbero venisse fatta in momenti di criticità; Hitoshi non riesce a pensare a un momento più critico di Midoriya che vuole invitarlo a pranzo in mensa con tutto il tavolo di compagni della 1-A con cui lo vede di solito. E che a riportare il messaggio sia quello più inavvicinabile dopo Bakugo Katsuki. 


«…A pranzo.» non può fare a meno di ripetere, per chiedere conferma ma soprattutto per lasciare che l’informazione attecchisca nella sua testa. Solo allora Todoroki alza lo sguardo su di lui, soffermandosi per una manciata di secondi; sembra vagliare la possibilità di confermare o dirgli che è tutto uno scherzo, e sarebbe anche plausibile se soltanto Hitoshi non fosse abbastanza sicuro che il ragazzo di fronte a lui - tra le sue, immagina, innumerevoli qualità - non brilli certo per il senso dell’umorismo. 


Alla fine, Todoroki annuisce e basta, ma sosta comunque con gli occhi su di lui e Hitoshi si domanda se voglia aggiungere altro o solo spiare la sua espressione in risposta all'informazione. A essere completamente sincero, non ha una reazione pronta da offrirgli - perciò si limita a un sospiro leggero e a tornare ai fogli da dividere. Decide di non controllare cosa stia facendo l'altro, se lo stia ancora guardando o se abbia già perso interesse, avendo riportato il messaggio che è probabile gli sia stato semplicemente affidato da Midoriya.


E' una sorpresa sentirgli dire: «Midoriya è il tipo da tenerci sul serio.»


Deve imporsi di continuare a tenere gli occhi bassi, perché sa bene che ora come ora la sua espressione potrebbe solo tradirlo.


*


Hitoshi non accetta l'invito a pranzo per molto tempo. Lo fa per caso, perché non riesce a svignarsela in tempo, quando Midoriya è stranamente solo nella mensa della U.A, un avvenimento che stona abbastanza da farlo soffermare a sbirciare in sua direzione. La cosa si rivela fatale ma, sorprendentemente, è anche meno tragico di quanto Hitoshi ha mai immaginato potesse essere. Midoriya ha l'entusiasmo di chi è rimasto un fan prima ancora di realizzare di essere un futuro pro Hero e la gentilezza di chi forse, in passato, non ha brillato sotto la luce dei riflettori come il mondo tende a credere riguardo a chiunque.


Si avvicinano lentamente, ma Hitoshi capisce quasi subito che il sentore avuto durante il festival scolastico - quello di avere di fronte una persona incapace di lasciare indietro gli altri, qualunque cosa questo significhi - non è sbagliato. Izuku potrebbe, potenzialmente, essere la persona più vicina a diventare il suo primo amico. O la cosa più vicina a un amico nel senso più ampio del termine. Parla molto più di quanto Hitoshi possa mai fare, ma non è un male se c'è qualcuno a riempire i suoi silenzi - sono incontri piuttosto brevi, considerati tutti gli impegni e gli allenamenti che la 1-A si ritrova ad avere, ma Midoriya ha sempre qualcosa da raccontargli. Così Hitoshi, pure se molto lontano dalla realtà della classe di futuri pro Hero su cui tutti contano, assorbe passivamente aneddoti che altrimenti non potrebbe conoscere - le difficoltà, sì, ma anche quegli aspetti molto più umani.


«La prossima volta potresti unirti a noi.» gli propone Izuku con tutta la naturalezza del mondo. Hitoshi mangia il suo ultimo boccone di omurice prima di alzare lo sguardo su di lui, incerto su come dire nel modo più delicato possibile che Midoriya è un'eccezione e che in quanto tale è difficile aspettarsi un trattamento simile anche dagli altri. Forse lo rende molto palese, o forse l'altro è solo molto bravo a leggere gli altri, ma lo vede sorridere con gentilezza come a suggerirgli che ha capito quali pensieri lo stanno trattenendo dal rispondere. E che va bene anche così.


«Magari la prossima volta.» Hitoshi glielo concede più per ringraziarlo, implicitamente, di non forzarlo a qualunque cosa stia cercando di fare che per reale intenzione. Potrebbe anche andare meglio del previsto, un giorno.


*


E’ una situazione strana quella in cui Hitoshi si ritrova, per la prima volta, a interagire davvero con Todoroki per qualcosa che vada più dell’incrociarsi per il corridoio o il lavorare insieme a una pila indefinita di fogli. Sarebbe tutto sommato semplice se si trattasse di una missione di poco rilievo, di essere da supporto a qualche pro Hero e ritrovarsi affiancato anche da Todoroki - questo gli permetterebbe di comportarsi come suo solito, di interagire il minimo e in modo professionale. Invece lui e Shouto si ritrovano insieme a… fare la spesa. Qualcosa di così normale da essere surreale. 


«Todoroki» richiama Hitoshi mentre attraversano la strada da marciapiede a marciapiede «mi ricordi per quale motivo stiamo facendo la spesa?» domanda, non con il tono di una provocazione ma con molta confusione. Succede, quando una massa non meglio identificata di studenti della 1-A piomba a chiedere chi è libero di comprare gli ultimi ingredienti necessari e Kendo - inspiegabilmente loro complice? - si accoda nel pregare per quel favore personale. Hitoshi non ha problemi a fare la commissione di per sé, era solo convinto di poterla fare da solo. Quasi il pensiero di Monoma è confortante, in questo frangente.


Shouto occhieggia il foglietto con indicati i prodotti da comprare e solo poi punta lo sguardo su Hitoshi. Lui, di tutta risposta, si domanda se sia legale avere un occhio di quell’azzurro; di come sarebbe stato averne un paio, su di sé, di quella sfumatura che non sembra quasi vera e nella quale riconosce comunque senza alcuno sforzo gli stessi occhi di Endeavour. Un dettaglio a cui non ha intenzione di dare voce per due motivi: il rapporto ormai di dominio abbastanza pubblico tra lui e suo padre e il fatto che suonerebbe piuttosto discutibile un intero ragionamento sugli occhi di Todoroki.


«Per il compleanno di Kirishima.» replica Shouto con quel fare placido «Credo la 1-B sia stata invitata da Tetsutetsu.» aggiunge, quasi dovesse giustificare la sua presenza lì. Hitoshi annuisce, affondando entrambe le mani in tasca. Razionalmente la domanda che continua ad affollargli la mente è sciocca, eppure a livello inconscio non riesce a smettere di chiedersi se Todoroki abbia preso in considerazione - anche solo per un momento - la possibilità che rispondergli potrebbe portarlo a essere vittima di quel quirk più adatto a un villain che a un eroe.


Hitoshi si limita a seguirlo in silenzio, muovendosi tra gli scaffali una volta che sono nel supermercato; adocchia solo una volta la lista lasciandola nelle mani di Shouto, guardandosi intorno per ritrovare il giusto reparto. Lo ritrova ora qui ora lì, ma senza troppe difficoltà, aiutato dal fatto che Todoroki non passi esattamente inosservato. Anche se Shinsou sospetta che l’altro sia sicuro di essersi camuffato a dovere; non ha il cuore di dirgli che un berretto e una mascherina non servano a granché quando si è uno degli studenti della U.A. con più fan in assoluto e i capelli di diverso colore sono piuttosto difficili da confondere con quelli di qualcun altro. Quasi a voler confermare il suo pensiero, non fanno in tempo a mettere piede fuori dal supermercato con una busta a testa che vengono fermati. Per fortuna si tratta solo di due studentesse, a occhio non più grandi di una terza media. 


Quando ormai se ne sono andate, Todoroki assume un’espressione confusa mentre rivolge lo sguardo a Hitoshi per chiedergli, con fin troppa serietà: «Credi ti abbiano riconosciuto?»


Shinsou lo fissa, aspettandosi un segno che si tratti di una battuta. Quel segno non arriva mai e questo, contro ogni pronostico di Hitoshi per quella giornata e ogni sua preoccupazione riguardo al pensiero di Todoroki sul suo quirk, finisce per portarlo a devolvere ogni sua energia a cercare di non ridere apertamente. Fallisce in parte, mentre uno sbuffo divertito gli abbandona le labbra e le spalle si rilassano perché quella dicotomia in Todoroki non si ferma a fuoco e ghiaccio, ma è un insieme di atteggiamenti in completa contrapposizione con la sua indole. Lo vede guardarlo, con una sfumatura di confusione nello sguardo, quasi non capisse il perché di quella reazione piuttosto vicina all’ilarità. 


«Davvero, Todoroki?» gli fa eco, mentre sembrano stranamente vicini al modo di comportarsi di due amici «Pensi sul serio che abbiano riconosciuto me?» gli fa notare, non riuscendo a trattenersi dal sottolineare nel modo più gentile possibile l’assurdità di quel fraintendimento. Shouto non sembra convinto, ma nemmeno ribatte, forse trovando un discreto senso in quelle parole. Hitoshi scuote la testa, ma con il fare bonario che nell’ultimo periodo ha imparato a rivolgere più che altro a Izuku, quando lui è l’unico a vedere in Hitoshi le potenzialità di un buon amico quasi dimenticandosi dei ruoli a cui i loro quirk li relegano, o le loro classi, o qualunque altro tipo di ranking. 


Non si aspetta assolutamente di vedere le labbra di Todoroki incurvarsi in un sorriso. E’ impreparato a vederlo sbuffare a sua volta, tradendo un divertimento genuino. E, meno di ogni altra cosa, è del tutto fuori da ogni sua percezione del loro (quasi inesistente?) rapporto quel colpetto spalla contro spalla che Todoroki gli offre, con una complicità quasi assurda. Shinsou lo guarda, abbassa gli occhi sulla propria spalla, cercando di non riflettere nell’espressione il modo quasi stranito in cui si sente. Todoroki Shouto è ancora lo studente del festival sportivo, è ancora il riflesso incrinato di una disperazione che sente addosso come se fosse una seconda pelle e che non sa se andrà mai via; è la figura che segue da troppo tempo quando passa nei corridoi, con la discrezione di chi non vuole essere visto e frainteso - o scoperto. E’ lì, di fianco a lui, più tangibile di qualsiasi ancora Hitoshi abbia mai avuto alla realtà, chiedendosi se ne avrebbe mai avuta una normale in cui non conta suo padre, non conta il suo quirk.


Pensava che la risposta alla domanda fosse Midoriya Izuku. Invece si ritrova, inaspettatamente, Todoroki. E, insieme a lui, ha tra le mani sentimenti di cui non sa cosa fare. Tranne nasconderli. Perché, se c’è una cosa che ha imparato, è di non poter pretendere di avere troppo quando a stento gli è stato concesso il minimo. 


*


Hitoshi non avrebbe mai scommesso sulla possibilità di unirsi alla sezione A, di poter - un giorno - perseguire il suo sogno di diventare un pro Hero insieme a quella che è sempre stata considerata l’eccellenza delle nuove generazioni. Per questo sente ancora le mani tremare, dopo l’allenamento di gruppo; anche se in parte è dovuto anche all’accenno di panico e preoccupazione provata quando si è reso conto che Midoriya stava perdendo il controllo. Forse perché non si aspettava si sarebbero addifati proprio a lui per provare a contenerlo, o foerse perché è difficile per lui immaginare che uno come Midoriya possa essere qualcosa di diverso da come uno della loro generazione si immagina un futuro eroe. 


Quando sono ormai tutti liberi di commentare i vari match di quell’esercitazione, accade qualcosa che Shinsou si sarebbe aspettato persino meno della fiducia che i ragazzi della 1-A gli hanno dimostrato. Quel qualcosa è sentire la voce di Todoroki rivolgersi a lui con un: «Possiamo parlare un momento?»


Per quanto ci provi, Hitoshi sospetta di non riuscire a mascherare del tutto la sua perplessità. Nonostante questo non ha motivo di negare - o di negarsi - questa compagnia; perciò si muove passo dopo passo verso Todoroki. Non si allontanano poi troppo, tanto che quando si siedono possono ancora tranquillamente vedere i loro compagni divisi in piccoli gruppetti, ognuno impegnato in una conversazione. Hitoshi occhieggia l’altro un paio di volte prima di sentirsi rivolgere la parola. 


«Grazie,» gli sente dire «di aver aiutato con Midoriya.» chiarisce subito. Hitoshi si volta a guardarlo direttamente, senza sapere bene come reagire alla cosa. Da una parte pensa di non aver fatto nulla di speciale ma il minimo sindacale: dare una mano, o almeno provarci. Può non essere scontato tra le persone, ma in un contesto di aspiranti eroi Hitoshi dubita che qualcuno si sarebbe sottratto. Dall’altra, crede di riuscite a capire che in quel ringraziamento non c’è solo la gratitudine per un intervento fisico o del proprio quirk. Incredibilmente, Hitoshi si ritrova a parlare d’istinto spostando lo sguardo sugli altri ragazzi, Midoriya compreso. 


«Credo che Midoriya, più di chiunque altro, non avrebbe mai sopportato l’idea di coinvolgere qualcuno nella perdita di controllo del suo quirk.» pronuncia infatti con tono basso, cogliendo con la coda dell’occhio il movimento della testa di Todoroki, sentendo lo sguardo su di sé. Non puà distinguerne l’espressione, visto che non lo guarda, ma può provare a immaginarla. Specie quando Todoroki dice: «Forse tu lo capisci meglio di quanto gli altri pensano.»


Hitoshi comprende il sottinteso, se lo sente sulle spalle, ma lo ignora perché è il tipo di cosa di cui non parla con le persone; così abbozza un sorrisetto e lo guarda di sottecchi: «Non sono esattamente il suo migliore amico.» osserva con una leggera alzata di spalle «Ma è piuttosto evidente che tipo di persona sia Midoriya.» aggiunge, convinto che non abbiano molto altro da dirsi. Quasi si aspetta di vedere Todoroki alzarsi e spostarsi verso il gruppo, magari con un cenno di saluto verso di lui. Invece l’altro, contro ogni sua previsione, pronuncia un: «Però nessuno di loro sa cosa significhi temere il proprio quirk. Midoriya forse ha imparato solo a considerare i danni sul suo corpo, ma non su quello degli altri.»


Potrebbero affrontare questo discorso, se volessero. Potrebbero  restare lì seduti e raccontarsi di quanto questo li abbia condizionati: chi puà ferito dai pregiudizi degli altri, annidati nella sua testa con lenta ma instancabile violenza, chi invece influenzato da avvenimenti traumatici. Potrebbero dirsi quanto difficile sia convivere con la consapevolezza che la cosa di cui si ha più paura è una parte di se stessi, quella indispensabile per i propri obiettivi. Potrebbero riconoscere l’uno nell’altro la paura, il dispiacere, la delusione;  ma anche una piccola e incrollabile speranza, oltre alla gratitudine - e un pizzico di ostinazione. Sarebbe come guardarsi allo specchio (di nuovo), perché entrambi sono stati salvati da Midoriya. Perché Hitoshi non pensa potrà mai dimenticare il Todoroki di quel festival sportivo, neanche tra dieci anni. 


Potrebbe assecondare l’istinto di stringergli la mano e confortarlo.


Eppure non fa nulla di tutto questo.


*


Si accorge distrattamente di dare una spallata a un’infermiera e, in un angolo molto remoto della sua mente, si sente in colpa per questo e per non aver nemmeno preso in considerazione di fermarsi a chiedere scusa. Hitoshi si ripromette di farlo dopo, ma adesso non può perdere tempo in quel modo - non mentre scatta per i corridoi di un ospedale, anche se “scatta” è una parola grossa con tutti i dolori che sente in tutto il corpo. Dietro di lui ha la vaga percezione di qualcuno che lo richiama, eppure adesso come adesso non si fermerebbe neppure se fosse Aizawa-sensei a chiedergli di farlo.


All for One è stato sconfitto e nemmeno il mondo ci crede ancora, troppo spaventato e troppo - irrimediabilmente - ferito da troppe cose su cui lui, Shigaraki e la League of Villains è riuscita a mettere le mani. Le certezze di tutti si sono sgretolate come un masso costantemente vessato che alla fine non può rimanere del tutto intatto in eterno. Hitoshi sa che ogni singolo Eroe ha almeno una ferita e che molti sono stati meno fortunati, rimettendoci la vita. Basterebbe già questo a farlo sentire in modi difficili da comprendere anche per lui stesso, ma a stringergli il cuore nel petto quasi All for One in persona ci avesse messo le mani e lo stesse stritolando per ucciderlo è che nessuno sia stato in grado di dirgli con precisioni le condizioni di Todoroki. 


E’ stato talmente al centro dello scontro, almeno per parte di esso, che Hitoshi non sa come prendere quella mancanza di informazioni: non lo sanno perché tutti troppo lontani da lui per essersene sincerati con i propri occhi? Non lo sanno perché non stanno rilasciando notizie ufficiali nemmeno tra i pro Hero? Non vogliono dirglielo per scelta?


Ha il vago sentore della voce di Kaminari che lo chiama ma la ignora fin quando il suo cervello non registra che proprio gli altri della 1-A potrebbero sapere dove si trovi Todoroki. Così fa dietro front, fermandosi a ridosso della porta con una fitta dolorosa al fianco, una che sembra prendersi gioco di lui dicendogli così impari a correre dopo essere appena stato rattoppato. Digrigna i denti per un momento, prima di alzare lo sguardo e abbracciare l’intera stanza, alla febbrile ricerca di una testa inconfondibile; quando la trova, di lì a qualche secondo, sente il macigno nel suo stomaco sciogliersi in un istante e un’ondata di sollievo investirlo in pieno. Todoroki è seduto su un letto d’ospedale, sì, è pieno di bende ma è vivo. Non è qualcosa su cui Hitoshi ha avuto il coraggio di scommettere finora.


«Wow, sicuro di star bene?» domanda Kaminari, con quache cerotto e graffio, oltre all’aria stanchissima come tutti loro, ma niente di davvero letale a vederlo. In compenso sembra piuttosto preoccupato per lui, tanto da poggiargli una mano dietro la schiena, neanche si aspettasse di vederlo cadere come una bambola senza vita da un momento all’altro: «Sei bianco come un cadavere.» offre come spiegazione, solo per sentir intervenire Ojiro con un «Credo sia un paragone da evitare…»


In altri momenti Hitoshi crede che gli strapperebbe un sorriso, specie quando Kaminari inorridisce nel rendersi conto cos’abbia detto; ora come ora, però, Hitoshi annuisce con un vago «Tutto bene, niente di rotto.» che non è una bugia anche se qualcosa di rotto c’è - incrinato, corregge la voce della sua coscienza, puntualmente ignorata. 


«Ho chiesto di alcuni di voi… continuavano a non dire niente di chiaro.» mormora, occhieggiando anche lo stesso Kaminari e vedendolo sospirare: «Eh, è un casino, ci sono un sacco di pro Hero di cui stanno ancora accertando le condizioni…» conferma lui, le spalle che si abbassano tradendo il dispiacere di chi avrebbe voluto fare di più, non importa quanto sia chiaro a tutti che abbia fatto il massimo senza risparmiarsi nemmeno per un istante. Hitoshi allunga una mano per dargli una pacca leggera e piuttosto goffa, perché non ha avuto il tempo di abituarsi a quel tipo di condivisione con loro. Al tempo stesso, però, se sopravvivere a una guerra non unisce, non sa cosa dovrebbe farlo.


Kaminari infatti gli rivolge un sorriso amichevole, mentre Ojiro gli offre lo stesso gesto consolatorio; Todoroki ha lo sguardo verso la finestra, invece, e non si è mai voltato in direzione della porta da quando Shinsou è entrato. Kaminari e Ojiro sembrano seguire il suo sguardo e intuire la sua tacita domanda: il primo scuote la testa, a suggerirgli forse di aver già tentato e fallito. Il secondo, invece, abbozza un sorriso che sembra volergli dire “prova, se vuoi” senza credere molto in un risultato diverso. Entrambi, però, lasciano la stanza di lì a poco annunciando di andare a controllare gli altri e a cercarli nelle stanze. 


Hitoshi ha la strana sensazione di essere finalmente solo con Todoroki, così da potersi accertare delle sue condizioni, e al tempo stesso di non essere pronto a condividere da solo la stanza con lui. Specie a giudicare da come l’altro non sembri avere alcuna voglia di compagnia. Nonostante questo decide di muoversi verso di lui, almeno per vederlo in viso e assicurarsi che la situazione non sia grave. In silenzio, se necessario, senza disturbarlo per niente più di uno sguardo. 


Se non fosse che, quando Todoroki rientra nel suo campo visivo per bene, a Hitoshi si stringe lo stomaco in una morza ferrea quasi quanto quella che lo ha accompagnato fino a quella stanza. Il ragazzo seduto su quel letto non è né quello del festival sportivo, una realtà che sembra lontana anni, né quello convinto bastino un berretto e una mascherina a renderlo irriconoscibile. Non è quello che lo ringrazia per aver aiutato un amico. Non è il suo specchio, non più. E’ qualcuno a cui dentro si è spezzato qualcosa, senza molta possibilità di rimetterla a posto. Nemmeno per Hitoshi, che un tempo ha pensato di capirlo meglio di altri, perché così simili sotto alcuni punti di vista.


Fa per muoversi verso la porta, ma a sorpresa si sente dire: «Resta.» 


Todoroki non lo guarda ancora e ha il tono stanco di chi ha visto troppo, combattuto troppo, vissuto troppo. Si tratta di qualcosa che va oltre tutti i bendaggi, i graffi, le ferite fisiche in generale. E’ qualcosa che ha scavato dentro e che potrebbe scavare per ancora tanto tempo, fino a non lasciare niente; Hitoshi sospetta non ci sia nulla da dire a qualcuno che ha ritrovato suo fratello solo quando un villain gli si è parato davanti professandosi tale, decretando con poche parole che non potessero coesistere insieme e da vivi. O che almeno uno dei due non avesse né interesse, né intenzione a farlo. 


Hitoshi non potrà mai prendersi la responsabilità di dire a Todoroki l’unica cosa che vorrebbe sentirsi dire, ossia che tuo fratello non diceva davvero - in primis perché sarebbe irresponsabile: non saprà mai cosa voleva Dabi (Touya). Oltretutto Hitoshi non è affatto sicuro che questo aiuterebbe Todoroki in alcun modo. Cos’è meglio, dopotutto, sapere che il proprio fratello provava davvero odio o che sarebbero potuti essere qualcosa di diverso da due nemici ma ormai non lo sarà mai con certezza perché suo fratello è morto?


«Mi dispiace.» gli dice soltanto, in un sussurro, mentre si siede accanto a lui. Lo vede irrigidire appena le spalle e stringere le mani lì in grembo dove le tiene senza mai essersi mosso da quando lui è entrato. Hitoshi sospetta di aver detto due sole parole e aver comunque scelto quelle sbagliate.


«Era un villain. Avrebbe ucciso qualcuno, ha–»
«Sì.» lo interrompe Hitoshi, guardando davanti a sé verso la stessa finestra che sta fissando anche Todoroki - perché se continuasse a guardare il ragazzo al suo fianco, finirebbe col tremargli la voce. Vederlo così è una delle cose più difficili che Hitoshi abbia dovuto fare e dirlo dopo una guerra è ancora più significativo. Ed è così sfibrato da temere di non avere abbastanza forza anche per questo, non adesso. 


Rimangono in silenzio, uno con due pesi diversi: per Todoroki, sospetta, è il silenzio di una realtà che deve ancora scivolare e adattarsi alla persona che la rifiuta. Per Hitoshi è la disperata ricerca della cosa giusta da dire, in un repertorio spoglio di relazioni sociali.


«Però era mio padre.» pronuncia a un certo punto, così privo di senso logico - neanche stesse dicendo che Dabi era suo padre - da portare persino Todoroki a guardarlo per un breve istante. Non è che Hitoshi lo ignori, ma mantiene il proprio sguardo dov’è, forse per dare all’altro l’illusione di non essere visto e di poter decidere se continuare a fissarlo o tornare rivolto nella stessa direzione di poco prima. Lui, in ogni caso, preferisce non affrontare questo discorso con un contatto visivo: «Voglio dire» riprende «è quello che ho pensato a un certo punto. Quando tutti hanno continuato ad aspettarsi che facessi la stessa fine, visto il quirk che mi ritrovo.» lo dice non senza difficoltà. Perché, dopotutto, non ha ancora affrontato direttamente l’argomento con nessuno e forse non era sicuro di volerlo fare proprio con Todoroki fino a questo momento. Fino a quando non ha compreso che potrebbe essere l’unica cosa, tra quelle di cui l’altro ha bisogno, che lui possa dargli: un appiglio basato sull’esperienza personale. 


Sospira, pianissimo, quasi sperando che il ragazzo al suo fianco non lo senta: «“Farà la stessa fine”, lo hanno creduto tutti quelli che mi hanno sentito parlare della U.A. o che hanno scoperto il mio quirk. Perché mio padre ha scelto la strada sbagliata e io, con un’abilità adatta a un villain, che altra direzione potevo prendere?» mormora, sforzandosi di tenere il tono fermo, attribuendo ogni tremolio anche solo vago al dolore alle costole. Todoroki non lo interrompe e questo lo aiuta in modi che non ha tempo di analizzare.


«Non so se perdonerò mai mio padre per questo.» ammette, senza dilungarsi su cosa intenda con “questo” - il fango gettato su di lui, l’ombra con cui ha avvolto la sua reputazione prima ancora che Hitoshi potesse formarsene una personale. Ogni fibra di lui combatte per non parlare affatto di lui e di quei sentimenti contrastanti che non sa se riuscirà mai a chiarire; eppure, si ripete, è l’unica cosa che può fare. L’unico supporto che è capace di dare, qui e ora: «Ma era mio padre. Mi piaccia o no. E lui era tuo fratello.»


C’è un lungo, lunghissimo silenzio tra loro. Todoroki guarda di nuovo davanti a sé, stringe ancora le mani in grembo, sembra ancora come se gli avessero scavato un buco nel petto e gli avessero strappato il cuore - però a un certo punto, quando Hitoshi si gira a guardarlo direttamente per la prima volta, vede il suo labbro inferiore tremare. E’ solo un istante e non ci sono lacrime; in compenso Todoroki apre bocca per pronunciare una frase ben più lunga di un disperato “resta”. 


«Adesso, però, il mondo intero ha visto che sei un eroe e che hai salvato delle vite.»

 

E’ assurdo come lui dovrebbe consolare Todoroki e, invece, si ritrovi ad ascoltare quell’unica frase che più di qualsiasi premio gli fa capire quanto sia riuscito a essere almeno in piccola parte ciò che voleva. Il tipo di persona che, oltre i pregiudizi degli altri, riesce comunque a fare del bene. A essere quello che sogna di essere, non quello che per colpa degli altri sembra destinato a diventare senza possibilità di appello. Specie considerando come, fino a poco più di un anno prima, un pensiero simile non sarebbe mai stato nemmeno concepibile per lui. Lo deve a Midoriya, ma lo deve anche a persone come Todoroki Shouto.


Lo stesso che, dopo avergli appena offerto senza alcuna pretesa parole salvifiche che Hitoshi non avrebbe mai osato sperare di ricevere, gli prende repentinamente la mano. Non è una stretta romantica, non è la timida ricerca di un contatto intimo. E’ il disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa e per questo gliela stringe di rimando.


«Era mio fratello.» sussurra pianissimo, così tanto da far pensare di essersela immaginata, quella voce spezzata dal dolore di chi avrebbe voluto poter salvare il pezzo mancante di una famiglia che non si potrà risanare mai più, non dopo questo: «Era mio fratello.»


Hitoshi rimane in silenzio, e lascia che Todoroki lo ripeta per quante volte vuole, stringendogli la mano fino a fargli male.


*


Il post guerra è difficile per tutti, e non certo in maniera inaspettata. Hitoshi non si stupisce che sia difficile tornare alla normalità, ma è ancora più complicato quando non deve solo riabituarsi ai suoi ritmi ma anche a come si è trasformato il suo rapporto con Todoroki - ecco, quello è stato inaspettato. Hitoshi non sa collocare il momento in cui una serie di cose sono diventate la normalità: farsi affiancare da Todoroki nei corridoi, ritrovarsi spesso vicini a mensa, fare qualche allenamento insieme durante le lezioni pratiche. Di per sé non può dire di non apprezzarlo, anzi; sarebbe semplice crogiolarsi nell’idea di aver trovato un’anima così affine alla sua, un amico oltre Midoriya senza però la componente dalla rivalita che prova invece nei confronti dell’erede di All Might… se solo Hitoshi potesse raccontarsi quella bugia e crederci.


All’inizio forse ci è anche riuscito, ma poi con il tempo è diventato difficile ignorare i segnali. Lui non vanta di essere un esperto quando si tratta di amicizie e di cosa comportano, cosa a cui Kaminari - per dirne uno - sembra voler rimediare in ogni modo possibile, ma è abbastanza sicuro che il conforto della vicinanza di un amico non si trasformi mai nel desiderio di tenergli la mano, di condividere una serie di intimità molto diverse tra loro ma tutte ben oltre il sentimento in questione. A Hitoshi non rimane altro che nasconderlo ed è anche convinto di farlo bene; perciò, naturalmente, Midoriya lo scopre.


Glielo chiede quando sono gli unici a essersi attardati per liberarsi del loro costume da Eroe. Conoscendolo, Hitoshi sospetta debba aver pensato per settimane a come approcciarlo, assicurandosi fossero soli, e a come prendere il discorso. In un certo senso lo apprezza, perché dopotutto Midoriya è un osservatore troppo acuto perché potesse sfuggirgli per sempre come guarda Todoroki; d’altra parte, come molte altre cose di cui ha parlato a stento negli anni, anche questa è una di quelle che Hitoshi pensa dovrebbe tenere per sé e portare come un bagaglio non condivisibile con nessuno. Perciò si gela sul posto quando Midoriya, dopo un approccio molto vago e generico che non sortisce l’effetto sperato, gli dice: «Credo a Todoroki-kun farebbe davvero piacere se ci fossi anche tu.»


Sembra una frase buttata lì, collegata al semplice parlare dell’imminente capodanno e della festa che vorrebbero fare tutti insieme. Eppure è quella specifica a far capire a Hitoshi che entrambi stanno fingendo di non sapere qualcosa - Midoriya della sua infatuazione, lui che Midoriya l’abbia notata e si riferisca esattamente a quella. Così Hitoshi sospira e si arrende, sedendosi sulla panchina centrale. Ci vuole una manciata di secondi scarsi perché veda Midoriya fare lo stesso alla sua destra. Se non altro, se questa conversazione deve avvenire, gradisce molto che l’altro aspetti con pazienza e gli dia tempo di organizzare i pensieri. 


Non che ci sia granché da organizzare, comunque.


«Non sono così speciale.» gli esce di bocca al posto di molte altre cose più sensate. Forse, senza nemmeno rendersene conto, ha provato a riassumere in una frase tutto quello che pensa ci sia da dire in quella conversazione un po’ forzata: Todoroki non vuole me come io voglio lui, lo so e mi sta bene, possiamo essere amici senza troppi drammi.


Se lo sguardo di qualcuno potesse perforargli il cranio, quello di Midoriya lo avrebbe già fatto; sarebbe anche una beffa non indifferente, farlo proprio a lui che con la mente delle persone può interferire in una certa misura. Lo fa quasi innervosire, grato di sentirlo prendere un respiro prima e parlare poi: «Per Todoroki-kun o in generale?» gli sente chiedere, già pronto a rispondere dissimulando quando è sempre Midoriya a rompere il silenzio «Perché anche tu hai salvato il mondo, Shinsou. Più di uno.» 


Quell’aggiunta gli fa inarcare un sopracciglio e, suo malgrado, lo spinge a guardare Midoriya dritto negli occhi. Non trova un rimprovero nei suoi lineamenti, quanto più una convinzione. E’ difficile dire a chi è l’Eroe per antonomasia di questa storia chi abbia contribuito e chi no, come voler insegnare a un cuoco il modo giusto in cui cucinare. Il sorrisetto sulle labbra dell’altro gli fa supporre ne sia pienamente consapevole, nonostante il suo carattere lo porti a non mostrare eccessiva strafottenza nemmeno quando potrebbe permetterselo.


«Beh,» riprende Hitoshi «non l’ho certo salvato da solo.»
«Se parli della guerra, no. Nessuno poteva vincerla da solo.» conviene con lui Midoriya - Hitoshi si è accorto che, al pari di molti altri, anche lui quando accenna a quell’evento sembra perdersi in un vuoto così profondo da far temere sempre che chi ci cade non torni indietro. Hitoshi sa che tutti loro, chi più e chi meno, sono nella stessa condizione e ci rimarranno probabilmente per tanto tempo ancora. 


«Però» dice Midoriya «c’è anche chi hai salvato da solo.» fa notare, occhieggiandolo forse per capire se Hitoshi stia seguendo il suo discorso. Se stia cogliendo i riferimenti. Stavolta, però, Hitoshi lo deve deludere perché sta iniziando a perdersi in quello che gli sembra un giro di parole sempre più lontano dal focus del discorso: «Parlo di quel giorno in ospedale.» aggiunge Midoriya e Hitoshi comprende istantaneamente il soggetto della frase questa volta. Immagina che, per forza di cose, sia stato Todoroki a raccontarglielo.


«Avresti fatto la stessa cosa.» pronuncia con un’alzata di spalle leggera, sottintendendo il aiutarlo a non sentirsi schiacciato «In verità… avrei potuto farlo meglio. Ho solo parlato a vanvera.» confessa, non la sua migliore dimostrazione di autostima a dirla tutta, ma a questo punto non è la dignità personale a interessargli troppo. Specie quando una delle maggiori ragioni per cui la sua dignità viene meno è stata già scoperta dallo stesso Midoriya. Proprio il ragazzo che ha acceso in lui la speranza di poter essere un Eroe e di poter essere migliore. Quello che adesso lo guarda con un accenno di rimprovero nello sguardo e lo fa sentire un po’ un ragazzino sprovveduto nonostante abbiano la stessa età.


«Credo tu abbia parlato di quello di cui Todoroki-kun aveva più bisogno.» dice, senza girarci troppo intorno questa volta «Lui non mi ha detto di cosa abbiate discusso nel dettaglio, perché ti riguardava personalmente e non stava a lui raccontarmelo. Ed ero d’accordo. Ma anche rimanendo molto sul vago, Shinsou… per lui è stato importante.» aggiunge, con più dolcezza. Hitoshi lo capisce e una parte di lui è stupidamente euforica per questo; purtroppo affossare se stessi è un’abitudine che, una volta acquisita, è quasi impossibile da perdere. 


Per quello finisce con il recitare una parte che non è davvero la sua, abbozzando un sorriso di scherno per se stesso più che per Midoriya: «Magari l’ho fatto per un tornaconto.» butta lì, quasi gli stesse scappando di bocca per caso, solo per sentire la spalla di Midoriya dare un colpetto contro la sua e la voce dell’altro dirgli «E’ un po’ tardi per fingere di essere dei cattivi.»


Lo fa sorridere, tanto da sbuffare un accenno di risata senza allegria, ma consapevole di non potersi giocare la carta della persona senza scrupoli. E’ quando si arrende a questa consapevolezza che le spalle si incurvano un po’ e lui si sente di nuovo un dodicenne che deve schermarsi dal resto del mondo, difendersi chiudendosi in se stesso. Sospira piano e lentamente, buttando fuori l’aria neanche stesse sputando veleno per liberare il corpo da una sostanza nociva. E’ difficile a quel punto tenere per sé un: «Era insopportabile guardarlo spezzarsi davanti a me.»


Vede negli occhi verdi di Midoriya la comprensione, il dispiacere e la vicinanza. La sente nel corpo che si avvicina a lui e nella mano che vede poggiarsi sul suo ginocchio, in un gesto di complice conforto: «Ci sei riuscito. A non farlo andare in pezzi.» gli comunica, in poco più di un sussurro, a metà tra un segreto e il cercare di calmare un bambino svegliatosi da un incubo. In fin dei conti la guerra non è stata molto diversa da quello.

«Perché non ti permetti di guardarlo come vuoi?» sente domandare a Midoriya, quasi con dolcezza. Per certi versi è peggio di sentirsi accusare - perché essere legittimati, ora come ora, per Hitoshi rende tutto più difficile.


«Perché…» prova a dire, sentendosi la bocca secca e ritrovandosi a deglutire «a volte non si tratta solo di guardare. Todoroki e io… siamo diventati amici. O qualcosa che ci somiglia molto. Credo stia bene così a entrambi.»
«O almeno a lui.» gli fa eco Midoriya, cercando di essere sincero e diplomatico al tempo stesso. Hitoshi lo vede stringere appena la mano sul suo ginocchio, in un movimento veloce e più che altro simbolico: «Io penso che Todoroki-kun, più di chiunque altro, ti conosca e sappia quanto sai tenere alle persone, una volta che sono nella tua cerchia. E meglio di tutti sa che non imporresti mai i tuoi sentimenti a nessuno. Sei la persona più distante dal modo in cui tutti hanno percepito il tuo quirk. Lo hanno visto… come qualcosa di dannoso ma tu, Shinsou, non hai mai manipolato il cuore di nessuno. Non lo faresti mai. Lo so io, lo sa la nostra classe, lo sa tutto il Giappone adesso. E di certo Todoroki-kun non lo ha pensato nemmeno una volta.» 


Midoriya parla con tutta la gentilezza di cui è capace, ma anche con fermezza. Hitoshi è consapevole di quanto abbia ragione, ma al tempo stesso quel piccolo passo è qualcosa di difficile per lui. Eppure, al tempo stesso, se pensa a com’era poco più di un anno prima… deluso, amareggiato, convinto di non poter dimostrare niente a nessuno nemmeno in un milione di anni. Incredulo di fronte alla possibilità di essere compreso e di poter essere diverso da quello che gli altri si erano aspettati da lui dall’inizio. E’ cambiato così tanto, e con lui sono cambiati anche i sentimenti per le persone: la rivalità verso Midoriya è, ora, un’amicizia basata su un profondo rispetto. Todoroki era il suo specchio distorto e ora è qualcuno capace di così importante, capace di comprenderlo profondamente ma anche molto diverso da lui. 


Il loro rapporto è cambiato. Quello che prova Hitoshi è mutato, diventando sempre qualcosa di diverso capace di trascinarsi dietro il sentimento precedente - riconoscersi, compatirsi, essere un fastidioso specchio sulla realtà. Però poi vedere la forza, vedere il potenziale e le fragilità. Decidere di proteggerle. Decidere di volere di più e convincersi a non volerlo se significa prendersi cura dell’altro.


E’ una cosa così complessa che, seppure Hitoshi volesse suicidarsi emotivamente in questo modo, non pensa avrebbe abbastanza parole per riuscirci. Lui che, in generale, abbonda di silenzi invece.

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Prompt: l’inizio della fine
Missione: M5 (week 6)
Parole: 3173
Rating: teen up
Warnings: hunger games!au



Ci sono notti in cui non riesce a dormire, volte in cui la colpa è della fame, altre in cui è la stanchezza di troppe ore di lavoro a cui somma quelle nel mercato nero. Rody ha sempre avuto questa capacità di svicolare tra bancarelle e tizi poco amanti delle sue battute - privi di spirito, a suo modesto parere - con la facilità di chi l’illegalità sembra averla respirata fin dalla nascita. Chi lo conosce e lo ha visto crescere, però, sa bene come non sia stato sempre così: genitori di tutto rispetto, una famiglia povera di beni materiali ma non di affetto o di voglia di vivere di piccoli momenti di gioia. Ogni tanto, quando non riesce a dormire, Rody ripensa a quando casa sua era più di un insieme di stanze impolverate. A quando era piena delle risate sommesse di sua madre e della voce di suo padre intenta a giocare con i suoi fratelli - o a come poi andasse da lui, portandogli qualche meccanismo strano facendogli l’occhiolino: vediamo se riesci a sbloccare anche questo, Rody.


Gli manca casa. Gli mancano i suoi genitori. Gli manca anche la fame, a dirla tutta. 


Alza lo sguardo, mentre la luce si fa sempre più vicina e lui, silenzioso, viene portato sempre più in alto; chiuso in un tubo di vetro e metallo come se fosse la sostanza dentro una provetta. Gli scappa un mezzo sbuffo divertito perché, in fondo, deve essere così agli occhi di tutti quelli che di lì a breve diventeranno gli spettatori della sua tragedia. 


*


Rody, negli anni, ha preso delle abitudini più o meno sane: una delle peggiori, che ha tenuto nascosta ai fratelli per evitare che lo imitassero, è quella di sgattaiolare alle prime luci dell’alba fuori di casa, quando tutto il distretto dorme ancora e nemmeno i Pacificatori hanno la pessima idea di mantenere una sorveglianza troppo stretta. Così Rody si è spinto sempre più lontano: la prima volta, con la paura di essere notato subito e - al tempo stesso - l’eccitazione all’idea di poterla fare franca. La seconda, la terza, la quarta– ha quasi subito messo da parte le emozioni negative e lasciato che solo le positive lo guidassero per scorciatoie e oltre i confini che li separano da ampi prati e aree boschive.


Molto spesso, Rody si limita a cercare qualche pietra su cui sedersi o in casi più rari si prende anche la briga di salire sugli alberi. Come la volta in cui ha trovato Pino, unica rimasta di una nidiata: l’ha tenuta d’occhio per tre giorni prima di decidersi a salvarla da un nido abbandonato e prendersene cura, assicurandosi che tornasse in forze, disposto pure a privarsi di qualche preziosa briciola di pane per lei. Non saprebbe spiegare perché abbiano avuto questa sorta di imprinting uno con l’altra, eppure da allora Pino è sempre rimasta appollaiata sulla sua spalla per la maggior parte del tempo, fedele compagna nella buona e nella cattiva sorte. 


Poi, Rody ha fatto dell’osservare l’alba mentre rischiara il cielo l’abitudine dei giorni della Mietitura. Da quando il suo nome è stato nell’ampolla per la prima volta e ha provato una prigionia di minuti e minuti fin quando il nome letto dal cartoncino non è stato quello di qualcun altro. Da quando ha avuto la sensazione di soffocare con le mani di qualcuno al collo. Da quando ha assistito come tutti alla morte dei Tributi del suo Distretto durante gli Hunger Games e ha finito per sognare quelle atrocità ogni notte, per mesi


L’anno seguente ha avuto bisogno di respirare, di avere più aria possibile nei polmoni quasi dovesse farne una scorta; così è uscito, incapace di restare nel letto, con solo Pino sulla sua spalla e un silenzio tale da dargli la falsa impressione di una pace impossibile da scalfire. Persino da Capitol.


Così anche questa volta rimane lì da solo, a guardare un cielo che muta costantemente man mano che il sole lo rischiara, chiedendosi se sarà l’ultima alba che vedrà a casa con tutto ciò che casa può significare - Roro e Lala, più di chiunque altro; la sedia dove suo padre si metteva sempre tenendoselo in braccio da bambino; la coperta che sua madre metteva addosso a entrambi quando si addormentavano sulla poltroncina dalle molle cigolanti, che a Rody sembrava il trono di un re.


Pino cinguetta piano, sulla sua spalla, quasi volesse consolarlo.


*


Il giorno della Mietitura è uno dei due lutti del Distretto: la condanna di una morte quasi certa almeno per uno dei due malcapitati il cui nome viene sorteggiato, spesso troppo presto perché possa risultare qualcosa di diverso da una pura crudeltà. Rody si ricorda la sua terza Mietitura che, fino al momento dell'estrazione, non era stata così diversa dalle due precedenti. C'è sempre questo silenzio assordante, quando la rappresentante di Capitol City fa il consueto discorso di inizio, inutile preambolo prima che la lama di una metaforica ghigliottina si abbatta sul collo di ben due persone innocenti. Rody si ricorda di quando suo padre gli ha spiegato cosa fosse la Mietitura la prima volta e di quando ha assistito, ancora troppo giovane per essere toccato da vicino dalla cosa. Non dimenticherà mai di essersi sorpreso di tutto il silenzio che ha accolto l'estrazione dei nomi dei loro due Tributi, così innaturale da averlo portato a guardarsi intorno, convinto infantilmente che qualcuno avesse fatto una magia. Era il tempo in cui ancora poteva crederci, alla magia; distrutta, quando suo padre a casa lo ha guardato distrutto nel sentirsi chiedere: «Se è una cosa brutta perché nessuno piange?»


Rody ora lo sa: suo padre lo ha guardato consapevole che per anni - nel caso più fortuito - quel giorno sarebbe toccato anche a suo figlio, lo stesso con con ingenuità trovava strano il silenzio ma non tutto il resto.


«Perché le persone che vengono scelte molto spesso non possono tornare a casa, Rody. E tutti sono tristi per questo. A volte la tristezza è molto forte, così tanto che si vorrebbe urlare per renderla più debole... ma rimaniamo in silenzio. Così chi è stato scelto, forse, avrà meno paura.» gli ha spiegato suo padre e Rody da una parte ne comprende le ragioni, ma dall'altro vorrebbe che avesse spiegato meglio, edulcorato meno. Vorrebbe avere i mezzi per comprendere davvero, senza ritrovarsi a pensare a ogni Mietitura che è come vedere tutto il Distretto riunito a un funerale.


Si guarda intorno, vedendo facce conosciute e di cui ha imparato a comprendere le espressioni anche quando hanno cercato di renderle meno evidenti possibili, Mietitura dopo Mietitura; sorride ad alcuni di loro, un vago inclinarsi di labbra che nel mare di rassegnata disperazione equivale a saltare di gioia in mezzo a una folla di bambole immobili. Rody sa che alla fine tutti hanno capito quanto poco di lui sia davvero così sicuro, così sfacciato. Alcuni forse credono ancora sia un mistero di battutine fuori luogo, eppure immagina che persino chi ha quella opinione di lui si renda conto di come sia un modo per ostracizzare la paura - è il suo silenzio, quello, per bloccare il terrore anziché la tristezza. Perché per lui, ancora unico della famiglia Soul a poter partecipare ai giochi, non c'è il rischio che la sua paura maggiore si concretizzi: Roro e Lala sono ancora troppo piccoli per avere i loro nomi nelle ampolle da cui i cartoncini vengono estratti, sebbene il tempo passi inesorabile e lui non voglia nemmeno pensare a come questo potrebbe farlo sentire tra qualche anno. Sempre che ci arrivi in vita.


Quello di cui Rody ha paura è cosa succederebbe ai suoi fratelli senza di lui. 


Accanto a lui, Clair è perfettamente dritta e con lo sguardo rivolto al palcoscenico. Rody all'inizio faticava ad andare oltre la sua apparente assenza di emozioni, il che la rendeva difficile da inquadrare in modo a tratti fastidioso - specie per lui, abituato a indovinare l'indole degli altri e ad azzeccarci la maggior parte delle volte. Poi, però, ha assistito agli Hunger Games in cui uno dei Tributi scelti era suo fratello  e Rody ricorda la compostezza con cui Clair ha guardato suo fratello morire, senza mai distogliere lo sguardo, fino a quando non ha esalato l'ultimo respiro e il colpo di cannone nell'arena ha segnalato un Tributo vivo in meno. Rody ricorda di essersi chiesto come potesse non fare nemmeno una piega fin quando non ha abbassato lo sguardo e l'ha vista stringere così forte un vetro da ferirsi il palmo della mano. Ancora oggi sa esserci una cicatrice visibile lì, come un monito.


Da quel momento Rody ha provato un forte rispetto per lei ed è grato di averla al proprio fianco perché, sebbene lei non sia un possibile Tributo essendo ormai fuori età, è qualcuno che è stato toccato dagli Hunger Games e può capire. 


«Clair.» pronuncia rivolgendole un sorrisetto, trovando in lei solo un cenno del capo e un: «Rody.» in risposta. A lui basta, perché è loro modo di comunicare: formale in apparenza, ma amichevole per quello che Clair può offrire. D'altronde ci pensa la rappresentate di Capitol ad attirare l'attenzione di tutti, compresi loro due: il suo solito monologo, i sorrisi estasiati, gli abiti esageratamente colorati. C'è una familiarità quasi stomachevole nella sua figura, per quanto Rody abbia capito ormai come sia una marionetta nelle mani di un sistema più grande quasi quanto i Tributi. L'unica differenza è che lei rimane viva anno dopo anno.


«Bene.» pronuncia, muovendosi con i suoi tacchetti verso l'ampolla dove sono i nomi dei Tributi donne. Rody la vede affondare lentamente la mano dentro, girarla tra i cartoncini quasi ci tenesse a far vedere come si tratti solo del caso, che le estrazioni non sono truccate; lui si domanda, osservandola, se sia consapevole di come stia attestando l'ovvio dal momento che per Capitol e gli spettatori degli Hunger Games non c'è davvero differenza tra uno o l'altro Tributo. Nessuno bada alla carne da macello, dopotutto. 


Rody la vede estrarre il nome e riguadagnare il centro di quel piccolo palco, aprendo il foglio per leggerne il nome. Gli occhi passano sulla folla, quasi potesse individuare la portatrice del nome, neanche li conoscesse uno per uno. La sua voce, poi, scandisce il nome: «Leila Shan.» e per un istante a Rody sembra di essere parte di un unico grande corpo, di essere una cellula di un intero sistema che trattiene il fiato. Poi, inaspettato, il silenzio a cui suo padre ha sempre attribuito il tentativo di non far sentire ai Tributi la paura, viene spezzato da un grido. 


Negli anni ha sentito tanta gente gridare. Tante persone disperarsi, mentre guardavano gli Hunger Games dagli schermi che Capitol City si premura di fargli avere volta dopo volta, perché al danno si possa aggiungere anche la beffa. Ma il grido di questa volta è disumano: sembra scavargli nella carne come artigli di una belva feroce il cui unico scopo è dilaniare ogni brandello di corpo che riesce a sfiorare, è il volto di una disperazione profonda e inconsolabile, di quelle che Rody pensa possano essere l'inizio di una caduta verso la follia. Con la coda dell'occhio vede qualcosa muoversi, ma prima che abbia voltato la testa Clair lo ha già superato e intercetta una donna. Rody la conosce, perché lì si conoscono tutti: è la madre del Tributo che è stato appena chiamato. Leila Shan. Ha appena dodici anni.


Clair la sta trattenendo con forza, con le mani sulle spalle, mentre la donna grida fino a grattare con violenza contro le proprie corde vocali; i Pacificatori la guardano, Leila la guarda in lacrime mentre la portano verso il palco. Rody si muove per aiutare Clair ma basta uno sguardo della giovane per bloccarlo sul posto, mentre la sente parlare a quella madre disperata. Le ripete: «Non andare, non farle avere ancora più paura.» e poi «Lo so.» e «Ti tengo io.» e ancora «Se ti opponi ti uccideranno davanti ai suoi occhi.»


La cosa peggiore è che quel suo "lo so" non è tanto per dire. 


«...E ora» la rappresentante di Capitol cerca di riprendere il discorso, come se nulla fosse accaduto il quel fuori programma. Eppure, quando sposta lo sguardo su di lei, Rody si accorge in un istante di quanto sia confusa e scombussolata da quella reazione, come un bambino a cui certi atteggiamenti degli adulti sfuggono. E' quasi grottesco, eppure Rody ha un vago moto di pietà verso di lei mentre estrae un cartoncino dal recipiente dei Tributi maschi e quasi le scivola di mano. Si schiarisce la voce, quasi a voler glissare su quella piccola caduta di stile.


«Rody Soul.» chiama lei, cercando di vedere chi si sposterà per andare incontro alla morte.


Perché, in fondo e fin dall'inizio, la sorte non è mai stata a loro favore.


*


Il suo mentore ha cercato di fare il possibile fin da quando sono saliti sul treno che li avrebbe portati a Capitol City. Rody ha capito quasi subito che avere Leila nel team gli abbia spezzato il cuore più di quanto possa già esserlo quello di un normale Vincitore, uno che per tornare a casa ha dovuto uccidere altre ventitré persone fingendo che non gli importasse. Rody lo ha osservato parecchio, pur prestando attenzione ai suoi consigli quando doveva: non crede di poterne uscire vivo, anche se è l'obiettivo di tutti quando si entra nell'arena, ma se dovesse farcela si chiede come potrebbe sopravvivere. Non agli Hunger Games, ma dopo. Si può considerare una vittoria tornare vivi a casa anche sentendosi irrimediabilmente morti dentro? Durante la notte insonne prima dell'inizio dei giochi, Rody si è chiesto se sarà in grado di tornare indietro ed essere ancora se stesso, se Roro e Lala potranno essere ancora il suo fratellino e la sua sorellina. Se Pino, che come tutti gli animali è istintivamente molto più perspicace su cosa sia considerabile o meno un pericolo, gli si poggerebbe ancora con la stessa naturalezza sulla spalla. 


Leila è una bambina dolcissima e a Rody spezza già il cuore sapere che forse non riuscirà a superare i due giorni nell'arena. Non perché non sia in gamba, ma perché è troppo gentile, troppo distante dal concetto di uccidere un'altra persona. Quasi spera, in cuor suo, che si nasconda fino a che l'arena non li ucciderà tutti - lo distrugge pensare che un giorno, in futuro, potrebbe esserci Lala al suo posto. Per questo quando la sera prima dell'inizio della loro edizione degli Hunger Games lei gli chiede di dormire insieme lui non ha il coraggio di dirle di no e, forse, fa bene a entrambi avere qualcosa di vagamente simile a quello che hanno avuto a casa. Lui una sorellina che gli si addormenta accoccolata addosso, lei il calore di una persona più grande e una mano ad accarezzarle i capelli, quasi per assicurarle che è solo un brutto sogno e l'indomani tutto andrà meglio. 


Anche se è stata una bugia, Rody ne è consapevole ora più che mai, mentre si salutano per essere divisi e portati a indossare la tenuta dei giochi.


Non perde tempo a eseguire ciò che la voce metallica gli dice di fare, abbandonando i confortevoli abiti che Capitol City gli ha messo a disposizione in quei lussuosi alloggi in cui sono stati fino a ieri, in favore di una tuta molto più comoda e di pregiato tessuto adatto alla sopravvivenza. Di cosa, Rody non riesce nemmeno a immaginarselo: nelle edizioni che ha visto c'è sempre stato qualcosa di letale persino laddove riteneva impossibile individuare un pericolo. Dubita che questa volta sarà molto diverso. 


Si morde l'interno della guancia quando gli bucano un braccio per inserirgli il piccolo congegno che permetterà ai Game Master di monitorarlo per tutto il tempo e di giocare con lui, mostrando a Capitol lo spettacolo migliore possibile. Non vuole dar loro nessuna soddisfazione, perciò fa sì di non lasciarsi scappare nemmeno un fiato a quell'iniezione e li osserva andarsene via - si chiede, per un secondo, se sarebbe utile prenderne uno alle spalle e ucciderlo a mani nude. Purtroppo Rody si ritiene intelligente abbastanza da capire che renderebbe solo più veloce la sua, di morte, e dunque aspetta siano fuori da quello che ha avuto la funzione di spogliatoio per lui. Giusto in tempo per sentir tornare la voce metallica insieme alle poche istruzioni necessarie: entrare in quel tubo davanti a lui. Aspettare. Un conto alla rovescia.


Lui esegue, sistemandosi lì sopra. Ci vuole davvero poco perché il vetro si chiuda facendolo sentire intrappolato come un esperimento vivente - e non lo è, forse? - e la piattaforma sotto i suoi piedi cominci a salire. Rody sa cosa sta succedendo, perché il suo mentore ha fatto di tutto per prepararli all'attacco di panico che ha sempre preso almeno uno dei Tributi. In alcuni casi mettendoli fuori gioco prima del tempo, grazie alla trovata delle piattaforme esplosive se qualcuno le abbandona prima del "via" ufficiale dei giochi. Nonostante gli sia stato raccontato, però, l'effetto di persona non regge il confronto.


Deve aspettare qualche istante perché gli occhi si abituino a tutta la luce dell'arena e la prima cosa che percepisce è il vento sul proprio viso: né troppo freddo né troppo caldo, perciò mentalmente Rody cerca di escludere scenari ambientali troppo sbilanciati in un senso o nell'altro. Quando finalmente può vedere di cosa si tratta, c'è un solo istante in cui lo scenario gli sembra bellissimo senza considerare di essere ufficialmente nella propria tomba. Davanti a lui si estende una distesa di erba verdissima sotto un cielo così azzurro da far male alla vista. Se si volta, intorno a loro ci sono quattro laghi oltre i quali si srotolano radure fatte di alti alberi e folta vegetazione. Al centro, equidistante da tutti loro, una pedana quadrata con sopra zaini, armi e tutto ciò che può fare gola a ogni singolo Tributo. 


Gli altri sono intorno a lui: alla sua destra, Kirishima Eijiro. A sinistra, Hitoshi Shinsou. Cinque postazioni oltre quest'ultimo, Rody intravede Leila con gli occhi spalancati di chi è terrorizzato alla sola idea di mettere un piede sull'erba - Rody non riesce nemmeno a immaginarla correre, figurarsi prendere un'arma o qualcosa di utile per la sopravvivenza proprio dal centro, dov'è sicuro si mieteranno le prime vittime. Cerca di incrociarne lo sguardo, mentre il countdown avanza inesorabile e comincia a far scoccare gli ultimi dieci secondi a loro disposizione; quando ne mancano cinque Leila lo guarda e lui la vede stringere le mani contro i fianchi e annuire debolmente, cercando di farsi forza.


E' come sentirsi accoltellare al petto e avere la consapevolezza di non potersi ritirare per questo. 


Tre secondi, e Rody capisce che sarà questo l'ultimo posto che vedrà. Due, mentre rivolge un pensiero a Roro e Lala e si pianta sul viso un sorriso che spera vedano e ricordino, senza attribuirgli la paura. Uno, mentre gli riecheggia in testa il suo ultimo scambio con Clair - «Prenditi cura di loro.» «Prenditi cura di te.»


La sirena dà inizio alla settantaquattresima edizione degli Hunger Games. 


Per Rody è solo l'inizio della fine.

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Prompt: messaggi in bottiglia
Missione: M2 (week 6)
Parole: 3199
Rating: pg13
Warnings: //






Shun non sa se sia perché è diventato uno scrittore, ma negli anni ha notato di aver associato delle parole o dei concetti - o, più raramente, dei luoghi - alle persone. Non a tutte, ma a quelle più importanti, per affetto o per l'impronta lasciata nella sua vita. Un'impronta che, in alcuni casi, si sarebbe risparmiato più che volentieri.


Non sono sempre associazioni poetiche. Sua nonna, per esempio, gli riporta alla mente un costante odore di buon cibo nell'aria. Ai suoi genitori accosta la neve dell'Hokkaido, ma anche l'immagine di una casa fredda - può sembrare ingiusto, specie ora che hanno riallacciato i rapporti, ma non crede riuscirà mai a cambiare questa cosa.


A Mio, in modo assolutamente prevedibile, pensa ogni volta che vede il mare e si ricorda di quel giovane studente seduto su una panchina, da solo, con lo sguardo perso verso l'orizzonte. E' in tutto ciò che il mare gli offre: è nell'odore della salsedine, nella sabbia fresca sotto i piedi nelle ore meno calde. E' nell'acqua fredda che gela le caviglie quando Mio lo trascina a fare passeggiate fuori stagione, perché il mare avrà sempre un pezzo di lui. E' nel suono delle onde, quando di notte lo ha ascoltato dopo aver fatto per la prima volta l'amore con lui, chiedendosi se non lo avesse appena condannato a una felicità incompleta. Quando, egoisticamente, si è chiesto anche se non stesse ponendo le basi della sua stessa sofferenza - perché, dopotutto, presto o tardi Mio si sarebbe reso conto del suo errore e sarebbe andato avanti con la sua vita lasciandolo indietro, giusto?


Shun ha il sospetto che a Mio il mare manchi più di quanto ammetta; ogni tanto pensa di proporgli di tornare a Okinawa, ma c'è sempre qualcosa a mettersi tra lui e le sue intenzioni: la stesura di un nuovo libro, la salute dei suoi genitori, la fase ribelle di Fumi. Non che non possano visitare l'oceano anche con un semplice viaggio che non implichi l'aereo o treni e navi per evitare la paura di volare di Mio... ma non sembra mai essere il momento giusto. O forse è solo lui a cercare una perfezione che - dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro - non esiste.


*


Alla fine, una volta riescono a prendersi un momento per loro e si allungano fino all'oceano. Shun, non sa bene neanche lui come, si ritrova a farsi uscire dalla bocca la parola "matrimonio".


Ho sempre pensato, se il matrimonio fosse una possibilità, "voglio sposarlo".


Mio gli risponde: «Anche io.» con il sorriso di chi lo vorrebbe davvero, ma sa anche di non poterlo avere. Shun non saprebbe spiegare come o perché, ma anziché provare la felicità di chi ha appena fatto una proposta di matrimonio che è stata accettata, sente un vuoto allo stomaco. Come se lo avessero appena derubato di qualcosa di importante.


*


«Andiamo a Okinawa.» gli dice a un certo punto, mentre sono uno seduto al tavolino basso del salotto, sul quale sono sparse quelle che si suppone siano reference, e l'altro a metà strada tra la cucina e lo stesso salotto. Mio lo guarda, entrambe le mani occupate da tazze di caffè, l'espressione di chi non sa se si trova di fronte a un'effettiva proposta o a un momento di follia da stress. Shun lo guarda e non gli dà tempo di chiedere perché o come, né di cominciare un discorso logico e razionale al quale poi sarebbe difficile ribattere.


«I miei stanno entrambi bene.» comincia a dire, mentre le dita giochicchiano con uno dei fogli su cui dovrebbe prendere appunti delle reference «Fumi è grande abbastanza da non avere bisogno della balia. Tanto più che nella sua crisi adolescenziale non ha voglia di averci in mezzo alle scatole.» gli fa notare con un'alzata di spalle, mentre Mio poggia entrambe le tazze di caffè sul tavolino e gli si siede di fianco. Shun sente il suo sguardo su di sé, ma non lo ricambia finché non sente la voce di Mio pronunciare un «Lo sai che per il mare non serve Okinawa?» che ha l'inflessione di chi ha capito che c'è qualcosa di non detto.


«Non è la stessa cosa» pronuncia Shun, testardo «Non è una vera vacanza.»


Mio lo studia, anche mentre beve il suo caffè; alla fine gli sorride e Shun sa - perché lo conosce - che è probabile sia ancora perplesso eppure, nonostante tutto, preferisca accontentarlo.


*


Una volta che sono arrivati, ci vuole più tempo del previsto ad avere dei momenti solo per loro. Il primo giorno sono così stanchi dal viaggio che, a parte sistemare i bagagli e la vecchia stanza dove sono stati quando vivevano lì da sua nonna, non combinano granché. Il secondo, invece, Eri e Suzu piombano lì la mattina quando Shun non ha ancora abbastanza caffeina in coirpo per poter sopportare così tante interazioni sociali. Inevitabilmente si trattengono per buona parte della giornata.


Il terzo giorno lo passano sull'isola principale, perché gli amici drag di Mio... beh, non si possono rifiutare in eterno. E perché Shun sa che l'altro ci tiene a parlare con loro più possibile - lui, d'altronde, ne approfitta per chiamare Eri al telefono quando Mio è troppo preso per sentire di cosa voglia discutere con lei.


Solo la sera riesce ad avere un po' di tempo per portare Mio sulla spiaggia. In verità è una passeggiata breve considerando che si tratta solo di attraversare la strada rispetto a casa di sua nonna, ma c'è comunque un che di rilassante nel farlo quando è buio e la spiaggia è deserta. Entrambi tengono i sandali in mano, i piedi ad affondare nella sabbia fresca. Se ne stanno per lo più in silenzio e solo ogni tanto scambiano qualche chiacchiera di poco conto.


A un certo punto, poco prima di decidersi a tornare verso casa, si tengono per mano; è un contatto semplice, abitudinario. Eppure - sarà il luogo in cui si trovano, o sarà che gli sembra passato un secolo dall'ultima volta che si sono scambiati una piccolezza come quella - Shun si sente stringere lo stomaco.


E' una cosa così stupida.


*


«Shun! Shun, svegliati!» riconosce solo vagamente la voce di Mio mentre viene strappato dal sonno. Si sente scuotere e apre un occhio infastidito, sbottando d'istinto con un «Cosa c'è?!» che sembra provenire dall'oltretomba. Nell'aprire gli occhi e focalizzare la figura dell'altro, registra vagamente che è vestito e non in pigiama. La sua mente però è ancora troppo rallentata per formulare delle ipotesi. Mio, imperterrito ed entusiasta come se all'improvviso avesse di nuovo cinque anni, gli sorride e cerca di tirarlo leggermente per farlo uscire dal letto: «Vieni, ho trovato una cosa in spiaggia, devi vederla anche tu!» esclama. Sebbene a Shun venga in mente una sola cosa che possa farlo elettrizzare a quel modo - ossia un granchio così enorme da sfamarlo a pranzo e cena per una settimana - si arrende da subito alla possibilità di andare di nuovo a dormire.


Cinque minuti dopo ha messo addosso giusto una felpa leggera e sta uscendo con i sandali aperti, facendosi prendere in pieno dall'aria frizzante che lo fa rabbrividire e lo sveglia più di quanto abbia fatto lo scuoterlo di Mio. Ora che ha gli occhi del tutto aperti gli basta guardare davanti a sé per rendersi conto dei colori chiari del cielo, delle sfumature che non hanno ancora lasciato del tutto spazio al giorno rispetto alla notte. Il mondo sembra ancora dormire e, per questo, gli viene istintivo guardare Mio e chiedergli: «E’ l’alba… cosa ci fai già sveglio? Perché eri in spiaggia?»


Mio lo guarda con lo stesso sorriso divertito di un bambino e fa scivolare la mano nella sua, con semplicità, cominciando a tirarlo verso la spiaggia; oltrepassano la strada deserta e la panchina dove si sono conosciuti, mentre gli dice: «Mi sono svegliato e ho pensato di vedere l’alba, mi è passato il sonno.» quasi sbrigativo, non dando troppa importanza alla cosa evidentemente, non rispetto a quello che lo ha convinto ad andare a svegliare anche Shun e trascinarselo dietro. Appena inizia la spiaggia sente i granelli di sabbia infilarsi nei sandali ma ci bada poco, preoccupandosi di non inciampare mentre Mio lo tira verso la riva; quando sono abbastanza vicini lo vede abbandonare le proprie calzature e lasciargli la mano, arrivare fino al bagnoasciuga dove l’acqua si mangia un po’ di sabbia in movimenti lenti e quasi impercettibili, vista la calma piatta del mare. 


Shun lo osserva mentre si libera dei sandali alla meno peggio, vedendolo chinarsi per raccogliere qualcosa - per un attimo, in modo del tutto irrazionale, quasi crede di vederlo girarsi con delle semplici conchiglie chiedendogli di raccoglierle insieme. Invece Mio torna a guardarlo e tra le mani ha una bottiglia di vetro. 


«…Eh?» se ne esce Shun, perplesso. Non vorrà mica darsi alla raccolta rifiuti a quest’ora?!


«Guarda, Shun! Ci sono dei fogli dentro! Sono messaggi in bottiglia, ci credi? Non ne ho mai visti, l’acqua l’ha portata a riva stanotte probabilmente. Non sei curioso di leggerli?»


Veramente no, è il primo pensiero istintivo di Shun, ma lo mette a tacere quasi subito. Se ci fosse Eri, lo prenderebbe in giro dicendogli che è un debole incapace di dire no al suo fidanzato storico, ma la verità è che Shun non riesce a togliere gli occhi da quella bottiglia ancora tra le mani di Mio. 


Ci sono state due occasioni in cui i messaggi affidati alle onde grazie a una bottiglia hanno sfiorato i suoi pensieri: il primo è stato quando era piccolo e condizionato da una delle tante storie che aveva sentito raccontare da chissà quale adulto. Fantasticava su come il suo messaggio avrebbe raggiunto parti del mondo inesplorate, di come sarebbe stato raccolto da un bambino come lui che pur non parlando la sua lingua avrebbe miracolosamente capito comunque il messaggio e gli avrebbe risposto. Shun sognava e lo faceva in grande, da bambino, e tutto gli sembrava possibile. 


La seconda occasione risale, invece, a quando era adolescente. A un certo punto si ricorda di aver davvero scritto, anche se solo una riga, di aver guardato il foglio per giorni - di averlo strappato, riscritto, cancellato, scritto di nuovo, odiato e poi alla fine preso e messo con mano tremante dentro una bottiglia recuperata da una birra bevuta da suo padre. Ricorda di aver sciacquato quella bottiglia con cura, quasi dovesse diventare l’abituazione lussuosa di un segreto importante e di una speranza; poi il biglietto lo aveva messo dentro ed era uscito di casa avvisando sua madre che sarebbe andato a fare un giro, e si era spinto fino all’oceano. Avrebbe potuto lanciare la bottiglia in acqua in qualsiasi momento, invece era stato ore a fissarla tenendola tra le mani e più passava il tempo, più si era sentito stupido. 


Alla fine, aveva buttato la bottiglia vuota e affidato lo stesso biglietto all’acqua, solo senza qualcosa a proteggere il foglio e il contenuto. L’inchiostro era colato e le parole diventate indistinguibili. Solo in quel momento Shun ricorda di essersene andato via, dopo aver dato le spalle a quell’immensa distesa di acqua che lo aveva fatto sentire piccolo, insignificante e stupido per aver avuto il coraggio di scrivere un messaggio in una bottiglia che nessuno avrebbe mai raccolto, figurarsi leggerne il contenuto. 


«Non pensavo esistesse davvero qualcuno che potesse scriverne uno!» pronuncia Mio, strappandolo dai suoi pensieri e da ricordi che non pensava sarebbero mai davvero riaffiorati. Shun focalizza l’attenzione sulla bottiglia e vede Mio con gli occhi che brillano, ora sul reperto e ora su di lui: «Apriamola, Shun!» lo sente esclamare, prima di vederlo indietreggiare abbastanza da non rischiare di bagnarsi e poi sistemarsi lì, seduto alla meno peggio sulla sabbia. 


Shun sospira, prima di sedersi di fianco a lui. Mentirebbe se dicesse di non avere un pizzico di curiosità: quale persona al giorno d’oggi fa una cosa simile?


Osserva Mio assicurarsi che non ci sia acqua che potrebbe finire inavvertitamente nella bottiglia una volta stappata, rischiando di rovinare il messaggio, e solo quando sembra esserne assolutamente certo la stappa. L’interno forse è un po’ umido, ma a vederlo a Shun non dà l’idea di essersi bagnato fino a fare danni. Mio inclina la bottiglia, fino a riuscire ad agguantare il foglio con l’indice; deve fare un po’ di manovre per riuscire all’effettivo a tirarlo fuori ed è solo allora che esclama un: «Ma sono due!» stupito. 


Quello, in effetti, fa aggrottare le sopracciglia anche a Shun: addirittura due fogli diversi? 


Mio si intestardisce a voler tirare fuori l’altro, ma Shun preferisce srotolare quello già tratto in salvo e provare a leggere. Quasi subito si rende conto che il testo è in inglese. Per quanto se la cavi, è una fortuna che il messaggio non sia troppo lungo né con vocaboli particolarmente difficili. Mio, che si è interrotto solo per sbirciare perché troppo curioso, risale con lo sguardo fino al suo viso con un: «Lo riesci a leggere, Shun?»


«Più o meno…» pronuncia lui, non volendo alzare troppo le aspettative. Così segue prima il breve testo con gli occhi, per accertarsene, e poi pronuncia un: «A te, che potresti non leggerlo mai: vorrei averti scelto quando potevo.» 


Rimangono entrambi in silenzio, sebbene per poco. Mio fa un verso soddisfatto nel riuscire finalmente a tirare fuori l’altro pezzo di carta. Shun non ha idea del perché sembri un po’ più bagnato dell’altro, ma diventa più semplice ipotizzarne la ragione quando lo aprono e la calligrafia è del tutto diversa. L’inglese non è molto buono, Shun lo intuisce pure senza essere un madrelingua; ne comprende il motivo quando l’occhio gli cade sulla firma in basso a destra, che recita “Yuko”. 


«Lascio di nuovo questo messaggio al mare. Forza! Non ti arrendere! Raggiungi la persona per cui è stato scritto!» legge Shun, perché anche Mio possa capirlo. Lo vede stringere appena le labbra e non si stupisce quando, poco dopo, gli sembra di vedere le sue mani tremolare appena. Quella è il classico livello di sentimentalismo capace di farlo piangere come un bambino - così Shun gli si accosta un poco, per quanto cerchi di camuffarlo come un movimento casuale. Gli piace quel modo di fare di Mio che spera non cambi mai, così vicino all’infanzia nella maniera più bella possibile, quell’aspetto che di solito negli adulti sparisce molto velocemente. Ama come gli brillano gli occhi e come si metta a piangere per le cose più banali, per una festa di compleanno a sorpresa e del buon riso al curry quando non se lo aspetta per cena, ad esempio. 


Mio sorride e lo guarda, prima di poggiare la testa contro la sua spalla e spostare di nuovo gli occhi sulla bottiglia con i messaggi: «E’ incredibile, eh? Qualcuno che affida un messaggio così al mare, quando c’è una possibilità su milioni… o forse anche di più, che arrivi dove deve.» mormora piano, lasciando che le sue parole si mescolino al rumore placido del mare mentre il cielo si rischiara sempre di più a vista d’occhio. Shun vorrebbe dirgli che a volte si fa, si è disperati abbastanza, tristi più del sopportabile; che si cerca l’espediente più difficile perché è modo di difendersi dalla delusione in caso di insuccesso. Perché dire qualcosa a una persona e vedersi rifiutare, non ascoltati, non capiti fa male; affidarlo a una bottiglia di vetro senza alcuna certezza - se non quella di non ricevere mai risposta - fa pensare era troppo difficile, chiunque avrebbe fallito


Ed è una consolazione, per quanto magra.


Vorrebbe dirgli di averci pensato, di averlo quasi fatto. Poi, però, forse Mio gli chiederebbe di raccontargli di più di quello Shun che non ha mai conosciuto. Ogni tanto si chiede come sarebbe stato, se tra loro ci fosse stata meno differenza di età e se Mio fosse stato un suo compagno di liceo. Se, nel sentire con lui dal corridoio altri ragazzi deriderlo mentre ipotizzavano che fosse omosessuale, li avrebbe colpiti con un libro senza nemmeno pensarci un secondo. Oppure se, nel vederlo andarsene via e correre per la strada fino a fermarsi con un senso di nausea terribile, gli sarebbe andato dietro e gli avrebbe messo una mano sulla spalla dicendogli “Mi dispiace”, anche se non era colpa sua.


Sarebbe stato bello, crede. 


«Shun?» si sente chiamare, ritrovandosi il viso di Mio più vicino di prima «A cosa pensi?» gli domanda lui e Shun non dice nulla, limitandosi ad avvicinarsi per colmare la distanza e posargli un bacio sulle labbra. Si concede solo un contatto lieve, perché sebbene nessuno andrebbe volutamente in spiaggia a quell’ora, non riesce a essere troppo sfacciato dove sa di poter avere un passaggio di persone non indifferente - specie le vecchine amiche di sua nonna. 


Mio sembra stupito, in un primo momento, ma poi ridacchia quasi fosse di fronte a qualcosa di buffo. Shun abbassa lo sguardo sui messaggi della bottiglia portati dal mare e sospira. Muove il braccio, fa scivolare la propria mano verso quella di Mio, intreccia le loro dita quasi fosse un primo tentativo e temesse di non sentire quella stretta ricambiata. Invece, come tutte le volte, Mio ricambia con la semplicità e la naturalezza di chi non riesce a prendere in considerazione di fare altro. 


«Se dovessi mandare un messaggio così, cosa scriveresti?» gli domanda a bruciapelo, ma l’altro si presta a questo tipo di cose e anche in questo caso si perde subito a soppesare la risposta. Quando gli risponde: «Forse un messaggio per mia madre.» Shun gli stringe un poco di più la mano. Mio non lo ringrazia, ma si limita a rigirargli la domanda.


Lascia che sia il rumore del mare a riempire il suo silenzio, quello spaventato, testardo e imbarazzato in cui si lascia affogare per una manciata di istanti prima di dire: «Mi vuoi sposare?» e sentire Mio ridere e rispondergli «Ma non arriverebbe mai!» prima di tacere, capire, alzare lo sguardo e la testa di scatto.


«Aspetta, mi stavi facendo una proposta?!»
«Beh…»
«Ma… ma quella volta all’oceano hai detto–»
«Lo so.» lo interrompe lui, lottando contro ogni suo istinto - dissimulare, rimangiarselo, scappare via e dire che non importa anche se non è vero: «Ma c’è un sistema di partnership. In Hokkaido.» mormora «Non è proprio come un matrimonio, certo… però…» lascia cadere, arrivato al limite di imbarazzo che sente di poter sopportare. Giusto prima di avvertire Mio tirare su con il naso.


Quando lo guarda, gli sta colando del moccio ed è così anticlimatico e così poco romantico - ma anche così da Mio - da farlo scoppiare a ridere.


*


Shun ha diciassette anni mentre guarda il suo messaggio in bottiglia venire mangiato dall’acqua, fino a rendere irriconoscibile le poche parole scritte sopra. Sta lì a osservare fino a quando l’inchiostro cola come sangue e la carta, troppo appesantita e zuppa, e affoga come il corpo di un disperso in mare. Poi, gli volta le spalle per tornare a casa e fingere che questa bambinata non ci sia mai stata.


Chi mai leggerebbe un messaggio di due sole parole? E, se anche raggiungesse qualcuno, chi mai potrebbe rispondere a qualcosa di così stupido chiuso in una bottiglia insieme a una piccola, minuscola speranza.


Scegli me. 

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Prompt: invasione di pesci pene
Missione: M2 (week 6)
Parole: 1694
Rating: teen up
Warnings: pesci pene. Mi sembra un warning importante. Future!fic (?).



Le serate tranquille come quella sono sempre state le migliori per avere un po’ di quality time e per passare alle nuove generazioni i giusti insegnamenti, le storie di come si siano trovati e poi uniti, dei loro successi come anche dei loro insuccessi. Ogni settimana la serata di chiusura del ristorante offre loro questa opportunità: la luce soffusa, il rumore delle onde. L’atmosfera perfetta.


Un vociare sommesso si leva da uno dei tavoli più vicini alle grandi finestre che affacciano sul mare. Un gruppo di Calici si sistema, mentre asciuga dal lavaggio in lavastoviglie, lasciando la parola ai giovani perché questa è una serata importante. Il bricchetto maggiore, ormai un adolescente in verità, si rivolge a tutte le sue numerose zie: «Quale storia ascoltiamo, stasera? Chi la racconta?» chiede curioso. Sono cresciuti tanto i due bricchetti del gruppo, da quando erano Calici troppo piccoli per partecipare attivamente anche solo al Consiglio Superiore. Di molte storie non hanno ricordato nulla finché non gli sono state narrate anni dopo, nello stesso modo in cui si può raccontare un aneddoto dell’infanzia.


«Ci sono ancora molti racconti che non avete ascoltato.» fa notare zia Donut, cercando con lo sguardo il sostegno degli altri Calici. Ci sono alcune storie di cui è stato richiesto il bis già in altre occasioni: l’elevazione di zia futa a importante figura religiosa di Futacristo; il colpo di Stato, per gli amici altresì conosciuto con il nome di “la settimana di sale e forconi”; le innumerevoli battaglie per l’unico S.P.R.C (Signore e Padrone Re Calico) - con possibilità di leggere la stessa sigla con la doppia valenza di Siamo Piccoli e Rilassati Calici. Senza contare il viaggio on the road, una delle storie preferite del bricchetto più piccolo. Ma altri racconti, troppo cruenti per i loro giovani bordi vetrati, sono stati rimandati.


«Io credo ormai sia abbastanza grande per quel racconto.» pronuncia smile, consapevole che chiunque abbia combattuto al suo fianco sappia di cosa si parla. D’altra parte, è avvenuto proprio nell’anno in cui i Calici l’hanno accolta tra le loro fila nella credenza… non potrebbe mai dimenticarlo. Per correttezza cerca lo sguardo di Unlikely: in quanto madre, è naturale che l’ultima parola in merito sia la sua. Lei guarda con occhi amorevoli il suo bricchetto maggiore, annuendo prima di tornare a osservare gli altri Calici: «E’ pronto.» assicura, mentre il bricchetto più piccolo è già stato messo a dormire «L’anno prossimo sarà un Calice a tutti gli effetti. Deve conoscere questo aneddoto, perché possa essere forte e tintinnare anche nelle avversità.» dichiara infine.


Ognuno dei Calici guarda il proprio vicino, tutti consapevoli che sia il momento giusto. Tra di loro è futa a prendere la parola: «Credo che il compito di raccontare spetti a sakurai. E’ lei che di solito si occupa di queste cose… particolari


Sakurai tace per qualche attimo; vedendo tutti i Calici d’accordo con la proposta di futa, si raddrizza in tutto il suo splendore.


E’ tempo.


*


La mattinata è quasi pigra, lì al ristorante sulla spiaggia. I Calici sono nel pieno del risveglio lento, quello di quando non c’è ancora bisogno di essere scintillanti e pronti ad accogliere le persone. La cucina è silenziosa, le porte ancora tutte chiuse e le luci spente. Solo le finestre offrono una certa luminosità, la stessa che raggiunge la credenza dove dormono tutti ordinatamente sistemati ogni notte. 


In un angolo, smile, janie, akemi e mapi stanno ancora sonnecchiando. Hapworth si è appena destata dal suo sonno di bellezza, quello a cui si è dedicata perché si oppone al consumismo e il finish in pastiglie non si avvicinerà mai più a lei a costo di fingere di scivolare dal suo cestello, allearsi con il forchettone al piano di sotto e bloccare tutta la fottuta lavastoviglie. Shiroi ogni tanto apre un occhio, sbircia se sia necessario il suo aiuto per qualcosa di non meglio definito, poi torna a dormire. Sakurai, sua moglie - calicicamente parlando - da poco più di un anno, è leggermente inclinata verso di lei e ronfa. Liz e tabata, vigili veterane forgiate dal fuoco di mille battaglie che vetro di Murano levete proprio, guardano verso l’orizzonte nel loro turno di guardia. Lo sanno, che i gabbiani sono malvagi. Dopo che uno ha recentemente attentato al cristallo della povera janie, è guerra aperta.


Gli altri Calici stanno chiacchierando con toni sommessi per non svegliare i compagni, quando Donut attira la loro attenzione. Gli occhi si assottigliano nel guardare verso il mare, l’esterno: lo fissa come se fosse un nemico che in lontananza propone di rubare, copiare, duplicare, leccare - non si sa mai, con questi soggetti frustrati - i preziosi PM. Futa e nemi notano la sua serietà e sono subito in allerta a loro volta.


«Cosa succede?» domanda nemi, mentre futa le si accosta e si rivolge anche lei alla compagna che sembra aver scorto qualcosa: «Cosa vedono i tuoi occhi di Calice, Donut
«Non ne sono certa… sembra… che il mare porti qualcosa con sé.»


Liz e tabata aguzzano la vista a loro volta. Sono di certo, tra loro, quelle che hanno visto più nemici tentare di prendersi il mare, il ristorante, la credenza. Bastardi, tutti loro. 


«Quelli…» sussurra tabata, quasi non si fidasse dei suoi occhi vecchi e stanchi. Ma Liz, compagna e Papessa fedele, pronuncia ciò che a tutti sembra di vedere sempre più chiaramente. Lo fa con crudezza, non perché la vita le abbia remato contro a suon di threesome negate e abolite, ma perché è il suo modo di prendersi cura degli altri Calici. Niente segreti. Nessun indorare la pillola. 


«Quelli sono cazzi


*


Da quando la minaccia è stata inquadrata, un panico organizzato ha preso possesso della credenza in cui i Calici riposano: nemi e shiroi si sono subito messe all’opera, menti organizzate del gruppo; smile ha immediatamente supportato Unlikely nel mettere al sicuro i suoi bricchetti, così da poter combattere con valore - lei, un po’ Xena e un po’ Hyoga del Cigno. Mentre tabata ha recuperato il suo lanciafiamme («Tab! In acqua stanno, che ci fai col lanciafiamme?!» «Il fuoco è sempre la risposta, blasfema!»), futa il suo rosario e il santino con la preghiera a Futacristo, akemi e janie hanno barricato le porte in attesa del momento migliore sferrare l’attacco.


Altri Calici invece sembrano star studiando sulle antiche scritture a loro disposizione se una tale sciagura si sia mai verificata prima o se si tratti solo di qualcosa di simile, ma non identico. Capeggiati da Liz, confabulano come solo delle comari farebbero.


«Vedi?» sta dicendo mapi mostrando la sua pergamena magica, raffigurante EdmondNu:Carnival in atteggiamenti vilipendiosi «La forma è assolutamente identica. Non è un serpente.»
«Lo dicevano anche del cobra.» osserva con fare quasi distratto Liz, comprendendo dagli sguardi dei più giovani che la citazione è troppo antica. Muove quindi la mano, a suggerire di ignorare e passare oltre.


«Tecnicamente» avanza la sua ipotesi hapworth «lui è un serpente gigante e questo comunque non gli impedisce di avere–» si lancia nella sua invettiva, sbandierando la figura altrettanto vilipendiosa di YakumoNu:Carnival. A interromperla è la voce di Donut che le richiama al punto della situazione con una certa urgenza: «Avanzano!»

«Cazzo!»
«E’ quello che stiamo cercando di definire con sicurez–»
«No, nel senso, in acqua!»
«janie» pronuncia nemi preoccupata «te lo avevo detto di non farti riempire di vino fino all’orlo, ieri…»
«NO CI SONO CAZZI IN ACQUA SUL SERIO!» smile abbandona ogni delicatezza, mentre una grande, immensa ondata di presunti peni arriva imponente come una poly a quadriglia, minacciosa come Castaros a percentuali massime.


I Calici lo capiscono subito: la battaglia non può essere evitata, questa volta.


Liz prende in mano la situazione, voltandosi verso nemi e shiroi: «Sappiamo come annientarli?»
«Noooo» si sente esclamare con disperazione proprio a shiroi, i fogli pieni di tabelle excel tra le mani: «HO SCORDATO DI INSERIRE UN GIORNO. E’ TUTTO SBAGLIATO. TUTTO DA RIFARE.»


Tutti si guardano per un lungo istante, consapevoli di essere matematicamente troppo stupidi per provare ad aiutare. Mortificati nella loro impotenza, ma con il forte desiderio di rivalsa di chi nella vita è mosso dall’unica, immensa forza dello spite, si stringono gli uni agli altri. Qualunque sia la loro sorte, l’affronteranno insieme.


shiroi si appanna, che è tipo sbiancare ma da Calice elegante. Guarda tutte le sue compagne, con gravità: «Ho capito cosa sono…» pronuncia, quasi senza osare andare oltre. Tutte sanno che l’ultima volta in cui è stata pronunciata una frase simile, Bella ha dovuto dire a Edward di conoscere la sua natura di vampiro per poi ritrovarsi con un trasferello sbrilluccicoso come marito eterno. Forse sono meglio i pesci pene.


«Dillo.» interviene akemi, risoluta: «Siamo abbastanza forti per sopportarlo. Non devi sostenere questo peso da sola.» dice, mentre gli altri Calici annuiscono. Così, nel silenzio del ristorante, mentre una mareggiata riempie la sabbia di orribili pesci di tragicomiche forme…


«Nel mio luogo di origine le chiamano… minchie di mare


*


Un silenzio consapevole riempie il ristorante, mentre il baluginio delle luci illumina i Calici riuniti. Il loro bricchetto più grande è ammirato e teso al tempo stesso - possono immaginare i dubbi della sua giovane età: saprò essere all’altezza? Pure a me il mare porterà dei piselli?


«Ma…» comincia, passando lo sguardo da una zia all’altra «com’è finita poi?»
«Alla fine qualcuno ha detto che era colpa delle tabelle che sono un’eredità di Fabian,» comincia a spiegare pazientemente akemi, con smile a inserirsi con un: «Solo che sakurai ha urlato qualcosa nel suo dialetto che non ho capito, perché pensava fosse un’offesa a shiroi che si occupa delle tabelle.»


janie si fa un po’ più avanti, schiarendosi la voce: «Permettetemi.» dice per prendere la parola, fare un bel respiro e poi esprimersi nella perfetta imitazione romana «AO’, E’ DE MI MOJE CHE PARLI, LAVATE LA BOCCA CO’ L’ACIDO.» venendo subito approvata da sakurai. Il Calice narrante infatti tintinna con orgoglio: «Era per puntualizzare. Comunque alla fine i pesci pene ci hanno insegnato due cose.» prosegue «La prima è che non c’è nulla che, uniti, non possiamo sconfiggere.»


Il bricchetto, ormai quasi calice adulto, la guarda ammirato: «E la seconda?»


«Eh.» sospira lei «La seconda è che se quei pesci ti invadono la spiaggia, so cazzi
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Prompt: tema libero (fandom: haikyuu!!)

Missione: M6 (week 5)

Parole: 400

Rating: pg13

Warnings: sakusa centric, omigiri (mentioned), atsuhina (mentioned)





Sakusa è abbastanza certo che se il ciclo di reincarnazione esiste, lui non può aver compiuto così tanti orrori nelle sue vite passate da doverli scontare tutti in questa. Passi avere un pessimo rapporto con la sporcizia e i germi in generale, cosa che poco si è sposata con un branco di adolescenti sudati nello stesso spogliatoio; passi avere la sventura di essere chiamato per le giovanili - no, non è stata la convocazione in sé il problema - insieme a Miya Atsumu, mettendolo sulla sua strada prima e nella sua vita poi. Passi anche quanto difficile sia stato accettare la propria relazione con Miya Osamu, nella piena consapevolezza di cosa questo avrebbe significato, ossia avere una sorta di discutibile pseudo parentela con il suo gemello.


Ma la crisi esistenziale di Miya Atsumu non se la meritava. La squadra con lui a livello professionistico ha significato tragici incidenti di percorso e prese di coscienza. Primo: la sua sicurezza nel campo è direttamente proporzionale a quanto romperà l'anima nel malaugurato caso che la squadra perda. Secondo: Miya non solo non sa perdere, ma non sa nemmeno accettare che possa esserci qualcuno del suo stesso ruolo che osa fare una giocata mai fatta da lui in precedenza. Deve primeggiare perché ama di più lo sport, è più bravo, è un miglior regista, è di più. Sempre. Terzo: Miya non ha pudore. Questo significa aver visto il suo pisello più volte di quelle in cui ha visto quello di Osamu ed è grave, visto che con il secondo ha una relazione. Quarto: il suo disgustoso cameratismo non richiesto. L'over sharing. Questo suo bisogno spasmodico di dirgli esattamente a cosa pensa, cosa intende fare, perché lo vuole fare, cosa ha mangiato e bevuto.


La cosa peggiore, però, è che Miya Atsumu è un perdente in tutto ciò che non riguarda la pallavolo. E che di tanti posti in cui poteva andare in cerca di uno a cui fare il filo, ha scelto proprio la squadra e Hinata Shouyo - per essere onesti, Sakusa gli concede almeno questo: è la sua cotta adolescenziale. Non ne è mai uscito, non è che se lo sia cercato nella squadra da adulto.


«Quindi, Omiomi, capisci?!» sta continuando imperterrito a parlare, nonostante lui lo ignori, perché è ovvio: sia mai sappia leggere l'atmosfera, insulso zodico delle risaie «Shouyo è così-- lo hai visto, no? Una tentazione su gambe! Cosa dovrei fare, qui con l'istinto di-»


Dio deve smettere di punirlo in questo modo.

hakurenshi: (Default)
Prompt: tema libero (fandom: Daiya no Ace)

Missione: M6 (week 5)

Parole: 300

Rating: pg13

Warnings: established relationship


E' un peso sullo stomaco non indifferente quello che Miyuki percepisce mentre, a causa della luce che filtra dalla finestra per colpa dello spiraglio lasciato dalla tenda, apre un occhio infastidito. Capisce subito che sarà difficile tornare a dormire, tradito da un corpo abituato fin dall'adolescenza ad alzatacce presto e a restare sveglio. Perché nessuno ha mai voluto scoprire quali sarebbero state le conseguenze decise da Kataoka. Mugugna infastidito, voltandosi quanto basta per sfuggire alla luce, allungando la mano per recuperare a tentoni gli occhiali da vista sul comodino. Quel movimento sembra convincere il suo peso sullo stomaco a smettere di pungolarlo con il gomito. Una volta che il mondo torna in alta definizione, Miyuki abbassa lo sguardo ritrovandosi a fissare la testa scapigliata di Eijun. Picchietta con l'indice, per infastidirlo, sentendolo mugugnare e sbuffando divertito in risposta.


C'è un silenzio incredibile considerando che Eijun è nella sua stessa stanza, ma Kazuya è consapevole durerà poco e che vale la pena approfittarne finché si può. Sebbene, a onor del vero, debba ammettere di aver iniziato ad apprezzare anche i momenti subito dopo il risveglio: Eijun è troppo rimbambito in quei frangenti per essere rumoroso e, invece, ha il tono arrochito dal sonno e strascica qualche parola, evitando i suoi soliti discorsi a mitraglietta - come ha imparato a definirli Kazuya per prenderlo in giro. 


Lo sente muoversi di nuovo e lo vede rotolare leggermente per girarsi dall'altro lato e dargli le spalle, quasi infastidito. Il respiro regolare, tuttavia, tradisce il fatto che stia ancora dormendo, senza alcun dubbio. Miyuki occhieggia la sveglia: gli rimanda indietro l'ignobile orario delle sei e cinquanta. Così si gira a sua volta, fino a passare un braccio intorno ai fianchi di Eijun; avvicina il viso, posandogli un bacio sul collo e inspira, chiudendo gli occhi.

hakurenshi: (Default)

Prompt: tema libero (fandom: Fire Emblem: Three Houses)

Missione: M6 (week 5)

Parole: 200

Rating: pg13

Warnings: //




Sono momenti di pace come quello che portano Byleth a pensare quanto strano sia che, per buona parte della sua vita, lui sia stato circondato da scontri. Non ha mai dubitato della sua natura di mercenario, né della realtà di cui ha fatto parte - e di cui, forse, sarà parte per sempre perché quando le cose ti si modellano addosso in quel modo, difficilmente poi se ne vengono via solo perché lo si vuole. Eppure quando si ritrova a godersi una giornata di cielo azzurro come quella, con una brezza leggera e l'odore dell'erba su cui è sdraiato a solleticargli il naso, immagina che questo sia uno dei tanti motivi per cui le persone desiderano vivere in pace. 


«Professore.» sente pronunciare a mo' di saluto e, nell'alzare lo sguardo, il viso di Claude gli offre un sorrisetto: «Avevo qualche dubbio si trattasse di te, ma sei l'unico a cui si addossano così tanti gatti contemporaneamente.» osserva mentre si lascia scappare un accenno di risata e si siede accanto a lui, a gambe incrociate. Non chiede il permesso, mentre pungola un felino al fianco.


Dovrebbe dirglielo, che anche lui fa lo stesso avvicinandosi quando nessun altro lo fa?

hakurenshi: (Default)

Prompt: tema libero (fandom: originale)

Missione: M6 (week 5)

Parole: 100

Rating: teen up

Warnings: mention of childe abuse


Kaede ha due ricordi di sua madre: il primo è uno tra tanti, più vivido solo perché avvenuto più in tarda età e quindi più semplice da tenere a mente senza che svanisca consumato dal tempo, ed è la risata di quella donna che fino a un certo punto è riuscita a guardarlo senza odiare ciò che vedeva. L'altro è fatto delle accuse per essere nato e dell'impotenza di non poter cancellare niente di ciò che era e che sapeva distruggerla - la somiglianza con suo padre, l'essere la testimonianza vivente di non essere stata scelta. 


Li seppellisce, perché non lo uccidano.

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: pictionary
Missione: M2 (week 5)
Parole: 3523
Rating: pg13
Warnings: originale



«Ricapitolando.» Kazunari richiama la loro attenzione, sistemando gli occhiali sul naso con un movimento abitudinario che però tradisce una grande, immensa fonte di stress: «Le squadre sono le seguenti: Sohma-san con Akemi-kun e Izumi-kun.» comincia ad elencare, spostando di volta in volta lo sguardo sulle persone nominate per assicurarsi che abbiano compreso e per avere al tempo stesso delle conferme. Appunta, di volta in volta, qualcosa sul suo blocchetto con l'aria di chi non sa perché si stia prestando a tutto questo. Tranne quando inquadra il proprio boss, e tutto torna tragicamente ad avere un senso.


«Il nostro leader» quello su cui comincia forse ad avere seri dubbi che tiene per sé «con Dan e Willow.» unica che sembra ridargli fiducia nell'umanità, in effetti. Lo sguardo passa verso il boss seguente, lì a quel tavolo di quello che in origine sarebbe dovuto essere un summit classico della mafia... prima che qualcosa andasse storto. Qualcosa con un nome e un cognome ben precisi.


«Moriguchi-san ha designato... Isen-kun e Eishi-kun, corretto?»

«Solo perché Tohru è troppo stupido anche per disegnare.» rimarca Eishi con un sorrisetto beffardo che si allarga quando, da fuori la porta, si sente urlare un «PEZZO DI MERDA GUARDA CHE TI SENTO.» al quale Kazunari decide di non dare ascolto, nella vana speranza che non si protragga oltre. Apprezza così tanto, il silenzio di Isenlen.


«Per il clan Komakura, oltre a Namatame-san, Yumeno-kun e Ashina-san?»

«Corretto.» conferma quest'ultimo «Ma sia chiaro che io esisto solo per fare numero.» chiarisce Hidenori. D'altronde, Shinya sembra molto entusiasta abbastanza da fare per tutte e tre i membri della sua squadra. Kazunari annuisce, tornando a fissare il foglio. Per una volta è quasi felice che non ci siano tutti i boss presenti a causa di alcuni impegni da cui non sono riusciti a sganciarsi all'ultimo secondo. E' tutto già troppo complicato così, mentre i suoi occhi si soffermano sull'ultimo partecipante. In condizioni normali sarebbe più che lieto della presenza del boss del Miyuki-gumi, per quanto ormai siano lontani dal territorio e con un compito di tutto rispetto su suolo europeo. Purtroppo, però, suddetto boss non è esattamente il valore aggiunto desiderato quando non si vuole gettare benzina sul fuoco ma, anzi, si vorrebbe avere un atteggiamento degno di un summit serio.


Miyuki Tatsuya se ne sta seduto in tutta comodità, occupando l'ultimo posto attorno al tabellone di pictionary ben posizionato al centro del tavolo. Accanto a lui Yukinaga, il cui dichiarato compito è solo quello di accompagnatore e addetto alla merenda richiesta a gran voce dai partecipanti, e i due compagni di squadra designati per questo disturbante momento di goliardia condivisa: non è Miyuki Kaede, a preoccuparlo. E' Fujimoto Yasu, il problema.


*


Tatsuya deve ammettere che avrebbe adorato anche il ruolo di semplice arbitro, solo per il gusto di prendere in giro tutte le altre squadre e le loro discutibili doti artistiche. Di contro, l'unico modo di far effettivamente partecipare Yasu era esserci in quanto gruppo, dunque non si è potuto privare di questa esperienza che già dalle prime battute ha minacciato di essere esilarante. I Komakura si sono rivelati un team temibile fin quando a disegnare è stato Shinya: abbozzi carini, tondeggianti e semplici abbastanza da rendere l'idea in modo immediato e permettere al suo team di indovinare. Certo, potrebbe aver aiutato che gli sia capitata la carta "pecora", in effetti, non certo difficile da rappresentare.


Poi, però, è stata la volta dei Ninomiya e Tatsuya ha compreso che sarebbe stato memorabile nel momento in cui la squadra ha designato Dan come primo disegnatore per questo round. Ha visto nei suoi occhi la disperazione e, al tempo stesso, il desiderio di un uomo di non arrendersi di fronte alla prima difficoltà - Tatsuya, nell'osservare la carta per potersi godere al cento per cento l'esperienza in quel minuto di tempo a disposizione per indovinare, si è chiesto se Dan sia consapevole di cosa possa essere "sac à poche". Se sappia come si legge. Eppure quando l'altro prende la matita e il foglio e fa un cenno d'intesa a Kazunari, sembra sicuro di sé.


La clessidra viene girata. Dan si fionda sul suo foglio di carta, deciso, cominciando subito a tracciare con la stessa grazia di un serial killer che si sta accanendo sul corpo ormai privo di vita della sua vittima. Disegna un cerchio e Tatsuya sente che questa cosa può potenzialmente andare molto, molto oltre le sue aspettative.


Itsuki e Willow, entrambi in team con Dan, stanno guardando con tutta l'attenzione di cui sono capaci il disegno che va formandosi. Willow, da ragazza matura e seria quale è, non stupisce Tatsuya per la sua concentrazione. Itsuki, invece, lo sorprende per il semplice fatto di non essersi ancora addormentato sul tavolo ma di essere anzi molto lucido - a meno che non abbia imparato, a insaputa di Tatsuya, a dormire a occhi aperti. Cosa che non lo sorprenderebbe affatto, comunque.


Dan modella il cerchio, lo sfina un poco. Poi... fa una riga. Dall'esterno del cerchio verso il basso del foglio. La rende più cicciotta, più evidente mentre calca con la grafite. Poi, Tatsuya lo vede fare una palla nera nella parte alta. Lui, conoscendo la parola sul cartoncino pescato da Dan, immagina che potrebbe essere (con molta fantasia) l'idea di dove stringere la sac à poche perché faccia il suo dovere. Se non sapesse di cosa si tratta, invece...


Dan fissa il tutto. Ci pensa. Aggrotta la fronte, alla ricerca di quel dettaglio mancante che evidentemente è convinto farebbe la differenza. Quando Tatsuya lo vede disegnare quello che sembra un buco, sente di non poter più resistere a guardare senza ridere e dunque si gira di lato, impegnandosi per non incrociare assolutamente lo sguardo di Jin.


«La sacca di Willow.» dichiara Itsuki, sicuro come lo sarebbe dei minuti che gli ci vogliono per addormentarsi, calcolabili in un attimo anche senza alcun bisogno del cronometro. Un momento di silenzio prima che Dan lanci la matita sul tavolo, porti le braccia al cielo e cominci a urlare: «WOOOOOW, WOOOOW, GRANDE BOSS. SEI IL PIU' FIGO, BOSS.» di chi ha vinto la coppa di pictionary con annesso premio in palio di lingotti d'oro. Dan offre le mani a Itsuki per un doppio cinque da veri macho e il suo boss si china appena in avanti e li colpisce, con un bellissimo "ciaff" complice. Kazunari si sta massaggiando una tempia.


«Non è la sacca di Willow.» commenta l'arbitro, brutale. Per un secondo sembra aver mandato una scossa elettrica lungo il corpo di entrambi, che si girano a guardarlo come due cerbiatti a cui hanno appena sparato in faccia la luce dei fari di un autotreno.


«Come no?!» sbraita Dan, scioccato. Itsuki sembra solo vagamente confuso - ma è difficile dirlo con lui, vista la persona monoespressiva che è. Kazunari sospira pesantemente, intimandogli un: «Hai ancora qualche secondo.»

«Ma ho disegnato quello che penso che sia!» si difende Dan, indignato per questo risultato menzognero prima ancora che la clessidra butti giù gli ultimi granelli di sabbia, decretando la fine del turno. Offeso nel suo orgoglio, Tatsuya lo vede recuperare il foglio e accostarsi a Kazunari: «Guarda. Questa è la sacca.» comincia a spiegargli indicando il corpo principale del disegno «Qui è stretta perché è chiusa fin quando Willow non la apre. Qui c'è una specie di punto da cui esce tutto.» dice mentre picchietta con la punta della matita sul disegno «Sac con poche.» pronuncia quell'ovvietà. Del francese di quei termini, è chiaro, non c'è nemmeno l'ombra «Poche cose perché finiscono tutte qui!» indica il buco sotto il disegno principale «Nel buco nero di Willow! Vabbè io l'ho fatto bianco, ma nessuno ha detto che dovevamo pure azzeccare i colori, oh!»


Tatsuya sente qualcosa spezzarsi dentro Kazunari, un suono sovrastato dalla risata da iena di Jin e dal suo pugno sul tavolo mentre si sganascia come se ne andasse della sua stessa esistenza.


«Sac à poche» pronuncia Kazunari, distrutto nella psiche «Non un "sacco con poche cose"! Non esistono parole sottintese solo perché non sono nella carta che peschi!» lo rimprovera, lanciandosi in una spiegazione più dettagliata possibile di cosa sia quella roba che Dan ha totalmente frainteso. E dire che, senza nemmeno volerlo, il disegno poteva vagamente essere utile anche per rappresentare il vero oggetto in questione.


*


Il primo giro è stato fatto per tutti, non senza discrete difficoltà qua e là. La cosa evidente è che ogni team ha un disegnatore di punta, bravo abbastanza da riuscire non solo a capire cosa deve disegnare ma anche da farlo in modo chiaro, pulito e veloce tanto da far comprendere e indovinare la parola ai suoi compagni. E' stato altrettanto doloroso ed evidente rendersi conto delle problematiche generali che li accomunano: in primis, la regola per cui non possa disegnare sempre lo stesso membro ma debbano anzi fare obbligatoriamente a turno. Questo ha reso tutto molto complesso. Subito dopo, il fatto che diverse squadre abbiano un evidente disturbatore, quello che spara parole a caso per buttarsi a indovinare secondo la regola del: se vomito mezzo dizionario prima o poi dovrò pur azzeccare grazie alla fortuna.


I peggiori sono quelli che Tatsuya definirebbe oddballs. Quei membri il cui cervello deve funzionare in modo così diverso, complesso e fuori dagli schemi che un disegno per loro elementare e di facile comprensione può essere al pari di un geroglifico incomprensibile. E lo stesso avviene per i loro ragionamenti quando devono indovinare.


Purtroppo per Tatsuya, anche se uno è nella squadra di Jin - davvero, Eishi gli ha sempre dato la sensazione di un prodigio composto per lo più da genialità e poco da follia... chi lo avrebbe mai detto - l'altro è indiscutibilmente Yasu. E ora, con la matita in mano, gli sembra più pericoloso di quella volta in cui Tatsuya gli ha messo davanti due computer portatili per fargli hackerare un doppio sistema di password e Yasu, guardandolo, gli ha risposto: solo due? E che ci vuole, Tsuya! Pensavo fossero di più, ma dio mi ha fatto due mani per questo!


Sospira, vedendolo tirare su la carta con la parola con lo stesso divertimento di un bambino al luna park nello sguardo. L'espressione di Yasu non vacilla minimamente e, poiché Tatsuya in questo caso non teme la poca comprensione del soggetto da parte sua, le possibilità sono due: sa esattamente come disegnarlo, e sarà di reale facile comprensione. Sa come disegnarlo perché ha senso nella sua testa e questo renderà tutto molto più complicato.


«Posso dire la categoria, sì? Ah, vabbè, sta scritta dietro, tutto a posto-- comunque. E' tipo immediato eh, non mi deludete.» chiarisce lo stesso, facendo tutto da solo prima che Kazunari possa dire nulla. Tatsuya sbircia in sua direzione e lo vede scuotere la testa, ormai arresosi a cercare di andare contro la follia, provato evidentemente dal suo stesso gruppo. Si limita a sospirare e mettere mano sulla clessidra: «Pronto, Fujimoto-kun?» «Nato pronto, boom boom baby, let's goooo!»


Jin sbuffa dal naso dal suo posto di fronte a Tatsuya. Akemi, vicino a Reiji, borbotta qualcosa che somiglia a un "che cazzo ho appena sentito". Kazunari, elegante come un uomo ormai senz'anima, gira la clessidra.


Yasu si fionda sul foglio: linguetta di fuori ed espressione concentrata, Tatsuya lo vede tracciare i primi tratti di matita sulla carta. Un ovale. Riga orizzontale verso la parte alta, una piccola riga verticale. A vederlo al contrario sembrano i denti di un castoro, ma Tatsuya decide di attendere perché Yasu non sembra aver finito. Infatti porta la mano più in basso, punta la matita sul foglio, fa una linea ondulata. Tatsuya alza lo sguardo perché Yasu alza la testa, guarda lui e Kaede come se avessero già la vittoria di quella parola in tasca. Gli fa pure l'occhiolino e torna a tuffarsi sulla sua opera d'arte.


Entrambi i fratelli Miyuki si lanciano un'occhiata e poi abbassando di nuovo lo sguardo, concentrati. Yasu sta disegnando un'altra cosa, proprio accanto all'altra: prima un cerchio, poi due semicerchi laterali. Tatsuya intuisce abbastanza facilmente che si tratti di un animale stilizzato e, quando Yasu aggiunge quella che è inconfondibilmente una criniera, Tatsuya capisce che si tratta di un leone. Il problema è: cosa diamine vuol dire la cosa che gli ha disegnato accanto in precedenza?


Vede Yasu schioccare le dita per attirare la loro attenzione; sia Tatsuya che Kaede portano lo sguardo su di lui e Tatsuya è sicuro che anche suo fratello minore, nel vedere quel sorrisetto furbo di chi sta per mostrarti come sfanculare il sistema di sicurezza del governo con un semplice clic, si stia chiedendo cosa diamine stia per succedere. La clessidra intanto è oltre la metà del loro tempo.


Yasu guarda il foglio. Loro fanno lo stesso. Lo vedono puntare la matita a uno dei lati del foglio e... tirare una linea orizzontale per tutta la lunghezza, tagliando a metà i due disegni, quasi volesse cancellare il suo stesso lavoro e comunicargli di ignorarlo. A questo punto Tatsuya si arrende - la mente di quel pazzo che ha di fronte non la capirà mai: grande sesso da adolescenti eh, per carità, ma forse è meglio che sia finita prima che Yasu potesse provare a proporgli cose strane partorite dalla sua mente.


E' nello stupore generale che la voce di Kaede pronuncia, come se fosse la cosa più naturale del mondo e senza alcuna particolare inflessione che possa trasmettere l'entusiasmo di chi pensa di aver indovinato: «Mausoleo.»


C'è un lungo, pesante momento di silenzio. Tatsuya occhieggia Kazunari, ma anche chi ha sbirciato la carta di Yasu per gustarsi il match, e vede l'incredulità generale. Prima che Yasu salti in piedi con uno: «YES. Kaede mi ama e mi capisce, sìììì!» dopo il quale si muove dalla sedia con la stessa grazia di un mammuth a cui hanno chiesto di ballare il flamenco, aggirando il tavolo fino a raggiungere lo stesso Kaede e buttarglisi addosso come una pelle d'orso. Tatsuya vede Kaede confuso da tutto questo entusiasmo - ma, in effetti, suo fratello minore non è mai stato da effusioni esagitate e dunque Yasu è la sua nemesi o più semplicemente un alieno ai suoi occhi.


Mentre riporta lo sguardo su foglio ha una folgorazione: il primo disegno, quell'ovale con quelle linee che lo avevano fatto pensare a dei denti e la codina... è un mouse del computer. Mouse. Maus. E insieme a un leone.


Sebbene decida saggiamente di non darlo a vedere, sospira, mentre una consapevolezza sempre avuta gli ricade addosso con la potenza di una rivelazione shock: Yasu è pazzo. La cosa davvero grave è che Kaede lo abbia capito subito.


*


Sono sempre riusciti a scamparla finora, ma alla fine il momento è arrivato. La squadra di Jin ha pescato una carta sfida e, dovendosi quindi confrontare con un'altra squadra che possa disegnare la stessa cosa, ci è voluto più tempo per allestire un campo di battaglia che desse pari opportunità a tutti di quanto ce ne vorrà a indovinare la parola sulla carta in questione.


Ora, finalmente, sembrano esserci e Kazunari prende la parola mentre tiene nella mano la clessidra e la carta; dietro di lui si sono posizionati tutti quelli che vogliono assistere con cognizione di causa allo scontro: «Dunque i disegnatori sono Eishi-kun per il team Moriguchi e Shinya-kun per il team Komakura.» riassume occhieggiando entrambe le squadre, ricevendo un cenno affermativo del capo sia da Jin che da Soen. Il primo sembra abbastanza concentrato, mentre al suo fianco anche Hide si è dovuto arrendere all'idea di partecipare per evitare il broncio di Shinya. Dal lato dei Moriguchi, invece... Tatsuya non si sorprende affatto di vedere concentrato solo Isen, mentre Jin sta comodamente poggiato allo schienale della sua sedia, braccia incrociate al petto e l'aria sorniona di uno a cui manca solo il gatto da accarezzare per sembrare un villain sfigato.

 

Pure Kazunari non pare molto convinto di come possano capirsi due come Eishi e Isenlen, ma non commenta per il proprio bene, immagina. Tatsuya lo osserva mentre gira la clessidra e decreta l'inizio della sfida con un: «Via!»

 

C'è subito qualcosa che non va ed è evidente a tutti. Da un lato Shinya si è chinato sul foglio, con un po' di agitazione visibile nel modo in cui gli tremola un po' la mano nei primi tratti di disegno, ma deciso a fare del suo meglio anche se non si stanno giocando niente di valore se non la loro discutibile dignità. Tatsuya lo vede disegnare un cerchio e qualcosa di carino e stilizzato dentro, oltre a un paio di linee che immagina dovrebbero dare il senso di una palla che rimbalza. Non è sicuro di come questo possa indicare la parola da indovinare - tavolo da gioco - ma può immaginare con cosa voglia lavorare il ragazzo: un tavolo da ping pong sotto la pallina appena disegnata. O dividere in due come fatto da Yasu, magari in modo più semplice tipico di una mente meno folle ma più funzionale, e poi fare qualche segno che faccia capire alla sua squadra di dover unire le due raffigurazioni per ottenere il risultato finale di una parola che a conti fatti è composta. Ha senso.

 

Eishi, invece, non sta nemmeno disegnando. Il foglio davanti a lui è ancora bianco, mentre si limita a osservare il fare di Shinya come se la sfida non fosse tra loro ma tra altri ed Eishi potesse concedersi il lusso di guardare quasi pigramente il tutto, di fare da spettatore e apprezzare le doti artistiche dell'avversario. Isen, di fronte a lui, sembra confuso eppure non pare giudicarlo troppo duramente per adesso - Jin pare solo divertito come il cretino che è, tenendosi un ipotetico asso nella manica per l'ultimo secondo. Tatsuya immagina che non possa trattarsi né del dare fuoco al foglio di Shinya né di renderlo cenere, considerando quanto Kazunari sia stato chiaro all'inizio rimarcando tre volte il concetto secondo cui non sono ammesse abilità speciali. Condito con un eloquente e molto convincente: Asagiri-kun, ti vieto di portare la merenda a chiunque non rispetti questa regola.

 

Shinya passa a disegnare un ripiano, proprio come Tatsuya aveva immaginato. La clessidra è abbastanza oltre la metà ed è solo allora che Eishi prende finalmente in mano la matita e comincia a tracciare... una riga. Due righe. Tre. Tatsuya le guarda comporre una semplice, incomprensibile freccia - incomprensibile fin quando Eishi non posa la matita con tutta la calma del mondo, prende il foglio come se dovesse studiare nel dettaglio la sua indiscutibile opera d'arte e poi lo ribalta. Girato perché i suoi compagni di squadra possano vederlo, con la punta della freccia verso il basso. Lo tiene fermo così, con l'espressione divertita di chi ha raccontato la migliore barzelletta del mondo. Persino Kazunari ci mette un secondo a capire, quello che diventa un istante micidiale nel momento in cui si sente - con sorpresa di tutti - la voce di Isen dire: «Tavolo da gioco...?» come se non fosse convintissimo neppure lui.

 

L'espressione di Eishi non è mai stata così comunicativa: fottetevi tutti, stronzi.


Gli sguardi allibiti di molti presenti si posano su di loro, poi passano su Kazunari, quasi a chiedergli se sia valido; l'uomo, in evidente difficoltà, ferma il tempo della clessidra e pesca immediatamente il libretto con le regole del gioco, scorrendolo con fare piuttosto febbrile.


Mentre Jin ride come lo sguaiato che è, Akemi fissa Eishi quasi sfidandolo a dirgli che ha torto: «A parte che sei un baro, mo' mi spieghi come è possibile che tu con la mente di un pazzo sia sulla stessa lunghezza d'onda del bodyguard del silenzio.» se ne esce, evidentemente interessato a questioni che con la vittoria finale non hanno granché da spartire. Interesse scientifico, si potrebbe dire.


Isen pare confuso quanto Akemi, a dispetto del risultato, ma Eishi incrocia le gambe quasi fosse lui il boss qui e si ritrovasse davanti un bambino che strepita e con il quale bisogna avere pazienza.


«Non siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Isen è una mente... semplice, diciamo.» commenta, un modo carino di dire che non pensa possa concepire pensieri più complessi di un certo livello. Se Isen colga o meno quello che alle orecchie di chiunque sembra un velato insulto, non è molto chiaro. Eishi però non ha per niente l'aria preoccupata di chi ha appena provocato un manipolatore del fuoco con la tendenza a non trattenersi dal lanciare fiammate, se necessario, e continua con la stessa fastidiosa pacatezza nel tono: «Ma proprio perché è una mente semplice, inutile perdere tempo a disegnargli un'associazione di idee. 

Cosa c'è di più semplice di una freccia?» fa notare con un'alzata di spalle arrogante.


Tatsuya è quasi colpito.


Kazunari nel mentre torna indietro e li osserva tutti, una punta di comprensivo dispiacere mentre Hidenori ha l'ingrato compito di rassicurare Shinya che no, non è stato lui a essere lento o non abbastanza bravo, sono i Moriguchi che hanno difficoltà di comprensione delle regole dei giochi per ragazzini dai dodici anni in su. Il che la dovrebbe dire lunga, ma sarebbe un discorso troppo lungo e fuori contesto.


«Ingegnoso.» commenta infatti verso Eishi, concedendogli quel complimento tra uomini di pensiero: «E' comunque al pari di mimare qualcosa con i gesti. Quindi niente punto.» decreta, impietoso, sistemandosi gli occhiali sul naso.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: skinship
Missione: M1 (week 5)
Parole: 2503
Rating: pg13
Warning: rotten fluff




A voler essere del tutto sinceri, la prima volta che Hitoshi finisce per addormentarsi addosso a Todoroki è davvero un caso: è la festa di Natale del loro secondo anno alla U.A., ormai più a ridosso della sua fine che dell'inizio. Marzo sembra incredibilmente vicino e alcuni di loro ancora si trascinano dietro l'inquietudine che la guerra ha lasciato loro addosso come cicatrici. Hanno tutti bisogno di qualcosa di normale, di una festa di Natale e così Hitoshi non ha nulla da ridire: organizza con gli altri più che volentieri, asseconda la vaga tendenza alla pianificazione di Midoriya ed è bello, per una sera, avere la leggerezza della sua età.


Hitoshi nemmeno si accorge di addormentarsi, in verità. Semplicemente, quando si sveglia, la prima cosa che nota è Kaminari a sbavare sul cuscino, sdraiato sul divano di fronte in un intreccio di gambe che vede protagonisti insieme a lui anche Kirishima e Tetsutetsu. La seconda di cui si accorge è di essere poggiato a qualcuno - e, quando si sposta e alza lo sguardo, è il profilo di Todoroki che trova. Sbatte un paio di volte le palpebre, mentre l'altro si gira a guardarlo come se nulla fosse.


«Scusa.» pronuncia Hitoshi ancora prima che il cervello elabori qualsiasi altra cosa, guardandosi attorno per dare più valore alle proprie parole nell'aggiungere un «Dormono tutti?»


Todoroki scuote la testa: «C'è qualcuno in cucina, si sono spostati per parlare.»


Hitoshi sospetta l'altro sia rimasto immobile per non svegliare lui e sta per scusarsi di nuovo - non che Todoroki sia mai il centro attivo di una conversazione, ma da lì a fare la statua di sale... -, quando è l'altro ad anticiparlo: «Nessun problema.» liquida la questione, senza dargli modo di aggiungere altro.


*


Succede di nuovo quando sono in affiancamento alle agenzie, pochi mesi dopo l'inizio del loro terzo anno. Sia lui che Todoroki, pur essendo di due agenzie diverse, si ritrovano nella stessa area ad approfittare della pausa pranzo e ad avere entrambi la stessa idea: occupare il cornicione di un palazzo.


Mangiano per lo più in silenzio, se non per qualche scambio su come stiano andando le cose ognuno col proprio - così sperano - futuro capo. E' Todoroki ad accostarsi a lui una volta finito il suo pranzo: Hitoshi lo osserva muoversi verso di lui, sederglisi vicino abbastanza da far toccare le loro spalle e inclinare la testa di lato fino a poggiarla contro il corpo di Hitoshi. Lo fa con una naturalezza che Hitoshi non si aspetta, come se avessero un tacito accordo tra loro per quando sono insieme e uno dei due è troppo stanco per restare sveglio.


Hitoshi è consapevole di essersi irrigidito appena, per quanto si stia impegnando a far sembrare di no. Todoroki, da parte sua, se lo ha notato non lo dà a vedere - ma questo sorprende poco: non sono molti i pensieri di Todoroki che Hitoshi sia stato in grado di leggere in un'espressione o di indovinare.


L'altro non parla, non gli chiede se può restare così per un po', né niente di simile; se ne sta solo in quella posizione, il respiro regolare che lentamente porta Hitoshi a rilassarsi. Lì, in alto su quel palazzo, l'aria di una primavera inoltrata si traduce in una brezza piacevole. A un certo punto i capelli di Todoroki gli solleticano la guancia; Hitoshi abbassa lo sguardo e, solo in quel momento, si accorge di come l'altro abbia le mani strette tra loro, i muscoli troppo poco rilassati perché Todoroki stia effettivamente dormendo.


A vederlo così, Hitoshi non è sicuro del motivo di quella posizione. Dopotutto, però, lasciarlo fare non gli costa niente.


*


Tutto il loro terzo anno è costellato di momenti simili: non così frequenti da poter essere considerati un'abitudine, ma nemmeno così rari. Fino al diploma, però, non c'è mai nulla di più di quello: poggiarsi l'uno alla spalla dell'altro, riposare una manciata di minuti e rilassarsi con un contatto fisico leggero.


E' una sera come tutte le altre, quella in cui Todoroki si unisce a una cena con altri ex studenti della sezione A su cui non incombe il massacrante turno serale. Hitoshi non lo vede bere affatto, di solito, per questo si sorprende quando lo sente ordinare una birra. Non è sicuro sia sufficiente a camminare storti una volta usciti, eppure non si sottrae quando fuori dal ristorante Todoroki si poggia alla sua spalla, né quando decidono di dividere il taxi perché arrivi intero a casa - a nessuno di loro sembra saggio assecondarlo quando, con la sua solita espressione seria, assicura che «Posso creare una strada di ghiaccio e poi spararmi in direzione di casa con il fuoco.»


Questo è il problema di quando si ha a che fare con persone come Todoroki Shouto: la loro quasi totale mancanza di un'espressione capace di lasciar intendere se stia o meno scherzando finisce, irrimediabilmente, a far prendere in considerazione che qualsiasi affermazione possa essere molto seria. Anche quelle più assurde.


A quel punto, quando sono ormai di fronte a casa sua, Hitoshi non ha nemmeno un reale motivo per rifiutarsi di accompagnarlo dentro. Todoroki sembra tornare sobrio quando sono nell'appartamento (sempre che sia mai stato ubriaco), ma Hitoshi insiste per farlo sedere sul divano mentre recupera un bicchiere d'acqua per entrambi. Lo bevono in silenzio, alla luce soffusa della piantana del salotto altrui, così Hitoshi si prende la libertà di guardarsi un po' intorno: ha sempre sentito parlare della casa della famiglia Todoroki come un luogo tradizionale e la stanza personale di Shouto alla U.A. vantava un arredamento per nulla diverso. E' strano, ora, vederlo in un contesto moderno - Hitoshi sospetta ci sia stato lo zampino della sorella o del fratello maggiore.


«Torni con il treno?» domanda Todoroki all'improvviso, nel silenzio totale. Hitoshi porta lo sguardo su di lui, dopo una breve occhiata al cellulare: «Non credo ce ne siano più, a quest'ora. Mi fermo all'agenzia.» conferma, senza darci troppo peso. Todoroki ha lo sguardo fisso sul suo bicchiere, ormai mezzo vuoto, come se l'acqua dovesse dargli una risposta a un quesito su cui si sta lambiccando il cervello. Hitoshi immagina che, se la loro fosse una storia di fantasia piena di cliché, questo sarebbe il momento in cui Todoroki gli offre di dormire da lui e ammicca riguardo la presenza di un unico letto... tralasciando che cercare di figurarsi Todoroki ammiccante lo fa più che altro sorridere.


Invece, quando sarebbe più plausibile chiedersi se non si stia addormentando lì seduto e con il bicchiere in mano, la sua voce lo raggiunge: «Riesci a dormire, la notte?» lo sente chiedere e questo gli fa inarcare un sopracciglio, perplesso. Ci arriva con un attimo di ritardo, quando Todoroki sta ormai aggiungendo un «Ci sono notti in cui se dormo sogno Dabi.»


Arriva con la stessa potenza che Hitoshi si immagina se pensa a cosa si debba provare nell'essere colpito in pieno petto da una palla di cannone. Sono due frasi appena udibili nel silenzio di una casa altrimenti vuota, eppure hanno una violenza inaudita. Chissà perché nessuno pensa mai, quando li guarda, che le cicatrici non sono solo quelle a cui qualcuno in un ospedale si è dedicato dal punto di vista medico. Nessuno riflette mai su cosa abbia significato mandare degli adolescenti in guerra, poggiargli sulle spalle il peso del mondo e limitarsi a dire loro: se dovesse andare male, ne pagheremo tutti le conseguenze.


Hitoshi sa che nessuno dei pro Hero lo ha voluto e che molti avrebbero preferito tenerli lontani se fosse stato possibile - non ne fa una colpa a loro, né ai civili indifesi, né a chi purtroppo non è stato salvato. Eppure, mentre guarda il profilo di Todoroki, si domanda se ci sia un manuale da qualche parte che spieghi loro non solo come essere gli Eroi perfetti che possano ispirare le nuove generazioni, ma anche come raccogliere i pezzi quando si sente il bisogno di appendere il costume al chiodo per un momento e tornare fragili. Lui una risposta non ce l'ha. Todoroki nemmeno, evidentemente. 


Quando lo vede inclinarsi appena verso di lui lo accoglie, si sistema per essere una spalla solida su cui poggiarsi; segue con lo sguardo come posa il bicchiere sul tavolino e poi scivola verso di lui, fino a tenere la testa contro il suo braccio. Hitoshi lo osserva, incerto: non è la posizione più comoda, ma non è nemmeno la persona più adatta ad assumerne una che implichi una conoscenza e un'amicizia che non hanno davvero.


Questo è il tipo di cosa per cui servirebbe Midoriya, pensa distrattamente. Midoriya che ha aperto gli occhi di Todoroki dal festival sportivo del loro primo anno, che è stato un po' il suo porto sicuro per come l'ha sempre vista Hitoshi. Midoriya, capace di salvare a modo suo qualcuno quando a stento era in grado di salvare se stesso - ma Hitoshi lo sa meglio di tutti, perché Midoriya ha salvato anche lui dalla parte più oscura di sé.


Non sa perché Todoroki non si stia affidando a Izuku, piuttosto, ma immagina possa avere le sue buone ragioni. E che potrebbe condividerne la maggior parte, se Todoroki decidesse un giorno di elencargliele. Per adesso però c'è solo lui. Perciò Hitoshi si muove, fa una lieve pressione contro la sua spalla per scostarlo e per un istante vede negli occhi dell'altro la muta richiesta di un chiarimento. Si limita ad allungarsi per poggiare il suo bicchiere vuoto e poi si sistema, fino a lasciargli spazio tra le proprie gambe: sarebbe pieno di fraintendimenti in qualunque altro caso, ma Todoroki lo guarda e capisce, si sposta a sua volta fino a sistemarsi lì. E' goffo il modo in cui si poggia con la schiena contro il torace di Hitoshi, esattamente come è goffo il movimento a cui Hitoshi un po' si forza per passargli un braccio attorno alla vita.


C'è qualcosa di più intimo di quanto abbiano mai avuto entrambi con altre persone, ma Hitoshi non avverte alcuna malizia né la comunica col proprio corpo. Sente Todoroki rilassarsi lentamente contro di lui, senza dire una parola. E' la prima volta che dormono insieme in quel modo eppure persino Hitoshi, alla fine, si addormenta ascoltando il respiro altrui.


*


Non saprebbe dire se quell'evento sia la causa scatenante di una serie di atteggiamenti molto naturali tra loro ma che sembrano fraintendibili a occhio esterno. O se, semplicemente, lui e Todoroki abbiano davvero preso a comportarsi come una coppia senza nemmeno rendersene conto - e senza esserlo. Hitoshi sa soltanto che più di una volta gli hanno chiesto con più discrezione possibile se ci fossero novità e lui ne è rimasto sempre abbastanza confuso. Prima di capire a cosa si riferissero.


Sente la porta della stanza aprirsi e si gira quanto basta a osservare da sopra la propria spalla: Todoroki sta rientrando in camera, la luce dello schermo del telefono a illuminargli i lineamenti con una tonalità fredda e del tutto diversa da quella della lampada sul comodino. Hitoshi lo osserva con una muta domanda nello sguardo, alla quale l'altro scuote la testa: «Niente di importante, Burnin' mi ha urlato dietro che sto facendo troppe ore in più di quelle di un normale nuovo assunto...» pronuncia, aggrottando le sopracciglia. In effetti immaginarsi Burnin' occuparsi di questi dettagli da segretaria d'ufficio è difficile e Hitoshi decide di non sottolineare quanto la cosa sia probabilmente legata a Endeavour.


Todoroki posa il telefono sul comodino, assicurandosi di metterlo in carica, e poi sposta di nuovo le coperte sotto cui era quando ha ricevuto la chiamata. Hitoshi stesso cambia posizione, come se fosse un tacito accordo tra loro ormai, sistemandosi sul fianco opposto a prima così da essere girato verso l'altro. Una volta che entrambi sono sotto le coperte, Todoroki gli punta gli occhi addosso senza dire una parola per diverso tempo.


All'inizio è stato strano e i silenzi si sono tinti di un accenno di imbarazzo dovuto non all'ambiguità, ma all'essersi ritrovati a godersi la vicinanza dell'altro senza capire bene quando fosse avvenuto o se fosse da considerare naturale... alla luce del fatto, soprattutto, di non aver condiviso più esperienze di vita di quante entrambi ne abbiano avute in maggior numero con altre persone. Poi, alla fine, forse hanno ignorato la cosa tutti e due. O l'hanno fatta passare in secondo piano, Hitoshi non saprebbe dire con certezza.


Lo vede muoversi leggermente per avvicinarsi e allarga un braccio, neanche fosse un segnale. Todoroki si muove, gli si avvicina fino a quando la distanza è davvero ridotta a pochissimo e Hitoshi lascia che si sistemi contro di lui, che passi un braccio attorno al suo fianco e intrecci le gambe alle sue, rispondendo come se fosse un puzzle perfettamente collaudato nei mesi. Non abitano insieme, spesso gli orari non gli permettono nemmeno di vedersi per giorni se non incrociandosi ogni tanto sul campo, eppure si ritrovano sempre con questa facilità a cui Hitoshi non si è ancora abituato del tutto.


Gli piace, però. Il calore di Shouto contro di lui, l'insospettabile delicatezza con cui l'altro ogni tanto gli accarezza i capelli quando pensa Hitoshi stia dormendo, oppure il modo in cui nel sonno a volte gli si accoccola contro.


«Pensi dovremmo dare un nome? A questa cosa che facciamo.» lo sente pronunciare, una nota di sonnolenza nella voce arrochita. Hitoshi si scosta solo il minimo sindacale per cercare lo sguardo altrui, trovandolo quasi subito.

«Perché lo chiedi?»


«Perché continuano a domandarmi se stiamo insieme.» rivela Shouto senza alcuna vergogna, dimostrando per l'ennesima volta di avere un concetto tutto suo di segreto e riservatezza - è incredibile come possa essere impenetrabile al pari di una fortezza, se vuole, tenendo lontano chiunque dalle fragilità che non si sente ancora di voler condividere eppure mostri con semplicità cose che altri avrebbero difficoltà a lasciar anche solo intravedere. Hitoshi lo studia, anche se per breve tempo. Muove il braccio che gli ha sistemato sulle spalle, così da avvicinare una mano al suo viso; la devia però verso la nuca, sfiorandola con i polpastrelli in un gesto affettuoso e senza alcuna pretesa.


«E tu pensi sarebbe meglio definire perché dormiamo insieme senza essere una coppia?» gli domanda, forse un po' a bruciapelo, ma ha imparato nel tempo che è meglio non fare giri di parole con Todoroki: ci si perde. Spesso. Quasi subito.


«...non per forza. Però, in caso tu volessi anche con qualcuno in modo più-»

«Al momento non voglio con nessuno e senza altri modi.» lo prende un po' in giro, ma è morbido il tono che usa come anche lo sguardo che gli rivolge. Vede un piccolo incurvarsi di labbra sul viso dell'altro, qualcosa di quasi impercettibile che con Shouto bisogna saper cogliere perché sembra sempre durare troppo poco. Hitoshi sa che dovrebbe interrogarsi di più sul perché quella reazione sia proprio lì, ora e dopo le sue parole.


Però, mentre le sue dita si intrufolano tra i capelli di Shouto e lo sente lasciarsi scappare un piccolo sospiro soddisfatto, si dice che non c'è fretta di dare un nome.


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Prompt: skinship
Missione: M1 (week 5)
Parole: 2302
Rating: pg13
Warnings: mention of war, hurt/comfort



A volte a Byleth manca Garreg Mach. Ci sono mattine in cui si sveglia poco prima che albeggi, quando dalle finestre comincia a entrare una luce fioca da far dubitare se la notte stia già lasciando il posto al giorno oppure no, e il suono degli uccellini sembra arrivare da lontano. Quando i muscoli del corpo sono ancora intorpiditi dal sonno, in quel preciso momento Byleth ha la sensazione di scivolare a fatica fuori dal sogno in cui è ancora un mercenario improvvisato professore, lì responsabile di giovani con grandi sogni, grandi obiettivi. Chiuso in una quotidianità semplice, diametralmente opposta a quella in cui è cresciuto, eppure a suo modo piacevole. Sente la mancanza di quando la voce di Sothis era la normalità nella sua testa, quando bastava affacciarsi nell'immenso cortile del monastero o andare in alcuni specifici luoghi per essere certo di incrociare suo padre.


Byleth si ricorda della torre, di promesse; di quando è tornato al monastero e ha ritrovato un Dimitri diverso, ombra di se stesso, e ha visto come la guerra distrugge un giovane più di quanto avesse mai notato durante i suoi anni da mercenario con suo padre. Forse una parte di lui rimpiange il periodo precedente, persino: quello in cui provare emozioni era qualcosa di cui non sentiva la necessità e, per estensione del non averlo mai fatto e di non essersene mai davvero dovuto preoccupare, non percepiva nemmeno di avere qualcosa di assente. Byleth immagina chiunque gli direbbe che una persona deve provare qualcosa e in una certa misura lo comprende. Però conosce anche il fascino dell'assenza di dolore o di quello sordo che è solo una vaga sensazione.


La guerra ormai è lontana. Byleth ha imparato presto che i morti non tornano in vita - non sua madre, non suo padre. Il regno è sereno, guidato da un re che farà grandi cose e avrà cura di ogni singolo suddito, perché è così che Dimitri è sempre stato. In un certo senso si può dire sia così che lo ha visto crescere.


Fuori la luce sembra farsi più forte e rischiarare il cielo. Byleth abbassa lo sguardo e, lì accanto, vede il viso di Dimitri addormentato: i capelli lunghi e biondi sparsi sul cuscino, il volto finalmente rilassato. Troppe notti Byleth lo ha saputo insonne e rare volte gli è stato permesso di restare fino a quando l'altro non ha preso sonno. La loro è una posizione complessa e rispetta il fatto che, a volte, il re ancora fatichi ad accettare di poter avere una debolezza e - soprattutto - di poterla mostrare. Se non al mondo, almeno alle poche persone fidate di cui si è circondato.


In momenti come questi, in cui può prendersi tutto il tempo che vuole per osservarlo e vegliare su un sonno che spera almeno sia senza sogni, a Byleth torna in mente la prima volta in cui Dimitri gli ha permesso di vederlo di nuovo. Oltre un'armatura, oltre una benda sull'occhio e oltre orrori che Byleth può immaginare ma a cui nessuno, mai, può essere davvero pronto.


*


La battaglia non è stata facile. Sono tornati tutti vivi - non del tutto sani, ma vivi - ma il prezzo da pagare è stato alto, specie dal punto di vista del morale. Byleth li vede e capisce, senza bisogno di chiederlo o di ascoltarli parlare, che sono tutti sfibrati. Dimitri più degli altri, perché quando qualcosa ti logora dentro ancor prima di cominciare una battaglia, dopo non può che lasciare una voragine che diventa difficile sanare. 


Può solo immaginare in quali abitudini sia incappato Dimitri negli anni di vuoto che per Byleth sono stati solo poco più di un battito di ciglia. Ha il ricordo di un Dimitri rigido, ma nel modo morbido dato da un pudore tutto suo e sporcato da una severità acerba, dovuta più all'educazione e al rispetto dei ruoli che ad altro. Se all'epoca per Dimitri sarebbe stato difficile lavarsi con qualcuno dei suoi compagni, farlo davanti a Byleth sarebbe stato impensabile. Ha sempre dato per scontato che fosse una questione di ambiente in cui è cresciuto - forse gli usi del Regno di Faerghus e quelli dell'Alleanza hanno sempre differito anche in questo, a giudicare da come Felix sarebbe inorridito (e da come farebbe lo stesso ancora oggi) all'idea mentre Claude l'avrebbe addirittura proposta.


Anche adesso nota una certa ritrosia in come Dimitri si guarda intorno mentre si libera del mantello prima e dell'armatura poi. Ogni strato in meno sembra farlo sentire vulnerabile e ci vuole un po' perché alla fine si conceda una nudità completa. Lo spazio che hanno a disposizione non è certo paragonabile a quello di un grande palazzo e in generale le forze per ricostruire ciò che di Garreg Mach è stato distrutto si sono concentrate altrove, rendendo il tutto molto più spartano di un tempo. Però svolge la sua funzione e tanto basta.


Dimitri non chiede se l'acqua sia calda o meno; Byleth immagina che nel suo vagare come un fuggitivo abbia smesso presto di concedersi il lusso di un bagno caldo o con sali e oli pregiati. Per questo ne intuisce la sorpresa quando con le gambe entra nella vasca e poi, lentamente, si immerge: l'acqua non è bollente, ma Byleth si è assicurato che risultasse almeno piacevole e calda abbastanza da rilassare i muscoli. E' consapevole, tuttavia, di avere l'attenzione di Dimitri sui propri movimenti nonostante l'altro gli dia in parte le spalle. Eppure, quando Byleth immerge solo le gambe fino al ginocchio, Dimitri si volta a guardarlo confuso.


In un primo momento lui ignora quella sua confusione. Arrotola con calma le maniche fino al gomito e solo poi incontra lo sguardo dell'altro: c'è un muto quesito nell'unico occhio azzurro che può vedere, ma Byleth non offre alcuna risposta a voce. Si limita a muoversi con lentezza per sistemarsi alle spalle di Dimitri, seduto sul bordo e con le gambe allargate, perché il principe possa stare tra esse e facilitargli il compito. Lo vede irrigidirsi e sa che ha compreso le sue intenzioni - lavarlo, non perché futuro re ma perché possa avere un momento di pace. Almeno lo spera.


Byleth immerge le mani nell'acqua, ai lati del corpo altrui. Si assicura di scaldarle, consapevole di una temperatura corporea non elevatissima. La prima cosa che fa è spostare la chioma bionda di lato, scoprendogli una delle spalle e la parte superiore della schiena. Vedere delle cicatrici non lo stupisce: Dimitri ha smesso di essere un principe da rinchiudere e proteggere dentro le mura di un castello molto presto - troppo presto - e di certo non può esserlo diventato dopo. Ognuna di esse potrebbe essere considerata da alcuni soldati o dai mercenari una medaglia al valore, Byleth lo sa bene perché è cresciuto tra loro e si ricorda le frasi che sentiva dire da bambino e che ha capito del tutto solo diventando grande: se hai una cicatrice vuol dire che qualsiasi cosa dovesse o volesse ucciderti, non c'è riuscita.


Ne sfiora una con le dita e sente Dimitri rabbrividire impercettibilmente sotto il suo tocco. Non batte ciglio, però, recuperando uno dei panni puliti a disposizione vicino al bordo della vasca per immergerlo nell'acqua fino ad averlo completamente zuppo. Lo strizza un poco, prima di portarlo sulla spalla destra dell'altro e passarlo lentamente sulla pelle chiara. Non sfrega per nulla, lasciando che il panno sia come una carezza piena, lenta a lenire ferite che non si vedono e che non hanno nulla da spartire con quelle già cicatrizzate.


Per un tempo abbastanza lungo non ci sono suoni a riempire l'aria se non quello dell'acqua ogni volta che Byleth immerge il panno e del gocciolio che ne consegue quando lo tira fuori strizzandolo. Sono due persone troppo silenziose per poter essere quelle che si preoccupano di evitare si creino momenti come quello - forse un tempo Dimitri lo avrebbe fatto, avrebbe messo a proprio agio chiunque con la cordialità, ma questo Dimitri non ne ha le forze. A Byleth sta bene così, non sente il bisogno di avere qualcosa di cui parlare. Gli è sufficiente prendersi cura di lui in un modo simile a quello con cui ogni tanto passava il tempo con Jeralt, nel condividere spazi e momenti a loro modo intimi. Anche se Dimitri di certo non è suo padre.


«Perché lo stai facendo?» domanda proprio il principe, a bruciapelo. Byleth ne è abbastanza sorpreso ma non lo dà a vedere, aiutato dal fatto che l'altro gli dia le spalle, né ferma il movimento della mano. Con calma passa di nuovo il panno sulla schiena e risale appena, verso il collo, rigido come se Dimitri si aspettasse di essere assassinato lì e ora, dove "lì" è ovunque e "ora" è in qualsiasi istante. Anche e soprattutto quando meno si può prevedere.


Soppesa per qualche attimo le parole con cui potrebbe rispondere: Sothis avrebbe sicuramente diversi consigli da dargli, tutti molto altisonanti o consolatori, adatti a prendersi cura di un animo umano che si conosce bene. Ma Byleth, per quanto possa essere migliorato rispetto a quando era un ragazzino in apparenza senza emozioni, non è ancora capace di sondare gli animi degli altri in quel modo e di poter quindi capire come dar loro sollievo con ciò che preferirebbero sentirsi dire. L'unica freccia al suo arco è la sincerità, nel bene e nel male.


«Perché ne hai bisogno.» replica soltanto, vedendo l'altro girarsi per guardarlo da sopra la spalla. Riconosce sul suo viso l'espressione allarmata di chi è stato colto in fallo e non può concederselo, o più semplicemente non può sopportarlo. Perciò mantiene quel contatto visivo, ferma la mano e il panno bagnato contro il collo dell'altro, solo per dirgli: «Nemmeno per i mercenari la guerra riempie ogni secondo, Dimitri.» lo chiama per nome, per aggiungere valore alle proprie parole. O, forse, solo per ricordargli che prima di essere un assassino, un principe caduto, un fuggitivo, una testa desiderata dai suoi nemici... è un uomo. Una persona. Qualcuno a cui hanno strappato tutto, fatto un buco nel cuore e lasciato lì a spirare a terra senza colpo di grazia. Sarebbe facile per Byleth descriverlo così, per assicurarsi che il suo ex studente comprenda; lo farebbe, se fosse sicuro di fargli del bene in quel modo.


«La guerra non aspetta che nessuno si faccia un bagno, se è per questo.» quasi lo ringhia, Dimitri, pieno di rabbia e di rancore. Byleth non sa se qualcuno saprà mai cancellarli. Se Dimitri concederà a se stesso di lasciarli sopiti, se non altro.


«E' vero.» conviene con lui, posando il panno di lato lì sul bordo dove lui stesso siede. Porta entrambe le mani ai lati della testa altrui, le fa scivolare lentamente sul suo viso, guidandolo piano a inclinare il capo all'indietro. Avverte una certa esitazione all'inizio, ma poi Dimitri muove la testa fino a quando non possono guardarsi e i capelli biondi sono sparsi sulle gambe di Byleth. Lo osserva, scrutandolo alla ricerca di risposte che sul viso altrui sono troppo nascoste ancora. Scosta una mano solo per portarla a spostare una ciocca, poi un'altra e un'altra ancora, fino a scoprire il viso nella sua interezza. E' solo un attimo, ma gli sembra di intravedere l'accenno di un po' di colore sul viso di un uomo che per lui - fino a poco tempo fa - è stato quello di un ragazzo. Eppure ritrova in lui il Dimitri che ricorda, in tutto e per tutto: cresciuto, temprato, ferito.


L'unico occhio visibile è limpido, più pieno di vita di quanto lo stesso Dimitri possa credere. Ed è in quel momento che Byleth si concede un sorriso lieve, senza quasi rendersene conto. Un incurvarsi di labbra che gli ammorbidisce i lineamenti e a cui Dimitri reagisce mostrando una sorpresa genuina. Byleth allontana la mano, la immerge tenendola a coppa per raccogliere un po' di acqua, e con attenzione gliela riversa sui capelli attento a non mandarne sul viso.


Vede Dimitri rilassarsi piano, non del tutto forse, eppure è una piccola vittoria; anche quando lo guarda come se si sentisse perso, ormai disabituato nell'affidarsi a qualcuno, tanto da fargli chiedere quanto realmente profonda sia, quella voragine che gli hanno scavato nel petto.


*


«A cosa pensi?»


La voce di Dimitri lo coglie di sorpresa, distogliendolo dai propri pensieri. Ritrova il suo viso sporcato dal sonno, ma anche da un sorriso lievissimo, un risultato immenso che in più momenti Byleth ha pensato non avrebbe raggiunto mai. Di essere arrivato troppo tardi, anche quando a lui sembrava di non essersene andato mai.

 

«Stavo pensando a quando ti ho aiutato a lavare i capelli la prima volta.» replica, sincero, riconoscendo quasi subito il mutare dell'espressione altrui in un vago accigliarsi che non è altro se non un imbarazzo che una volta si sarebbe tradotto in uno sguardo sfuggente e un tono di voce più basso. Quel ragazzo è ancora lì, Byleth lo vede molto più spesso di quanto si possa credere. Anche in piccoli gesti, come sentire la mano di Dimitri posarsi sul suo fianco con l'esitazione di chi non pensa di poter osare tanto; così lui l'asseconda, avvicina il corpo al suo. Se il regno sapesse di quella loro vicinanza ci leggerebbe senz'altro della malizia - eppure Byleth non avverte in Dimitri il desiderio di un corpo, ma più quello di una vicinanza, di un conforto. E' come se riuscisse a ricordarsi di com'era solo nell'intimità di una stanza e di un abbraccio. Byleth non può dire di comprenderlo appieno: ha dato pochi abbracci nella sua vita, quasi tutti senza riconoscerne il peso e il significato, mentre i rari casi in cui l'ha fatto sono stati troppo tardivi.

 

Però, nel suo piccolo, sente che la vicinanza è qualcosa che fa bene a entrambi: anche senza un nome, un'ufficializzazione. Gli basta dare quell'abbraccio, sentire Dimitri rilassarsi nel calore di un'altra persona e sentirlo vivo.


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Prompt: taboo
Missione: M2 (week 5)
Parole: 924
Rating: teen up
Warnings: linguaggio scurrile






«Ve lo dico subito: i parenti non stanno in squadra insieme, non mi fate incazzare.» mette subito in chiaro Elias, fissandoli male uno per uno, soffermandosi - per la sorpresa di nessuno - su Irina mentre lei apre bocca per lanciare una frecciatina (perfettamente udibile): «Non è colpa sua, è che nessuno gli ha insegnato a perdere.»


Se uno sguardo potesse fulminare - o se, semplicemente, Elias fosse un ability user - Irina sarebbe già carbonizzata.


«No è che avete i cazzo di sensi di ragno.»

«Ma in questa stanza esiste qualcuno non imparentato?» fa eco Reizo, che ha già reso chiaro di non voler prendere parte al gioco. Pentendosene quando il suo disgustoso fidanzato ne ha approfittato per dargli un bacino sulla guancia e rivolgergli un aw, Reichan puoi fare il tifo per me allora.


«Io direi di farli semplicemente a estrazione.» propone Yvan, mentre Elias guarda taboo aperto e pronto per essere giocato lì, sul tavolino «Io direi che Leon gioca col cazzo, lui e il suo essere un mind reader di merda.» aggiunge Elias prima di cominciare a fare i foglietti per l'estrazione dei nomi - nessuno ha il coraggio di dirgli che la tecnologia potrebbe andargli incontro con un apposito sito internet per fare quella stessa estrazione senza sprecare della carta. E’ già tutto abbastanza difficile così.


*


Tatsuya deve ammettere che, in fondo, non è davvero colpa di Elias. Probabilmente se avesse fatto questo stesso gioco con la vecchia organizzazione gli sarebbe partito un embolo dopo un solo giro - o avrebbe dato fuoco alle carte di taboo per eliminare il problema alla radice.


L'estrazione, come spesso rischia di far accadere, ha creato non tanto squadre sbilanciate ma assolutamente inabili alla cooperazione o - nel peggiore dei casi - con membri non in grado di sopperire l'uno alle difficoltà dell'altro. Se da una parte Tatsuya si pregia di essere un chiaro esempio di uomo che sussurra ai cani e dunque, per estensione, Yvan e il suo impiegare secondi preziosi solo a cercare di capire quale parola deve far indovinare e quali non può pronunciare, ricontrollando la lista miliardi di volte sono gestiti dalla velocità e dall'intuizione del giapponese... purtroppo all'altra squadra è andata peggio.


Tatsuya, infatti, riesce a immaginare una sola coppia che sarebbe potuta essere potenzialmente peggiore di Elias e Rikiya ed è da ricercare nelle sue discutibili compagnie giapponesi, quelle a cui cerca di non pensare perché l'esplosione del fegato a poco più di trent'anni non se la merita - potrà non aver fatto una vita esemplare, ma c'è un limite a tutto. E' come vedere un barboncino incazzato (Rikiya) cercare di abbaiare contro un alano (Elias) per farsi valere. Mentre indietreggia, però.


«Dunque... lo puoi mangiare!»

«Tutto tranne la merda, nel mio caso! Ti sembro un cazzo di chef stellato?!»


Non c'è stato un solo giro di gioco che non sia andato più o meno così. Tatsuya vorrebbe restare impassibile ma la verità è che Irina sta per cappottarsi dal divano e questo glielo rende estremamente difficile.


«Non posso dire tutto quello che te lo farebbe capire!» si difende Rikiya, guardando febbrilmente il cartoncino con l'elenco di parole come se dovesse prendergli fuoco tra le mani, lasciandolo ferito a morte. In effetti Tatsuya si rende conto che è davvero cattivo far capitare "escargot" a quei due: da una parte Rikiya il cui inglese è già il minimo sindacabile per interagire con i presenti in casa - per quanto stia innegabilmente migliorando -, dall'altra Elias... che potrebbe aver mangiato le lumache, sì, ma prese in direttissima dall'albero e non certo per aver visitato un ristorante francese.


«Allora strisciano!»

«La biscia!»

«Hai mangiato una biscia?! CHE SCHIFO, MI OPPONGO.»

«Se ho sbagliato non perdere tempo e dimmi altro!»


Perché, è chiaro, stetoscopio due carte prima è stato immediatamente passato per il bene di tutti i presenti e questo implica, ora, non poterlo più fare mentre il tempo nella clessidra scorre inesorabile.


«Sono... urgh... viscide! Con la casa!»

«Le lumache!»

«Sì, ma dillo diverso!»


E questo, osserva Tatsuya mentre gli scappa uno sbuffo divertito dal naso, è il momento in cui vede con estrema chiarezza la pazienza di Elias spezzarsi in modo definitivo. A difesa di Rikiya, non è mai stata molta... per quanto sia migliorato negli anni. La leggenda narra che l'Elias quindicenne lo avrebbe reso tappezzeria per il soggiorno molto prima.


«Che cazzo vuol dire diverso?!» sbotta infatti il biondo, gli occhi verdi fissi su Rikiya come se ormai non vedesse più né il tabellone, né le carte, né altro se non chi lo sta facendo impazzire su una semplice parola.


«In un'altra lingua!»

«Sono un cazzo di illetterato che sa leggere e scrivere solo perché Freyr me l'ha insegnato e io avevo gli ormoni impazziti abbastanza da ascoltarlo, che cazzo di lingua vuoi che conosca oltre quella che parlo?!»

«Eeee stop.» decreta Tatsuya, deciso a salvare Rikiya prima che sia troppo tardi - ossia prima che Elias faccia il giro del tavolo o peggio: lo scavalchi. Da uno che a quindici anni ancora mangiava con le mani, ci si aspetta di tutto. La clessidra rimanda indietro a tutti loro (giocatori e spettatori) la desolante immagine di un tempo scaduto. Mai desolante quanto l'unico punto fatto dai due, in ogni caso.


Nel frattempo Irina, sulla poltrona più vicina al camino, potrebbe star avendo qualche difficoltà respiratoria a forza di ridere. Lo aveva detto, d’altronde, di preferire taboo da osservatrice. Tatsuya non fatica a comprenderne il perché, mentre Elias lancia una bestemmia che risuona in tutta casa Sievert nel leggere dal cartoncino la parola che avrebbe dovuto indovinare.

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Prompt: la U
Missione: M3 (week 5)
Parole: 2671
Rating: teen up
Warnings: linguaggio scurrile






Nel rientrare in casa Midoriya non si aspetta di sentire la voce di Bakugo sbraitare. Non perché lui non lo faccia, e gli epiteti molto spesso irripetibili che gli escono di bocca sono suoi vecchi amici da ben più di metà della sua vita ormai; semplicemente, era certo di aver letto dalla lavagnetta magnetica in cucina chi fosse impegnato con cosa durante il giorno e che Katsuki fosse fuori per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Ritrovarlo quindi ora, appena passata l'ora di pranzo, e non del migliore degli umori gli fa inarcare un sopracciglio perplesso proprio mentre la figura di Shinsou esce dalla cucina e si ferma a metà del corridoio d'ingresso, notandolo.


Si scambiano uno sguardo e, come se Izuku avesse posto una domanda ben precisa, Shinsou scuote la testa e sillaba: pulizie. Per quanto questo non spieghi al cento per cento di cosa si stia parlando, gli dà comunque un'idea piuttosto specifica, giusto mentre dalla direzione delle camere da letto la voce di Bakugo esplode con un: «Ti metto per cappello questo cazzo di cestino, faccia di merda!»


Izuku sospira, liberandosi delle scarpe da ginnastica e assicurandosi di metterle nell'apposita scarpiera - non serve davvero scatenare ulteriormente l'altro - prima di entrare a tutti gli effetti. Gli ci vogliono pochi passi per raggiungere Hitoshi, ancora fermo dove lo ha visto poco prima e con lo sguardo rivolto verso il lato del corridoio che porta al salotto, tramite il quale poi si può accedere alle altre stanze del loro appartamento condiviso. Una volta che sono vicini abbastanza, Izuku lancia uno sguardo generico in quella direzione prima di abbassare la voce nel pronunciare un «C'è anche Shouto?» abbastanza scontato, senza però ricevere risposta. Aspetta, osserva Hitoshi... e poi lo vede girarsi e fissarlo a sua volta, quasi fosse in attesa di qualcosa. E' solo in un secondo momento che lo vede avvicinare una mano all'orecchio e toglierne quello che è indiscutibilmente un tappo.


«Scusa, mi hai chiesto qualcosa?»


*


All'inizio è stato complicato da così tanti punti di vista che, se avesse dovuto scommettere, Izuku lo avrebbe fatto solo in favore della catastrofe. In genere si considera un ottimista, a modo suo - dopo molte analisi, molti appunti, molti ragionamenti -, ma le variabili erano davvero troppe. Ci sono voluti anni già solo perché lui e Katsuki riuscissero finalmente a parlarsi con chiarezza, ad avere un rapporto "pulito" e non fatto di sentimenti inespressi. Sebbene non abbiano mai davvero smesso di rispettarsi, è stato come dover imparare di nuovo e ci è voluto tempo, questo Izuku lo sa bene. Così come non è stato facile andare oltre senza temere di spezzare un delicato equilibrio che poteva finire in frantumi in un secondo. Figurarsi se, poi, i sentimenti per Katsuki erano esplosi mentre la sua relazione con Shouto andava com'è sempre andata: bene. Nessuna crisi a cui imputare un cambiamento del genere, nessun cambiamento, in effetti.


Riconoscere nei confronti di Bakugo sentimenti uguali a quelli provati per Shouto ha avuto un effetto devastante sui suoi nervi fino a che Shinsou non è arrivato in suo soccorso senza neanche saperlo.


Izuku si ricorda ancora il momento in cui Shouto gli ha detto, mentre erano di pattuglia per la città: «Mio padre e mia madre sono riusciti a stento ad amarsi tra di loro nella maniera giusta. Pensi che si possa riuscire con più di una persona nello stesso modo?» con quella sua capacità di restare in silenzio anche per ore e poi, all'improvviso, sganciare una bomba del genere con la naturalezza di chi aveva appena fatto un'osservazione su come la pioggia effettivamente bagni il terreno su cui cade.


Si ricorda bene di aver quasi mancato un appoggio su un palazzo, per dirne una.


«Per stesso modo... intendi come intensità?»

«Sì.» si è sentito rispondere in quell'occasione, ritrovandosi a guardare il profilo di Shouto una volta fermi in attesa di comunicazione dall'agenzia. Izuku si ricorda di aver visto la stessa serietà che chiunque vedeva nel viso di Todoroki eppure, per tutti gli anni passati a conoscersi prima, a essere amici poi e una coppia da dopo il diploma... Izuku non sarebbe riuscito a ignorare nemmeno volendo quella piccola sfumatura nello sguardo dell'altro. Una punta di incertezza, quasi di colpevolezza, ma anche la determinazione di chi di mentire non ne aveva mai voluto sentir parlare davvero.


Così, quella volta, Izuku non ha potuto fare altro che dirgli l'unica cosa possibile che fosse anche la verità: «Non lo so. Ma se ci rifletto, una risposta deve esserci per forza.» cercando di sorridergli perché almeno la colpevolezza, a qualunque cosa fosse dovuta, sparisse.


*


Izuku ci ha pensato così tanto che, alla fine, si ricorda di aver chiesto a Shouto di approfittare di una sera insieme senza essere di turno per parlarne. Se c'è una cosa di lui che Izuku non pensa dimenticherà mai, è la fragilità di quando Shouto gli ha detto: «Si tratta di Hitoshi. Non so perché.» perso come un bambino, incapace di sbrogliare una matassa di sentimenti troppo complessa per lui, riuscendo a tirarne fuori solo quelli che forse chiunque sentendolo si sarebbe aspettato di vedergli provare.


Eppure forse proprio la semplicità con cui Shouto ha approcciato quella questione ha reso più semplice anche per Izuku comprendere e aiutarlo a propria volta. A rifletterci oggi immagina sia anche e soprattutto merito di Shouto se ammettere a se stesso di poter amare due persone contemporaneamente gli è risultato più facile di quanto sarebbe mai potuto essere altrimenti. Ascoltarlo parlargli di Shinsou e di come lo faceva sentire ha permesso a Izuku di vedere il bello senza leggervi dietro un tradimento o la fine di qualcosa di guadagnato con fatica - non perché capire di amare Todoroki fosse mai stato difficile, ma perché Shouto e l'affetto per se stesso sono stati due concetti difficilissimi da affiancare, qualcosa su cui Izuku ha avuto un potere molto limitato e che per il resto è stato una questione a cui solo lo stesso Shouto ha potuto mettere mano.


Ogni tanto, riflettendoci, Izuku pensa di saper collocare abbastanza bene il momento in cui ha compreso che non avrebbe mai potuto privare Shouto di quel sentimento nei confronti di Hitoshi: non soltanto perché non crede avrebbe mai potuto avere un egoismo forte abbastanza da incatenare Shouto con il senso di colpa affinché rimanesse solo ed esclusivamente con lui, ma anche perché una frase di Todoroki lo aveva inchiodato lì sul divano. Non per pietà, né per senso del dovere; eppure sentirgli dire: «A volte è difficile credere di avere te. Quindi non so se è arrogante pensare di avere anche un'altra persona.» aveva fatto stringere il cuore di Izuku a tal punto che non sarebbe mai davvero riuscito a liquidare con leggerezza la questione.


Per questo li ha osservati a lungo. Shouto e Hitoshi durante gli anni della U.A. erano stati studenti distanti prima e buoni collaboratori poi, compagni capaci di godersi il silenzio l'uno dell'altro senza avere - in apparenza - bisogno di riempirlo. Izuku ricorda di averli notati insieme in più di un'occasione, di averli visti condividere momenti anche complici. Eppure nemmeno oggi saprebbe dire se ci sia mai stato un giorno in cui avrebbe dovuto notare qualcosa e pensare "Hitoshi lo guarda in un modo che non ha niente da spartire con l'amicizia o la complicità tra compagni di scuola". Forse sono stati tutti troppo impegnati a crescere a perseguire il sogno di essere Eroi, per avere abbastanza attenzione o interesse verso altri ambiti come le relazioni tra loro. C'è a chi sono venute molto naturali e chi, invece, ha dovuto aspettare di essere fuori dalle mura scolastiche per capirle appieno e notarle. Non solo romantiche, ma proprio tra esseri umani.


A volte Izuku si ricorda di una delle prime volte in cui ha parlato con Shinsou dopo che Shouto ha cominciato a frequentarlo. Seduti sulla panchina di un parco piuttosto lontano dal centro, così da offrire loro un po' di privacy senza essere per forza riconosciuti, Izuku si è chiesto cosa ne pensasse Hitoshi del loro essere lì non solo come amici, ma come entrambi parte di una relazione con la stessa persona senza essere attratti tra di loro.


Non pensa sarà mai in grado di dimenticare il tono placido di Hitoshi quando gli ha detto: «Durante la guerra e gli anni dopo, ho avuto la sensazione che fossimo diventati Eroi ma avessimo perso un po' di quello che ci rendeva umani. Todoroki mi ricorda che, invece, sono ancora una persona.»


E in quell'istante Izuku ha capito che non avrebbe mai potuto togliere questo a nessuno dei due.


*


La camera da letto - o meglio, la soglia che la divide dal breve corridoio che la collega al salotto - gli offre lo spettacolo di Bakugo con una pila di mutande in mano e Todoroki intento a raccogliere calzini da un lato del letto. La guest star è un paio di boxer che Bakugo gli ha appena lanciato in testa con l'intento di fargli più male possibile... non fosse che le mutande non sono esattamente un'arma impropria, ma Izuku decide saggiamente di tenerselo per sé.


Il tutto è accompagnato dal borbottio di Bakugo, un sottofondo che Izuku sente definire a Hitoshi con un ironico «Cosa abbiamo per cena? Brodo di pesce?»


Ci mette un po' a capire che si riferisce al bollire del brodo stesso, aiutato dallo sbuffo di una risata da parte di Shouto. Non può vederlo in viso ma stanno insieme da quasi sei anni e ormai per Izuku è difficile farsi sfuggire quel tipo di reazioni - così come ha avuto modo di notare un umorismo particolare in Shinsou, che crede sia stato fortemente influenzato da Monoma, capace non si sa bene come di far ridere l'altro.


Purtroppo la capisce anche Bakugo, il cui sguardo si posa repentino su Shinsou come se dovesse fargli esplodere la faccia: «Non cucino per chi non sa tenersi a posto la sua roba, te e quell'altro ve ne potete pure andare a fare in cu-»

«Kacchan!» richiama Izuku con un mezzo sorriso e una mano a posarsi sul braccio altrui, l'espressione di chi vorrebbe tacitamente chiedere una tregua. Katsuki lo guarda, aggrottando le sopracciglia così tanto che Izuku teme stia ponderando di far saltare in aria pure lui in onore dei cari, vecchi tempi. Alla fine però lo nota abbassare lo sguardo sulla mano di Izuku e poi borbottare di nuovo qualche maledizione piuttosto colorita, sfuggendo al suo tocco e piegandosi per raccogliere l'ultimo indumento superstite sul pavimento.


Izuku occhieggia invece Todoroki e Shinsou, cercando di non ridere mentre il secondo toglie le mutande dalla testa di Shouto, facendo cenno a entrambi verso il soggiorno; li osserva scivolare via in silenzio proprio mentre Katsuki poggia gli indumenti recuperati sul letto. Lo affianca, sottraendogli un paio di boxer per piegarli e sistemarli alla propria sinistra, decidendo arbitrariamente di impilarci gli altri man mano. Lavorano in silenzio per qualche momento, prima che Izuku riconosca il movimento delle spalle di Bakugo finalmente più rilassate, sapendo di potergli quindi parlare con calma.


Sono piccoli aspetti che solo la quotidianità gli ha offerto. Katsuki lo ha approcciato con il solito fare brusco quando la relazione con Shouto aveva ormai incluso Shinsou nell'equazione. Izuku ci ha messo un po' a capire perché la presenza di Hitoshi sembrasse disturbare così tanto Katsuki - al di là dei loro battibecchi dai tempi della scuola, troppo diversi per coesistere in modo pacifico ma entrambi troppo intelligenti per non rispettarsi a vicenda e riconoscere l'uno il valore dell'altro. Ci sono voluti mesi per tirare fuori di bocca a Bakugo tutto quello che la vista di Shouto e Hitoshi gli causava: rabbia perché sembrava sleale nei confronti di Izuku; invidia per non aver mai detto a Izuku di volerlo nello stesso modo in cui lui sembrava volere solo Todoroki; irritazione generale, senza che ci fosse un bersaglio preciso, la ricaduta di un veleno sempre avuto lì a strisciargli sotto la pelle in qualche modo.


Ora sono l'uno di fianco all'altro, a piegare i boxer di Todoroki Shouto. Izuku non riesce a tenere per sé uno sbuffo divertito: avranno pure ventiquattro anni, ormai, eppure in piccoli e sciocchi aspetti della quotidianità come quelli si sente ancora un ragazzino con grandi sogni e una camera nei dormitori della U.A.


«Che hai da ridere.» lo accusa Katsuki, senza nemmeno guardarlo. Izuku scuote appena la testa, ma fa anche un passo di lato per accostarsi a lui, stando ora quasi spalla contro spalla.

«Pensavo tornassi più tardi, oggi.» osserva lui con fare casuale, come se non avesse colto la sua frase. Sente Katsuki far schioccare la lingua contro il palato in un verso stizzito, prima che pronunci un: «Invece no. E meno male.» con un cenno piuttosto plateale a quello di cui si stanno occupando.


Izuku si lascia scappare tra le labbra un ridacchiare leggero, ma si muove anche per dargli un bacio sulla spalla, di quelli casuali e affettuosi di chi ha passato il periodo della passione ormonale senza freni e ha trovato la calma di una condivisione giornaliera, l'equilibrio di sentimenti rincorsi per troppo tempo prima di avere finalmente un momento di pace.


Katsuki lo fissa, si china in modo quasi impercettibile per sopperire a quei pochi centimetri di differenza tra loro e, senza tante cerimonie, gli dà un bacio sulle labbra; passa un braccio intorno ai suoi fianchi e se lo tira addosso, pretendendolo in quel modo che a occhi esterni sembra quasi fuori luogo a volte, ma in cui bisogna anche saper leggere.


Izuku, meglio di altri, vede il bello.


*


«A ogni modo» pronuncia Shinsou mentre sono al tavolo per mangiare «pare vi abbiano fotografato.» commenta con il tono di chi ha appena detto accidenti, mi hanno cambiato il turno di ronda di domani.


Il tavolo vede calare il silenzio e tre paia di occhi posarsi su di lui. Quando si accenna ai paparazzi è sempre un problema capire chi abbiano fotografato con chi. Izuku e Todoroki? Izuku e Bakugo? Todoroki e Shinsou?


«Tu» indica Katsuki «e tu.» aggiunge spostando il dito verso Shouto prima di portare con eleganza le bacchette alla bocca, insieme al suo boccone di karaage. Izuku lo vede masticare con tutta la calma del mondo, la stessa che manca a Bakugo, lì a vibrargli di fianco: «Mi hanno anche chiesto se pensavo ci fosse qualcosa di - come hanno detto? - esplosivo che volessi commentare su di voi.» conclude, rivolgendo un sorrisetto a Bakugo.


Katsuki apre bocca per dire qualcosa eppure, a sorpresa, è Shouto a parlare; o meglio, Izuku lo vede muovere il braccio sotto il tavolo con discrezione e indovina facilmente che stia prendendo la mano di Hitoshi a giudicare da come ricerca anche il suo sguardo prima di chiedergli: «Tutto ok?» come se temesse di vedere l'altro perdere la pazienza. Come se avesse già chiesto troppo quando gli ha detto di amare Izuku esattamente come ama lui, vedendolo accettare la situazione.


Hitoshi si scioglie in un sorriso più morbido, accostandosi quanto necessario a posargli un bacio sulla guancia. Izuku ha sempre trovato molto tenero il modo in cui Shinsou si rapporta a Todoroki. Non che non abbiano la loro intimità, esattamente come lui ce l'ha con Katsuki, eppure è una dolcezza diversa quella che nota nei suoi gesti. Anche se non si è mai soffermato a parlarne con i diretti interessati, tenendo semplicemente quella considerazione per sé.


«Tutto ok.» gli conferma Hitoshi «Sarebbe stato peggio se mi avessero chiesto da quanto dura la passionale relazione tra me e Dinamitardo-san.» commenta, in un'evidente presa in giro ai danni di Katsuki.


Bakugo si esprime in un'espressione di colorito disgusto, mentre una mano mima un dito in gola e un inequivocabile verso accompagna il tutto. Prima di poterselo impedire Izuku scoppia a ridere, mentre vede Hitoshi trattenere un sorrisetto sghembo prima di tornare al suo karaage e Shouto guardare proprio lui - Izuku - con la stessa adorazione di quando avevano quasi diciotto anni e Shouto gli ha detto mi piaci.
hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tutti dentro
Missione: M4 (week 4)
Parole: 10070
Rating: mature
Warnings: omegaverse, mention of drugs, mental health






«Scusa in che senso sei in aeroporto a vedere se c'è posto all'ultimo secondo su un volo per New York?» sente chiedere dall'altro capo del telefono, la voce di Hanamaki sconvolta. Iwaizumi non crede di potergli dare torto. Si mantengono in contatto per lo più via messaggio, lui, Hanamaki e Matsukawa; da quando la vita li ha portati su strade diverse è stata l'unica scelta possibile. Una volta avevano una chat di gruppo, poi Oikawa è sparito e hanno smesso di usarla. Hanamaki e Matsukawa hanno avuto la maturità e il buon senso di abbandonare il gruppo, dopo mesi di inattività. Lui è ancora dentro, mentre la chat è finita - inesorabile - in fondo all'elenco di conversazioni attive.


Per un attimo, Hajime pensa di dare una risposta; poi si rende conto che sarebbe del tutto inutile. Se c'è qualcuno che ha chiamato prima del posto di lavoro per chiedere dei giorni di permesso, quelli sono stati gli unici altri due che avrebbero potuto avere informazioni su quell'imbecille. Se nemmeno Hanamaki ha idea di cosa stia parlando quando gli sente nominare New York, non ha nemmeno senso aspettarsi che sappia di Oikawa più di quanto sappia Iwaizumi stesso - nulla. Da dieci merdosi anni.


«Mi hanno chiamato, ne so quanto te.» commenta con una nota rabbiosa che per un istante sembra farli tornare agli anni del liceo, in cui Oikawa lo faceva incazzare un giorno sì e l'altro pure. Se non altro, all'epoca, Hajime sapeva sempre dov'era: «Senti, mi affaccio al desk della compagnia. Vi scrivo appena ci capisco qualcosa.» afferma, non per tagliare corto ma è già un miracolo quello che sta cercando di compiere senza rimettere tutto lo stipendio in biglietto aereo, farlo con una mano occupata dal cellulare non è utile.


Sente Hanamaki sospirare rassegnato dall'altra parte e vorrebbe fare lo stesso.


«Va bene, ma almeno scrivi anche quando stai partendo e quando atterri, okay? Numero di volo, anche. Non sparire nel nulla anche tu, per favore. A Mattsun prende un infarto sul serio, stavolta.» pronuncia Hanamaki, facendogli se non altro abbozzare un sorriso non visto.


*


Iwaizumi deve ringraziare il suo lavoro per averlo portato a dover approfondire l'inglese per studio prima e per mansione poi, perché altrimenti atterrare su suolo americano e passare i controlli sarebbe stato un inferno peggiore di quello che si è comunque rivelato - problema principale: non aver chiuso occhio per quasi tutte e dodici le fottute ore di volo. O quante sono state, a un certo punto lo schermo sul corridoio tra una fila di posti e l'altra continuava a dire "state sorvolando l'oceano" e Hajime ha seriamente pensato di essere finito in un loop spazio-temporale.


Una volta ritirato il bagaglio gli ci è voluto un po' per focalizzare in quale direzione guardare alla ricerca dell'uomo con cui ha parlato e che si è proposto di andare a recuperarlo in aeroporto. Digita un messaggio veloce per Hanamaki, certo che lo girerà direttamente a Matsukawa; nel rialzare lo sguardo, intravedere un foglio con il proprio cognome, tenuto in mano da un uomo che non avrà più di una cinquantina d'anni. Quello lo adocchia e, quando Hajime si sta ormai dirigendo inequivocabilmente verso di lui, si vede rivolgere un sorriso amichevole e un cenno della mano.


«Hajime Iwaizumi?» domanda, con quell'abitudine straniera di dire prima il suo nome e poi il cognome, a cui Hajime dubita si abituerà mai. Annuisce comunque, rivolgendogli un inchino prima di poterci riflettere e tornando dritto quando ormai è fatta, per offrirgli la mano da stringere. L'altro non sembra toccato da quel saluto di certo per nulla usato in America e non perde tempo in convenevoli. Gli si presenta come Raymond Evans, lo stesso che lo ha contattato telefonicamente facendogli perdere più anni di vita di quanti Hajime fosse disposto a lasciar andare così presto. Evans lo guida verso l'uscita dell'aeroporto con qualche domanda classica e chiacchiera di poco conto - com'è andato il viaggio? Deve essere stanco. Una macchina privata li aspetta fuori. E' tutto già sistemato per il suo soggiorno, vista la difficoltà della situazione.


La situazione, come l'ha definita anche al telefono, innervosisce Hajime in un modo indescrivibile. Nonostante questo, lo segue fino a salire sull'auto, anche se la sua schiena implora pietà e vorrebbe che stesse in piedi per almeno mezz'ora anziché prendere la forma dell'ennesimo sedile.


A giudicare dal fatto che Evans non specifichi a chi guida la direzione da prendere, Hajime suppone si tratti di qualcuno che lavora con lui. Per quanto lui vorrebbe essere più gentile possibile, né la stanchezza né la preoccupazione del poco che è riuscito a evincere dalla loro telefonata glielo permette. Gli toccherà essere la vergogna della propria patria per i prossimi due minuti.


«La chiamata che mi ha fatto,» prende quindi il discorso, senza girarci così tanto intorno «ha detto di avermi chiamato perché ero il numero di emergenza di...?»

«Tooru Oikawa.» risponde prontamente l'uomo «Sono sicuro la cosa l'abbia sconvolta abbastanza.» aggiunge, anche se Hajime vorrebbe dirgli che non ne ha la minima idea. Il numero su cui Evans lo ha contattato - l'uomo non può saperlo - è rimasto attivo solo perché lui è un idiota sentimentale. Risale agli anni del liceo, cambiato dopo l'università quando si è reso necessario averne uno per il lavoro. Solo che alla fine il telefono su cui lo hanno contattato i suoi colleghi e i suoi capi è diventato quello tenuto sempre acceso, sempre sotto carica, e per evitarsi il tedio di doversi preoccupare di due cellulari, Hajime ha semplicemente unito l'utile al dilettevole girando il nuovo numero a tutti. Tooru compreso.


Lo stronzo, però, era già sparito e non ha mai risposto né mandato un messaggio. Così Hajime aveva dato per scontato che volesse comunque uscire del tutto dal loro giro - o dalle loro vite. Dopo l'ultimo anno di università senza sentirlo, per non parlare dei primi due dopo aver trovato un lavoro e quando persino la madre di Tooru non era più in grado di dire a Hajime dove fosse finito suo figlio... si è arreso. Che altro avrebbe dovuto fare?


La storia che si racconta Hajime sul non aver disattivato il vecchio numero è che non avrebbe dato problemi a nessuno seppure fosse rimasto attivo. Forse ha solo lasciato una inutile scappatoia ai silenzi di Oikawa, ritrovandosi invece dieci anni dopo con una chiamata dall'altra parte del mondo a dirgli che era un numero di emergenza. Non i genitori di Tooru, non qualche amico o collega con cui se non altro parla. Nessuno, tranne Iwaizumi.


«Mi dica, signor Iwaizumi,» Evans lo distrae da quei pensieri, portandolo a sbattere un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco «lei cosa sa della compagnia Cleyster?» si sente domandare a bruciapelo. Deve fare un immenso sforzo mentale per non cedere a tutta la stanchezza che ora, nel tepore della macchina mentre vanno spediti lungo la prima strada non troppo trafficata da quando sono partiti, minaccia di crollargli addosso tutta insieme.


«Ricordo che di recente è stata oggetto di uno scandalo piuttosto grande.» ammette, perché è stato un titolo su qualsiasi sito di notizie flash così come in qualche giornale più specializzato sugli avvenimenti internazionali anziché solo su quelli del suolo nipponico: «E' una ditta farmaceutica?»


«Non proprio.» lo corregge Evans «Diciamo un centro di ricerca.»

«Immagino lei non lavori per loro e che non sia lì che stiamo andando... dovrebbe aver chiuso, giusto?» 

«Corretto.» replica Evans con un accento così americano che Iwaizumi ogni tanto deve ricordarsi di mantenere il massimo della concentrazione per distinguere tutte le parole - anche se, sospetta, l'uomo non sta parlando al massimo della velocità che forse manterrebbe con un madrelingua americano. Lo vede lanciargli un'occhiata di sottecchi, forse per accertarsi di avere ancora la sua attenzione prima di continuare a parlare: «Vorrei entrare nel dettaglio di come questo si colleghi nello specifico al signor Oikawa, ma credo sia una conversazione complessa che non possiamo avere adesso, quando lei ha più di dieci ore di volo alle spalle e una stanchezza visibile. Per adesso le dico che il signor Oikawa è in cura con noi, supervisionato da una equipe specializzata e non è in pericolo di vita.» gli dà le informazioni che qualsiasi parente pretenderebbe prima ancora di voler sentir parlare di riposo o di vedersi rimandare al giorno dopo per le spiegazioni più dettagliate.


Hajime fa per parlare, ma alla fine Evans stesso lo anticipa: «Facciamo in questo modo: ora la stiamo accompagnando all'hotel dove alloggerà per questa notte. Domani mattina verrò io stesso a prenderla, dal momento che la sede in cui lavoro è fuori città e non arriveremmo prima di notte, quando l'orario di visita è già passato. Durante il viaggio le darò tutti i dettagli e risponderò a tutte le sue domande. Crede si possa fare?» lo chiede con il fare conciliante che a Iwaizumi ricorda i medici esperti, quelli che hanno dovuto affrontare le famiglie dei propri pazienti troppe volte e quasi mai con buone notizie per non sapere come trattarli affinché non diano di matto o facciano richieste ingestibili. E capisce, quasi subito, che se anche si impuntasse non ne tirerebbe fuori molto di più. Senza contare quanto si senta davvero incapace di capire un discorso più complicato di un paio di indicazioni stradali, al momento. Così non gli resta altro da fare se non accettare, sospirare buttando fuori tutta l'aria che non si era accorto di star trattenendo e annuire.


«La ringrazio per la comprensione.» si limita a dire Evans, mentre la macchina - allo scatto del semaforo verde - svolta a destra immettendosi su un'altra strada piuttosto larga di cui Iwaizumi nemmeno si spreca a guardare il nome sul cartello che superano quasi subito.


*


Evans mantiene la sua promessa: alle dieci del mattino sono già nella hall dell'albergo, Iwaizumi ha già fatto colazione ed è pronto a muoversi. Su indicazione dell'uomo non porta granché con sé e partono senza troppi indugi. Sono in macchina da dieci minuti e una telefonata di sì e no trenta secondi quando Evans comincia a spiegargli nel dettaglio di cosa si occupa e come questo, insieme alla chiusura della Cleyster, sia collegato a Tooru - e, per riflesso, al suo essere partito col primo volo disponibile per New York.


La Cleyster, spiega Evans, ha sviluppato un farmaco sperimentale e diverse persone si sono affidate a loro per offrirsi come volontari, qualcosa che alle orecchie di Hajime suona più cavie pur senza farlo presente. Come ogni farmaco di quel genere gli effetti collaterali non sono pochi ma, secondo una serie di termini medici che Hajime non crede di riuscire a capire appieno, non è qualcosa di cui i piani alti della Cleyster si sono preoccupati. Non fin quando qualcuno non li ha denunciati - «il partner di una ragazza che si era affidata a loro.» gli rivela Evans senza dettagli sulle loro identità - e la polizia se ne è occupata da vicino al punto da portare a galla quanti rischi abbiano corso i pazienti.


La clinica dove Evans lavora, la St. Micheal, è stata assemblata con i maggiori esperti in campo medico per controllare, curare e gestire gli effetti collaterali in questione. Oikawa è loro paziente da meno di due mesi.


«Quello che adesso le voglio dire, signor Iwaizumi, è la parte più complicata. Cerchiamo di spiegare alle persone vicine ai pazienti la situazione in modo più trasparente possibile, ma tanti - se non quasi tutti - non sono al corrente di... molti aspetti, diciamo pure così.» Evans spiega con la calma che si potrebbe avere con un bambino troppo spaventato, irrazionale e ignorante per capire parole difficili e concetti complessi. Hajime è quasi irritato, sottopelle, fin quando Evans non gli chiede in modo molto più diretto: «Lei sapeva che il secondo genere del signor Oikawa è quello di Omega?»


Per un istante, Hajime si rivede da ragazzino quando hanno fatto i test. Si rivede a casa di Oikawa un pomeriggio sì e l'altro pure, si vede negli spogliatoi a scuola, sul campo di pallavolo - e a ognuno di questi momenti accosta quello che altri non hanno mai né saputo né visto: Tooru piangere il giorno in cui hanno ricevuto il risultato del primo esame sul secondo genere, dicendo che non avrebbe avuto più amici adesso che era un omega; Tooru a scuola, imbottito di inibitori fin quando Hajime non ha scoperto la sua piccola scorta assunta prima di entrare in classe, perché sua madre non sapesse che ne prendeva di più pur di non fare assenza quando in calore. Per non insospettire gli altri.


Tooru, negli spogliatoi dopo una partita in cui l'adrenalina lo aveva spinto al limite e il suo corpo l'aveva appena tradito nel peggior modo possibile: non permettendogli di stare al passo con la sua mente, con il suo desiderio di vincere, con il suo orgoglio di giocatore.


Certo che Iwaizumi lo sa. Lo ha sempre saputo e per quanto fosse contrario a tenerlo nascosto, per quanto credesse che non nasconderlo sarebbe stato molto più salutare, alla fine ha sempre rispettato il volere di Tooru. Forse, si dice mentre sfrecciano lungo l’asfalto verso l'uscita della superstrada, avrebbe dovuto insistere fino allo sfinimento e fino a convincerlo. 


Si tiene comunque quei pensieri per sé e annuisce, mentre riporta lo sguardo su Evans. E' difficile leggere quell'uomo e le sue espressioni, ma Hajime immagina che saltare quell'ulteriore spiegazione non gli dispiaccia troppo. Lo vede guardare fuori dal finestrino, quasi a sincerarsi che la direzione presa dall'auto sia corretta. Dopodiché allunga una mano verso un fascicolo tenuto sulle gambe fino a quel momento: per un attimo, Hajime si aspetta un riassunto della situazione clinica di Oikawa. Invece, quando apre la cartellina anonima, capisce quasi subito che non lo è.


Prima che possa fare domande, Evans lo precede: «In parole semplici e senza avventurarsi in tecnicismi farmaceutici, signor Iwaizumi, questo è ciò che la Cleyster ha proposto: uno studio su un farmaco la cui somministrazione avviene in due fasi con diverso dosaggio.» comincia a spiegargli mentre gli occhi di Hajime provano a scorrere sui fogli, saltando le percentuali e i nomi medici di cui capirebbe ben poco ma cercando un riscontro con quello che l'americano gli sta dicendo.


«Nella prima fase c'è un massiccio utilizzo di quello che è, a conti fatti, un mix di sostanze presenti nella maggior parte degli inibitori attualmente sul mercato.» prosegue «La seconda fase è una stabilizzazione. Non ci sono mai arrivati.»


Hajime alza lo sguardo in quel momento, inarcando un sopracciglio: «Non è una buona cosa?» domanda confuso. Evans, nel ricambiare la sua occhiata, ha un'espressione indecifrabile.


«Nella misura in cui un altro farmaco poco sicuro non è stato somministrato, forse.» replica con una sfumatura di scetticismo di chi non si accontenta di un "meno peggio" solo perché non può avere il "meglio": «Ma per il resto la prima fase di questo "studio", se così lo vogliamo definire, era quella peggiore per l'organismo dei pazienti. Il dosaggio massiccio e quasi per nulla differenziato in base ai parametri del singolo hanno causato ben più di un tipo di squilibrio ormonale e di dipendenza. Senza considerare il danno psicologico. Lei è un beta, giusto?»


Talmente non si aspetta di essere interpellato che, quando l'uomo lo fa, Hajime deve sforzarsi per annuire: «Ha mai desiderato qualcosa di diverso? Di essere un alfa, per esempio.» lo incalza Evans.


«A dire il vero no.»

«Allora è molto fortunato.» replica l'americano «Tuttavia ogni paziente che si è affidato alla Cleyster è un omega a cui è stata promessa una vita diversa: niente più pregiudizi di una società dalla mentalità ancora troppo chiusa, niente permessi quando sono in calore, niente più ormoni a pilotare la loro vita. Molti li biasimano o non lo capiscono, ma è la fortuna dei privilegiati, se posso dire la mia.» si espone, forse per la prima volta. Hajime quasi lo preferisce all'uomo che finora gli ha parlato con la stessa inflessione emotiva con cui si potrebbe parlare di vini anziché di persone.


«L'unica cosa che hanno ottenuto, invece,» riprende mantenendo lo sguardo fuori dal finestrino «è di dover restare tutti chiusi dentro una clinica, senza sapere se e quando ne usciranno. O in quali condizioni.»


*


Quando sono ormai a meno di mezz'ora dalla clinica, gli torna in mente come uno di quei ricordi che si è convinti di aver dimenticato finché non si ripresentano con la stessa potenza di quelli più freschi. Tra mille giorni tutti uguali durante gli anni scolastici, Hajime si ricorda all'improvviso di quella volta in cui in classe stavano parlando durante la pausa pranzo - i test medici erano stati consegnati da tempo, ormai, e anche se nessuno lo sapeva Oikawa era già a conoscenza di cosa fosse. Nella loro classe una sola ragazza era risultata omega e lo aveva detto fin dall'inizio, senza nasconderlo in nessun modo.


Era raro avere commenti sgradevoli, ma ogni tanto capitava; Hajime aveva preso l'abitudine di troncarli sul nascere, che la loro compagna fosse presente o meno, e laddove tutti avevano preso a considerarlo un bravo ragazzo lui si sentiva un impostore, perché quando metteva a tacere quei commenti cretini era nel timore che da un momento all'altro Oikawa entrasse in classe e li sentisse, finendo per assimilarli come qualcosa che riguardava anche lui.


Hajime, però, era solo un adolescente come tutti. E solo ora, a distanza di più di dieci anni, si ritrova in una macchina fuori New York City, a pensare a quando Oikawa entrò nella stanza e sentì ridere qualcuno mentre diceva: «Se fossi un maschio e un omega morirei di vergogna!»


La cosa terribile è che Hajime si ricorda tutto - lo spintone dato all'idiota che aveva parlato, le esatte parole sbraitate per coprire troppo tardi quelle dette con tanta leggerezza, il vociare intorno a lui dopo la sua reazione, il vago senso di imbarazzo di chi realizza la stupidità e la cattiveria gratuita detta quando ormai non può più ritrattare.


Si ricorda tutto, tranne l'espressione di Oikawa in quel momento.


*


Evans lo guida fino alla sala d'attesa, poco oltre la reception all'ingresso. E' una stanza piuttosto grande, illuminata praticamente a giorno da enormi finestre che occupano in fila quasi un'intera parete. Al posto di sterili sedie da ospedale ci sono poltroncine e divanetti, con bassi tavolini in legno tra due o più sedute; prima di congedarsi, Evans gli ha indicato dove trovare la caffetteria interna qualora volesse prendere un caffè nell'attesa, assicurandogli di chiamarlo non appena Oikawa avrà finito la seduta di non ha capito bene cosa. Sempre ammesso che quell'idiota accetti di incontrarlo oggi, così a sorpresa.


Per essere una clinica, Hajime ammette che ha visto di peggio. Dà molto più l'idea di una casa di cura di quelle che simulano l'ambiente accogliente di una casa qualsiasi con una famiglia qualunque, salvo poi essere quello che sono se ridotte ai minimi termini. Se non altro, non ci sono sbarre né nulla che faccia pensare a una prigione; a quello ci aveva già pensato il modo di esprimersi di Evans nel dirgli che non tutti i pazienti è detto riescano a essere dimessi. Questo, se accostato all'immagine di un Oikawa molto più giovane - come se lo ricorda lui per forza degli eventi, d'altronde -, gli causa un'agitazione sotto la pelle che Hajime non è sicuro di poter gestire.


Così come è convinto di non poter gestire un incontro amichevole con Oikawa quando sente chiamare da una voce femminile: «Signor Iwaizumi?» e si ritrova davanti una ragazza giovane, gli abiti a tradirne la mansione di infermiera. Lei gli comunica che Evans e Oikawa lo stanno aspettando nello studio del primo e lo accompagna fino a lì, bussa alla porta socchiusa e fa cenno a lui di entrare. Hajime è abbastanza certo di rivolgerle un sorriso storto in risposta a quello caloroso di lei, ma è già oltre la soglia quando quel pensiero raggiunge il cervello.


Lo studio di Evans è uno studio. Questo è il massimo della considerazione che riesce a dargli quando i suoi occhi inquadrano la figura di Tooru e qualcosa gli si spezza dentro - sollievo, preoccupazione, euforia, rabbia. Paura.


Oikawa sta seduto sulla sedia con le gambe incrociate, come se questa fosse un'intervista dell'ennesimo giornalista sportivo dopo un match di pallavolo dove lui ha fatto la differenza, e neanche avesse addosso un capo firmato e un'assistente di una troupe si fosse assicurata che i suoi capelli siano perfetti e il trucco sul viso più naturale possibile pur mascherando qualsiasi eventuale imperfezione. Invece il Tooru davanti a lui indossa una tuta di quelle con cui si sta in casa quando non si aspettano visite; i capelli sono appena più lunghi di come Hajime se li ricorda, ma meno brillanti di quanto quell'idiota se ne occupava quasi dovessero avere vita propria; il viso ha le ombre di un mancato sonno e di una salute tutt'altro che ottimale. Il sorriso che una volta Hajime avrebbe minacciato di prendere a pugni a vista è tirato, ombra di una maschera un tempo impossibile da distinguere dal vero Oikawa Tooru se non per pochi eletti.


Si gira a guardarlo e gli rivolge un incurvarsi di labbra così falso da tradire come lui non si impegni a nascondere un pensiero che risuona, come urla, nel silenzio della stanza: preferirei essere ovunque tranne che dove sei anche tu.


«Si accomodi, signor Iwaizumi.» lo incalza Evans, sbloccando la situazione di stallo tra di loro. Con la stessa cautela che userebbe entrando nella gabbia di un animale selvaggio, Hajime si chiude la porta alle spalle e azzera la distanza fino a prendere posto sulla sedia accanto a quella di Tooru, entrambi di fronte a Evans comodamente seduto dietro la sua scrivania.


All'inizio Hajime si aspetta una qualche comunicazione, un input di qualsiasi genere da parte dell'americano. Quando questo non arriva, sposta lo sguardo su Oikawa che sembra del tutto a suo agio anche nel loro completo, imbarazzante silenzio.


«Non-» comincia ma, neanche Tooru stesse aspettando di sentire la sua voce, lo anticipa quasi bruscamente: «Non saresti dovuto venire, Iwa-chan.»


Incredibile come, a distanza di così tanto tempo e quando ormai si pensa una persona non possa più scatenare in nessuna maniera un'emozione, si ritrovi a incazzarsi come quando avevano entrambi sedici anni. Immediato, quasi Tooru avesse appena lanciato un fiammifero su una tanica piena di benzina. Hajime trattiene il respiro, stringe i pugni sui braccioli; vorrebbe farlo lontano da sguardi indiscreti, però scende subito a patti con il fatto che non sia possibile. Forse la cosa peggiore è vedere la totale assenza di reazione sul viso di Oikawa - lo sa, che il bastardo ha calcolato ogni singola parola di proposito. Altrimenti, considerato come siano entrambi oltre quella che per tutti e due è stata l'amicizia che pensavano sarebbe durata tutta la vita, non avrebbe avuto nessun motivo di chiamarlo Iwa-chan.


«Potevi non mettermi come numero di emergenza, allora.» ribatte secco, non riuscendo a impedire a se stesso una risposta istintiva. Spera che Evans non lo abbia invitato con la speranza di mettere un adulto responsabile di fianco a Oikawa Tooru, perché prima di quello Hajime ha tutta l'intenzione di fargli mangiare ogni singolo giorno in cui non si è nemmeno degnato si alzare il telefono per poi rifilargli questa sorpresa.


Invece sia lui che l'americano si ritrovano a guardare Oikawa scoppiare a ridere, il ritratto di un ragazzino spensierato a cui hanno appena rifilato la battuta più divertente del mondo. Così si stende in parte sulla sedia, contro lo schienale, butta la testa indietro e si mette persino una mano all'altezza dello stomaco. C'è una millimetrica precisione in ogni suo gesto, la stessa di un attore navigato che ha imparato a memoria persino i movimenti da associare alle sue battute per una resa migliore di fronte al suo pubblico.


«Hai ragione, hai ragione!» dice, sventolando la mano libera in un blando e assolutamente non sentito gesto di scuse «Mi sono dimenticato, okay? Lo avrò registrato più di dieci anni fa! Sono quelle cose che fai quando tua mamma insiste per stare tranquilla, ma chi se lo ricordava! Se avessi saputo che volevano chiamare il numero registrato gli avrei detto che non era più lo stesso e avrei fatto chiamare direttamente a casa, insomma.» spiega, fin troppo allegro per uno che - a sentire le spiegazioni di Evans - dovrebbe essere alla stregua di un drogato in piena crisi di rigetto e senza alcuna certezza di riuscire a essere riabilitato.


Hajime non sa se gli faccia più rabbia o più paura, vedere che a dispetto della prontezza delle sue battute, non sembra esserci la lucidità di una volta nello sguardo di Oikawa.


«Ora però tutto risolto, giusto? Niente più malintesi!» quasi trilla con quella voce fastidiosa che nella testa di Hajime sarà sempre di un Tooru che, guardando quello seduto al suo fianco adesso, non sa se tornerà mai: «Puoi tornare a casa e alla tua vita, Iwa-chan. Sono sicuro tu abbia di meglio da fare che perdere tempo qui, no?» lo sente aggiungere e lo vede di nuovo, quel sorriso.


Si alza prima ancora di accorgersene, registrando con un istante di ritardo il grattare delle gambe della sedia contro il pavimento in parquet. Tooru lo segue con lo sguardo, senza scomporsi minimamente - e forse anche Evans sta osservando, alla cerca di cosa di preciso Hajime non ne ha idea.


«Come se uno sparito per dieci anni sapesse un cazzo, della mia vita.» gli sputa in faccia, prima di uscire dallo studio.


*


A dispetto del primo istinto di Hajime di andarsene e lasciare l'idiota a cui è stato dietro fin dall'infanzia, è ancora lì la sera quando Evans gli propone una sistemazione momentanea in clinica per evitare l'inutile avanti e indietro dall’hotel. Ed è ancora lì quando, la mattina dopo, nella caffetteria interna trova molti più visi di quanti abbia visto il giorno precedente. La maggior parte di loro, nota mentre una tazza di caffè americano cerca di affogare ogni sua discutibile scelta di vita, non sono nemmeno vestiti in un modo che ricordi vagamente i pazienti di una clinica.


Deve aspettare un'ora e l'incontro concordato con Evans, stavolta da solo, per scoprire che è perché una parte di loro in effetti non lo è. L'americano lo guida in un corridoio su cui si affacciano non solo il suo studio, ma molti altri: porte in legno ognuna recante una targhetta metallica con il nome di un diverso medico. Prima di fermarsi e considerando entrambi i lati, Hajime ne conta sei.


Quella alla quale Evans bussa, reca la scritta "Dr. Wayne". Il suo studio non è così diverso da quello in cui l'ha accolto l'uomo il giorno prima: una scrivania sulla parte sinistra, dietro la quale Hajime riconosce qualche titolo sugli ampi scaffali di libreria come qualcosa di medico, comode sedie di fronte. Il lato destro è tutto dedicato a un divano a due posti, un tavolinetto basso e un paio di poltroncine. La parete di fronte alla porta è per buona parte impegnata da finestre che illuminano a giorno la stanza. Qua e là qualche pianta cerca, con molta probabilità, di dare un approccio meno serio alla stanza. Dietro la scrivania è una donna ad accoglierlo con uno sguardo breve, prima di tornare a scrivere qualcosa di veloce sul primo di una pila di fogli sistemata davanti a lei, come chi non vuole perdere il filo di quello che stava appuntando. Solo un paio di secondi dopo poggia la penna e dedica loro tutta la sua attenzione.


«Il signor Iwaizumi, suppongo.» pronuncia, il tono cordiale mentre gli occhi azzurri lo scrutano senza tante cerimonie. Hajime annuisce, vedendola spostare lo sguardo su Evans: «Grazie, Raymond.» lo congeda con un piccolo sorriso, mentre l'altro si limita a un annuire lieve prima di chiudere la porta alle spalle di Hajime. Quasi nello stesso momento, la dottoressa gli fa cenno di accomodarsi, ma verso le poltroncine così lui devia appena sulla destra e vi si sistema. Lei lo raggiunge in una manciata di passi, ma senza sedersi subito.


«Caffè?»

«No, grazie.» replica «Ho già bevuto una tazza nella caffetteria.» confessa, vedendo solo ora la parte di stanza nascosta dalla porta aperta in precedenza - un lungo mobile con sopra diversi oggetti tra cui una classica macchina per il caffè veloce. La brocca è già mezza piena e la dottoressa si limita a versarsene una generosa quantità nella tazza prima di raggiungerlo e prendere posto sulla poltroncina libera. Hajime sospetta non sia molto più grande di lui, anche se i capelli scuri legati in uno chignon la fanno sembrare forse più austera e, di riflesso, con qualche anno in più sulle spalle. La mano libera aggiusta il camice perché non tiri, ma non sembra preoccuparsi di lasciar vedere il completo scuro ma non troppo formale che indossa sotto.


«Io sono Marian Wayne,» si presenta, allungando la mano verso di lui «sono una degli psicologi di questa clinica. Tra i vari pazienti di cui mi occupo, c'è anche Tooru.» spiega, usando il nome senza troppe cerimonie. Hajime immagina, mentre le stringe la mano, che se lei e Oikawa parlano debbano essere arrivati a un punto in cui le formalità sono venute meno.


«Ho saputo da Evans che ieri il vostro primo approccio non è andato benissimo.»

«La sorprende?»

«Francamente no.» replica lei senza mezzi termini, né un sorriso a far pensare che voglia essere simpatica. Questo lascia intendere a Iwaizumi che è solo brutalmente schietta: «Tooru non è il tipo felice di ricevere aiuto quando non lo chiede.» aggiunge, prendendosi un sorso di caffè. Hajime la osserva, cercando di carpire non sa nemmeno lui cosa - magari il motivo per cui è stato chiamato a dodici ore di volo da casa sua se nessuno si aspetta possa fare qualcosa.


La dottoressa sembra intuirlo, o magari è solo un dubbio lecito che avrebbe chiunque: «Raymond le ha detto a grandi linee il problema per cui i pazienti arrivano qui, ma immagino non ci sia stato il tempo né di dirle tutto nel dettaglio, né di spiegarle i metodi nello specifico o di fare riferimento a chi sta qui in clinica pur non essendo un paziente.» prosegue lei, neanche Hajime avesse ogni singola domanda scritta in faccia. Si limita ad annuire, per adesso, rimpiangendo di non aver accettato altro caffè con cui tenersi occupato mentre se ne sta lì a farsi riempire da quelle che minacciano essere una sequela di informazioni infinite e complicate.


«Trattiamo i pazienti sotto l'aspetto fisico in due modi.» riprende lei «Il primo è disintossicandoli. Non ci girerò intorno, signor Iwaizumi: nessuno di loro al momento può gestire un periodo in calore fuori di qui. Ognuno aveva raggiunto un grado di cura con il farmaco sperimentale diverso ed è inutile dire che più a lungo sono stati sotto somministrazione, peggiore è la situazione adesso. Ce la fa a sentirmi andare nel dettaglio?» domanda, occhieggiandolo. E' un medico strano, la donna davanti a lui: il tono con cui parla è conciliante, ma non sta indorando la pillola in alcun modo. E' una psicologa, o così ha compreso Hajime, eppure sembra del tutto priva di tatto ed empatia. Anche chiedergli se senta di poter gestire quel carico di informazioni ora suona più una prassi che una sua reale preoccupazione.


Annuisce comunque, perché cos'altro potrebbe fare?


Lei sembra piuttosto colpita da qualcosa, ma di cosa si tratti lui non ne ha la minima idea.


«Il farmaco in questione prometteva di rendere gli omega dei beta. Alla base, la differenza tra questi due generi è solo una: andare o meno in calore, poter o meno concepire un bambino. Il farmaco, quindi, aveva uno scopo principale, ossia azzerare gli ormoni così da far venire meno una serie di caratteristiche peculiari. Ovviamente, non potendo certo far sparire gli organi interni che permettono la gestazione anche agli omega uomini, l'unica cosa su cui era concretamente possibile agire erano gli ormoni. Ora» continua, adocchiandolo di tanto in tanto, forse per rendersi conto se la stia seguendo o meno «gli inibitori ormonali sono soggetti ad attenta prescrizione per un motivo. Bombardare un corpo con un mix di tutti quelli sul mercato potrà anche portare il paziente a non andare più in calore a lungo andare, ma di certo non lo mantiene in salute. Non si finisce in modo così diverso da qualcuno che per tanto tempo assume una droga. Solo che la dipendenza non è data dall'assumerla o meno in sé, in questo caso, ma dalla reazione quando il periodo di calore torna.» continua, prendendosi un altro sorso di caffè, seppure breve.


Hajime si sente già la testa scoppiare e sospetta che il discorso non sia nemmeno lontanamente vicino alla fine. La dottoressa Wayne, di suo, non sembra avere fretta di arrivarci: «Quando un omega che ha seguito un simile trattamento va di nuovo in calore, quello è il momento di crisi più grande. A volte è fisica, e cercano gli inibitori come si cercherebbe l'eroina.» elenca lei «Altre si rendono conto di non avere più controllo sul loro corpo, che gli ormoni adesso sono di nuovo liberi di alterare le loro percezioni, peggio di quando la natura di omega si affaccia per la prima volta. E poiché qui ogni medico, infermiere e inserviente è un beta e di certo non può avere rapporti sessuali con un proprio paziente, soffrono come un contraccolpo dello stesso periodo di calore che in condizioni normali era difficile ma non ingestibile. In casi estremi, sfociano nella depressione e nell'istinto di autodistruggersi non riconoscendo più il corpo che pensavano di aver cambiato.» conclude con crudezza, eppure solo ora a Iwaizumi sembra di sentire una sfumatura più morbida nella sua voce. Come se nemmeno lei riuscisse a mantenere l'asettica professionalità di fronte a questo - Hajime si chiede se abbia visto pazienti non superare affatto quelle crisi. Quanti ne abbia visti.


Non è sicuro se il silenzio in cui la donna si chiude sia per dargli tempo o per decifrare quanto sia ancora in grado di sopportare. Hajime si accorge solo in un secondo momento di come la propria mano stia stringendo così tanto il bracciolo della poltroncina ma tenere in tensione tutto il braccio.


«...Tooru dov'è? Intendo, in quale fase è?» domanda, sentendosi la bocca secca. La dottoressa non sospira rassegnata, il che è un buon segno immagina.


«Tooru è come ogni persona che sperava di cambiare la parte di sé che odia, quindi disperato. Per sua fortuna, è anche troppo orgoglioso per distruggersi al cento per cento, il che ci dà margine per lavorare, ma...» la vede fermarsi, aggrottare appena le sopracciglia: «ma i percorsi psicologici sono complessi, signor Iwaizumi. Per questo permettiamo ai compagni dei pazienti, quando li hanno, di soggiornare qui per affiancarli nel percorso di riabilitazione.»


Hajime non fa in tempo a sospirare di sollievo, nel sentire che almeno la situazione non è irrecuperabile, che qualcosa nelle parole della donna stride. I compagni. Ah.


«Io e Oikawa non siamo compagni.» corregge il malinteso. Lo sguardo che la donna gli rifila non sembra quello di una persona convinta di quanto appena sentito, ma immagina sia tipico di uno psicologo non negare né affermare qualcosa al cento per cento prima che il paziente lo faccia per primo. Tralasciando come Hajime non sia affatto un paziente.


«Però è il suo numero di emergenza.»

«Perché si è dimenticato di cambiarlo, apparentemente.» commenta seccato e, per la prima volta da quando è entrato, la sente sbuffare l'accenno di una risata. Quando riporta lo sguardo su di lei, la dottoressa Wayne sta accavallando di nuovo le gambe e ha le labbra incurvate in un sorriso. Quello di chi ha appena visto un bambino con la faccia sporca di cioccolato negare di averne presa un po' di nascosto dal barattolo.


«Se c'è qualcosa che nelle mie sessioni con Tooru ho capito con molta facilità, signor Iwaizumi, è che le persone come lui non dimenticano una cosa del genere. E sa perché?» gli domanda, aspettando con pazienza di vedere Hajime scuotere la testa.


«Perché quelli come Tooru le persone o le cancellano del tutto, o non le cancellano mai.»


*


«Quindi Oikawa è in ospedale.» pronuncia la voce di Hanamaki al telefono, ma Hajime può tranquillamente vedere sia lui che Matsukawa nello schermo dello smartphone grazie alla videochiamata: «In America-- beh questo comunque è la cosa che mi sorprende di meno.» ammette in aggiunta, mentre l'espressione di Matsukawa rimane indecifrabile anche quando si accoda all'altro domandando «Non ti hanno detto i dettagli?»


«Non molti.» Hajime detesta mentire, specie a loro due. Tanto quanto lui sono stati preoccupati dalla sparizione di quell'imbecille di Tooru e Hajime sospetta che Matsukawa, più di tutti, si sia incolpato della cosa per parecchio tempo essendo l'unico alfa del loro gruppo del liceo. Nonostante questo, Hajime è anche abbastanza sicuro che dirgli del farmaco, del perché Oikawa si sia affidato a una cosa sottobanco, non è qualcosa che vorrebbe nessuno di loro. Hanamaki e Matsukawa meritano entrambi che sia Tooru a dirglielo e, per quanto le mani di Hajime prudano ancora al pensiero, non farebbe mai davvero il torto al suo... amico d'infanzia, se così può definirlo dopo così tanti anni.


Difficile capire se gli altri due ci credano, ma è grato del loro non indagare oltre. Oltre il proprio telefono, invece, inquadra la stessa infermiera che ieri lo ha guidato verso lo studio della dottoressa Wayne; lei gli fa un cenno e lui annuisce.


«Devo andare, comincia l'orario di visita.»

«Aggiornaci, okay?» rimbrotta Hanamaki, chiudendo la chiamata solo dopo l'annuire di Hajime. Si alza, a quel punto, mettendo il telefono nella tasca posteriore dei jeans e raggiungendo l'infermiera.


Orario di visita è un modo carino per evitare di dire vado a fare un'imboscata a quel coglione di Oikawa durante la sua ora di terapia. Non ne è stato molto convinto quando la dottoressa lo ha proposto - presenziare alle sedute con lei e, se e quando Tooru glielo permetterà, sostenerlo durante la riabilitazione fisica - ma andarsene non gli sembra una soluzione alternativa migliore.


Capisce quanto pessima sia l'idea quando, un quarto d'ora dopo, Tooru apre la porta dello studio della dottoressa e posa lo sguardo prima su di lei, poi su di lui; Hajime si stupisce di non vederlo girare i tacchi e andarsene, a essere onesto, ma non gli sfugge come si lasci scivolare sul divano accanto a lui spazientito o come incroci le braccia al petto, sbuffando neanche avesse cinque anni.


Segue le indicazioni della dottoressa, rimanendo silenzioso spettatore per buona parte dei primi dieci minuti di seduta in cui una serie di domande di rito su condizioni odierne rispetto al loro ultimo incontro gli dicono tutto e nulla, non avendo idea di cosa si possano essere detti in precedenza. Tooru risponde con la saccenza di chi ci tiene, a far notare quanto sia offeso dalle condizioni in cui è costretto a portare avanti l'incontro; la dottoressa Wayne, di contro, sembra adattarsi a lui con professionalità e naturalezza. Lo stuzzica in alcuni momenti, gli parla conciliante in altri, attende pazientemente in silenzio quando Tooru sembra non essere intenzionato a rispondere.


«Signor Iwaizumi,» lo richiama a tradimento «possiamo darci del tu?» domanda, osservandolo. Preso alla sprovvista annuisce prima di rendersene conto, ma non ha tempo di ritrattare prima che arrivi una vera e propria domanda: «Dimmi, com'era Tooru a scuola?»



Hajime non è mai andato da uno psicologo in vita sua, se si esclude una singola chiacchierata fatta con uno esterno venuto il giorno dei risultati del primo test sul loro secondo genere e quello, qualche anno dopo, presente al test definitivo. Non ha idea di come dovrebbe rispondere: sincero? Più pacato per evitare reazioni inaspettate in Oikawa? Esiste, poi, una risposta giusta che metta d'accordo tutti?


«Non serve pensarci così tanto.» lo incalza lei, ma non in modo brusco «Basta anche solo il primo aggettivo che ti viene in mente.»


Insopportabile. Sbruffone. Arrogante. Con più dedizione verso la pallavolo di chiunque altro. Una forza della natura. Piagnucolone. Forte. Fragile.


«Testardo.»

«Ah!» esclama subito Oikawa, stringendosi ancora di più nelle spalle «Non sono io a essere rimasto in una clinica dove non ho nulla da fare.» commenta, occhieggiandolo quasi per sfidarlo a ribattere.


«Perché di quello ne parlano gli adulti, i bambini non hanno voce in capitolo.»

«Iwa-chan sei insopportabile anche da vecchio!»

«Almeno il mio cervello è cresciuto!»

«Il tuo--»

«Per quanto questo scambio sia quasi affascinante,» comincia la dottoressa e non sembra per nulla ironica «non credo sia un dialogo funzionale. Tooru, perché non pensi che Hajime dovrebbe restare?» domanda a bruciapelo, del tutto in contrasto con la voce pacata e l'espressione imperturbabile che offre.


Lui sposta lo sguardo su Oikawa nello stesso momento in cui Tooru lo devia sulla dottoressa. Lo vede osservarla come se dovesse trovare la soluzione prima di cadere inesorabilmente nella trappola e sciogliere appena l'intreccio delle braccia contro il petto, rilassando le spalle. Quando apre bocca, l'espressione è stanca, seria e rassegnata insieme.


«Perché non ne ho bisogno.»

«Del suo aiuto o che veda la tua situazione?» lo incalza la donna, facendolo irrigidire di nuovo. Agli occhi di Hajime è come un tira e molla che non crede Oikawa possa in alcun modo vincere e per uno abituato a non perdere, non deve essere la situazione ideale per aprirsi. O forse la dottoressa ha capito prima di altri che la chiave di lettura di Oikawa Tooru non è certo lasciarlo crogiolare nella convinzione di farcela sempre e comunque.


Inaspettatamente, Tooru si gira a guardare lui, però; quando gli sorride con la stessa arroganza dell'adolescenza ma senza che quel sorriso raggiunga gli occhi, Hajime sa che non può in alcun modo essere un buon segno: «Lo so cosa ti hanno detto.» comincia «Di quanto sia difficile quando vado in calore. Invece, non è così difficile. Certo, l'ideale sarebbe avere un alfa ma cosa credi, in una clinica piena di omega pensi non si faccia niente oltre ad aspettare un partner che non arriverebbe comunque? Facciamo tra noi.» butta lì quasi fosse una questione di poco conto, qualcosa da cui non potrebbe mai essere nemmeno sfiorato.


«Perciò la vita qui non è la prigione che ti avranno raccontato. I dottori la fanno così tragica! Invece, davvero, non c'è bisogno tu rimanga anche perché... voglio dire. Iwa-chan, tu sei solo un beta. Sei in assoluto quello che potrebbe aiutarmi di meno con il sesso! Quindi--»

«Quindi ti sta bene l'idea di restare per sempre in clinica con tutti gli altri, come dei drogati, senza mai essere riabilitato?» lo interrompe bruscamente, cercandone con insistenza lo sguardo «E gli altri omega cosa ne pensano? Tutti qui dentro a raccontarvi cosa, di essere in vacanza? A fare un sesso che non sono nemmeno sicuro ti ricorderesti comunque?»


Lo schiaffo che gli arriva gli fa girare la testa leggermente di lato, ma non gli impedisce di vedere Tooru uscire come una furia dallo studio. Quando prova a occhieggiare la dottoressa Wayne, per capire se sia il peggior risultato possibile, lei posa la cartelletta con una calma quasi irreale e alzandosi dalla poltroncina si limita a dirgli: «Caffè?»


*


Il giorno dopo è Evans a suggerirgli di approfittare del weekend per svagarsi, offrendosi di indirizzarlo verso i registri di uscita e le opzioni di spostamento a disposizione di chi, essendo ospite come lui lì alla clinica, può ovviamente andare a New York City se vuole e tornare in giornata per dormire lì dove hanno una propria stanza a disposizione. Hajime si fa spiegare l'iter, ma passa buona parte del venerdì e del sabato a vagare per gli spazi comuni della clinica, oltre che per l'ampio giardino.


Vede Oikawa una sola volta, senza essere notato. A osservarlo da lontano, seduto su una panchina con un ragazzo di qualche anno più giovane a ridere rilassato, sembra più di vedere due amici al parco, non due pazienti.


Hajime non ci dà più peso del necessario finché quello stesso ragazzo non lo approccia in caffetteria, con un amichevole: «Aspetti Tooru? Posso sedermi?» che lo sorprende più che altro perché arriva in un perfetto giapponese. Alza lo sguardo su di lui, trovandolo tutto sorridente; gli fa cenno di sedersi, vedendolo poggiare sul tavolo un piatto con un paio di sandwich al formaggio. Hajime non deve aspettare poi molto per sapere con chi sta parlando, data la naturalezza con cui il ragazzo pronuncia un «Sei Iwaizumi-san, giusto? Hinata Shouyo!» e, a dispetto del giapponese utilizzato, è comunque una stretta di mano che gli offre d'istinto. Tradisce il fatto che, probabilmente, è in America da abbastanza perché gli venga più naturale di un classico inchino. Hajime spera che quella lunga permanenza su suolo straniero non sia stata tutta in clinica.


«Tooru mi ha parlato di te!» riprende subito lui, senza dargli il tempo di decidere come approcciarlo «Cioè, siccome anche io giocavo a pallavolo ne abbiamo parlato e poi mi ha descritto un po' la sua squadra al liceo e mi ha detto di te.» chiarisce, con una parlantina invidiabile e un'energia che Hajime definirebbe caotica in modo ben diverso dal Tooru dei suoi ricordi adolescenziali. Hinata, comunque, non sembra preoccupato dal suo silenzio stordito, considerato come continui a parlare senza problemi: «Poi ieri era arrabbiato e quando sta così girato meglio se lo lascio stare qualche ora. O tutto il giorno.» si corregge con il sorrisetto furbo di chi ha già provato a fare diversamente e ha capito sulla propria pelle quale sia, invece, la strategia migliore. E' strano, per Hajime, perché da una parte riconosce l'amico d'infanzia di cui è stato l'ombra per anni ma, allo stesso tempo, è come ascoltare di un gap a cui non ha assistito e che non pensa potrà recuperare mai davvero. Specie se non riescono a dialogare.


«Quindi giocavi a pallavolo.» decide di approcciare l'argomento più semplice, ritrovandosi a guardare l'espressione di Hinata mutare in un broncio infantile: «Non stai per dirmi che sono troppo basso, vero?»


Hajime lo guarda, confuso per una manciata di secondi e poi ride. Di norma sarebbe molto scortese, lo sa, ma qualcosa nel ragazzo di fronte a lui rende difficile pensare al modo giusto di interagire con uno sconosciuto. D'altronde è già surreale pensare di essere in una clinica a non sa nemmeno quante miglia di distanza da casa, dopo aver preso un volo all'improvviso solo perché contattato e venuto a conoscenza che Tooru fosse in ospedale. Cosa importa se non segue l'etichetta, per una volta.


«Non ci stavo pensando, davvero.»

«Oh, ecco. Altrimenti avrei dovuto-- oh, Tsumu-san!» Hinata si sporge appena di lato, iniziando a sbracciarsi in un saluto verso qualcuno alle sue spalle. Ci vuole poco perché nel campo visivo di Iwaizumi rientri un uomo alto, biondo e dall'aria di un classico attore americano. Peccato che chiunque abbia seguito un po' di pallavolo professionistica, come ha fatto lui, conosca Miya Atsumu. Un alzatore dalla tecnica e dall'estro incredibili, oltre che con l'abitudine di giocate azzardate a cui molti del suo stesso ruolo nemmeno penserebbero. Per diverso tempo Hajime ne ha seguito ogni partita universitaria, oltre che post laurea quando Miya ha prevedibilmente continuato come giocatore professionista. Un vero peccato si sia poi ritirato quando--


«Oh.» si fa scappare mentre Miya Atsumu si piega in avanti, circonda le spalle di Hinata in un mezzo abbraccio e gli lascia un bacio sulla tempia come se Hajime non fosse neanche lì. O come se, più scontato, all'ex giocatore non interessasse tanto quanto dimostrare affetto al ragazzo seduto. Hinata ridacchia divertito, la mano a dare un paio di colpetti leggeri sul braccio altrui; Hajime distoglie lo sguardo, sentendosi in dovere di lasciargli la loro privacy nonostante non sia colpa sua se non ne hanno di partenza.


«Tsumu-san, Tsumu-san» Hinata lo richiama come se fosse un bambino in cerca dell'attenzione dell'adulto di turno «guarda! E' Iwaizumi-san, Tooru ne ha parlato un sacco di volte!» sposta l'attenzione proprio su Hajime che, a quel punto, non può fare altro se non tornare a guardarli entrambi. Miya non sembra particolarmente convinto - o forse solo molto poco interessato - ma occhieggia comunque Hajime come se dovesse vagliare la possibilità di essere infastidito. Gli basta questo per capire che ha un'alfa davanti, oltre al fatto che è diventato di dominio pubblico quando Miya ha sfondato nella prima squadra giapponese, e questo lo confonde rispetto alle parole di Tooru durante la seduta con Wayne.


Miya si limita infine a un cenno del capo; sembrerebbe tutto d'un pezzo e il campione a cui Hajime è abituato dalle interviste in tv se non perdesse di credibilità nel momento in cui si lamenta come un ragazzino di dover andare per lavorare. In effetti, il trasferimento in America che ha tanto fatto scalpore quasi un anno fa...


E' quando se ne va, non senza un altro bacio - stavolta sulle labbra - e una serie di smancerie che Hajime preferisce non guardare che Hinata ride.


«Tutto bene, Iwaizumi-san?» lo prende un po' in giro e Hajime sospira, non volendo nemmeno immaginare come debba essere avere Hinata e Oikawa entrambi di buon umore e nella stessa stanza. Gli viene mal di testa solo a pensarci: «Sì, sì, tutto bene...» si limita a commentare lui con un gesto veloce della mano. Hinata invece addenta finalmente uno dei suoi sandwich, lasciandoli nel silenzio finché non è proprio Hajime a romperlo chiedendo nel modo più discreto possibile: «Credevo gli alfa non potessero entrare.» che fa alzare lo sguardo a Hinata. L'espressione confusa che gli vede assumere è già una risposta quasi sufficiente.


«In che senso?»

«Così ha lasciato intendere Oikawa alla seduta con la dottoressa Wayne.» pronuncia Hajime con una vaga alzata di spalle, non potendo né volendo scendere nel dettaglio di cosa l'altro abbia detto in quella che dovrebbe essere una seduta privata. Per quanto lui sia stato ammesso a presenziare dalla psicologa e benché sia quasi certo Tooru gli abbia rifilato una bugia.


«Mmmh» mugugna Hinata, grattandosi il naso mentre ci pensa su: «beh, non entrano al piano delle camere.» decreta infine «Ma certo che entrano. Seguono i compagni durante le sedute dagli psicologi, oppure alcuni dei test fisici. E quando ci sono le crisi, per un omega che ha formato un legame... come potrebbe senza alfa? Non si farebbe comunque toccare da nessuno.» osserva infine con uno sbuffetto leggero. Non è che Hajime non ci avesse pensato... ma l'irritazione alle parole e alle insinuazioni di Oikawa è stata talmente forte da averlo reso irrazionale. A rifletterci bene era una bugia così ovvia che quasi si vergogna ad aver perso la pazienza in meno di un minuto. Se fosse solo affonderebbe la faccia nel cuscino e ci urlerebbe dentro.


Riporta lo sguardo su Hinata solo quando vede il suo indice entrare nel proprio campo visivo, mentre picchietta sul tavolo dove lui può vederlo così da attirarne l'attenzione. Quello che Iwaizumi si ritrova a vedere è un sorrisetto divertito: «Tooru non ti ha parlato di me, giusto?» lo incalza e Hajime evita di dirgli che Tooru non gli parla, punto. Non lo ha fatto per dieci anni, improbabile lo faccia dopo dieci minuti dall'essersi rivisti. Hinata sembra intuirlo senza bisogno che lui lo dica ad alta voce e questo rende molto più semplice la loro conversazione.


«In pratica ci ha fatti conoscere Wayne-sensei.» comincia a raccontare «Perché sono un recessivo.»


Hajime ne ha sentito parlare, per lo più quando erano a scuola e le lezioni di educazione sessuale sul secondo genere li menzionavano brevemente, ma sa anche quanto sia incredibilmente raro che la condizione si presenti. Così raro da rendere molto difficile sentir dire a qualcuno di aver incontrato una persona con quel gene - uno che ha portato da un secondo genere assodato e ottenuto come risposta ai test standard a uno completamente diverso, in età avanzata. Il ragazzo seduto di fronte a lui, per quanto ne sa dai pochi articoli sull'argomento che ha avuto modo di leggere in passato, potrebbe aver vissuto come un beta fino all'anno scorso ed essere ora in una clinica come omega.


«Sono l'unico qui non per il medicinale ma perché, insomma, è un casino quando non ti sei abituato a tutte quelle cose a cui adesso devi fare attenzione.» ammette con uno sbuffo leggero. Eppure è proprio quella leggerezza a sembrare strana agli occhi di Hajime, chiedendosi cosa mai possa essere uscito fuori dalla prima seduta in cui la dottoressa Wayne ha presentato lui e Oikawa. Quanto si può ottenere dal mettere a confronto un ragazzo che dovrebbe essere molto più turbato dal ritrovarsi omega all'improvviso, ma sembra invece averla già superata, con uno che è stato omega per tutta la sua vita e altrettanto a lungo ha cercato un modo per smettere di esserlo?


Se si parlasse dell'Oikawa che conosce, Hajime non esiterebbe a dire che deve essere stata catastrofica: se al Tooru dei suoi ricordi avessero messo davanti qualcuno che aveva ottenuto, senza apparente sforzo né turbamento, qualcosa che lui desiderava fortemente e che non riusciva ad avere nemmeno con tutto l'impegno del mondo, Oikawa l'avrebbe detestato con tutto il cuore. Non ci avrebbe di certo fatto conversazione su una panchina in giardino.


«Mi sorprende abbastanza siate diventati amici.» commenta, deciso ad alzarsi per recuperare qualcosa da mangiare o, forse, solo per sottrarsi a una conversazione che comincia a credere non dovrebbe avere. In un posto in cui, a dire il vero, non sarebbe dovuto venire.


«Beh, a me non tanto in realtà.» ammette Hinata, sorprendendolo di nuovo in poco tempo. Quando lo guarda, Hajime lo vede scrollare le spalle: «Tooru una volta mi ha chiesto: non maledici mai quello che sei adesso? Credo sia una cosa molto triste da dire. E ho capito che forse possiamo essere amici proprio perché agli occhi di Tooru io ho perso quello che lui voleva e mi sono ritrovato con quello che ha sempre avuto. Non sono granché con i ragionamenti complicati eh, ma magari se sono io a dirgli che si può sopravvivere pure a questo, ci crede di più. Magari Wayne-sensei ha pensato di vedere se riuscivo a farglielo capire.» conclude Hinata, per poi dare un morso al suo sandwich.


Hajime, mentre lo guarda esterrefatto, avverte un pensiero intrusivo disturbarlo con un brivido inaspettato lungo la schiena - Tooru vuole che qualcuno lo salvi o vuole che qualcuno lo condanni?


*


Non saprebbe dire di preciso se ci arrivi per un filo di pensieri così intricato da farlo finire anni indietro ma, come un fulmine a ciel sereno, Hajime si ricorda dell'unica volta in cui ha toccato, guardato e trattato Oikawa non come si fa con un amico. In modo così diverso da come aveva sempre fatto dall'infanzia da venirne stordito.


Da quando gli aveva rivelato del proprio secondo genere, Hajime non si era mai dovuto preoccupare che Oikawa prendesse le sue medicine. Semmai, si era sempre dovuto assicurare che non esagerasse, pur essendosi reso complice del fatto che l'altro ne prendesse più di quanti prescritti. Mai delle quantità allarmanti, ma Hajime preferiva comunque tenerlo d'occhio. Se il mondo avesse dovuto scommettere sul secondo genere di Oikawa, non una sola persona avrebbe scelto qualcosa di diverso da "alfa". E mentre lo guardavano vincere ed essere la colonna portante di una squadra, tutti vedevano anche lui - Hajime, un beta - e gli associavano la figura dell'ago della bilancia immaginaria che manteneva l'equilibrio di Tooru.


Finché non era andato in calore. Finché lo spogliatoio, per fortuna ormai del tutto svuotato tranne che per loro, non si era riempito dell'odore dei ferormoni di Tooru al punto da averli non solo resi percepibili anche per Hajime, ma avergli fatto pensare per la prima volta quanto pericoloso sarebbe stato se al suo posto ci fosse stato Matsukawa. Se, in quel momento, fosse passato qualcuno.


Oikawa si era accasciato contro gli armadietti, facendo un rumore metallico all'urto del proprio corpo contro lo sportello, e aveva digrignato i denti e soffiato fuori un «Cazzo.» che Hajime non aveva saputo dire se fosse più sofferto, arrabbiato o eccitato. Eppure all'inizio aveva pensato di poterlo comunque gestire, perché si era preparato per questo da quando Tooru aveva pianto dicendogli di essere un omega - Hajime aveva studiato, aveva fatto qualche ricerca quando aveva potuto, sbirciato tomi medici troppo costosi e che non avrebbe comunque capito nella loro interezza nella biblioteca della città. Si era tenuto pronto, nascondendo un inibitore nella borsa anche se a lui in quanto beta non serviva. Aveva creduto sarebbe stato sufficiente e invece Oikawa si era mosso verso di lui e gli aveva afferrato un braccio, lo aveva tirato fino alle docce, lo aveva spinto dentro uno stallo.


Hajime aveva battuto la testa contro le mattonelle e aveva imprecato a mezza bocca, alzando lo sguardo verso Oikawa per dirgli «Che cazzo fai» e invece se lo era ritrovato vicino, troppo per come l'altro lo aveva abituato durante i periodi in cui andava in calore: pochissimo contatto, per lo più messaggi. Ogni tanto accettava che Hajime andasse a casa sua, salisse le scale e gli parlasse da dietro la porta. Ma erano occasioni rare. Di certo Oikawa non lo aveva mai voluto più vicino di quanto un muro tra loro gli permettesse; eppure, in quel momento, non c'era neanche un metro a dividerli.


«Ho un inibitore nella cartella.» aveva soffiato, non osando parlare più forte «No, anzi, possiamo andare all'infermeria e--»

«Dove vuoi che vada... così.» aveva sentito mormorare a Tooru mentre la sua mano prendeva quella di Hajime in un gesto poco amichevole e di certo per nulla romantico, la guidava verso un'eccitazione evidente sotto i pantaloncini d'allenamento. Aveva sentito Oikawa farsi sfuggire un mugolio di piacere e l'aveva poi visto mordersi a sangue l'interno della guancia, per punirsi.


Hajime vorrebbe poter dire di aver avuto la lucidità di spingerlo via per tutto il tempo in cui l'istinto aveva guidato Oikawa a cercare di avere da lui il sesso che Hajime non avrebbe mai sopportato dargli in quel modo, sapendo quanto Oikawa si sarebbe sentito male una volta passato il calore, senza più l'istinto e il bisogno ad avere la meglio sul suo cervello. La verità però è che alla fine lo aveva toccato - solo toccato -, l'aveva fatto venire come Oikawa aveva fatto con lui, la mano sul suo membro e i tocchi impacciati di chi era spezzato a metà tra un desiderio irrazionale e il volere che finisse prima possibile.


Tooru non glielo aveva mai rinfacciato. Semplicemente avevano entrambi raggiunto l'orgasmo, Oikawa si era accasciato sfibrato di ogni forza e Hajime aveva se non altro avuto il tempo di recuperare l'inibitore e portarglielo, aspettare che facesse effetto e poi sciacquarsi velocemente e aspettare che l'altro facesse lo stesso. Senza offrirsi di aiutarlo, consapevole più di chiunque quanto qualcosa che molti adolescenti facevano a prescindere dal loro secondo genere avesse sbriciolato un'altra parte dell'orgoglio di Oikawa, quanto avere un aiuto avrebbe fatto il resto.


Così Hajime aveva aspettato nello spogliatoio. Per un'ora, prima di sentire l'acqua della doccia iniziare a scorrere e quasi due per vedere finalmente Oikawa ricomparire vestito con la divisa scolastica e un sorriso tirato sulle labbra. Gli aveva letto nello sguardo la muta preghiera di fingere che non fosse mai successo. E lui l'aveva accontentato.


Ripensandoci ora, mentre sdraiato sul letto fissa il soffitto di una stanza sconosciuta in una clinica in cui tutti i pazienti restano chiusi perché fuori non riuscirebbero ad avere una vita normale, si chiede: cos'avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto fare, di diverso?


Hajime non è mai stato la persona dei "forse" o dei "se", eppure se non avesse permesso a Oikawa di dissimulare, se lo avesse affrontato con più forza quando aveva preso il vizio di prendere "solo qualche pastiglia in più", se gli avesse detto che poteva essere magari non qualsiasi cosa desiderasse ma quantomeno felice a prescindere dal risultato di un test... forse, adesso, non sarebbe lì a chiedersi se lo vedrà uscire mai da quella clinica. Forse Tooru avrebbe fatto scelte diverse e ora non sarebbero lì, lontani da casa, a cercare dopo dieci anni di ritrovare l’uno nell’altro l’unica cosa familiare che ricordano.


Forse ci sarebbe meno senso di colpa a inchiodarlo su un letto. Forse Tooru sarebbe lì, a dargli una cuscinata per farlo alzare perché ha deciso di voler andare da qualche parte proprio adesso, ridendo in quel modo insopportabile che però è uno dei ricordi migliori che Hajime ha di lui.
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Prompt: “casa”
Missione: m3 (week 3)
Parole: 1060
Rating: teen up
Warnings: shonen-ai, established relationship, 20+!RodyDeku 



Quando Rody Soul sostiene di aver avuto un’adolescenza diversa dagli altri, tutti pensano a come si sia dovuto preoccupare dei suoi fratelli o di come abbia fatto i salti mortali - alcuni molto poco legali - per mettere un piatto in tavola, sobbarcandosi del ruolo di genitore di se stesso. 


I pochi, pochissimi a conoscenza del suo quirk potrebbero aver pensato quanto sia agghiacciante per un adolescente avere un pennuto rosa pronto a sputtanare ogni tua emozione. A questo, però, Rody ha posto rimedio subito: si contano sulle dita di una mano le persone a cui ha confidato questo segreto. Pino è davvero l’ultimo dei suoi problemi. 


Il punto è quando a diciassette anni il tuo (tardivo?) risveglio ormonale si deve a qualcuno di un altro continente. Sarebbe difficile anche senza essere poveri in canna, ma Rody deve ancora ribilanciare il suo karma oppure far ridere il suo destino, quindi ha anche il sottile problema di star studiandoc ome un disperato al di fuori del suo lavoro al locale e di fare la conta degli spicci per far quadrare tutto alla fine di ogni mese. Non proprio la situazione migliore per fare avanti e indietro in aereo una volta al mese. 


C’è chi dice sia tutto molto semplice, ormai, grazie alla tecnologia. Anche tenersi in contatto con le persone lontane - ma Rody, ecco, lui a volte odia la leggerezza con cui questa cosa viene detta e l’ha odiata ancora di più da ragazzo. Quando lui e Deku si mandavano messaggi che si trascinavano dietro ore di fuso orario, per esempio. Ha perso il conto delle mattine in cui si è alzato presto per recuperare qualche ora di studio prima del lavoro e si è visto arrivare un messaggio della buonanotte da parte di Izuku, ritrovandosi a scrivergli “buongiorno” in risposta. O delle occasioni in cui, per una semplice videochiamata, è stato come giocare a un tetris livello avanzato: il fuso orario, gli impegni di Izuku, i turni di Rody. 


Se ci ripensa adesso, mentre aspetta l’apertura dell’imbarco per il Giappone, è incredibile aver retto una relazione a distanza così giovani. Essersi fatti bastare i surrogati di un tenersi per mano, dei baci, della quotidianità condivisa. 


La voce dell’altoparlante annuncia il gate mentre lo schermo delle partenze si aggiorna con lo stesso dato. Rody recupera il cellulare, digitando velocemente un “mi sto imbarcando”. Qualche istante dopo lo schermo della chat con Izuku - non riuscirà mai a non sbuffare divertito di fronte alla sua foto profilo con i broccoli… - gli rimanda indietro un “ti aspetto a casa”.


*


Come c’è da aspettarsi, Izuku si fa trovare in aeroporto perché nessuno crederebbe mai a lui che aspetta comodamente tra le mura di casa, lasciando Rody a muoversi con un taxi o, peggio ancora, con i mezzi. Anche se il taxi lo prednono comunque per evitare l’ora di punta, sossia troppi occhi abituati a riconoscere l’Eroe succeduto ad All Might.


E’ una sensazione strana, quella di varcare la soglia di un appartamento con la consapevolezza di essere a casa di Izuku. Durante la sua ultima visita era ancora nei condomini messi a disposizione dall’agenzia. Tipico di Izuku, non voler pesare su Inko e preferire aspettare di avere abbastanza da parte da poter comprare l’appartamento solo con le sue forze e, al tempo stesso, senza sperperare denaro inutilmente. Il posto non è immenso ma, in qualche modo, è personale - non c’entra nulla l’action figure di All Might nel luminoso e confortevole salotto.


C’è anche uno strano imbarazzo, o forse è più un impaccio quasi sottopelle, nella consapevolezza di uno spazio privato come quello. Uno in cui non debbano preoccuparsi né di madri, né di fratelli e sorelle minori, né di colleghi eroi con sole tre ore di sonno alle spalle. E’ simile al nervosismo di una prima volta nella stanza da soli, ma c’è anche la conoscenza più intima possibile tra due persone. La lontananza, l’assaggio - mai sufficiente - della quotidianità, l’attesa dell’incontro dopo e quello dopo ancora.


Infine, più reale di tutto il resto, la mano di Izuku a scivolare nella sua, dita che si intrufolano tra quelle di Rody come un ragazzino pestifero che sgattaiola via quando non dovrebbe. Percepisce le cicatrici sul palmo, lungo le dita; con alcune ha fatto conoscenza fin dal primo momento in cui Izuku lo ha inseguito come se fosse il villain più pericoloso in circolazione, altre si sono aggiunte tra allenamenti troppo duri, missioni troppo grandi per un adolescente e la preoccupazione a miglia di distanza. Rody le ha odiate per ciò che hanno sempre rappresentato, poi ha imparato ad amarle perché sono parte del corpo di Midoriya Izuku.


Quella mano lo accarezza con una devozione che Rody non pensava potesse esistere tra due esseri umani - tra un artista e la sua opera, forse, o tra un credente e il suo Dio. Invece Izuku lo sfiora facendolo sentire in quel modo, lo ha fatto fin dalla prima volta, quando le dita gli tremavano e l’imbarazzo lo faceva arrossire fino alla base del collo.


Rody muove un passo, un altro ancora. Si ritrova con la schiena contro il muro, sentendo contro le scapole  lo stipite della porta. Di quale stanza, non ne ha idea; è un po’ difficile concentrarsi sulla cosa quando la bocca di Izuku è contro il suo collo e la mano che non tiene la sua è a insinuare le dita sotto la sua maglia. Maglione. Non si ricorda più quanta roba indossa finché non sente Izuku fare un verso a metà tra il divertito e il frustrato, mentre borbotta contro la sua pelle un «Troppi strati.»


Lo fa ridere, mentre gli allaccia il braccio libero al collo e si distanza quanto basta a guardarlo in viso e irfilargli il sorriso più sfrontato del suo repertorio: «Oh no, salvami dai vestiti, Eroe.» dopo cui si gusta il modo in cui l’espressione di Izuku passa dall’incredulo al cercare di nascondere il divertimento. E’ quando l’altro ride a queste battute da commedia romantica di decima categoria che Rody capisce quanto sia fortunato a essere ricambiato. O a non essere stato ancora mollato. 


«Rody, non lo dicevo per iniziare del roleplay…»

«Peccato.» commenta, facendogli l’occhiolino - una vera fortuna è anche che Pino sia altrove. Sospetta renderebbe evidente ogni singolo sentimento che la vista di Izuku, pronto a chinarsi di nuovo su di lui, gli scatena.

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Prompt: Lanterna

Missione: M2 (week 2)

Parole: 1752

Rating: pg13

Warnings: 27!xingyun




Lantern Rite is a special occasion. It has always been so, especially for those born and raised in Liyue. The city gets even more lively no matter how much work preparing for the festival is and, in the end, every single citizen ends up looking at the sky as they let the lanterns go with their wishes. Big or small, serious or childish, the night is suddenly full of tiny lights.


Xingqiu considers the Lantern Rite part of his childhood, of his entire life up until now - yet this year something feels off. It's the first time Chongyun won't be able to attend because of his training in the mountains and exorcising stuff Xingqiu is not sure he will ever, completely understand. Sure, his best friend wrote him to tell him but preparation doesn't always do the trick. Especially when Lantern Rite sounded like the right setting for a very serious talk.


"I'm sad too," Xiangling tells him as she cooks, skillfully moving around the kitchen as she listens to his complaints, "but it's not like he can help it. I know you guys had it hard since you finally confessed to each other, because Chongyun still had his training and couldn't stay. I'm sure he's sad too," she says and Xingqiu has no doubt about how Chongyun feels... it's just that he had a plan. Something - other than what the Lantern Rite usually offers - to look forward to. 


"I know," he murmurs, a small pout forming on his lips. It doesn't really matter that he's twenty-seven, okay. 


Suddenly a plate with his favourite dish is put in front of him. He looks up and sees Xiangling wink at him, "Get in the mood, pretty boy. We promised to help with Xiao Lanterns, remember?" 


Xingqiu gives her a small smile before he digs in. He supposes there's not much he can do. 


*


"You what?!" Xinyan basically screams to everyone's discomfort - for their ears, at least. Xingqiu supposes it's understandable when someone simply drops the bomb telling you: I was thinking of proposing.


Yunjin, as the fair lady she is, has taken this more gracefully. A gentle smile curving her lips, surprise in her eyes, she offers him an "Oh my, this is such a joyous occurrence. I'm sure Mr Chongyun will be delighted as well."


Xiangling, though, has done nothing but stare at him since he opened his mouth and even now Xingqiu can tell, by the look on her face, that she finally got the whole picture together: "Xingqiu I'm... so sorry," she says and he feels a bit awful. He's also inclined to be melodramatic, thanks to the (too) many books he read since he was young, so part of him is just glad she understood that for once he has the right to complain. A bit.


"You were planning to propose during Lantern Rite?" "Yeah," Xingqiu admits as he finishes building another Xiao Lantern. He puts it together with the others that have been finished by the three ladies sitting around the table with him and notices Guoba giving him a sad look. Which makes him feel blessed for having so many friends and totally desperate if even Guoba looks at him pitifully. He can see his friends look at each other as if to choose the right words to console him and that's when he decides that this is making him feel even worse - not their friendship, no, that is one of the biggest demonstrations of what a lucky guy he is.


"It's okay. It's not like I'm doomed if it's not this time. I can always tell him when he comes back from the mountains, or wait for his birthday... there will be plenty of occasions! A man does not give up just because mountains kidnap his boyfriend, right? It would be such shameful behaviour and not chivalrous at all."


Xiangling chuckles a bit, even though she is the one who knows best that despite his words, part of him feels like giving up just for a day. It took him and Chongyun years to understand their feelings for each other and to finally admit them without being scared of what they could lose. When they can't meet during important events like this one, Xingqiu sometimes feels like he's back to a fifteen years old boy who dreamed of adventures and swordsmanship and couldn't muster the courage to admit he was in love with an exorcist boy. Small obstacles like this feed his fears like nothing else. 


"Why don't you write it on a Xiao Lantern?" Xinyan suggests and, for a second, everyone just looks at her dumbfounded. Until Xiangling smiles brightly, clapping her hands enthusiastically: "This is such a cute idea! Imagine if the lantern reaches Chongyun in the mountains and delivers the message!"


"Such a romantic proposal indeed," Yunjin adds, nodding approvingly. Xingqiu stares at all of them as if he expects someone to tell him they are joking; yet, it becomes painfully obvious that they are not. 


"Are you seriously—" "We are! I'm going to bring something to write!" Xiangling exclaims, standing up and going towards one of the stands before he can stop her. He looks at Xinyan just a split second before she takes the materials for the Xiao Lanterns in front of him, leaving enough for only one more to build.


"I'm finishing your part too, you just focus on yours! You have to go totally rock'n'roll about this, Xingqiu!" she adds, quite content with the turn of events. He gazes towards Yunjin, almost expecting to find some reason in her at least, someone who'd say what everyone knows deep inside their hearts: the chance of this lantern reaching Chongyun is so small that it would make more sense to just witness Rex Lapis' resurrection. 

Instead, she sips her tea. 


*

Hundreds of lanterns fill the sky as fireworks illuminate the night. Everyone in Liyue Harbor looks up, staying close to their friends or loved ones, smiles on their lips and happiness in their hearts. Xingqiu does the same— Chongyun might not be there, but he's surrounded by friends who helped him with a marriage proposal. Even the Traveler managed to find the time to return to Liyue as one goes back home for his family's special occasion. That's enough to fill the small void in his heart and make him think that, despite everything, he can survive and just wait for Chongyun to be back. 


"There are still so many stands I want to check!" Xinyan admits, "Xiangling, are you good on time before going back to the restaurant?" "Yes, Dad and Guoba are managing it together to give me time to go around so I'm okay!" she assures, chitchatting about what to visit while they still have the chance to. Yunjin is not too far, talking to Hu Tao and Xingqiu is quite sure to have seen the Traveler follow the Conqueror of Demons somewhere. 


"Xingqiu! Guys!" he hears a voice way too familiar to confuse it with someone else's. Chongyun is running towards them, a lantern in his hands and a frantic expression. Xingqiu can't believe that such a cliché thing might be really happening. And one look at his friends tells him everyone is thinking the same as him.


Chongyun must notice the way they are staring at him as if he just did something incredible just by existing. He stops only a few steps from them and before Xingqiu can actually make sure he's not hallucinating— 


"Don't tell me you really received the Xiao Lantern!" "Oh my God I can't believe it, how much you guys are going to be a romantic cliché?!" are just two of the comments Xingqiu manages to get before his brain shortcircuits. He... he didn't even write something special! He was so sure this wasn't going to work that he barely put there some words that could be considered a vague idea of the proposal and yet, out of hundreds of lanterns, his is the one that reached Chongyun? Just like that?!


"Yun, I— I mean," he begins, walking towards him,  "I'm sorry, I... never thought this would reach you. Not that I don't mean it, just— I can't believe this is how you are going to remember me proposing to you!" he admits, a bit frustrated maybe. Happy. Incredulous. 


"...y-you doing what?" Chongyun asks and, by the way he looks, Xingqiu can instantly tell that something is off. 


"The Xiao Lantern. I wanted to propose to you during the Lantern Rite but you said you couldn't come here so I was a bit pissed off because it felt right to do it now and during the event but I knew you couldn't help it... so Xinyan said to write it on a lantern. That, maybe, it would reach you and— well, you do have a lantern and came here running."


Chongyun looks like he has just been slapped and, at the same time, like he has received a whole week of training with the Conqueror of Demons as a present.


"Do you mean... a marriage proposal?" he asks, light blue eyes shocked yet still completely focused on Xingqiu. At this point this is becoming so random that Xingqiu's priorities are all over the place, enough for him to ask the poor exorcist: "Yeah but what's that lantern you have, if it's not mine?"


"There were kids who wanted to set another one in the sky but it got stuck on a roof so I just took it for them," Chongyun admits, pointing at a small group of children fussing over lanterns not too distant from them.


Xingqiu looks at them and is horrified.


"Meimei, look! There's a message on the lantern, but... I can't read it, the handwriting is so ugly!" "Wait! Maybe is a secret language from the adepti!"


He and Chongyun look at each other and the exorcist suddenly has to try his very best to not burst into laughter— Xingqiu feels extremely offended, yet that joy is enough of a response to his proposal. Not to mention that this is the best thing a Lantern Rite could do for him: bring Chongyun home, close to him.

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Prompt: “un rifugio alla fine del mondo”
Missione: M1 (week 1)
Parole: 622
Rating: teen up
Warnings: mentions of war, headcanon, minor spoilers




The Black Tower stands there, watching a world on fire like the last man on a battlefield of ruin and devastation. Dainsleif knows what a collapsing world looks like and the awful feeling of realisation first, then helplessness immediately after. The exact moment when one stares at flames engulfing everything, with not a single life to spare or to save, not even sacrificing themselves.


The Tower, though, is safe. For now. A shelter forgotten by everyone, made of silence; the faint scent of ashes from the east and the smell of burnt bodies from the south come together, shattering against stone and then going away with the wind. It’s like an oasis of grotesque peace, one that instead of making Dainsleif feel like it’s going to be fine makes him want to puke. 


There’s something almost heroic about the way the man in front of him can stare at such desolation without a flinch. A sort of familiar resignation in the way his shoulders slightly dropped once they stopped climbing the stairs, a lost gaze for a lost dream. Dainsleif stays there, two steps behind his prince as Kaeya embraces everything with his eye— the reddish sky, the smoke, the despair. And when the prince looks back at him, a peaceful expression is mixed with a pain so deep that a man’s soul can only be dumbed by it. He knows there’s no other way to survive this.


Dainsleif feels like he failed. He could have done better, he could have saved lives and yet this is all he managed to obtain; like a curse, time repeats and repeats and repeats— is the abyss so deep, so filthy that once you stare into it there’s no way out? That no matter what he tries, the odds will never be in his favour? In his people’s favour?


"Dainsleif," Kaeya's voice is soft like silk brushing against the skin as he calls his name, "do you think it will reach us?" he asks. Dainsleif looks outside the small window that the tower has to offer, a single gap in an iron defence. The sneaker sound of the Abyss Mages is filling the air, despite being a sound in the distance. He's not sure about what his prince wants to hear in response to his question. Yet, the lack of it doesn't seem to bother him— it's like slowly walking on ice while hoping it doesn't break under your feet.


"Oh," Dainsleif hears him say, a small nuance of fun in Kaeya's voice, "looks like he's not good at letting go, after all. We really haven't changed since we were kids, have we?" 


He has seen (fought) thousands of battles and yet the way Kaeya says it makes him shiver. The way his prince manages to convey the most nostalgic affection and, at the same time, his cruel desire to protect himself from the past. The same past that is now nothing but some kind of a long dream for him. And he wants to crush it.


So Dainsleif gets close to look outside as well: down there, on a bloody path, a red-haired man is stubbornly getting close to where they are. The Black Tower is not going to fall because of a single warrior— that's what it's meant to be: a refuge at the edge of the world, the starting point of a new era.


In a very distant past, Dainsleif once witnessed Khaenri'ah being destroyed.


His prince raises his right hand— now it's Mondstadt that it's going to be turned into ashes. With nothing but cursed eyes to watch as it happens.

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