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*


Guardando davanti a sé in quel momento, Hajime suppose che se avessero avuto un rapporto di qualche tipo ai tempi del liceo, sarebbe stato molto più abituato a quello a cui stava assistendo da un paio di minuti. Scesi al piano terra all'orario corretto rispetto a quello che gli era stato comunicato per avere la cena servita, avevano mangiato non nelle migliori condizioni - ossia con poco meno di un silenzio selettivo che interrompevano solo per qualche commento di poco conto  - ma Hajime aveva supposto non potesse andare molto meglio di così. Di certo non aveva avuto alcuna intenzione di mettersi a fare chissà quale discussione o scenata lì, perciò aveva mandato giù il boccone amaro insieme alla cena che invece era stata decisamente ottima.


Erano usciti per tornare in camera quando avevano incrociato una conoscenza di Oikawa: da quanto aveva capito Hajime, si trattava di un kohai dell'università, perciò aveva lasciato loro il giusto tempo per parlare. Non sembrava una conversazione destinata a durare a lungo, ma due cose erano piuttosto evidenti persino per lui che non conosceva il ragazzo più giovane e di sicuro non poteva vantare un rapporto di chissà quale tipo con lo stesso Oikawa: il suo kohai sembrava decisamente perso, non al punto di un innamoramento magari, ma era chiaro fosse (stato?) invaghito di Oikawa. Quest'ultimo invece sembrava incredibilmente... freddo.


Hajime lo vide fare un gesto con la mano che sembrava interrompere qualunque cosa il ragazzo stesse dicendo; quello provò ad allungare la mano verso il braccio di Oikawa, forse per fermarlo nel suo movimento con cui stava chiaramente iniziando ad allontanarsi, ma Tooru si scostò. Non fu particolarmente brusco, ma non fu nemmeno naturale e persino il ragazzo se ne rese conto. L'ex pallavolista gli rifilò un sorriso di circostanza e pronunciò un saluto veloce, prima di avvicinarsi a Hajime; fu sorpreso nel vedersi prendere sotto braccio e nel sentirlo pronunciare un allegro «Eccomi Iwa-chan, scusami! Andiamo?» al quale non poté fare altro che annuire, iniziando a camminare con lui senza guardarsi indietro.


Si aspettava che girando l'angolo Oikawa lo lasciasse andare subito, invece quando arrivarono davanti alla porta della camera non lo aveva ancora fatto. Fu sufficiente chiudere la porta per sentire il braccio di Oikawa scivolare via dal suo. Quando Hajime lo cercò con lo sguardo, si accorse che l'altro sembrava del tutto intenzionato a fare finta che non fosse successo nulla, quantomeno al fine di tornare a ignorarlo. Sospirò, premurandosi di essere più che udibile e vide l'altro irrigidire le spalle.


«Per un attimo pensavo fosse un kohai dei tempi del liceo» decise di rompere il ghiaccio, perché dubitava sarebbe stato Oikawa a farlo «ma a meno che non fosse qualcuno della vostra squadra, non credo.»


Dava abbastanza per scontato che sarebbe stato ignorato, invece un po' a sorpresa Oikawa sospirò a sua volta prima di replicare con un: «No. Si è immatricolato alla mia università lo stesso anno in cui io mi sono laureato.» a conclusione del quale Hajime notò che il sorriso sulle labbra dell'altro non esprimeva affatto né la contentezza di averlo rivisto, né chissà quale affetto per i ricordi legati al ragazzo in questione. A piegargli le labbra, invece, era un sorriso amaro.


«So cosa stai pensando, tanto vale tu me lo chieda.» aggiunse Oikawa, senza guardarlo. Hajime non era meno seccato per quello che l'altro aveva detto in precedenza, dando inizio alla discussione che li aveva portati a questo umore decisamente spiacevole per tutti e due, ma dal modo in cui l'altro parlava sembrava quasi aspettarsi un giudizio di qualche tipo.


«Non devi per forza parlarmene.» gli fece notare «Penso che basti avere due occhi che funzionano per vedere che quel ragazzo di sicuro ha avuto o ha ancora una cotta per te, ma chi non l'ha avuta al liceo? Si sentiva il tuo nome in qualsiasi classe, non importava di che anno, e in ogni caso non è una cosa che dipende da te o di cui dovresti essere responsabile.» proseguì, deciso a evitare qualsiasi tipo di fraintendimento. Davvero non ne avevano bisogno.


Si accorse che Oikawa aveva fermato i movimenti, una mano a mezz'aria in un gesto indeciso - se continuare a recuperare il cambio per andare a dormire o restare ad ascoltarlo, suppose. Fu sorpreso di sentirlo sbuffare divertito, per quanto non gli sembrava ci fosse nulla da ridere nel proprio discorso.


«Mattsun lo aveva detto» se ne uscì Oikawa «quella volta che tu e Makki siete venuti a vedere la partita, nello spogliatoio. Qualcosa sul fatto che questo Iwaizumi, della sua classe, probabilmente sapeva a stento chi ero perché non era il tipo da dare troppo ascolto ai pettegolezzi nel corridoio e che se non ci avesse pensato il resto della scuola a ricordargli costantemente il secondo genere di alcune persone, non se ne sarebbe mai ricordato da solo.» riportò Oikawa e Hajime non ebbe il minimo dubbio che dicesse la verità. Anche solo perché aveva davvero affrontato quel discorso con Matsukawa in passato, proprio ai tempi della scuola - forse a Oikawa all'epoca era stato omesso che la conversazione fosse nata da quel tira e molla tra Matsukawa e Hanamaki andato avanti fin troppo a lungo per i gusti di tutti quelli che li conoscevano. A prescindere dalla motivazione, tuttavia, Hajime si ricordava di quello scambio e si stupì del fatto che fosse stato riportato all'altro. O per meglio dire, non riusciva a immaginare davvero la situazione in cui potesse uscire fuori quell'argomento - a meno che, all'epoca, Oikawa non avesse chiesto informazioni su di lui ma non gli sembrava troppo plausibile o sensato.


«Perché non mi è mai interessato.» decise di replicare, quantomeno per cercare di capire dove stesse andando a parare quel discorso, per quanto possibile «Anche per questo viaggio, non avevo una preferenza su chi viaggiare. Prima che tu lo dica, certo, lo so anche io che essere un Beta mi rende più facile fare questo discorso.» lo anticipò prima che Oikawa potesse avere un'altra uscita infelice delle sue e forse gli era uscito un pelo più piccato di quanto avrebbe voluto, ma l'altro non sembrava intenzionato ad attaccare briga al momento. Si era solo girato verso di lui per guardarlo mentre parlava, senza muovere un passo in sua direzione però.


Capì che per adesso era il massimo che poteva ottenere: «Proprio per questo però non me ne è mai fregato niente di cosa fossi. Alla fine noi siamo la maggioranza, tra i secondi generi, e siamo considerati la media in tutto. Penso che Matsukawa si sia sempre sentito in difetto per certi aspetti, perché un po' tutti voi Alfa venite abituati al fatto di dover eccellere sempre e comunque e lui stava iniziando a rimetterci la salute a forza di allenarsi in quel modo sconsiderato.» osservò, senza preoccuparsi affatto di mascherare come fosse del tutto convinto di essere nel giusto. Vide Oikawa aprire la bocca, di certo per ribattere, ma alzò una mano nella muta richiesta di tacere e lasciarlo finire. L'altro non ne era contento, lo vide da come serrò un poco la mascella, ma apprezzò il suo restare in silenzio e in attesa del resto.


«Perciò gli ho detto di farla finita, non è che si sfondava un ginocchio poi gli davano una medaglia. Basta con questa storia che se non arrivate primi allora non valete, così come tutta la merda che si è preso Hanamaki per essere un Omega ha sempre fatto schifo e sempre lo farà. Non posso cambiare il pensiero di tutti, ma posso almeno inculcare nella testa degli amici quanto tossica sia questa roba.» concluse, con più fermezza, quasi sfidando Oikawa a dirgli di avere torto. Ma nel tornare a guardarlo dritto negli occhi, non trovò né incredulità vera e propria né derisione sul viso dell'ex pallavolista. Oikawa sembrava più che altro colpito, come se qualcosa di cui aveva sempre e solo sentito nei racconti e che forse immaginava fosse stata romanzata, si fosse appena compiuta davanti ai suoi occhi dimostrandogli che era sempre stata realtà e non una cosa detta tanto per. In quel suo discorso dovette ritrovare qualcosa - o molto - del discorso di Matsukawa, perché non sembrava sorpreso del contenuto di per sé ma dal fatto che qualcuno fosse davvero capace di dargli voce credendoci.


Dopo qualche secondo, Hajime lo vide prima sorridere appena. Poi sbuffare divertito l'accenno di una risata che stava cercando di tenere per sé. Infine, lo vide girarsi dall'altra parte, forse per non dare a vedere di averlo fatto cedere alla risata silenziosa che gli faceva muovere appena le spalle: «Sei veramente incredibile, Iwa-chan.» commentò quando fu certo di poterlo fare senza dargliela vinta «Anche se rimani uno stronzo per avermi detto che ti faccio tristezza.»


«Quello te lo sei meritato.» rimbeccò senza esitazione «Mi hai guardato dall'alto in basso come tutti gli Alfa stronzi fanno, quindi ti ho trattato come ti meritavi.» commentò, perché per quanto preferisse avere un dialogo non sarebbe stato lì a fargliela passare. Si erano feriti a vicenda con commenti sgradevoli, ne erano entrambi consapevoli e lo avevano fatto coscienti di ciò che stessero dicendo. Non avrebbe fatto finta di nulla solo perché era più comodo e, a giudicare dall'espressione sul viso altrui, anche se aveva di sicuro da ridire doveva essersi reso conto anche lui di non essere stato un esempio di gentilezza.


O almeno Oikawa ci aveva provato, perché sentì comunque il bisogno di dirgli: «Ma è vero che per te è facile parlare. Sono bei discorsi, Iwa-chan, davvero.» sembrò voler mettere le mani avanti per evitare un'altra discussione, per quanto la premessa non facesse comunque ben sperare Hajime «Sul non essere responsabile di nulla se faccio le cose come vanno fatte, oppure riguardo l'essere legittimato a non fare sempre tutto alla perfezione. Sono discorsi che ti rendono un grande amico, ma anche uno molto idealista. Il resto del mondo non è così gentile.» gli fece notare con, di nuovo, quel sorriso amaro a piegargli le labbra.


Quello era un aspetto che Hajime aveva sempre trovato irritante. Non di Oikawa, né di Matsukawa nello specifico, ma del contesto generale in cui entrambi - tutti loro, anzi - si muovevano e che portavano a quel tipo di pensieri. Non importava quanto Hajime o chiunque altro al suo posto si impegnasse a inculcare un messaggio di quel tipo, a essere di supporto; il resto del mondo avrebbe sempre reso inutile i suoi sforzi, riuscendo ad avere molta più forza nell'imprimere certe convinzioni nella mente delle persone e nel dimostrargli ogni giorno che a dispetto delle belle parole, la realtà era sempre diversa. Lo irritava perché non sapeva come combattere un sistema ed era consapevole di non avere le forze per farlo; di essere uno tra tanti, una voce che poi finiva col perdersi nella folla.


Si mosse, raggiungendo l'altro e piazzandoglisi di fronte, notando solo di sfuggita come Oikawa avesse mosso un mezzo passo indietro. Non che il letto alle sue spalle gli concedesse molto di più in ogni caso.


«Chi se ne frega del resto del mondo?»

«Oh, andiamo.» ribatté più secco Oikawa «Non abbiamo quindici anni, cosa vuol dire "chi se ne frega del resto del mondo". Ci vai tu a parlare con mio nonno? O con i padri di altri Alfa che li crescono per tutta la vita con uno scopo già deciso e che di solito è ereditare l'impero che si sono creati negli anni? Glielo dici tu, che l'importante è quanto i loro figli facciano ciò che amano o che va bene se anche falliscono, dopotutto cosa importa?» iniziò a pronunciare Oikawa, ma più andava avanti e meno suonava come una provocazione per Hajime. Assumeva la forma di una diga che si crepava sempre di più sotto la pressione, una che Hajime era consapevole di non riuscire nemmeno a immaginare e di aver potuto forse osservare in parte da Matsukawa negli anni ma nulla di più. Lui aveva trovato il modo di arginarla e di non farla spezzare, aveva trovato la sua dimensione con Hanamaki o era stato solo più fortunato nella propria famiglia. Oikawa sembrava come quella diga: Hajime non riusciva a capire chi si sarebbe spezzato prima, ma era sicuro che in ogni caso sarebbe stato un mezzo disastro.


«Non avrebbe senso se glielo dicessi io.»

«Non ha senso che glielo dica nessuno.»

«Quindi la soluzione è avere una crisi di nervi ogni volta che qualcuno tocca un tuo nervo scoperto? O è fingere che non sia mai esistito il diciassettenne che quando ha perso una partita di pallavolo sembrava lo avessero appena condannato a morte?» puntualizzò, perché se doveva comunque spezzarsi una cosa tra le due sperava di far sì che fosse la diga, prima dello stesso Oikawa.


Capì di aver appena punto sul vivo quando vide Oikawa lanciare in malo modo quel che aveva in mano sul letto e fare quel mezzo passo di nuovo in avanti, verso di lui. Fu sorpreso di sentirsi prendere per la maglia, proprio come lui stesso aveva fatto con Oikawa sull'imbarcazione. Il viso altrui a poca distanza dal suo, lo sguardo di chi forse stava dibattendo con se stesso se dargli un pugno in viso o buttarlo direttamente giù dal balcone della stanza. Per un attimo Hajime si chiese se sarebbe stato diverso, se le loro strade si fossero incrociate molto prima o in maniera più significativa di come avevano fatto. Oppure se sarebbe stato più facile, con un viaggio più lungo e molta più strada - fisica, in questo caso - da percorrere. Se ore e ore in macchina avrebbero reso quella conversazione meno complessa, aiutati dalla stanchezza o dalla convivenza forzata per molto più tempo.


«Allora visto che sei così bravo, vai pure a dire alla mia famiglia che ho tutto il diritto di scegliere la mia strada o che anche se sono un Alfa preferirei farmi sbattere piuttosto che mettere incinta un Omega di qualsiasi sesso.» commentò crudo Oikawa. Quello Hajime non se lo aspettava - si maledì perché il fatto stesso che lo stupisse scoprire che Oikawa preferiva essere passivo nella sfera sessuale la diceva lunga su quanto anche lui, nonostante tutto l'impegno, fosse ancora fortemente influenzato da tutto il contesto sociale. Serrò la mascella, irritato anche con se stesso, prima di tornare a guardare Oikawa dritto negli occhi.


«Diglielo.»

«Come no.» ribatté Oikawa lasciandolo andare, ma Hajime fu veloce nel prendergli un braccio per evitare che si allontanasse facendo cadere un discorso che invece era importante. Era come se sapesse di essere vicino a rompere quella diga definitivamente e pensava - sperava, egoisticamente - che lo avrebbe aiutato: «Cosa frega a tuo nonno di cosa fai con la gente che ti porti al letto?!»

«Anche alla gente interessa! Credi sia così facile?!»

«Lo sarebbe se smettessi di lagnarti senza fare niente!»

«Vai a farti fott--»


Hajime aveva avuto idee migliori nella sua vita e non era mai stato un grande fan del cliché dei film romantici di quarta categoria in cui si zittiva qualcuno baciandolo. In un momento romantico di queste pellicole tutto sarebbe scomparso intorno a loro e il bacio avrebbe assunto tinte più sentimentali, mettendo tutto il resto a tacere. Invece con Oikawa Tooru niente poteva essere semplice e Hajime prima si sentì mordere il labbro inferiore e poi spintonare indietro.


«Sei uno stronzo!» sbottò Oikawa, arrabbiato e forse anche disperato.


Un attimo dopo Hajime fece qualche passo indietro, alla cieca, fino a sentire la propria schiena cozzare contro la parete della cabina armadio e le labbra di Oikawa furono di nuovo sulle sue.


*


C'era poco di romantico e molto di disperato, in un certo senso, e non era il tipo di sesso a cui Hajime si sarebbe prestato in condizioni normali. Una parte di lui, quella più razionale in effetti, aveva capito subito che Oikawa non si fosse certo scoperto all'improvviso con una storica cotta per lui né che avesse visto in quel pernottamento l'occasione per concretizzare finalmente qualcosa di lasciato in sospeso dai tempi del liceo.


Sentì Oikawa pronunciare impaziente un «Hajime» con tono basso, mentre avvertiva il suo corpo tendersi sotto il proprio e sotto i tocchi della mano. Il corpo di Oikawa era esattamente come ci si aspettava quello di una persona che per anni aveva consacrato la sua esistenza allo sport, nonostante poi non ne avesse fatto una professione. Era anche il fisico che ci si aspettava da un Alfa, forse, ma Hajime non voleva pensarlo in quei termini, categorizzarlo in quel modo che all'altro stava così stretto. Non faticava a comprendere quanto dovesse essere complicato per lui, quanto gli sembrasse di percorrere costantemente una strada in salita di cui non si riusciva a scorgere la cima. Oikawa era un uomo da cui tutti si aspettavano un carattere dominante che si estendesse anche alla sfera intima, cozzando con prepotenza con una preferenza personale che nessuno avrebbe dovuto avere il diritto di giudicare. Il modo in cui il corpo di Oikawa aveva risposto ai baci prima, alle mani sotto la stoffa poi, avevano detto a Hajime più di quanto avrebbe mai potuto tirargli fuori con le parole. Non era sottomesso nel senso più dispregiativo del termine, affatto. Era attivo e ricettivo, non restava certo inerme ad aspettare che Hajime lo toccasse o lo baciasse; lo cercava, ricambiava le attenzioni, lo toccava con lo stesso desiderio con cui Hajime pensava di star facendo lo stesso.


La carica erotica di Oikawa era qualcosa di impossibile da ignorare, ma nel modo in cui le sue mani lo stavano toccando e soprattutto nell'urgenza con cui il suo corpo continuava a cercare insistentemente il suo, Hajime riconosceva un desiderio simile ma diverso. Oikawa, probabilmente, ora come ora lo vedeva al pari di ciò che aveva sempre voluto ma non aveva osato dire ad alta voce. Non Hajime di per sé, ma ciò che rappresentava - qualcuno disposto a fare sesso con lui senza curarsi di quali ruoli la società avrebbe dovuto imporgli, ma rispettando soltanto quello che il partner voleva. Se Oikawa Tooru, un Alfa che era di certo nelle mire di molti e nei sogni di altrettanti, voleva sentire il peso di un corpo maschile contro il suo e le dita scivolare dentro di lui per prepararlo a una penetrazione, Hajime non aveva motivo per non dargli esattamente quello che voleva.


Avrebbe potuto negarglielo se non lo avesse desiderato, ma non trovava una chimica sessuale del genere con qualcuno da anni.


«Hajime» mormorò di nuovo Oikawa, il tono rauco, spingendo il bacino contro di lui. Hajime si lasciò scivolare tra le labbra un sospiro pesante, muovendo le dita dentro di lui, mordendogli piano il collo. Non era certo per sottomissione, né per emulazione - di pessimo gusto, tra l'altro - del morso di un Alfa verso un Omega. Era solo un modo di farsi sentire, di essere presente, di desiderarlo mentre Oikawa si concedeva un gemito inarcando appena la schiena. Lo sentì muovere le gambe, impaziente. Avvertì la sua mano sulla propria nuca, le dita tra i capelli neri corti e una spinta verso il basso; si lasciò guidare fino alla bocca altrui, non perdendo tempo nell'inutile tentativo di mantenere il bacio casto o breve, non avendone comunque alcuna intenzione. Accolse la lingua di Oikawa nella propria bocca e lo baciò con la stessa irruenza che l'altro cercava, per quanto non si fossero esplicitamente parlati di alcuna preferenza. Ma capiva dal solo linguaggio del corpo dell'altro che non volesse essere trattato con inutile delicatezza, con il riguardo che si sarebbe potuto rivolgere a un amante inesperto o insicuro. Sapeva cosa voleva e lo voleva da Hajime e non c'era alcun bisogno, al momento, di fingere che non fosse così.


Sfilò le dita da dentro di lui quasi nello stesso momento in cui, staccando le labbra da quelle di Oikawa, lo sentì farsi scappare un gemito più alto dei precedenti. Non gli chiese di nuovo se fosse sicuro, perché non avrebbe sortito un grande effetto; si spinse dentro di lui, più lentamente che poté, sentendolo stringersi attorno alla propria erezione d'istinto. Si morse l'interno della guancia, forte, per non venire in maniera veramente poco dignitosa. Inspirò profondamente, più volte, rimanendo immobile quando sentì di averlo penetrato del tutto.


Quando iniziò a spingere, si rese conto che contro ogni aspettativa, Oikawa era molto meno vocale di quanto si sarebbe potuto pensare. Non che fosse una legge scritta, il fatto che una persona dalla chiacchiera facile dovesse per forza essere loquace anche durante il sesso, ma nella testa di Hajime per chissà quale motivo le due cose si erano accavallate in qualche modo. Invece Oikawa comunicava molto di più con i gesti: nel modo in cui aveva stretto le gambe attorno ai suoi fianchi, per tenerlo vicino; in come le sue braccia non avevano mai smesso di restare lì ancorate alle sue spalle, o come le sue dita sembravano voler lasciare delle impronte visibili sul suo corpo quando le spinte di Hajime toccavano il punto giusto. Oppure, ancora, comunicava anche con il semplice chiamarlo per nome o nel cercare con la bocca ora il suo collo, ora il suo orecchio. Nel modo, semplice e istintivo, in cui il respiro solleticava la pelle di Hajime o la bocca trovava la sua come in una preghiera muta.


Comprese di aver individuato il punto più sensibile dentro di lui quando a Oikawa si mozzò il respiro in gola per qualche secondo, in cui annaspò in cerca di aria e poi sembrò perdere tutte le forze per un istante appena. Lo avvertì stringerglisi addosso in ogni senso possibile, la sua bocca di nuovo sulla propria, quel «Ancora» e quel «ti prego» che suonavano come un ordine e una supplica al tempo stesso. Spinse ancora, ancora, ancora fino a quando anche la voce di Oikawa finì col farsi sentire sul serio. Sentì Oikawa venirgli contro lo stomaco, bollente e con un tremore leggero delle gambe stanche; non fermò comunque il movimento del proprio bacino, raggiungendo l'amplesso con poche altre spinte e le mani di Oikawa che sembravano incapaci di lasciarlo anche quando le sue energie erano ormai venute meno.


I respiri velocizzati, ci volle qualche secondo perché Hajime si accorgesse che le dita di Oikawa tra i capelli erano scivolate via, sfiorandogli appena le spalle e sostando lì senza forze. Alzò appena il viso che aveva affondato nel collo altrui, cercando di spiarne l'espressione: aveva la pelle imperlata di sudore, il petto continuava ad alzarsi e abbassarsi e le labbra erano socchiuse. Gli occhi aperti, verso il soffitto, senza che lui riuscisse a capire davvero quali pensieri gli stessero affollando la mente.


*


Aprì gli occhi lentamente, incontrando troppa luce e ritrovandosi a chiuderli quasi subito d'istinto. Gli ci volle qualche momento per abituarsi sia all'idea di non poter ignorare di essere sveglio, né alla consapevolezza che non si sarebbe riaddormentato più, conoscendosi. Si girò pigramente, in modo da ritrovarsi su un fianco e solo allora tentò di aprire gli occhi una seconda volta. Gli ci volle qualche secondo per mettere a fuoco e capire in quale posizione si trovasse Oikawa.


Seduto sul materasso, ancora lì accanto a lui, l'altro letto su cui avevano fatto sesso del tutto sfatto e lasciato al suo destino approfittando dell'altro dopo la doccia veloce che avevano fatto. Le lenzuola a coprirgli le gambe, il busto scoperto e con ancora diversi dei segni di cui Hajime era consapevole di essere l'autore, aveva il viso girato verso la finestra. Non si stupì di trovarlo così al risveglio: intento a guardare un oceano dal quale, lungo tutta la strada che avevano fatto, era sembrato sempre attirato. L'altro dovette accorgersi del movimento perché si voltò a cercarlo con lo sguardo: quando ebbero finalmente un contatto visivo, senza una parola, Oikawa tornò a stendersi sistemandosi a sua volta su un fianco, per fronteggiarlo.


Tacquero entrambi, senza che Hajime sapesse cosa dire o cosa l'altro si aspettasse che dicesse. Senza reale sorpresa, fu comunque Oikawa a prendere parola per primo.


«Abbiamo il check-out tra cinque ore.»

«...tra cinque?»

«Sono le sei.» spiegò quello, osservandolo.


Hajime sospirò, chiudendo gli occhi per un momento. Non si aspettava di sentire delle labbra sulle sue, seppure per un tocco breve; quando guardò di nuovo Oikawa, l'altro sembrava del tutto a suo agio.


«Questo cos'era? Il buongiorno?» chiese, senza ironia.

«Potrebbe» replicò Oikawa «O potrebbe essere la richiesta di fare di nuovo sesso.»

«Romantico.» ironizzò stavolta Hajime, vedendolo però sbuffare divertito mentre una sua gamba si insinuava tra le proprie - senza davvero sfiorargli nessuna parte troppo sensibile, al contrario di come fece la mano che di lì a poco sentì sfiorare in una carezza neanche troppo velata il suo interno coscia.


Oikawa lo osservò, senza alcuna provocazione; c'era qualcosa di sensuale nel modo naturale con cui ora, dopo aver fatto sesso una volta, non sembrasse sentirsi più in difetto nel chiedere quello che voleva anche solo con i gesti.


«Sarebbe un'idea pessima?» lo sentì mormorare, il viso abbastanza vicino da essere perfettamente udibile anche così. Hajime tacque, soppesando la cosa: sarebbe stata un'idea pessima? Per quanto ne sapeva sì, ma sarebbe potuta essere anche quella migliore di tutte. Non sapeva dove li avrebbe portati, né tantomeno se si sarebbe rivelata il principio di un disastro. Non aveva la minima percezione di come sarebbe stata affrontata la questione se da "aver fatto sesso un paio di volte" si fosse trasformata in qualcosa di più serio. D'altra parte non doveva saperlo. Non era tenuto lui, come non lo era Oikawa. Nessuno pretendeva che decidessero ora.


Hajime allungò una mano sotto le lenzuola, fino a raggiungere il polso di Oikawa; guidò quella mano che lo aveva sfiorato poco più verso il centro, fino al proprio membro, rifilando all'Alfa un sorrisetto sghembo prima di vederlo sorprendersi per un istante e sentirsi baciare quello dopo.


La strada poteva essere lunga, in salita e senza una meta concreta. Per ora, però, l'unica di cui si sarebbe preoccupato sarebbe stata quella del ritorno verso casa.


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Prompt: strada

Missione: M4 (week 6)

Parole: 12465

Rating: explicit

Fandom: Haikyuu!!

Warnings: road trip au, omegaverse



Quello non era il tipo di cosa che Iwaizumi avrebbe mai pensato di fare in vita sua, a dirla tutta. Appena diplomato, forse, per una incoscienza tutta particolare della tarda adolescenza ma a ventisei anni cominciava a essere a suo modo fuori target. A essere del tutto sincero Hanamaki era in questo caso la causa primaria del suo male - un aspetto mai davvero cambiato rispetto ai tempi del liceo - dopo averlo preso per puro sfinimento. Il problema con lui era che ricopriva il ruolo dell’amico tecnologico del gruppo, quello che non importava se un’app era stata rilasciata neanche ventiquattro ore prima, lui avrebbe comunque saputo spiegare ogni più piccola funzionalità come se la utilizzasse da mesi. Era sempre stato così e anche in questa occasione non aveva fatto alcuna eccezione, martellando metaforicamente la psiche di Hajime fino a quando non aveva raggiunto il limite della sopportazione. Pensare che era anche molto più paziente di un tempo, poi. 


Naturalmente sperare nell’aiuto di Matsukawa era sempre stato abbastanza inutile e la cosa non era andata migliorando da quando ormai tre anni prima avevano definito di essere in una relazione stabile. Iwaizumi non aveva mai capito se Matsukawa fosse il tipo da voler semplicemente viziare la persona con cui stava o se la sua riserva energetica gli impedisse di faticare senza motivo sulle battaglie perse in partenza.


In ogni caso, alla fine, si era fatto convincere dall’ennesimo fiume di parole da parte di Hanamaki e dal suo continuare a ribadirgli che «E’ del tutto sicura!» oppure «Pensa che devi comunque inserire il tuo secondo genere e fanno dei controlli il giorno della partenza» e anche «Ti ci vuole una cosa più trasgressiva di due birre davanti a netflix, dai.» con cui si era guadagnato uno scappellotto dietro la nuca, perché sì.


L’app in questione non era malvagia di per sé ma, quando l’altro gliene aveva parlato all’inizio, Iwaizumi l’aveva etichettata subito come l’ennesima app di incontri solo mascherata da altro e questo l’aveva fatta precipitare nella sua lista di cose importanti da ricordare. A quanto pareva, però, non si era rivelata niente di troppo trash come Iwaizumi pensava e anzi era diventata anche piuttosto famosa sul web; lui si era limitato a scorrere qualche articolo senza leggerlo con vero interesse, ma ormai nella sua formula recensita da tantissime persone aveva trovato un modo vincente di sopravvivere a tutte le altre. Bastava davvero poco per iscriversi e usufruire di “On the road”: si creava un account in cui le informazioni obbligatorie da inserire erano data di nascita e secondo genere. Iwaizumi aveva scoperto che non c’era molto della dating app, lì dentro: non ci si sceglieva a vicenda, non si visualizzavano centinaia di profili con foto discutibilmente vere per poter flirtare via chat. I dati in questione servivano unicamente agli organizzatori dietro il servizio che On the road offriva: un viaggio appunto su strada, scelto in base alle preferenze sia di lunghezza che di punto di partenza e punto di arrivo. Erano poi gli amministratori a effettuare i matching e a controllare, il giorno di ogni partenza, che tutto rispettasse quanto dichiarato.


Alla fine l’organizzazione era sembrata decente abbastanza da farsi convincere. Ora, la sera prima della partenza, Iwaizumi si chiedeva se fosse stato saggio riservarsi come primo approccio un viaggio di ore percorrendo una parte del Giappone.


«Domani è il gran giorno eh?» sentì dire a Matsukawa dall'altra parte del telefono, per quanto nel ricontrollare al volo il borsone che aveva intenzione di portarsi dietro, Iwaizumi aveva poggiato il cellulare sul materasso limitandosi a metterlo in viva voce. Chissà se così l'altro avrebbe sentito più forte e chiaro il «Fottiti.» che pronunciò al suo indirizzo, per quanto ormai fosse più l'intercalare di anni di amicizia che non qualcosa di detto con cattiveria. Prevedibilmente, la risata di Hanamaki arrivò quasi subito, anticipando il suo «Devi assolutamente mandarci degli aggiornamenti! Usali quei social network visto che da ottimo amico quale sono mi sono preso la briga di spiegarti come funzionano anni fa!»


Non visto, Iwaizumi alzò gli occhi al soffitto, senza nemmeno rispondergli.


«Facci sapere almeno se sopporti per più di un'ora chi ti hanno dato come compagno di viaggio.» aggiunse Matsukawa, limitandosi a pochi altri scambi prima di lasciarlo in pace e chiudere la chiamata.


Hajime, assicuratosi di avere tutto il necessario, recuperò il telefono stendendosi sul letto; aprì l'applicazione, scorrendo le informazioni che erano state caricate sul suo profilo una volta effettuato il matching e dove c'era a disposizione anche l'itinerario. A quanto pareva anche quello veniva valutato a seguito di tutta una serie di richieste che si inserivano nel form da cui gli organizzatori prendevano le informazioni necessarie - c'erano le più disparate, in effetti, tra cui anche la preferenza del secondo genere del proprio compagno di viaggio. A Iwaizumi non piaceva l'idea, ma quando aveva visto quella domanda a scelta multipla si era chiesto quanti accettassero di viaggiare con gli Omega. Aveva supposto che forse a parte scegliersi tra loro, l'unica altra alternativa fossero i beta come lui e per questo alla fine aveva deciso di spuntare l'opzione "indifferente" perché potessero accoppiarlo un po' a chiunque. Dopotutto per lui indifferente lo era sul serio.


L'itinerario, doveva ammetterlo, non era male: personalmente non aveva inserito troppe specifiche, solo una preferenza di paesaggio o di punti di interesse in cui fermarsi brevemente. Sulla carta il viaggio di per sé era di sette ore e mezza, ma questo supponeva non fermarsi mai, cosa che era ovviamente impossibile oltre che sconsigliato; parte dell'obbiettivo, dopotutto, era interagire anche con l'altra persona e godersi qualche luogo particolare lungo la strada. Nel suo caso il percorso selezionato dagli organizzatori era una cosiddetta "strada panoramica": da Iino-Ura a Ine, si passava tra delle foreste e persino lungo una costa. Lungo la strada, a quanto sembrava, ci si imbatteva in Izumo dove vedere uno dei più antichi santuari del Giappone - uno che Iwaizumi, a onor del vero, non aveva mai visitato prima - era un must. Indicati come altri punti di possibile interesse, a scorrere lì sullo schermo del telefono, c'erano la baia del lago Shinji e le dune di un parco nazionale. Le uniche del Giappone, apparentemente. Alla fine si sarebbero fermati a Ine, un villaggio famoso per le case galleggianti in riva al mare. Iwaizumi non riusciva a immaginarsele viste dal vivo, avendole avute sotto gli occhi una o due volte e di sfuggita, in foto di guide turistiche. Non faticava a credere, però, che dovessero avere un loro perché.


Sospirò, impostando la sveglia e mettendo il telefono in carica. Ormai, anche volendo, non poteva comunque disdire all'ultimo e tutto sommato sembrava valerne la pena.


*


Se l'inizio della giornata era da considerare un segno sul tornare a dormire, Iwaizumi non aveva colto come avrebbe dovuto. D'altra parte farsi cadere di mano la fetta di toast - rigorosamente dal lato della marmellata, perché doveva essere una chiara legge universale - era per lui più motivo di un'imprecazione che non di superstizione.


Chiuse il bagagliaio, assicurandosi che fosse a posto, prima di muoversi verso il posto di guida vinto con un agguerrito scontro a sasso, carta, forbici. Gli organizzatori avevano appena finito di dare le ultime informazioni al suo compagno di viaggio per la prossima manciata di ore che, come lui, aveva passato anche i controlli - alfa, esattamente come dichiarato all'iscrizione e lo stesso si poteva dire per la sua identità e data di nascita. Quello che gli organizzatori non potevano immaginare era che Iwaizumi non aveva avuto bisogno dei loro controlli per sapere di avere davanti esattamente chi l'altro diceva di essere.


Oikawa Tooru era stato una presenza nei corridoi per tutti e tre gli anni del liceo, ma mai una nella sua classe. Iwaizumi lo conosceva perché non era letteralmente possibile essere uno studente della sua scuola e non sapere chi fosse Oikawa: perennemente in una relazione, un flirt su gambe, asso della squadra di pallavolo della scuola e forse uno degli alfa più ambiti della scuola. Il bastardo lo sapeva benissimo e non aveva mai fatto alcun mistero della cosa, né di certo gli era mai appartenuta la falsa modestia. Iwaizumi ci aveva parlato giusto un paio di volte, accompagnando Hanamaki a vedere le partite della squadra per via di Matsukawa, ma l'altro non aveva abbastanza tempo da perdere con le conversazioni con gente a cui non era interessato. Non che Hajime ci avesse perso il sonno, chiaro.


Era abbastanza certo che Oikawa non avesse la minima idea di chi lui fosse e andava bene così. Magari crescendo era migliorato. Forse sarebbe stato un viaggio inaspettatamente piacevole. Dopotutto--


«Aw, quindi ti chiami Iwaizumi Hajime! Bene, da adesso in poi sarai Iwa-chan!»


Dopotutto poteva ucciderlo nel sonno e abbandonarlo sul ciglio della strada, nessuno lo avrebbe mai saputo, giusto?


Nel dubbio, trovandosi ancora a portata di occhi e orecchie indiscreti, decide di non inveirgli contro minacciandolo di buttarlo giù dalla macchina alla prima curva dall'aria sufficientemente pericolosa; piuttosto sale sull'auto, chiude la portiera e proprio mentre Oikawa finisce di inserire le informazioni nel navigatore lui gli pianta una mano in faccia per allontanarlo con un burbero: «Fa già caldo abbastanza senza che mi aliti addosso mentre guido.»


Ottenne in cambio uno sguardo offeso e un «Sei violento, Iwa-chan!» che gli penetrò le orecchie.

Ebbe il sospetto che la strada fosse destinata a sembrare mille volte più lunga di quanto già non fosse e che quei trecentocinquanta chilometri sarebbero sembrati  miglia intere.


*

I primi trenta minuti di strada si erano rivelati a dir poco insopportabili: Oikawa non aveva smesso di parlare un secondo, facendo rivalutare a Hajime tutte le sue scelte di vita, compresa l'amicizia con Hanamaki al quale avrebbe imputato per tutto il resto della propria esistenza la decisione di affidarsi a una app per un esperimento del genere. Poco importava fosse stato il caso - o il karma, non poteva che essere quello - a farlo finire con Oikawa.


Il karma non poteva picchiarlo, Hanamaki sì.


Neanche il principio di foreste che era previsto avvistassero per prime lungo la strada aveva avuto il potere di zittire Oikawa. Avesse almeno cercato di fare attiva conversazione, Hajime ci avrebbe quantomeno provato. Invece era stato un monologo randomico, passando da un discorso all'altro senza che ce ne fosse anche soltanto uno interessante o che fosse pensato per essere un botta e risposta, uno scambio di qualche tipo. Hajime, nel sentirlo finalmente restare in silenzio dopo così tanto tempo, decise che non importava nemmeno troppo il motivo: ne era comunque grato.


Riuscì finalmente a rilassare la presa sul volante, che non si era nemmeno accorto di aver stretto così tanto fino a quel momento pur di scaricare il nervosismo, e a sospirare concedendosi un po' meno rigidità all'altezza delle spalle.


A giudicare da quanto riportato sull’itinerario, la prima area di sosta sarebbe stata molto più avanti, a metà tra la parte di foresta e costa e quella prima di raggiungere Izumo. Di norma il silenzio con uno sconosciuto in macchina poteva risultare pieno di quell’imbarazzo di quando non si sapeva cosa dire, ma Hajime non la considerava così male come situazione: in primis perché Oikawa gli aveva già fatto sanguinare le orecchie abbastanza, per i suoi gusti; secondo, perché doveva ammettere che il panorama già da ora sembrava valere la pena. Era bastato allontanarsi un poco dal punto di partenza, di sicuro studiato perché non si dovesse percorrere metà della strada prevista per cominciare all’effettivo a godersi quello che il tragitto studiato avrebbe dovuto permettere di ammirare. Come tutte le foreste e i luoghi affini, Hajime si accorse subito di due aspetti: il vento sembrava arrivare meglio, di certo aiutato dal loro percorrere la costa, e l’atmosfera era quella di un luogo lontano da qualsiasi fonte di stress il resto del mondo potesse subire.


«Bisogna dire che per essere un bel percorso da fare, lo è.» sentì pronunciare al proprio fianco, ma il tono di voce era così diverso da prima - e molto meno fastidioso, soprattutto - che Hajime impiegò un paio di secondi a realizzare che si trattava sempre di Oikawa e a ricordarsi di avere lui seduto sul sedile del passeggero. Gli dedicò un’occhiata laterale, breve, prima di tornare a fissare la strada davanti a sé. Si rese conto che quello doveva essere il massimo tentativo di conversazione che l’altro potesse offrire ora come ora.


«Di sicuro è studiato per andare bene sia a chi preferisce la parte della foresta, sia a chi apprezza stare vicino all’acqua.» osservò, maledicendosi nel rendersi conto di suonare più o meno come il presentatore del meteo o una guida turistica poco convinta. Si aspettava di sentire l’altro ridere o prenderlo in giro, ma Oikawa rimase in silenzio e si limitò ad abbassare un poco il finestrino mentre Hajime svoltava immettendosi nella strada che a quel punto e per un lunghissimo tratto avrebbe dovuto solo limitarsi a seguire ignorando qualsiasi svolta verso l’entroterra a giudicare da quanto il navigatore rimandava sul suo schermo. Quasi per dargli conferma, la voce pre-impostata iniziò a pronunciare un «Proseguire lungo il percorso…»


«Dovendo scegliere, la costa.» se ne uscì Oikawa, agganciandosi all’osservazione generica di Hajime. Non se l’aspettava, ma suppose fosse il massimo di input alla conversazione che potessero avere e decise che avrebbe almeno dimostrato di apprezzare lo sforzo: «Mh. Forse anche io.» soppesò la cosa, mantenendo comunque l’attenzione e lo sguardo davanti a sé sulla strada «Anche se non è una preferenza assoluta. Anche i sentieri di montagna in mezzo al bosco non sono male.»


«Ew, ma è pieno di schifezze. Scommetto che sei uno di quelli che poi trova accettabile fare la pipì dietro un cespuglio e dorme a terra come un sasso.»
«Sì chiama campeggio, Oikawa, non so se te lo hanno mai spiegato alle scuole elementari.» rimbeccò, pur dovendosi impegnare a nascondere un accenno di divertimento che altrimenti non avrebbe faticato a trasparire dal tono di voce.


«No, Iwa-chan, non hai capito.»
«Cosa non ho capito?»
«Dormi a terra… come un sasso…» ripeté Oikawa più lentamente e, approfittando di un momento in cui Hajime spostò lo sguardo su di lui, fece un movimento su e giù con le sopracciglia con l’espressione più stupida del creato. Gli ci volle qualche secondo per capire l’orrenda freddura di cui quell’imbecille andava tanto fiero al punto da ripeterla anche, per essere certo Hajime la cogliesse. 


«Ti meriteresti che andassi fuori strada, se solo conoscessi un modo per farlo senza finirci di mezzo anche io.» commentò aspro, smettendo di guardarlo e sentendolo esclamare subito un «Questa è cattiveria gratuita?!» che decise di ignorare.


*


A Iwaizumi non ci era voluto molto per capire l’arcano su cui non si era mai davvero soffermato durante il liceo, ossia cosa di Oikawa Tooru lo rendesse tanto popolare, al di là degli aspetti più superficiali. Hajime ricordava una sola volta in cui aveva pensato di trovarlo oggettivamente interessante ed era stato durante una delle partite della squadra a cui si era fatto trascinare da Hanamaki. Il fatto che Oikawa fosse un atleta di spicco, Hajime lo aveva notato senza difficoltà: lui aveva giocato a pallavolo solo durante le scuole medie, scegliendo di lasciar perdere e non proseguire al liceo se non di tanto in tanto per qualche partita amichevole con i ragazzi e gli adulti del quartiere. Nonostante questo non serviva essere un allenatore certificato per riconoscere non solo il valore di Tooru ma anche per rendersi conto di come fosse una spanna sopra tutti gli altri, a eccezione di Matsukawa che gli stava dietro senza eccessive difficoltà.


Eppure l’unico momento in cui Oikawa gli era sembrato qualcosa di più di un bravo atleta con un ego troppo grande, era stato quando lo aveva visto perdere. Non perché Hajime gli augurasse di fallire - la sua esistenza era di rilievo quanto lo era la propria per Tooru, ossia quasi per nulla - ma perché per la prima volta aveva visto sul suo viso un’espressione diversa dall’arroganza che sembrava tenersi addosso come un obbligo morale. Oikawa aveva mostrato di tenerci e di essere umano e Hajime aveva saputo apprezzarlo davvero in quell’occasione. Peccato si fosse rivelata estremamente rara, non si fosse ripetuta e avessero frequentato circoli talmente diversi che in ogni caso la situazione si sarebbe potuta presentare con molta difficoltà.


Ripensandoci adesso, costretti nella stessa macchina e superata ormai la prima ora e mezza di percorrenza, lo stesso sentore avuto anni fa in una palestra scolastica si era ripresentato: Oikawa Tooru aveva un suo perché e, incredibilmente, era capace di essere una compagnia piacevole se si sopportava il suo primo approccio - e non si macchiava la propria fedina penale arrendendosi al forte istinto di soffocarlo. 


«Ci fermiamo a Izumo, giusto Iwa-chan?»


O se si accettava di avere un nomignolo non richiesto come ineluttabile destino.


«Direi. Hai già visitato il santuario?»
«No, mai. Pensavo che magari potremmo allungare un po’?»
«Allungare tipo?» chiese, inarcando un sopracciglio e guardandolo di sottecchi per qualche istante. La strada si dispiegava ancora per un po’ davanti a loro e Hajime aveva concordato un cambio al volante proprio nel ripartire da Izumo. Non gli pesava guidare per un tratto in più, ma l’idea di fare una deviazione su un percorso ragionato e programmato era un’altra questione. Di contro, il punto del viaggiare con un’altra persona che in teoria non si conosceva - o come nel suo caso, si conosceva molto poco - era anche il compromesso e Hajime immaginava non sarebbe stato il massimo impuntarsi già ora con davanti a loro almeno altre sei ore di viaggio. 


«Tipo parcheggiamo, andiamo a visitare il santuario, mangiamo qualcosa e magari ce la portiamo dietro. C’è la spiaggia a pochi minuti di macchina, quanto potrà mai essere a piedi?» propose Oikawa e Hajime dovette ammettere che non era poi un’idea così malvagia. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e il tempo era buono. Allungare un po’ la strada non era così tragico, specie visto che non sembrava essere una grande deviazione e non c’era nulla di male né era vietato dalle regole dell’organizzazione di on the road


«Va bene.» replicò quindi, semplicemente. Con la coda dell’occhio vide Oikawa voltarsi incredulo verso di lui con un: «Ma dai? Ti ho già convinto?!» e, dovette ammetterlo, non poté fare molto per mascherare lo sbuffo divertito che gli sfuggì tra le labbra. 


*


Il santuario di Izumo si era rivelato essere il tipo di posto capace di zittire anche una persona come Oikawa e di renderlo la rappresentazione del tipico giapponese: all'occhio di un qualsiasi turista i santuari dovevano sembrare tutti piuttosto simili, eppure riuscivano comunque ad avere un fascino tutto loro. Per lui, Hajime, averne visto uno non significava automaticamente averli visti tutti; tuttavia, anche quando andava sempre allo stesso per la visita del nuovo anno, non riusciva comunque a non avvertire quel qualcosa nell'atmosfera generale. Il santuario di Izumo gli faceva lo stesso effetto e fu strano condividerlo proprio con Oikawa, ma si presero il loro tempo anche separandosi a un certo punto.

Una volta riuniti, non era stato così difficile trovare dove recuperare qualcosa da mangiare e dal momento che la strada fino alla spiaggia Inasa era piuttosto semplice da percorrere anche a piedi e ben divisa dal tratto percorribile dalle macchine, si mossero fino a lì assecondando la richiesta dello stesso Tooru.


Il bel tempo si rifletteva anche nel mare e nel suo essere una tavola calma e piatta. La brezza era piacevole, ma non forte abbastanza da rendere il loro pranzo immangiabile a causa della sabbia. Tooru aveva insistito per piazzarsi, contrariamente a quanto Hajime avrebbe scommesso, in un punto da cui guardando verso l'orizzonte il mare sembrasse spezzato a metà dal grande scoglio caratteristico della spiaggia. All'inizio non aveva trovato un grande senso nella cosa, ma non se ne era fatto davvero un problema, limitandosi a sedersi sulla sabbia e provando a guardare nella sua stessa direzione per capire cosa ci trovasse.


Aveva quasi finito di mangiare il secondo onigiri quando la voce di Oikawa ruppe il silenzio.


«Una volta ho visto una foto di questo posto, credo fosse stata scattata all'alba.» iniziò a raccontargli un po' dal nulla, con nella mano ancora una polpetta di riso anche lui. Gli occhi erano verso l'orizzonte, l'espressione rilassata come chi osserva un panorama conosciuto a memoria che ormai si guarda per lo più per nostalgia e non per la curiosità di qualcosa di nuovo da fissare nei propri ricordi. Hajime non fece domande, perché aveva la sensazione che a Oikawa non servisse essere incalzato - o forse avrebbe avuto persino l'effetto contrario. Non gli aveva mai dato l'idea di un ragazzo particolarmente serio, ma Hajime non dimenticava il fatto di star parlando dell'Oikawa adolescente che apparteneva al suo ricordo altrettanto adolescente.


Per quanto la base di un carattere fosse sempre la stessa e magari non sarebbero stati i migliori amici né allora né adesso né mai, non significava che non avesse il suo bagaglio personale fatto di esperienze e che fosse quindi anche molto diverso da come Hajime lo ricordava.


«Sembrava diviso a metà. Quasi avessero preso due foto diverse, fatte in momenti differenti per poi metterle solo una vicina all'altra. Quel lato» e indicò sulla sinistra «era più sull'azzurro. L'altro» e indicò alla propria destra «era al tramonto, credo. Era incredibile.» lo sentì mormorare, come se fosse un qualche tipo di segreto da rivelare a pochi eletti. Hajime non riusciva a immaginarsi quel gioco di colori senza vederselo davanti agli occhi, ma guardando Oikawa e ascoltando il modo in cui ne parlava ebbe la sensazione che forse anche lui a un certo punto di fosse sentito spaccato a metà.


Ricordandolo nella sua arroganza di adolescente, Hajime si chiese quando gli fosse successo.


Ricordandolo in quella sua esistenza perfetta agli occhi di un'intera scuola, si chiese perché.


*


La strada dal santuario di Izumo alla città di Matsue aveva un tempo di percorrenza, a giudicare da quanto segnato sul navigatore della macchina, di poco meno di un’ora. Lui e Oikawa si erano presi il giusto tempo, una volta mangiato, di fare una passeggiata - o meglio, l’altro aveva insistito per mettere i piedi in acqua nonostante non fossero ancora temperature così calde da giustificarlo. Hajime aveva passato il tempo solo a guardarlo, all’inizio, non avendo poi tutta questa voglia di passare il tempo a togliersi la sabbia da in mezzo alle dita dei piedi. In un primo momento Oikawa aveva semplicemente tolto le scarpe lasciandole lì vicino a lui, i calzini infilati alla meno peggio nelle stesse e aveva arrotolato un poco le gambe dei pantaloni per muoversi verso il bagnasciuga. Poco era importato che l’acqua fosse calda, gelida o tiepida perché Oikawa non si era fermato né aveva rallentato il passo: aveva semplicemente immerso i piedi e poi fatto quei due, tre passetti tipici di quando il freddo arriva tutto insieme e si rimpiangono le proprie scelte.


Poi si era messo a ridere come un ragazzino, continuando a dire «E’ freddissima, Iwa-chan!» come se lui dovesse farci qualcosa e, al tempo stesso, senza davvero uscire dall’acqua nonostante sarebbe stata l’unica cosa logica da fare. 


Alla fine dopo una decina di minuti si era arreso a tornare verso di lui, avevano aspettato che la sabbia sui piedi fosse asciutta abbastanza da essere tolta alla meno peggio per poter indossare le scarpe e si erano rimessi in macchina con Oikawa alla guida. 


Hajime iniziava giusto a sentire, dopo ormai un quarto d’ora di percorso, un po’ di sonno arrivare - non così strano considerando quanto presto si fosse svegliato per raggiungere il punto di partenza di quell’itinerario - quando la voce di Oikawa quasi sembrò richiamarlo all’ordine.


«Mi ricordo di averti visto, una volta, a una delle partite della scuola.» se ne uscì l’ex pallavolista, con il tono leggero di chi faceva conversazione sui pochi argomenti comuni che era riuscito a individuare. Hajime annuì, dimentico di come l’altro avesse giustamente gli occhi sulla strada: «Accompagnavo Hanamaki a fare il tifo per Matsukawa.»


«Ah, Mattsun, ma certo!» esclamò Oikawa, contento «Mi ricordo che aveva iniziato tipo a frequentarsi da poco, lui e Makki, sì? Non molto seriamente, nel senso, non erano proprio una coppia fissa o sì?» chiese, dubbioso. Non gliene fece una colpa, dopotutto era stato tutto abbastanza fumoso per fin troppo tempo anche per gli amici più stretti e non aveva idea di quale tipo di rapporto avessero all’epoca Oikawa e Matsukawa. Anche ai tempi del liceo non è che Hajime avesse sentito quest’ultimo parlarne più di tanto, se non quando accennava a qualche aneddoto di squadra. 


«Non credo lo fossero, allora, no.» ammise, solo per sentire Oikawa esclamare immediatamente: «Adesso sì?!»


Fu più forte di Hajime: si ritrovò semplicemente a guardare il viso di Oikawa e poi a scoppiare a ridere, non così sguaiato, ma senza dubbio divertito dalla reazione. 


«Lo dici come se avessi aspettato per anni di sapere se la tua coppia preferita era vera oppure no!»
«Stai scherzando?! Tutto lo spogliatoio aveva scommesso! Beh, tranne Mattsun ovviamente. Se lo avesse saputo non penso l’avrebbe presa bene, anche se io sono sicuro lo sapesse e lo stronzo lo abbia fatto di proposito a non dirci nulla fino al diploma.» disse con un broncio evidente, mostrato senza alcuna vergogna. 


«Considerando Matsukawa, non mi stupirebbe per niente.» ammise con un sorrisetto «Ma non credo siano diventati ufficiali così facilmente come credi. A loro modo avevano dei tempi discutibili e abbastanza diversi dalle altre coppie che avevamo al liceo.» la buttò lì, perché alla fine Hajime non era mai stato il tipo da impicciarsi degli affari degli altri. Se Matsukawa e Hanamaki fossero andati a chiedergli di parlare, non si sarebbe sottratto, certo. Da lì ad andare a chiedere di sua volontà, però, c’erano centinaia di altre possibilità nel mezzo e non per disinteresse, ma per rispetto della loro privacy. Hajime era più tipo da vegliare sugli amici da lontano.


«Coppia difficile, mh?» fece eco Oikawa, rallentando un poco per adocchiare meglio il navigatore e assicurarsi di star prendendo la svolta giusta. Non lo diceva però con un tono ironico né derisorio, anzi, sembrava a suo modo star accarezzando un ricordo o un concetto a cui era particolarmente affezionato: «Comunque» riprese come se fosse stata una parentesi di distrazione gradita ma che non voleva rendere il focus della conversazione «mi ricordo di te quella volta sugli spalti in alto.»


Hajime lo osservò in maniera più diretta, non riuscendo a indovinare in quale direzione dovesse andare quella chiacchierata.


«Anche io me lo ricordo. Non che ne abbia viste abbastanza da confonderle.» aggiunse con onestà, sentendo Oikawa sbuffare divertito «Sono sicuro che te la ricordi per i motivi sbagliati.»
«Tipo tu che piangi disperato per la sconfitta?»
«Che stronzo! Non piangevo disperato!» rimbeccò Oikawa, staccando una mano dal volante e allungandola abbastanza da dargli una leggera spinta. C’era una complicità strana in quel momento tra loro, quella che Hajime immaginava ci sarebbe stata con più naturalezza se avessero avuto tempo di instaurare un certo tipo di rapporto negli anni, magari proprio con Matsukawa e Hanamaki a fare da collante. Non era comunque spiacevole come se la sarebbe aspettata all’inizio di quel viaggio, quello doveva ammetterlo.


«Non era comunque male.» gli fece presente, a lasciar intendere che piangere come un disperato non dovesse essere necessariamente considerato un suo pungolarlo su qualcosa di cui vergognarsi. Vide Oikawa assumere un’espressione poco convinta, lasciando poi che il broncio scivolasse via, il suo posto preso da un fare più serio e assorto. 


«A nessuno piace perdere.» disse alla fine Oikawa, quasi avesse impiegato tutto quel tempo a elaborare una spiegazione che nessuno gli aveva chiesto e che di certo Hajime non pretendeva da lui a quanto, dieci anni dall’accaduto? Non sapeva bene come rispondergli, a essere sincero: supponeva che il problema principale, in effetti, potesse essere che in quanto Alfa Oikawa non doveva essere stato granché abituato a non raggiungere certi risultati. Non aveva nessuna idea di come fosse il suo ambiente famigliare, quindi erano tutte supposizioni a cui non se la sentiva di dare voce, perché quello era uno dei modi migliori di fare figure pessime e di toccare senza volerlo dei tasti a dir poco dolenti. Alla fine, quindi, non poteva fare altro che annuire senza sbilanciarsi davvero, eppure quello ebbe il potere di far sbuffare divertito l’altro.

«Non volevo un discorso motivazionale da parte tua, smettila di pensare a qualcosa da dire, ti vengono le rughe!» lo sentì prenderlo in giro e stava anche per rispondergli a tono quando notò che il suo viso si illuminava e lo sguardo si faceva più vispo «Guarda, Iwa-chan!» esclamò infatti, indicando davanti a sé. La strada che avevano percorso fino a quel momento faceva una curva leggera oltre la quale all’improvviso, neanche il tragitto stesso l’avesse tenuto nascosto fino ad allora per permettere un certo effetto sorpresa, la baia del lago Shinji diventava visibile. 


Hajime sentì la macchina rallentare un poco e suppose fosse perché Oikawa voleva nel suo piccolo impedire al panorama di sfrecciare troppo velocemente. L’ideale sarebbe stato fermarsi di nuovo, era vero, ma avevano fatto pausa nemmeno un’ora fa e se avessero continuato a fare soste, avrebbero allungato inverosimilmente il percorso. Raggiunta la città di Matsue, infatti, avrebbero avuto come tappa seguente di interesse il parco nazionale di San’in Kaigan che distava altre due ore. Da lì, si supponeva che l’ideale potesse essere fare quindi tutto l’ultimo pezzo senza ulteriore fermate fino ad arrivare alla città di Ine. Da lì avrebbero deciso se prenderla con calma e partire direttamente il giorno dopo - opzione consigliata dagli organizzatori di On the road, quantomeno per una questione di sicurezza alla guida - o fare una vera e propria traversata al contrario con come unica possibilità il guidare di notte.


Per quanto lo riguardava, preferiva di certo stare tranquillo sull’essere riposato mentre era alla guida, specialmente se portava un passeggero con sé. Immaginava che anche Oikawa non avesse reali motivi per decidere diversamente, per quanto non ne avesse una reale certezza. Vedendo però come aveva rallentato per godersi il panorama e considerato anche quale esperienza particolare fosse quella che stavano facendo… 


«Perché non facciamo sosta a Matsue?» la buttò lì, osservandolo. Le sue parole sembrarono far tornare Oikawa più presente e fargli perdere un pizzico dell’interesse che aveva per il paesaggio lacustre, catapultandolo tutto su Hajime stesso.


«…Finiremmo per allungare un po’, però.» gli fece notare Oikawa, come se non fosse sicuro che Hajime lo avesse preso in considerazione e al tempo stesso volesse assicurarsi di non vederselo rinfacciare poi «Pensavo fossi più tipo da attenerti al piano e al percorso.»
«Nemmeno abbiamo delle vere indicazioni, addirittura consigliano di pernottare anziché tornare indietro direttamente rischiando di guidare di notte. Oltretutto ci siamo fermati per uno spuntino e se andiamo ancora dritti dopo Matsue, finiamo di sicuro per trovare l’altro stop oltre l’ora di pranzo o di doverci fermare dove non era neanche previsto. Non che comunque ci rimproverebbe nessuno.» sottolineò Hajime per cui, davvero, non era questo grande dramma il doversi fermare in più. Era un’esperienza ma soprattutto per lui era anche uno stacco dalla vita di tutti i giorni, viverlo con l’ansia di dover rispettare chissà quali orari quando non gli erano stati imposti, non lo trovava così piacevole. 


Oikawa sembrava combattuto. Hajime non riusciva davvero a ipotizzare perché e chiederlo, sospettava, non sarebbe davvero servito. 


«Però voglio mangiare granchio a pranzo.» se ne uscì.

«Ma siamo al lago.»
«E quindi? Io voglio il granchio!» proseguì infantile, ma Hajime si limitò a sospirare e scuotere la testa, impegnandosi a sembrare più rassegnato di quanto fosse davvero.


*


Alla fine fermarsi a Matsue si era rivelata una scelta giusta. Hajime si era informato un poco sui vari itinerari e cosa potessero offrire, certo, ma non aveva fatto lo stesso livello di ricerche di quando era lui a organizzare per sé qualche viaggio anche solo fuori porta. Così pur avendo sentito parlare più volte di come Matsue fosse considerata una “città sull’acqua”, non ricordava di preciso quanto fosse consigliato lo spostamento in barca. Un’esperienza che si sarebbe di sicuro perso se non fosse stato per Oikawa che lo aveva trascinato subito dopo il pranzo, a suon di «Eddai, Iwa-chan, non puoi perdere l’occasione!»


Il modo in cui le imbarcazioni adatte a muoversi per i canali della città scivolavano sulla superficie dell’acqua era quasi strano, dopo ore sulla strada e con la macchina come mezzo. C’era qualcosa di calmante nel lieve sciabordio dell’acqua, nei versi di uccelli che sembravano chissà quanto lontani quasi a portare i loro suoni fossero più che altro le loro eco. I canali offrivano la possibilità di guardarsi intorno e individuare tanto verde quanto gli scorci del quartiere dei samurai. L’uomo che guidava la loro imbarcazione dava loro le spalle, lì sulla prua, in un placido silenzio che per lui doveva probabilmente sapere di quotidianità. Sotto la parte coperta, a una distanza di oltre la metà dell’intera lunghezza dell’imbarcazione, Hajime e Oikawa sedevano ai due lati opposti così che entrambi potessero anche godersi la vista o sporgersi appena. Hajime pensava non avrebbero scambiato molte parole e gli andava bene così, dopotutto; si stupì un po’ quindi, quando la voce dell’altro lo raggiunse. 


«Perché non hai mai partecipato a un club sportivo? Mattsun diceva che eri una delle persone più diligenti che conosceva e che andavi a correre tutte le mattine anche se poi non eri parte di una squadra. Diceva anche che saresti stato un compagno con cui si sarebbe divertito a giocare e Mattsun non lo diceva spesso degli altri.» pronunciò Oikawa e quando Hajime si voltò a cercare il suo sguardo lo trovò ancora insistentemente rivolto all’acqua. Era un argomento così randomico rispetto a quello che stavano facendo che Hajime per qualche istante non seppe bene cosa rispondere, ma solo perché non capiva se ci fosse qualcosa di più preciso che avrebbe dovuto cogliere oppure no. 


Alla fine rinunciò a trovare per forza un senso.


«Penso sia molto più semplice di quello che stai pensando.» gli disse con un'alzata di spalle «Mi piace fare attività fisica quanto mi piaceva allora, solo non al punto da far parte di un club. Non nego che ci fosse una bella atmosfera nella vostra squadra e l'ho notato, quando sono venuto a vedervi ma penso non fosse del tutto per me.» aggiunse, senza darvi troppo peso. Dopotutto non c'era chissà quale motivazione drammatica dietro la sua scelta, nessun trauma o vecchio infortunio; era solo stata una scelta come tante altre. Oikawa doveva essere abbastanza convinto dalla sua risposta, considerato come non sembrasse particolarmente turbato dalla risposta. O almeno, considerato come ancora non aveva neanche postato lo sguardo dall'acqua, doveva non esserci nulla nella sua risposta ad aver destato la sua attenzione.


Di nuovo, però, proprio quando si era convinto che non sarebbe seguito molto altro, Oikawa ruppe il silenzio rifilandogli un «E' un peccato.»


Toccò a lui, Hajime, guardarlo con più attenzione ora. C'era qualcosa di quasi malinconico nel modo in cui parlava, ma ai suoi occhi quasi non aveva senso: non c'erano cose non dette tra loro, non c'erano rapporti del passato che si erano chiusi male o con grandi litigi. Lui e Oikawa erano state due linee rette che si erano mosse per tre anni negli stessi spazi senza incrociarsi mai davvero eppure l'altro parlava di quell'assenza di Hajime nella sua squadra come se lui li avesse abbandonati a metà campionato. Non riusciva a comprendere che tipo di sentimento animasse Oikawa nel parlare a quel modo, quale flusso di pensieri stesse seguendo. Nemmeno Hanamaki o Matsukawa ai tempi gli avevano mai parlato di Oikawa come di qualcuno che potesse avere qualche tipo di interesse nel conoscerlo o verso di lui come persona in generale, eppure eccolo lì l'ex capitano della squadra di pallavolo del liceo: a parlargli come se dovessero analizzare, lì e ora, tutto quello che sarebbero potuti essere e non erano stati. L'equivalente di due amanti con un destino avverso, non fosse stato che Hajime in quanto Beta sarebbe stato difficilmente nelle mire di un Alfa.


«Non capisco cosa ti passa per la testa al momento.» disse, perché tanto da ragazzo quanto ora non era mai stato troppo famoso per avere del tatto o per il suo girare intorno alle questioni - non feriva volutamente le persone e anzi, a modo suo cercava di non toccare tasti dolenti volutamente o altro del genere. Tuttavia, non era il tipo di persona paziente abbastanza da tollerare a lungo un continuo girare intorno a una questione senza che nessuno degli interlocutori si decidesse prima o poi ad affrontarla di petto.


Di solito quell'interlocutore era lui.


«Ne parli come se ci fosse altro e stessi aspettando il mio arrivarci da solo per continuare il discorso. Se devi dirmi qualcosa, dimmela e basta?» lo incalzò, cercando comunque per quanto possibile di non suonare troppo brusco. Vide Oikawa cambiare un minimo espressione per la prima volta - stringere gli occhi, arricciare appena le labbra infastidito, stringersi inconsciamente nelle spalle sebbene in maniera quasi impercettibile. Agli occhi di Hajime appariva come qualcuno che non era stato ancora ferito ma che doveva aver sentito il colpo arrivare troppo vicino alla parte che cercava di proteggere per essere a suo agio o per dissimularlo abbastanza bene. A quel punto Hajime aveva due opzioni: lasciar cadere il discorso, supponendo che Oikawa avrebbe fatto lo stesso, oppure continuare a pungolare fino a quando non sarebbe riuscito a scoperchiare il metaforico contenitore che sembrava essere la psiche di Oikawa.


«Non c'è niente da dire in particolare, era solo un'osservazione.»

«O forse continuare a parlarne ci porterebbe al punto in cui dovresti spiegarmi troppo? Sei il tipo che scava finché si tratta degli altri e poi quando si tratta di te, si può cambiare argomento?» incalzò Hajime, senza sapere davvero perché - non aveva nessun motivo in particolare per litigare ed era ben consapevole di come le parole appena pronunciate fossero in tutto e per tutto una provocazione che era difficile non sfociasse in una discussione quantomeno dai toni aspri.


Si sarebbe aspettato uno sbottare di qualche tipo, infantile come Oikawa poteva essere per quelle che percepiva come offese leggere oppure qualche approccio più duro nel caso si fosse sentito offeso sul serio. Hajime aveva dimenticato un dettaglio che, sebbene ne fosse a conoscenza, non emergeva così tanto come si era sempre immaginato potesse fare nella vita di tutti i giorni o come gli sembrava di ricordare succedesse invece ai tempi della scuola: Oikawa Tooru era un Alfa. All'epoca bastava guardarlo sul campo da gioco per rendersene conto. Con un solo sguardo diventava lampante quanto fosse sicuro di sé in quanto giocatore, padrone di un campo che sembrava essere stato costruito su misura per lui e per sottostare al suo regno incontrastato, alle sue regole. Oltre a quello, però, si vedeva anche la sicurezza che non aveva a che fare con le doti sportive, ma con un qualcosa che era radicato nell'indole, nella personalità. Ogni Alfa poteva essere diverso e Hajime non aveva mai creduto nel fatto che il secondo genere di una persona definisse quest'ultima in tutto e per tutto. Aveva avuto modo di conoscere Omega caparbi e ambiziosi, così come Alfa piuttosto placidi e non poi così tendenti al risultato; anche in quei casi, tuttavia, avevano una sicurezza difficile da attribuire a chiunque altro, qualcosa che più che caratterizzarli sembravano proprio emanare di per sé.


In quel momento, guardandolo quasi come se lo stesse sfidando a osare andare oltre con quello che stava dicendo, Oikawa faceva esattamente quello: emanava la sicurezza quasi arrogante di chi si sarebbe sempre sentito superiore, anche solo a livello inconscio.


«Se anche fosse?» ribatté Oikawa, le labbra incurvate in un sorriso sghembo «Non pensare di poter nemmeno riuscire a reggere cosa troveresti sotto il coperchio, Iwa-chan. Uno come te non riuscirebbe nemmeno a immaginarselo.» pronunciò, condiscendente. Già solo quello irritò Hajime più di qualsiasi altra cosa.


«Ah? Che dovrebbe significare?»

«Restate nella tua bolla felice di persona che non ha aspettative. Non è colpa tua» continuò Oikawa, apparendo ora quasi annoiato «sei solo un Beta.»


Hajime si rese conto a malapena di essersi alzato - facendo anche oscillare l'imbarcazione con quel movimento - e di averlo preso per il bavero della maglia che indossava, se non quando ormai il suo viso era pericolosamente vicino a quello altrui. Persino l'uomo che fino a quel momento era rimasto tranquillo a guidare l'imbarcazione per il percorso previsto si assestò per riprendere l'equilibrio e si voltò a guardarli, provando a richiamarli e a consigliar loro di sedersi. Hajime, però, non mosse un muscolo: rimase lì, con la stoffa tra le mani e gli occhi puntati in quelli di Oikawa. Questi sembrava per nulla impressionato dalla reazione, quasi annoiato da qualcosa di incredibilmente prevedibile che gli era successa così tante volte da non essere più nemmeno troppo degna della sua attenzione.


Rimasero entrambi fermi e in silenzio per qualche secondo. Quando Hajime lo vide in procinto di dire qualcosa, forse per uscire da quella situazione di stallo, lo lasciò andare prima che potesse farlo. Con poca delicatezza, certo, ma senza neanche rifilargli un pugno in faccia dopotutto. Oikawa sembrava un po' aspettarselo, un po' esserne sorpreso e Hajime si accorse - anche quando smise di guardarlo - di essere seguito dallo sguardo altrui nel suo sedersi di nuovo.


Sapeva che all'altro non doveva nemmeno interessare molto e che con ogni probabilità altri dovevano avergli detto qualcosa sulla falsa riga di un «Sei come tutti gli altri Alfa» o «Mi aspettavo fossi meglio di così» ed era probabile che non ne sarebbe stato toccato dall'ennesima occasione in cui gli venivano rivolte frasi di quel genere. D'altronde, perché mai gli sarebbe dovuto interessare? Senza contare quanto stupido sarebbe suonato dirgli di avere aspettative su di lui perché, a ruoli inversi, come prima cosa Hajime si sarebbe chiesto: e perché mai? Ci conosciamo abbastanza perché tu possa aspettarti qualcosa di così specifico da me?


Prima ancora che Oikawa potesse aggiungere altro, Hajime gli piantò addosso lo sguardo senza nemmeno preoccuparsi di far trasparire un sentimento piuttosto che un altro; semplicemente lo guardò per una manciata di secondi prima di sospirare: «Che tristezza.»


Si accorse con la coda dell'occhio dell'espressione che si dipinse sul viso di Oikawa ma decise, non senza una certa dose di testardaggine, che non gli sarebbe importato.


Neanche di averlo - forse - volutamente ferito.


*


Rimettersi in macchina e raggiungere il parco nazionale di San'in Kaigan era stato un supplizio, ma raggiungere il parco nazionale di per sé aveva permesso loro di dividersi e visitarlo così ognuno per proprio conto. Si erano solo dati appuntamento per evitare di aspettarsi troppo a lungo a vicenda, trattandosi di percorsi diversi, per poi ritrovarsi e ripartire senza perdere troppo tempo a cercarsi. Del tempo da solo era stato decisamente d'aiuto, per quanto fosse chiaro ormai che l'umore non sarebbe mai tornato dei migliori e l'esperienza ne sarebbe stata senza dubbio influenzata.


Una volta in partenza dal parco nazionale, era stato di nuovo tempo di fare a cambio per la guida e Hajime era stato contento toccasse a lui: tenere le mani sul volante e l'attenzione sulla strada e sul navigatore lo avevano aiutato a concentrarsi su altro. Aveva lasciato che Oikawa gestisse la musica tramite la radio, senza lamentarsi né delle canzoni su cui si soffermava né delle stazioni radiofoniche, lasciando che per lui diventassero più un rumore di sottofondo sufficiente a riempire un silenzio teso che non avrebbe aiutato nessuno di loro due. Anche quando il tragitto fino alla meta, ossia la città di Ine dove avrebbero pernottato, era di due ore e mezza e a tratti era sembrato interminabile.


Hajime aveva cercato di godersi comunque il panorama, ma non era stata la stessa cosa, quando in uno spazio ristretto aveva a pochissima distanza una persona il cui umore era quasi peggiore del suo. O molto simile.


Raggiungere Ine fu una benedizione e Hajime fu contento e al tempo stesso maledisse se stesso per aver prenotato per comodità e per disponibilità un'unica stanza con letti singoli. Era un bene perché rischiare di dover cercare qualcosa sul momento quando la stanchezza di una giornata in macchina si stava facendo sentire sarebbe stato l'ennesimo peso, ma d'altra parte non erano nelle condizioni migliori per godersi una camera in comune.


Hajime si preoccupò di parcheggiare nel posto privato e che aveva prenotato insieme alla stanza, facendo poi il giro per aprire il bagagliaio e tirarne fuori il proprio borsone. Durante la mattina non ci aveva fatto caso, preso da altro, o forse a ben pensarci non aveva visto l'altro posare le sue cose... ma si rese conto, ora, che il borsone in cui Oikawa aveva portato i suoi effetti personali era quello del team di pallavolo del liceo. L'altro lo recuperò con un movimento meccanico, mettendoselo in spalla e iniziando ad avviarsi verso l'ingresso senza dire una parola. Hajime fece lo stesso col proprio, uno classico da palestra nero e senza alcun logo particolare, assicurandosi di chiudere la macchina prima di dirigersi all'ingresso. Oikawa aveva solo varcato la soglia ma non si era diretto alla reception, forse perché in effetti la prenotazione era a nome di Hajime.


Sbrigarono in poco le formalità del caso, ottenendo la chiave in doppia copia per potersi muovere autonomamente dentro e fuori dalla camera. Questa era spaziosa il necessario a ospitare un'area che vedeva dritto per dritto rispetto alla porta d'ingressa un tavolino basso e delle sedie vicine, mentre il lato destro della stanza era del tutto occupato da una parte rialzata adibita a ospitare i due letti singoli richiesti. Sulla sinistra si apriva una piccola porta che portava al bagno con tutto il necessario e, poco più avanti di quella, una cabina armadio essenziale ma che una volta aperta guadagnava spazio in profondità. Oltre il tavolino e le sedie, invece, c'era il pezzo forte della stanza: una finestra per far filtrare più luce naturale possibile - sebbene ora visto l'orario sarebbe stata sfruttabile ancora per poco - e una porta-finestra che dava su un terrazzino sviluppato in orizzontale e in cui non c'era modo di aggiungere molto altro oltre delle sedie da esterno. A mozzare il fiato, però, era la vista: dava direttamente sull'oceano e, guardando leggermente in basso sporgendosi il minimo necessario, si potevano vedere le funaya. Erano letteralmente case sull'acqua, di cui Hajime aveva visto delle foto e di cui naturalmente conosceva l'esistenza, ma ora sporgendosi ebbe la conferma che le foto non rendevano affatto giustizia allo spettacolo che si dimostravano essere dal vivo.


«Posso usare il bagno?» sentì chiedere a Oikawa dietro di lui, voltandosi a cercarne la figura. Lo vide vicino a uno dei letti, col borsone poggiato ai piedi di uno di essi, intento a tirarne fuori un cambio di vestiti.


«Sì, io vado dopo.» replicò, vedendolo annuire appena prima di recuperare quanto tirato fuori dalla borsa e dirigersi al bagno, chiudendosi la porta alle spalle; tempo qualche secondo e il rumore della doccia gli diede un segno inequivocabile del fatto che per almeno quindici minuti sarebbe rimasto da solo nella stanza. Considerato come Oikawa era stato quello che aveva insistito per fermarsi alla spiaggia, per infilare i piedi nell'acqua nonostante fosse fredda e tutto il resto che aveva avuto modo di vedere di lui in quel viaggio... si sarebbe aspettato di vederlo uscire in balcone per primo. Non aveva abbastanza elementi per capire se fosse un atteggiamento normale o se fosse da imputare alla discussione che avevano avuto, per quanto a Hajime sembrava piuttosto ovvio.


Sapeva solo che rendeva tutto così complicato da essere irritante - soprattutto perché una parte di lui sapeva di non essere stato del tutto corretto e di aver colpito volutamente dove sapeva avrebbe fatto effetto, ma dall'altra Oikawa non ci era di certo andato più leggero.


Si trattava di capire solo quanto avesse senso mantenere il punto, a discapito del resto, e quanto invece fosse perfettamente inutile.


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Prompt: Sacrificio

Missione: M2 (week 2)
Parole: 602
Rating: gen
Fandom: Haikyuu!!

Warnings: //



Erano rari i momenti in cui Oikawa Tooru appariva come qualcosa di diverso dall'atleta perfetto, almeno agli occhi di chi guardava quello in lui o non lo conosceva al di fuori del campo da pallavolo. L'avessero chiesto a lui, in ogni caso, non avrebbe fatto altro che sorridere con quel fare un po' strafottente dicendo che non c'era davvero nulla di diverso da quello da vedere - un atleta perfetto. Senza falsa modestia, naturalmente.


Per sua sfortuna, Tooru conosceva benissimo la realtà dei fatti: non c'era davvero niente di più diverso di lui da un atleta perfetto e questo perché quello era il nome di cui si potevano pregiare i geni, quelli che nascevano con un talento così immenso che forse si sarebbero potuti permettere di fare il minimo sindacale per tutto il resto della loro vita e avrebbero comunque potuto farcela. Ci erano voluti molti anni, a Oikawa, per accettare il fatto che Tobio rientrasse in quella categoria e al tempo stesso non ne fosse del tutto parte - quel ragazzo era così patito della pallavolo che non avrebbe mai potuto accettare di fare meno del massimo, di curare ogni minimo movimento, di migliorarsi sempre di più.


Guardandolo quando ancora si allenavano insieme, però, Tooru non aveva potuto fare a meno di detestare il fatto che Tobio potesse scegliere di non sacrificare tutto per lo sport. Certo, si allenava e sì, aveva fame di imparare... ma avrebbe potuto svegliarsi, un giorno, decidendo di fare ciò che molti altri sportivi - specie quelli che volevano puntare in alto - non potevano neanche sognarsi di fare: non rinunciare a tutte le esperienze che era possibile fare a quell'età, non dover costantemente dire agli amici "non posso" fin quando non smettevano di chiederti di unirti a loro. Avere la normale quotidianità di normali adolescenti e ottenere comunque risultati incredibili.


Solo molto dopo Tooru aveva compreso che in fondo, a suo modo, Kageyama aveva sacrificato tutto come lui, come molti altri. Non solo le cose più scontate - di cui, sospetta Oikawa, Tobio non deve essersi mai interessato così tanto già solo per indole - ma anche trattenersi agli allenamenti in orari assurdi. Proseguirli quando i muscoli facevano così male da far pensare di non riuscire nemmeno a percorrere il tragitto dalla scuola a casa per tornarci; quando i polmoni bruciavano al punto che respirare era un bisogno ma si considerava anche l'idea di trattenere il fiato perché l'ossigeno faceva quasi più male che bene; continuare anche dopo un pessimo atterraggio da un salto di contrasto a muro, con le ginocchia pronte a cedere e le fitte di dolore così veloci e potenti da arrivare al cervello e stordire per una manciata di secondi.


Quando lo aveva realizzato, nella sala d'attesa di un ospedale per un check al ginocchio dopo un periodo particolarmente pesante in cui ignorare il dolore era diventato complicato, Tooru per un attimo si era chiesto: valeva davvero così tanto la pena? Fino a dove poteva spingersi l'amore per uno sport, quanto sano era - mentalmente e fisicamente - arrivare a tanto?


Forse, per un solo istante, Tooru ha pensato: è ora di smettere.


Il pensiero lo ha spaventato al punto da essere ricacciato indietro altrettanto velocemente, come una parola tabù pronunciata in un luogo sacro che non perdona anche solo l'averla sillabata. A quel punto, non ha più smesso.


Ora, tanto quanto fatto dal se stesso adolescente, darebbe ogni fibra del suo essere - d'altronde, ha sacrificato persino casa propria, in un certo senso - per essere in quel campo, vicino a quella rete, a sfiorare con i polpastrelli quella palla.
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Prompt: no dialoghi

Missione: M1 (week 2)
Parole: 579
Rating: teen up
Fandom: haikyuu

Warnings: //



C'era un che di affascinante nel modo sempre uguale che aveva Iwaizumi di spogliarsi, quando alla fine di un allenamento tutti si riunivano nello spogliatoio. Era capitato anche di essere gli ultimi, ben più di una volta, e a rigor di logica non c'era nulla da vedere che Tooru non avesse già visto in anni di amicizia da quando erano piccoli fino a oggi. Eppure era diventato diverso osservarlo, a ridosso forse della terza media.


A voler essere oggettivi, in una divisa di pallavolo maschile - ma anche di pallavolo in generale, in effetti - non c'era nulla di particolarmente sexy ed entusiasmante. Se poi si voleva evitare di romanticizzare qualcosa che non lo era affatto, romantico, si sarebbe dovuto anche considerare la puzza di uno spogliatoio maschile. Di elementi poco affascinanti ce ne erano decine e decine, ma Tooru continuava a ritrovarsi a osservare quei movimenti abitudinari, quasi meccanici, con devozione. Anche ora, approfittando di uno spazio comune in cui era legittimato a essere oltre che a guardare, senza destare poi grandi sospetti - troppo stanchi da ore di allenamento senza sosta, alla ricerca del superamento di un limite, per curarsi del silenzio interrotto solo dal rumore degli oggetti spostati e del getto dell'acqua nelle docce. 


Iwaizumi cominciava sempre dalle scarpe, ma al contrario di chi le toglieva alla meno peggio, si prendeva il tempo di sedersi e slacciarle una alla volta, allentandole fino a poterle togliere agilmente. Si voltava sempre verso le ciabatte già poggiate sulla panchina prima di sedervisi e le metteva a terra, così da potervi poggiare i piedi nudi una volta tolti anche i calzini di spugna e le ginocchiere. Queste ultime non le toglieva mai con particolare cura, se non quella necessaria a tenerle da conto, in un'attenzione ai suoi oggetti personali che era sempre stata molto meno superficiale di quella di Tooru. I calzini, però, li faceva scivolare via dal piede in un modo che a lui aveva sempre ricordato... qualcosa, che non avrebbe saputo inquadrare senza risultare patetico.


A volte Iwaizumi toglieva prima la maglietta. Avveniva quando era frustrato dall'andamento degli allenamenti o delle partite e Tooru poteva osservare i suoi muscoli contrarsi e tradire lo stato emotivo di cui non faceva mai parola. Hajime non si spogliava in maniera sexy, non aveva la sensualità di chissà quale uomo maturo. Tooru non lo guardava immaginandosi chissà cosa, si limitava a seguirne i movimenti e a riconoscervi qualcosa di già visto che a lungo andare avrebbe saputo imitare a occhi chiusi. Quella consapevolezza gli dava una scossa di adrenalina ben diversa da quella sportiva e lo faceva sentire importante, in presenza di qualcosa di solo suo. Un primato che nessuno avrebbe potuto togliergli.


C'erano poi momenti, come quello di ora, in cui Hajime forse si accorgeva del suo sguardo e si fermava per una manciata di secondi - uno stallo in cui Tooru restava in bilico tra la dissimulazione e la faccia da schiaffi di chi, dell'essere scoperto, non si era mai preoccupato davvero. Con la pretesa singolare di avere un diritto in più degli altri.


Hajime alla fine, come adesso, faceva scivolare giù per le gambe calzoncini e mutande insieme, in un unico gesto di chi non aveva tempo da perdere; ironicamente, c'era una bellezza oggettiva che perdeva il fascino del movimento.


Tooru, in ogni caso, lo seguiva sempre con lo sguardo fino a quando il rumore della doccia del suo box non riempiva la stanza.


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Prompt: tema libero (fandom: haikyuu!!)

Missione: M6 (week 5)

Parole: 400

Rating: pg13

Warnings: sakusa centric, omigiri (mentioned), atsuhina (mentioned)





Sakusa è abbastanza certo che se il ciclo di reincarnazione esiste, lui non può aver compiuto così tanti orrori nelle sue vite passate da doverli scontare tutti in questa. Passi avere un pessimo rapporto con la sporcizia e i germi in generale, cosa che poco si è sposata con un branco di adolescenti sudati nello stesso spogliatoio; passi avere la sventura di essere chiamato per le giovanili - no, non è stata la convocazione in sé il problema - insieme a Miya Atsumu, mettendolo sulla sua strada prima e nella sua vita poi. Passi anche quanto difficile sia stato accettare la propria relazione con Miya Osamu, nella piena consapevolezza di cosa questo avrebbe significato, ossia avere una sorta di discutibile pseudo parentela con il suo gemello.


Ma la crisi esistenziale di Miya Atsumu non se la meritava. La squadra con lui a livello professionistico ha significato tragici incidenti di percorso e prese di coscienza. Primo: la sua sicurezza nel campo è direttamente proporzionale a quanto romperà l'anima nel malaugurato caso che la squadra perda. Secondo: Miya non solo non sa perdere, ma non sa nemmeno accettare che possa esserci qualcuno del suo stesso ruolo che osa fare una giocata mai fatta da lui in precedenza. Deve primeggiare perché ama di più lo sport, è più bravo, è un miglior regista, è di più. Sempre. Terzo: Miya non ha pudore. Questo significa aver visto il suo pisello più volte di quelle in cui ha visto quello di Osamu ed è grave, visto che con il secondo ha una relazione. Quarto: il suo disgustoso cameratismo non richiesto. L'over sharing. Questo suo bisogno spasmodico di dirgli esattamente a cosa pensa, cosa intende fare, perché lo vuole fare, cosa ha mangiato e bevuto.


La cosa peggiore, però, è che Miya Atsumu è un perdente in tutto ciò che non riguarda la pallavolo. E che di tanti posti in cui poteva andare in cerca di uno a cui fare il filo, ha scelto proprio la squadra e Hinata Shouyo - per essere onesti, Sakusa gli concede almeno questo: è la sua cotta adolescenziale. Non ne è mai uscito, non è che se lo sia cercato nella squadra da adulto.


«Quindi, Omiomi, capisci?!» sta continuando imperterrito a parlare, nonostante lui lo ignori, perché è ovvio: sia mai sappia leggere l'atmosfera, insulso zodico delle risaie «Shouyo è così-- lo hai visto, no? Una tentazione su gambe! Cosa dovrei fare, qui con l'istinto di-»


Dio deve smettere di punirlo in questo modo.

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Prompt: tutti dentro
Missione: M4 (week 4)
Parole: 10070
Rating: mature
Warnings: omegaverse, mention of drugs, mental health






«Scusa in che senso sei in aeroporto a vedere se c'è posto all'ultimo secondo su un volo per New York?» sente chiedere dall'altro capo del telefono, la voce di Hanamaki sconvolta. Iwaizumi non crede di potergli dare torto. Si mantengono in contatto per lo più via messaggio, lui, Hanamaki e Matsukawa; da quando la vita li ha portati su strade diverse è stata l'unica scelta possibile. Una volta avevano una chat di gruppo, poi Oikawa è sparito e hanno smesso di usarla. Hanamaki e Matsukawa hanno avuto la maturità e il buon senso di abbandonare il gruppo, dopo mesi di inattività. Lui è ancora dentro, mentre la chat è finita - inesorabile - in fondo all'elenco di conversazioni attive.


Per un attimo, Hajime pensa di dare una risposta; poi si rende conto che sarebbe del tutto inutile. Se c'è qualcuno che ha chiamato prima del posto di lavoro per chiedere dei giorni di permesso, quelli sono stati gli unici altri due che avrebbero potuto avere informazioni su quell'imbecille. Se nemmeno Hanamaki ha idea di cosa stia parlando quando gli sente nominare New York, non ha nemmeno senso aspettarsi che sappia di Oikawa più di quanto sappia Iwaizumi stesso - nulla. Da dieci merdosi anni.


«Mi hanno chiamato, ne so quanto te.» commenta con una nota rabbiosa che per un istante sembra farli tornare agli anni del liceo, in cui Oikawa lo faceva incazzare un giorno sì e l'altro pure. Se non altro, all'epoca, Hajime sapeva sempre dov'era: «Senti, mi affaccio al desk della compagnia. Vi scrivo appena ci capisco qualcosa.» afferma, non per tagliare corto ma è già un miracolo quello che sta cercando di compiere senza rimettere tutto lo stipendio in biglietto aereo, farlo con una mano occupata dal cellulare non è utile.


Sente Hanamaki sospirare rassegnato dall'altra parte e vorrebbe fare lo stesso.


«Va bene, ma almeno scrivi anche quando stai partendo e quando atterri, okay? Numero di volo, anche. Non sparire nel nulla anche tu, per favore. A Mattsun prende un infarto sul serio, stavolta.» pronuncia Hanamaki, facendogli se non altro abbozzare un sorriso non visto.


*


Iwaizumi deve ringraziare il suo lavoro per averlo portato a dover approfondire l'inglese per studio prima e per mansione poi, perché altrimenti atterrare su suolo americano e passare i controlli sarebbe stato un inferno peggiore di quello che si è comunque rivelato - problema principale: non aver chiuso occhio per quasi tutte e dodici le fottute ore di volo. O quante sono state, a un certo punto lo schermo sul corridoio tra una fila di posti e l'altra continuava a dire "state sorvolando l'oceano" e Hajime ha seriamente pensato di essere finito in un loop spazio-temporale.


Una volta ritirato il bagaglio gli ci è voluto un po' per focalizzare in quale direzione guardare alla ricerca dell'uomo con cui ha parlato e che si è proposto di andare a recuperarlo in aeroporto. Digita un messaggio veloce per Hanamaki, certo che lo girerà direttamente a Matsukawa; nel rialzare lo sguardo, intravedere un foglio con il proprio cognome, tenuto in mano da un uomo che non avrà più di una cinquantina d'anni. Quello lo adocchia e, quando Hajime si sta ormai dirigendo inequivocabilmente verso di lui, si vede rivolgere un sorriso amichevole e un cenno della mano.


«Hajime Iwaizumi?» domanda, con quell'abitudine straniera di dire prima il suo nome e poi il cognome, a cui Hajime dubita si abituerà mai. Annuisce comunque, rivolgendogli un inchino prima di poterci riflettere e tornando dritto quando ormai è fatta, per offrirgli la mano da stringere. L'altro non sembra toccato da quel saluto di certo per nulla usato in America e non perde tempo in convenevoli. Gli si presenta come Raymond Evans, lo stesso che lo ha contattato telefonicamente facendogli perdere più anni di vita di quanti Hajime fosse disposto a lasciar andare così presto. Evans lo guida verso l'uscita dell'aeroporto con qualche domanda classica e chiacchiera di poco conto - com'è andato il viaggio? Deve essere stanco. Una macchina privata li aspetta fuori. E' tutto già sistemato per il suo soggiorno, vista la difficoltà della situazione.


La situazione, come l'ha definita anche al telefono, innervosisce Hajime in un modo indescrivibile. Nonostante questo, lo segue fino a salire sull'auto, anche se la sua schiena implora pietà e vorrebbe che stesse in piedi per almeno mezz'ora anziché prendere la forma dell'ennesimo sedile.


A giudicare dal fatto che Evans non specifichi a chi guida la direzione da prendere, Hajime suppone si tratti di qualcuno che lavora con lui. Per quanto lui vorrebbe essere più gentile possibile, né la stanchezza né la preoccupazione del poco che è riuscito a evincere dalla loro telefonata glielo permette. Gli toccherà essere la vergogna della propria patria per i prossimi due minuti.


«La chiamata che mi ha fatto,» prende quindi il discorso, senza girarci così tanto intorno «ha detto di avermi chiamato perché ero il numero di emergenza di...?»

«Tooru Oikawa.» risponde prontamente l'uomo «Sono sicuro la cosa l'abbia sconvolta abbastanza.» aggiunge, anche se Hajime vorrebbe dirgli che non ne ha la minima idea. Il numero su cui Evans lo ha contattato - l'uomo non può saperlo - è rimasto attivo solo perché lui è un idiota sentimentale. Risale agli anni del liceo, cambiato dopo l'università quando si è reso necessario averne uno per il lavoro. Solo che alla fine il telefono su cui lo hanno contattato i suoi colleghi e i suoi capi è diventato quello tenuto sempre acceso, sempre sotto carica, e per evitarsi il tedio di doversi preoccupare di due cellulari, Hajime ha semplicemente unito l'utile al dilettevole girando il nuovo numero a tutti. Tooru compreso.


Lo stronzo, però, era già sparito e non ha mai risposto né mandato un messaggio. Così Hajime aveva dato per scontato che volesse comunque uscire del tutto dal loro giro - o dalle loro vite. Dopo l'ultimo anno di università senza sentirlo, per non parlare dei primi due dopo aver trovato un lavoro e quando persino la madre di Tooru non era più in grado di dire a Hajime dove fosse finito suo figlio... si è arreso. Che altro avrebbe dovuto fare?


La storia che si racconta Hajime sul non aver disattivato il vecchio numero è che non avrebbe dato problemi a nessuno seppure fosse rimasto attivo. Forse ha solo lasciato una inutile scappatoia ai silenzi di Oikawa, ritrovandosi invece dieci anni dopo con una chiamata dall'altra parte del mondo a dirgli che era un numero di emergenza. Non i genitori di Tooru, non qualche amico o collega con cui se non altro parla. Nessuno, tranne Iwaizumi.


«Mi dica, signor Iwaizumi,» Evans lo distrae da quei pensieri, portandolo a sbattere un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco «lei cosa sa della compagnia Cleyster?» si sente domandare a bruciapelo. Deve fare un immenso sforzo mentale per non cedere a tutta la stanchezza che ora, nel tepore della macchina mentre vanno spediti lungo la prima strada non troppo trafficata da quando sono partiti, minaccia di crollargli addosso tutta insieme.


«Ricordo che di recente è stata oggetto di uno scandalo piuttosto grande.» ammette, perché è stato un titolo su qualsiasi sito di notizie flash così come in qualche giornale più specializzato sugli avvenimenti internazionali anziché solo su quelli del suolo nipponico: «E' una ditta farmaceutica?»


«Non proprio.» lo corregge Evans «Diciamo un centro di ricerca.»

«Immagino lei non lavori per loro e che non sia lì che stiamo andando... dovrebbe aver chiuso, giusto?» 

«Corretto.» replica Evans con un accento così americano che Iwaizumi ogni tanto deve ricordarsi di mantenere il massimo della concentrazione per distinguere tutte le parole - anche se, sospetta, l'uomo non sta parlando al massimo della velocità che forse manterrebbe con un madrelingua americano. Lo vede lanciargli un'occhiata di sottecchi, forse per accertarsi di avere ancora la sua attenzione prima di continuare a parlare: «Vorrei entrare nel dettaglio di come questo si colleghi nello specifico al signor Oikawa, ma credo sia una conversazione complessa che non possiamo avere adesso, quando lei ha più di dieci ore di volo alle spalle e una stanchezza visibile. Per adesso le dico che il signor Oikawa è in cura con noi, supervisionato da una equipe specializzata e non è in pericolo di vita.» gli dà le informazioni che qualsiasi parente pretenderebbe prima ancora di voler sentir parlare di riposo o di vedersi rimandare al giorno dopo per le spiegazioni più dettagliate.


Hajime fa per parlare, ma alla fine Evans stesso lo anticipa: «Facciamo in questo modo: ora la stiamo accompagnando all'hotel dove alloggerà per questa notte. Domani mattina verrò io stesso a prenderla, dal momento che la sede in cui lavoro è fuori città e non arriveremmo prima di notte, quando l'orario di visita è già passato. Durante il viaggio le darò tutti i dettagli e risponderò a tutte le sue domande. Crede si possa fare?» lo chiede con il fare conciliante che a Iwaizumi ricorda i medici esperti, quelli che hanno dovuto affrontare le famiglie dei propri pazienti troppe volte e quasi mai con buone notizie per non sapere come trattarli affinché non diano di matto o facciano richieste ingestibili. E capisce, quasi subito, che se anche si impuntasse non ne tirerebbe fuori molto di più. Senza contare quanto si senta davvero incapace di capire un discorso più complicato di un paio di indicazioni stradali, al momento. Così non gli resta altro da fare se non accettare, sospirare buttando fuori tutta l'aria che non si era accorto di star trattenendo e annuire.


«La ringrazio per la comprensione.» si limita a dire Evans, mentre la macchina - allo scatto del semaforo verde - svolta a destra immettendosi su un'altra strada piuttosto larga di cui Iwaizumi nemmeno si spreca a guardare il nome sul cartello che superano quasi subito.


*


Evans mantiene la sua promessa: alle dieci del mattino sono già nella hall dell'albergo, Iwaizumi ha già fatto colazione ed è pronto a muoversi. Su indicazione dell'uomo non porta granché con sé e partono senza troppi indugi. Sono in macchina da dieci minuti e una telefonata di sì e no trenta secondi quando Evans comincia a spiegargli nel dettaglio di cosa si occupa e come questo, insieme alla chiusura della Cleyster, sia collegato a Tooru - e, per riflesso, al suo essere partito col primo volo disponibile per New York.


La Cleyster, spiega Evans, ha sviluppato un farmaco sperimentale e diverse persone si sono affidate a loro per offrirsi come volontari, qualcosa che alle orecchie di Hajime suona più cavie pur senza farlo presente. Come ogni farmaco di quel genere gli effetti collaterali non sono pochi ma, secondo una serie di termini medici che Hajime non crede di riuscire a capire appieno, non è qualcosa di cui i piani alti della Cleyster si sono preoccupati. Non fin quando qualcuno non li ha denunciati - «il partner di una ragazza che si era affidata a loro.» gli rivela Evans senza dettagli sulle loro identità - e la polizia se ne è occupata da vicino al punto da portare a galla quanti rischi abbiano corso i pazienti.


La clinica dove Evans lavora, la St. Micheal, è stata assemblata con i maggiori esperti in campo medico per controllare, curare e gestire gli effetti collaterali in questione. Oikawa è loro paziente da meno di due mesi.


«Quello che adesso le voglio dire, signor Iwaizumi, è la parte più complicata. Cerchiamo di spiegare alle persone vicine ai pazienti la situazione in modo più trasparente possibile, ma tanti - se non quasi tutti - non sono al corrente di... molti aspetti, diciamo pure così.» Evans spiega con la calma che si potrebbe avere con un bambino troppo spaventato, irrazionale e ignorante per capire parole difficili e concetti complessi. Hajime è quasi irritato, sottopelle, fin quando Evans non gli chiede in modo molto più diretto: «Lei sapeva che il secondo genere del signor Oikawa è quello di Omega?»


Per un istante, Hajime si rivede da ragazzino quando hanno fatto i test. Si rivede a casa di Oikawa un pomeriggio sì e l'altro pure, si vede negli spogliatoi a scuola, sul campo di pallavolo - e a ognuno di questi momenti accosta quello che altri non hanno mai né saputo né visto: Tooru piangere il giorno in cui hanno ricevuto il risultato del primo esame sul secondo genere, dicendo che non avrebbe avuto più amici adesso che era un omega; Tooru a scuola, imbottito di inibitori fin quando Hajime non ha scoperto la sua piccola scorta assunta prima di entrare in classe, perché sua madre non sapesse che ne prendeva di più pur di non fare assenza quando in calore. Per non insospettire gli altri.


Tooru, negli spogliatoi dopo una partita in cui l'adrenalina lo aveva spinto al limite e il suo corpo l'aveva appena tradito nel peggior modo possibile: non permettendogli di stare al passo con la sua mente, con il suo desiderio di vincere, con il suo orgoglio di giocatore.


Certo che Iwaizumi lo sa. Lo ha sempre saputo e per quanto fosse contrario a tenerlo nascosto, per quanto credesse che non nasconderlo sarebbe stato molto più salutare, alla fine ha sempre rispettato il volere di Tooru. Forse, si dice mentre sfrecciano lungo l’asfalto verso l'uscita della superstrada, avrebbe dovuto insistere fino allo sfinimento e fino a convincerlo. 


Si tiene comunque quei pensieri per sé e annuisce, mentre riporta lo sguardo su Evans. E' difficile leggere quell'uomo e le sue espressioni, ma Hajime immagina che saltare quell'ulteriore spiegazione non gli dispiaccia troppo. Lo vede guardare fuori dal finestrino, quasi a sincerarsi che la direzione presa dall'auto sia corretta. Dopodiché allunga una mano verso un fascicolo tenuto sulle gambe fino a quel momento: per un attimo, Hajime si aspetta un riassunto della situazione clinica di Oikawa. Invece, quando apre la cartellina anonima, capisce quasi subito che non lo è.


Prima che possa fare domande, Evans lo precede: «In parole semplici e senza avventurarsi in tecnicismi farmaceutici, signor Iwaizumi, questo è ciò che la Cleyster ha proposto: uno studio su un farmaco la cui somministrazione avviene in due fasi con diverso dosaggio.» comincia a spiegargli mentre gli occhi di Hajime provano a scorrere sui fogli, saltando le percentuali e i nomi medici di cui capirebbe ben poco ma cercando un riscontro con quello che l'americano gli sta dicendo.


«Nella prima fase c'è un massiccio utilizzo di quello che è, a conti fatti, un mix di sostanze presenti nella maggior parte degli inibitori attualmente sul mercato.» prosegue «La seconda fase è una stabilizzazione. Non ci sono mai arrivati.»


Hajime alza lo sguardo in quel momento, inarcando un sopracciglio: «Non è una buona cosa?» domanda confuso. Evans, nel ricambiare la sua occhiata, ha un'espressione indecifrabile.


«Nella misura in cui un altro farmaco poco sicuro non è stato somministrato, forse.» replica con una sfumatura di scetticismo di chi non si accontenta di un "meno peggio" solo perché non può avere il "meglio": «Ma per il resto la prima fase di questo "studio", se così lo vogliamo definire, era quella peggiore per l'organismo dei pazienti. Il dosaggio massiccio e quasi per nulla differenziato in base ai parametri del singolo hanno causato ben più di un tipo di squilibrio ormonale e di dipendenza. Senza considerare il danno psicologico. Lei è un beta, giusto?»


Talmente non si aspetta di essere interpellato che, quando l'uomo lo fa, Hajime deve sforzarsi per annuire: «Ha mai desiderato qualcosa di diverso? Di essere un alfa, per esempio.» lo incalza Evans.


«A dire il vero no.»

«Allora è molto fortunato.» replica l'americano «Tuttavia ogni paziente che si è affidato alla Cleyster è un omega a cui è stata promessa una vita diversa: niente più pregiudizi di una società dalla mentalità ancora troppo chiusa, niente permessi quando sono in calore, niente più ormoni a pilotare la loro vita. Molti li biasimano o non lo capiscono, ma è la fortuna dei privilegiati, se posso dire la mia.» si espone, forse per la prima volta. Hajime quasi lo preferisce all'uomo che finora gli ha parlato con la stessa inflessione emotiva con cui si potrebbe parlare di vini anziché di persone.


«L'unica cosa che hanno ottenuto, invece,» riprende mantenendo lo sguardo fuori dal finestrino «è di dover restare tutti chiusi dentro una clinica, senza sapere se e quando ne usciranno. O in quali condizioni.»


*


Quando sono ormai a meno di mezz'ora dalla clinica, gli torna in mente come uno di quei ricordi che si è convinti di aver dimenticato finché non si ripresentano con la stessa potenza di quelli più freschi. Tra mille giorni tutti uguali durante gli anni scolastici, Hajime si ricorda all'improvviso di quella volta in cui in classe stavano parlando durante la pausa pranzo - i test medici erano stati consegnati da tempo, ormai, e anche se nessuno lo sapeva Oikawa era già a conoscenza di cosa fosse. Nella loro classe una sola ragazza era risultata omega e lo aveva detto fin dall'inizio, senza nasconderlo in nessun modo.


Era raro avere commenti sgradevoli, ma ogni tanto capitava; Hajime aveva preso l'abitudine di troncarli sul nascere, che la loro compagna fosse presente o meno, e laddove tutti avevano preso a considerarlo un bravo ragazzo lui si sentiva un impostore, perché quando metteva a tacere quei commenti cretini era nel timore che da un momento all'altro Oikawa entrasse in classe e li sentisse, finendo per assimilarli come qualcosa che riguardava anche lui.


Hajime, però, era solo un adolescente come tutti. E solo ora, a distanza di più di dieci anni, si ritrova in una macchina fuori New York City, a pensare a quando Oikawa entrò nella stanza e sentì ridere qualcuno mentre diceva: «Se fossi un maschio e un omega morirei di vergogna!»


La cosa terribile è che Hajime si ricorda tutto - lo spintone dato all'idiota che aveva parlato, le esatte parole sbraitate per coprire troppo tardi quelle dette con tanta leggerezza, il vociare intorno a lui dopo la sua reazione, il vago senso di imbarazzo di chi realizza la stupidità e la cattiveria gratuita detta quando ormai non può più ritrattare.


Si ricorda tutto, tranne l'espressione di Oikawa in quel momento.


*


Evans lo guida fino alla sala d'attesa, poco oltre la reception all'ingresso. E' una stanza piuttosto grande, illuminata praticamente a giorno da enormi finestre che occupano in fila quasi un'intera parete. Al posto di sterili sedie da ospedale ci sono poltroncine e divanetti, con bassi tavolini in legno tra due o più sedute; prima di congedarsi, Evans gli ha indicato dove trovare la caffetteria interna qualora volesse prendere un caffè nell'attesa, assicurandogli di chiamarlo non appena Oikawa avrà finito la seduta di non ha capito bene cosa. Sempre ammesso che quell'idiota accetti di incontrarlo oggi, così a sorpresa.


Per essere una clinica, Hajime ammette che ha visto di peggio. Dà molto più l'idea di una casa di cura di quelle che simulano l'ambiente accogliente di una casa qualsiasi con una famiglia qualunque, salvo poi essere quello che sono se ridotte ai minimi termini. Se non altro, non ci sono sbarre né nulla che faccia pensare a una prigione; a quello ci aveva già pensato il modo di esprimersi di Evans nel dirgli che non tutti i pazienti è detto riescano a essere dimessi. Questo, se accostato all'immagine di un Oikawa molto più giovane - come se lo ricorda lui per forza degli eventi, d'altronde -, gli causa un'agitazione sotto la pelle che Hajime non è sicuro di poter gestire.


Così come è convinto di non poter gestire un incontro amichevole con Oikawa quando sente chiamare da una voce femminile: «Signor Iwaizumi?» e si ritrova davanti una ragazza giovane, gli abiti a tradirne la mansione di infermiera. Lei gli comunica che Evans e Oikawa lo stanno aspettando nello studio del primo e lo accompagna fino a lì, bussa alla porta socchiusa e fa cenno a lui di entrare. Hajime è abbastanza certo di rivolgerle un sorriso storto in risposta a quello caloroso di lei, ma è già oltre la soglia quando quel pensiero raggiunge il cervello.


Lo studio di Evans è uno studio. Questo è il massimo della considerazione che riesce a dargli quando i suoi occhi inquadrano la figura di Tooru e qualcosa gli si spezza dentro - sollievo, preoccupazione, euforia, rabbia. Paura.


Oikawa sta seduto sulla sedia con le gambe incrociate, come se questa fosse un'intervista dell'ennesimo giornalista sportivo dopo un match di pallavolo dove lui ha fatto la differenza, e neanche avesse addosso un capo firmato e un'assistente di una troupe si fosse assicurata che i suoi capelli siano perfetti e il trucco sul viso più naturale possibile pur mascherando qualsiasi eventuale imperfezione. Invece il Tooru davanti a lui indossa una tuta di quelle con cui si sta in casa quando non si aspettano visite; i capelli sono appena più lunghi di come Hajime se li ricorda, ma meno brillanti di quanto quell'idiota se ne occupava quasi dovessero avere vita propria; il viso ha le ombre di un mancato sonno e di una salute tutt'altro che ottimale. Il sorriso che una volta Hajime avrebbe minacciato di prendere a pugni a vista è tirato, ombra di una maschera un tempo impossibile da distinguere dal vero Oikawa Tooru se non per pochi eletti.


Si gira a guardarlo e gli rivolge un incurvarsi di labbra così falso da tradire come lui non si impegni a nascondere un pensiero che risuona, come urla, nel silenzio della stanza: preferirei essere ovunque tranne che dove sei anche tu.


«Si accomodi, signor Iwaizumi.» lo incalza Evans, sbloccando la situazione di stallo tra di loro. Con la stessa cautela che userebbe entrando nella gabbia di un animale selvaggio, Hajime si chiude la porta alle spalle e azzera la distanza fino a prendere posto sulla sedia accanto a quella di Tooru, entrambi di fronte a Evans comodamente seduto dietro la sua scrivania.


All'inizio Hajime si aspetta una qualche comunicazione, un input di qualsiasi genere da parte dell'americano. Quando questo non arriva, sposta lo sguardo su Oikawa che sembra del tutto a suo agio anche nel loro completo, imbarazzante silenzio.


«Non-» comincia ma, neanche Tooru stesse aspettando di sentire la sua voce, lo anticipa quasi bruscamente: «Non saresti dovuto venire, Iwa-chan.»


Incredibile come, a distanza di così tanto tempo e quando ormai si pensa una persona non possa più scatenare in nessuna maniera un'emozione, si ritrovi a incazzarsi come quando avevano entrambi sedici anni. Immediato, quasi Tooru avesse appena lanciato un fiammifero su una tanica piena di benzina. Hajime trattiene il respiro, stringe i pugni sui braccioli; vorrebbe farlo lontano da sguardi indiscreti, però scende subito a patti con il fatto che non sia possibile. Forse la cosa peggiore è vedere la totale assenza di reazione sul viso di Oikawa - lo sa, che il bastardo ha calcolato ogni singola parola di proposito. Altrimenti, considerato come siano entrambi oltre quella che per tutti e due è stata l'amicizia che pensavano sarebbe durata tutta la vita, non avrebbe avuto nessun motivo di chiamarlo Iwa-chan.


«Potevi non mettermi come numero di emergenza, allora.» ribatte secco, non riuscendo a impedire a se stesso una risposta istintiva. Spera che Evans non lo abbia invitato con la speranza di mettere un adulto responsabile di fianco a Oikawa Tooru, perché prima di quello Hajime ha tutta l'intenzione di fargli mangiare ogni singolo giorno in cui non si è nemmeno degnato si alzare il telefono per poi rifilargli questa sorpresa.


Invece sia lui che l'americano si ritrovano a guardare Oikawa scoppiare a ridere, il ritratto di un ragazzino spensierato a cui hanno appena rifilato la battuta più divertente del mondo. Così si stende in parte sulla sedia, contro lo schienale, butta la testa indietro e si mette persino una mano all'altezza dello stomaco. C'è una millimetrica precisione in ogni suo gesto, la stessa di un attore navigato che ha imparato a memoria persino i movimenti da associare alle sue battute per una resa migliore di fronte al suo pubblico.


«Hai ragione, hai ragione!» dice, sventolando la mano libera in un blando e assolutamente non sentito gesto di scuse «Mi sono dimenticato, okay? Lo avrò registrato più di dieci anni fa! Sono quelle cose che fai quando tua mamma insiste per stare tranquilla, ma chi se lo ricordava! Se avessi saputo che volevano chiamare il numero registrato gli avrei detto che non era più lo stesso e avrei fatto chiamare direttamente a casa, insomma.» spiega, fin troppo allegro per uno che - a sentire le spiegazioni di Evans - dovrebbe essere alla stregua di un drogato in piena crisi di rigetto e senza alcuna certezza di riuscire a essere riabilitato.


Hajime non sa se gli faccia più rabbia o più paura, vedere che a dispetto della prontezza delle sue battute, non sembra esserci la lucidità di una volta nello sguardo di Oikawa.


«Ora però tutto risolto, giusto? Niente più malintesi!» quasi trilla con quella voce fastidiosa che nella testa di Hajime sarà sempre di un Tooru che, guardando quello seduto al suo fianco adesso, non sa se tornerà mai: «Puoi tornare a casa e alla tua vita, Iwa-chan. Sono sicuro tu abbia di meglio da fare che perdere tempo qui, no?» lo sente aggiungere e lo vede di nuovo, quel sorriso.


Si alza prima ancora di accorgersene, registrando con un istante di ritardo il grattare delle gambe della sedia contro il pavimento in parquet. Tooru lo segue con lo sguardo, senza scomporsi minimamente - e forse anche Evans sta osservando, alla cerca di cosa di preciso Hajime non ne ha idea.


«Come se uno sparito per dieci anni sapesse un cazzo, della mia vita.» gli sputa in faccia, prima di uscire dallo studio.


*


A dispetto del primo istinto di Hajime di andarsene e lasciare l'idiota a cui è stato dietro fin dall'infanzia, è ancora lì la sera quando Evans gli propone una sistemazione momentanea in clinica per evitare l'inutile avanti e indietro dall’hotel. Ed è ancora lì quando, la mattina dopo, nella caffetteria interna trova molti più visi di quanti abbia visto il giorno precedente. La maggior parte di loro, nota mentre una tazza di caffè americano cerca di affogare ogni sua discutibile scelta di vita, non sono nemmeno vestiti in un modo che ricordi vagamente i pazienti di una clinica.


Deve aspettare un'ora e l'incontro concordato con Evans, stavolta da solo, per scoprire che è perché una parte di loro in effetti non lo è. L'americano lo guida in un corridoio su cui si affacciano non solo il suo studio, ma molti altri: porte in legno ognuna recante una targhetta metallica con il nome di un diverso medico. Prima di fermarsi e considerando entrambi i lati, Hajime ne conta sei.


Quella alla quale Evans bussa, reca la scritta "Dr. Wayne". Il suo studio non è così diverso da quello in cui l'ha accolto l'uomo il giorno prima: una scrivania sulla parte sinistra, dietro la quale Hajime riconosce qualche titolo sugli ampi scaffali di libreria come qualcosa di medico, comode sedie di fronte. Il lato destro è tutto dedicato a un divano a due posti, un tavolinetto basso e un paio di poltroncine. La parete di fronte alla porta è per buona parte impegnata da finestre che illuminano a giorno la stanza. Qua e là qualche pianta cerca, con molta probabilità, di dare un approccio meno serio alla stanza. Dietro la scrivania è una donna ad accoglierlo con uno sguardo breve, prima di tornare a scrivere qualcosa di veloce sul primo di una pila di fogli sistemata davanti a lei, come chi non vuole perdere il filo di quello che stava appuntando. Solo un paio di secondi dopo poggia la penna e dedica loro tutta la sua attenzione.


«Il signor Iwaizumi, suppongo.» pronuncia, il tono cordiale mentre gli occhi azzurri lo scrutano senza tante cerimonie. Hajime annuisce, vedendola spostare lo sguardo su Evans: «Grazie, Raymond.» lo congeda con un piccolo sorriso, mentre l'altro si limita a un annuire lieve prima di chiudere la porta alle spalle di Hajime. Quasi nello stesso momento, la dottoressa gli fa cenno di accomodarsi, ma verso le poltroncine così lui devia appena sulla destra e vi si sistema. Lei lo raggiunge in una manciata di passi, ma senza sedersi subito.


«Caffè?»

«No, grazie.» replica «Ho già bevuto una tazza nella caffetteria.» confessa, vedendo solo ora la parte di stanza nascosta dalla porta aperta in precedenza - un lungo mobile con sopra diversi oggetti tra cui una classica macchina per il caffè veloce. La brocca è già mezza piena e la dottoressa si limita a versarsene una generosa quantità nella tazza prima di raggiungerlo e prendere posto sulla poltroncina libera. Hajime sospetta non sia molto più grande di lui, anche se i capelli scuri legati in uno chignon la fanno sembrare forse più austera e, di riflesso, con qualche anno in più sulle spalle. La mano libera aggiusta il camice perché non tiri, ma non sembra preoccuparsi di lasciar vedere il completo scuro ma non troppo formale che indossa sotto.


«Io sono Marian Wayne,» si presenta, allungando la mano verso di lui «sono una degli psicologi di questa clinica. Tra i vari pazienti di cui mi occupo, c'è anche Tooru.» spiega, usando il nome senza troppe cerimonie. Hajime immagina, mentre le stringe la mano, che se lei e Oikawa parlano debbano essere arrivati a un punto in cui le formalità sono venute meno.


«Ho saputo da Evans che ieri il vostro primo approccio non è andato benissimo.»

«La sorprende?»

«Francamente no.» replica lei senza mezzi termini, né un sorriso a far pensare che voglia essere simpatica. Questo lascia intendere a Iwaizumi che è solo brutalmente schietta: «Tooru non è il tipo felice di ricevere aiuto quando non lo chiede.» aggiunge, prendendosi un sorso di caffè. Hajime la osserva, cercando di carpire non sa nemmeno lui cosa - magari il motivo per cui è stato chiamato a dodici ore di volo da casa sua se nessuno si aspetta possa fare qualcosa.


La dottoressa sembra intuirlo, o magari è solo un dubbio lecito che avrebbe chiunque: «Raymond le ha detto a grandi linee il problema per cui i pazienti arrivano qui, ma immagino non ci sia stato il tempo né di dirle tutto nel dettaglio, né di spiegarle i metodi nello specifico o di fare riferimento a chi sta qui in clinica pur non essendo un paziente.» prosegue lei, neanche Hajime avesse ogni singola domanda scritta in faccia. Si limita ad annuire, per adesso, rimpiangendo di non aver accettato altro caffè con cui tenersi occupato mentre se ne sta lì a farsi riempire da quelle che minacciano essere una sequela di informazioni infinite e complicate.


«Trattiamo i pazienti sotto l'aspetto fisico in due modi.» riprende lei «Il primo è disintossicandoli. Non ci girerò intorno, signor Iwaizumi: nessuno di loro al momento può gestire un periodo in calore fuori di qui. Ognuno aveva raggiunto un grado di cura con il farmaco sperimentale diverso ed è inutile dire che più a lungo sono stati sotto somministrazione, peggiore è la situazione adesso. Ce la fa a sentirmi andare nel dettaglio?» domanda, occhieggiandolo. E' un medico strano, la donna davanti a lui: il tono con cui parla è conciliante, ma non sta indorando la pillola in alcun modo. E' una psicologa, o così ha compreso Hajime, eppure sembra del tutto priva di tatto ed empatia. Anche chiedergli se senta di poter gestire quel carico di informazioni ora suona più una prassi che una sua reale preoccupazione.


Annuisce comunque, perché cos'altro potrebbe fare?


Lei sembra piuttosto colpita da qualcosa, ma di cosa si tratti lui non ne ha la minima idea.


«Il farmaco in questione prometteva di rendere gli omega dei beta. Alla base, la differenza tra questi due generi è solo una: andare o meno in calore, poter o meno concepire un bambino. Il farmaco, quindi, aveva uno scopo principale, ossia azzerare gli ormoni così da far venire meno una serie di caratteristiche peculiari. Ovviamente, non potendo certo far sparire gli organi interni che permettono la gestazione anche agli omega uomini, l'unica cosa su cui era concretamente possibile agire erano gli ormoni. Ora» continua, adocchiandolo di tanto in tanto, forse per rendersi conto se la stia seguendo o meno «gli inibitori ormonali sono soggetti ad attenta prescrizione per un motivo. Bombardare un corpo con un mix di tutti quelli sul mercato potrà anche portare il paziente a non andare più in calore a lungo andare, ma di certo non lo mantiene in salute. Non si finisce in modo così diverso da qualcuno che per tanto tempo assume una droga. Solo che la dipendenza non è data dall'assumerla o meno in sé, in questo caso, ma dalla reazione quando il periodo di calore torna.» continua, prendendosi un altro sorso di caffè, seppure breve.


Hajime si sente già la testa scoppiare e sospetta che il discorso non sia nemmeno lontanamente vicino alla fine. La dottoressa Wayne, di suo, non sembra avere fretta di arrivarci: «Quando un omega che ha seguito un simile trattamento va di nuovo in calore, quello è il momento di crisi più grande. A volte è fisica, e cercano gli inibitori come si cercherebbe l'eroina.» elenca lei «Altre si rendono conto di non avere più controllo sul loro corpo, che gli ormoni adesso sono di nuovo liberi di alterare le loro percezioni, peggio di quando la natura di omega si affaccia per la prima volta. E poiché qui ogni medico, infermiere e inserviente è un beta e di certo non può avere rapporti sessuali con un proprio paziente, soffrono come un contraccolpo dello stesso periodo di calore che in condizioni normali era difficile ma non ingestibile. In casi estremi, sfociano nella depressione e nell'istinto di autodistruggersi non riconoscendo più il corpo che pensavano di aver cambiato.» conclude con crudezza, eppure solo ora a Iwaizumi sembra di sentire una sfumatura più morbida nella sua voce. Come se nemmeno lei riuscisse a mantenere l'asettica professionalità di fronte a questo - Hajime si chiede se abbia visto pazienti non superare affatto quelle crisi. Quanti ne abbia visti.


Non è sicuro se il silenzio in cui la donna si chiude sia per dargli tempo o per decifrare quanto sia ancora in grado di sopportare. Hajime si accorge solo in un secondo momento di come la propria mano stia stringendo così tanto il bracciolo della poltroncina ma tenere in tensione tutto il braccio.


«...Tooru dov'è? Intendo, in quale fase è?» domanda, sentendosi la bocca secca. La dottoressa non sospira rassegnata, il che è un buon segno immagina.


«Tooru è come ogni persona che sperava di cambiare la parte di sé che odia, quindi disperato. Per sua fortuna, è anche troppo orgoglioso per distruggersi al cento per cento, il che ci dà margine per lavorare, ma...» la vede fermarsi, aggrottare appena le sopracciglia: «ma i percorsi psicologici sono complessi, signor Iwaizumi. Per questo permettiamo ai compagni dei pazienti, quando li hanno, di soggiornare qui per affiancarli nel percorso di riabilitazione.»


Hajime non fa in tempo a sospirare di sollievo, nel sentire che almeno la situazione non è irrecuperabile, che qualcosa nelle parole della donna stride. I compagni. Ah.


«Io e Oikawa non siamo compagni.» corregge il malinteso. Lo sguardo che la donna gli rifila non sembra quello di una persona convinta di quanto appena sentito, ma immagina sia tipico di uno psicologo non negare né affermare qualcosa al cento per cento prima che il paziente lo faccia per primo. Tralasciando come Hajime non sia affatto un paziente.


«Però è il suo numero di emergenza.»

«Perché si è dimenticato di cambiarlo, apparentemente.» commenta seccato e, per la prima volta da quando è entrato, la sente sbuffare l'accenno di una risata. Quando riporta lo sguardo su di lei, la dottoressa Wayne sta accavallando di nuovo le gambe e ha le labbra incurvate in un sorriso. Quello di chi ha appena visto un bambino con la faccia sporca di cioccolato negare di averne presa un po' di nascosto dal barattolo.


«Se c'è qualcosa che nelle mie sessioni con Tooru ho capito con molta facilità, signor Iwaizumi, è che le persone come lui non dimenticano una cosa del genere. E sa perché?» gli domanda, aspettando con pazienza di vedere Hajime scuotere la testa.


«Perché quelli come Tooru le persone o le cancellano del tutto, o non le cancellano mai.»


*


«Quindi Oikawa è in ospedale.» pronuncia la voce di Hanamaki al telefono, ma Hajime può tranquillamente vedere sia lui che Matsukawa nello schermo dello smartphone grazie alla videochiamata: «In America-- beh questo comunque è la cosa che mi sorprende di meno.» ammette in aggiunta, mentre l'espressione di Matsukawa rimane indecifrabile anche quando si accoda all'altro domandando «Non ti hanno detto i dettagli?»


«Non molti.» Hajime detesta mentire, specie a loro due. Tanto quanto lui sono stati preoccupati dalla sparizione di quell'imbecille di Tooru e Hajime sospetta che Matsukawa, più di tutti, si sia incolpato della cosa per parecchio tempo essendo l'unico alfa del loro gruppo del liceo. Nonostante questo, Hajime è anche abbastanza sicuro che dirgli del farmaco, del perché Oikawa si sia affidato a una cosa sottobanco, non è qualcosa che vorrebbe nessuno di loro. Hanamaki e Matsukawa meritano entrambi che sia Tooru a dirglielo e, per quanto le mani di Hajime prudano ancora al pensiero, non farebbe mai davvero il torto al suo... amico d'infanzia, se così può definirlo dopo così tanti anni.


Difficile capire se gli altri due ci credano, ma è grato del loro non indagare oltre. Oltre il proprio telefono, invece, inquadra la stessa infermiera che ieri lo ha guidato verso lo studio della dottoressa Wayne; lei gli fa un cenno e lui annuisce.


«Devo andare, comincia l'orario di visita.»

«Aggiornaci, okay?» rimbrotta Hanamaki, chiudendo la chiamata solo dopo l'annuire di Hajime. Si alza, a quel punto, mettendo il telefono nella tasca posteriore dei jeans e raggiungendo l'infermiera.


Orario di visita è un modo carino per evitare di dire vado a fare un'imboscata a quel coglione di Oikawa durante la sua ora di terapia. Non ne è stato molto convinto quando la dottoressa lo ha proposto - presenziare alle sedute con lei e, se e quando Tooru glielo permetterà, sostenerlo durante la riabilitazione fisica - ma andarsene non gli sembra una soluzione alternativa migliore.


Capisce quanto pessima sia l'idea quando, un quarto d'ora dopo, Tooru apre la porta dello studio della dottoressa e posa lo sguardo prima su di lei, poi su di lui; Hajime si stupisce di non vederlo girare i tacchi e andarsene, a essere onesto, ma non gli sfugge come si lasci scivolare sul divano accanto a lui spazientito o come incroci le braccia al petto, sbuffando neanche avesse cinque anni.


Segue le indicazioni della dottoressa, rimanendo silenzioso spettatore per buona parte dei primi dieci minuti di seduta in cui una serie di domande di rito su condizioni odierne rispetto al loro ultimo incontro gli dicono tutto e nulla, non avendo idea di cosa si possano essere detti in precedenza. Tooru risponde con la saccenza di chi ci tiene, a far notare quanto sia offeso dalle condizioni in cui è costretto a portare avanti l'incontro; la dottoressa Wayne, di contro, sembra adattarsi a lui con professionalità e naturalezza. Lo stuzzica in alcuni momenti, gli parla conciliante in altri, attende pazientemente in silenzio quando Tooru sembra non essere intenzionato a rispondere.


«Signor Iwaizumi,» lo richiama a tradimento «possiamo darci del tu?» domanda, osservandolo. Preso alla sprovvista annuisce prima di rendersene conto, ma non ha tempo di ritrattare prima che arrivi una vera e propria domanda: «Dimmi, com'era Tooru a scuola?»



Hajime non è mai andato da uno psicologo in vita sua, se si esclude una singola chiacchierata fatta con uno esterno venuto il giorno dei risultati del primo test sul loro secondo genere e quello, qualche anno dopo, presente al test definitivo. Non ha idea di come dovrebbe rispondere: sincero? Più pacato per evitare reazioni inaspettate in Oikawa? Esiste, poi, una risposta giusta che metta d'accordo tutti?


«Non serve pensarci così tanto.» lo incalza lei, ma non in modo brusco «Basta anche solo il primo aggettivo che ti viene in mente.»


Insopportabile. Sbruffone. Arrogante. Con più dedizione verso la pallavolo di chiunque altro. Una forza della natura. Piagnucolone. Forte. Fragile.


«Testardo.»

«Ah!» esclama subito Oikawa, stringendosi ancora di più nelle spalle «Non sono io a essere rimasto in una clinica dove non ho nulla da fare.» commenta, occhieggiandolo quasi per sfidarlo a ribattere.


«Perché di quello ne parlano gli adulti, i bambini non hanno voce in capitolo.»

«Iwa-chan sei insopportabile anche da vecchio!»

«Almeno il mio cervello è cresciuto!»

«Il tuo--»

«Per quanto questo scambio sia quasi affascinante,» comincia la dottoressa e non sembra per nulla ironica «non credo sia un dialogo funzionale. Tooru, perché non pensi che Hajime dovrebbe restare?» domanda a bruciapelo, del tutto in contrasto con la voce pacata e l'espressione imperturbabile che offre.


Lui sposta lo sguardo su Oikawa nello stesso momento in cui Tooru lo devia sulla dottoressa. Lo vede osservarla come se dovesse trovare la soluzione prima di cadere inesorabilmente nella trappola e sciogliere appena l'intreccio delle braccia contro il petto, rilassando le spalle. Quando apre bocca, l'espressione è stanca, seria e rassegnata insieme.


«Perché non ne ho bisogno.»

«Del suo aiuto o che veda la tua situazione?» lo incalza la donna, facendolo irrigidire di nuovo. Agli occhi di Hajime è come un tira e molla che non crede Oikawa possa in alcun modo vincere e per uno abituato a non perdere, non deve essere la situazione ideale per aprirsi. O forse la dottoressa ha capito prima di altri che la chiave di lettura di Oikawa Tooru non è certo lasciarlo crogiolare nella convinzione di farcela sempre e comunque.


Inaspettatamente, Tooru si gira a guardare lui, però; quando gli sorride con la stessa arroganza dell'adolescenza ma senza che quel sorriso raggiunga gli occhi, Hajime sa che non può in alcun modo essere un buon segno: «Lo so cosa ti hanno detto.» comincia «Di quanto sia difficile quando vado in calore. Invece, non è così difficile. Certo, l'ideale sarebbe avere un alfa ma cosa credi, in una clinica piena di omega pensi non si faccia niente oltre ad aspettare un partner che non arriverebbe comunque? Facciamo tra noi.» butta lì quasi fosse una questione di poco conto, qualcosa da cui non potrebbe mai essere nemmeno sfiorato.


«Perciò la vita qui non è la prigione che ti avranno raccontato. I dottori la fanno così tragica! Invece, davvero, non c'è bisogno tu rimanga anche perché... voglio dire. Iwa-chan, tu sei solo un beta. Sei in assoluto quello che potrebbe aiutarmi di meno con il sesso! Quindi--»

«Quindi ti sta bene l'idea di restare per sempre in clinica con tutti gli altri, come dei drogati, senza mai essere riabilitato?» lo interrompe bruscamente, cercandone con insistenza lo sguardo «E gli altri omega cosa ne pensano? Tutti qui dentro a raccontarvi cosa, di essere in vacanza? A fare un sesso che non sono nemmeno sicuro ti ricorderesti comunque?»


Lo schiaffo che gli arriva gli fa girare la testa leggermente di lato, ma non gli impedisce di vedere Tooru uscire come una furia dallo studio. Quando prova a occhieggiare la dottoressa Wayne, per capire se sia il peggior risultato possibile, lei posa la cartelletta con una calma quasi irreale e alzandosi dalla poltroncina si limita a dirgli: «Caffè?»


*


Il giorno dopo è Evans a suggerirgli di approfittare del weekend per svagarsi, offrendosi di indirizzarlo verso i registri di uscita e le opzioni di spostamento a disposizione di chi, essendo ospite come lui lì alla clinica, può ovviamente andare a New York City se vuole e tornare in giornata per dormire lì dove hanno una propria stanza a disposizione. Hajime si fa spiegare l'iter, ma passa buona parte del venerdì e del sabato a vagare per gli spazi comuni della clinica, oltre che per l'ampio giardino.


Vede Oikawa una sola volta, senza essere notato. A osservarlo da lontano, seduto su una panchina con un ragazzo di qualche anno più giovane a ridere rilassato, sembra più di vedere due amici al parco, non due pazienti.


Hajime non ci dà più peso del necessario finché quello stesso ragazzo non lo approccia in caffetteria, con un amichevole: «Aspetti Tooru? Posso sedermi?» che lo sorprende più che altro perché arriva in un perfetto giapponese. Alza lo sguardo su di lui, trovandolo tutto sorridente; gli fa cenno di sedersi, vedendolo poggiare sul tavolo un piatto con un paio di sandwich al formaggio. Hajime non deve aspettare poi molto per sapere con chi sta parlando, data la naturalezza con cui il ragazzo pronuncia un «Sei Iwaizumi-san, giusto? Hinata Shouyo!» e, a dispetto del giapponese utilizzato, è comunque una stretta di mano che gli offre d'istinto. Tradisce il fatto che, probabilmente, è in America da abbastanza perché gli venga più naturale di un classico inchino. Hajime spera che quella lunga permanenza su suolo straniero non sia stata tutta in clinica.


«Tooru mi ha parlato di te!» riprende subito lui, senza dargli il tempo di decidere come approcciarlo «Cioè, siccome anche io giocavo a pallavolo ne abbiamo parlato e poi mi ha descritto un po' la sua squadra al liceo e mi ha detto di te.» chiarisce, con una parlantina invidiabile e un'energia che Hajime definirebbe caotica in modo ben diverso dal Tooru dei suoi ricordi adolescenziali. Hinata, comunque, non sembra preoccupato dal suo silenzio stordito, considerato come continui a parlare senza problemi: «Poi ieri era arrabbiato e quando sta così girato meglio se lo lascio stare qualche ora. O tutto il giorno.» si corregge con il sorrisetto furbo di chi ha già provato a fare diversamente e ha capito sulla propria pelle quale sia, invece, la strategia migliore. E' strano, per Hajime, perché da una parte riconosce l'amico d'infanzia di cui è stato l'ombra per anni ma, allo stesso tempo, è come ascoltare di un gap a cui non ha assistito e che non pensa potrà recuperare mai davvero. Specie se non riescono a dialogare.


«Quindi giocavi a pallavolo.» decide di approcciare l'argomento più semplice, ritrovandosi a guardare l'espressione di Hinata mutare in un broncio infantile: «Non stai per dirmi che sono troppo basso, vero?»


Hajime lo guarda, confuso per una manciata di secondi e poi ride. Di norma sarebbe molto scortese, lo sa, ma qualcosa nel ragazzo di fronte a lui rende difficile pensare al modo giusto di interagire con uno sconosciuto. D'altronde è già surreale pensare di essere in una clinica a non sa nemmeno quante miglia di distanza da casa, dopo aver preso un volo all'improvviso solo perché contattato e venuto a conoscenza che Tooru fosse in ospedale. Cosa importa se non segue l'etichetta, per una volta.


«Non ci stavo pensando, davvero.»

«Oh, ecco. Altrimenti avrei dovuto-- oh, Tsumu-san!» Hinata si sporge appena di lato, iniziando a sbracciarsi in un saluto verso qualcuno alle sue spalle. Ci vuole poco perché nel campo visivo di Iwaizumi rientri un uomo alto, biondo e dall'aria di un classico attore americano. Peccato che chiunque abbia seguito un po' di pallavolo professionistica, come ha fatto lui, conosca Miya Atsumu. Un alzatore dalla tecnica e dall'estro incredibili, oltre che con l'abitudine di giocate azzardate a cui molti del suo stesso ruolo nemmeno penserebbero. Per diverso tempo Hajime ne ha seguito ogni partita universitaria, oltre che post laurea quando Miya ha prevedibilmente continuato come giocatore professionista. Un vero peccato si sia poi ritirato quando--


«Oh.» si fa scappare mentre Miya Atsumu si piega in avanti, circonda le spalle di Hinata in un mezzo abbraccio e gli lascia un bacio sulla tempia come se Hajime non fosse neanche lì. O come se, più scontato, all'ex giocatore non interessasse tanto quanto dimostrare affetto al ragazzo seduto. Hinata ridacchia divertito, la mano a dare un paio di colpetti leggeri sul braccio altrui; Hajime distoglie lo sguardo, sentendosi in dovere di lasciargli la loro privacy nonostante non sia colpa sua se non ne hanno di partenza.


«Tsumu-san, Tsumu-san» Hinata lo richiama come se fosse un bambino in cerca dell'attenzione dell'adulto di turno «guarda! E' Iwaizumi-san, Tooru ne ha parlato un sacco di volte!» sposta l'attenzione proprio su Hajime che, a quel punto, non può fare altro se non tornare a guardarli entrambi. Miya non sembra particolarmente convinto - o forse solo molto poco interessato - ma occhieggia comunque Hajime come se dovesse vagliare la possibilità di essere infastidito. Gli basta questo per capire che ha un'alfa davanti, oltre al fatto che è diventato di dominio pubblico quando Miya ha sfondato nella prima squadra giapponese, e questo lo confonde rispetto alle parole di Tooru durante la seduta con Wayne.


Miya si limita infine a un cenno del capo; sembrerebbe tutto d'un pezzo e il campione a cui Hajime è abituato dalle interviste in tv se non perdesse di credibilità nel momento in cui si lamenta come un ragazzino di dover andare per lavorare. In effetti, il trasferimento in America che ha tanto fatto scalpore quasi un anno fa...


E' quando se ne va, non senza un altro bacio - stavolta sulle labbra - e una serie di smancerie che Hajime preferisce non guardare che Hinata ride.


«Tutto bene, Iwaizumi-san?» lo prende un po' in giro e Hajime sospira, non volendo nemmeno immaginare come debba essere avere Hinata e Oikawa entrambi di buon umore e nella stessa stanza. Gli viene mal di testa solo a pensarci: «Sì, sì, tutto bene...» si limita a commentare lui con un gesto veloce della mano. Hinata invece addenta finalmente uno dei suoi sandwich, lasciandoli nel silenzio finché non è proprio Hajime a romperlo chiedendo nel modo più discreto possibile: «Credevo gli alfa non potessero entrare.» che fa alzare lo sguardo a Hinata. L'espressione confusa che gli vede assumere è già una risposta quasi sufficiente.


«In che senso?»

«Così ha lasciato intendere Oikawa alla seduta con la dottoressa Wayne.» pronuncia Hajime con una vaga alzata di spalle, non potendo né volendo scendere nel dettaglio di cosa l'altro abbia detto in quella che dovrebbe essere una seduta privata. Per quanto lui sia stato ammesso a presenziare dalla psicologa e benché sia quasi certo Tooru gli abbia rifilato una bugia.


«Mmmh» mugugna Hinata, grattandosi il naso mentre ci pensa su: «beh, non entrano al piano delle camere.» decreta infine «Ma certo che entrano. Seguono i compagni durante le sedute dagli psicologi, oppure alcuni dei test fisici. E quando ci sono le crisi, per un omega che ha formato un legame... come potrebbe senza alfa? Non si farebbe comunque toccare da nessuno.» osserva infine con uno sbuffetto leggero. Non è che Hajime non ci avesse pensato... ma l'irritazione alle parole e alle insinuazioni di Oikawa è stata talmente forte da averlo reso irrazionale. A rifletterci bene era una bugia così ovvia che quasi si vergogna ad aver perso la pazienza in meno di un minuto. Se fosse solo affonderebbe la faccia nel cuscino e ci urlerebbe dentro.


Riporta lo sguardo su Hinata solo quando vede il suo indice entrare nel proprio campo visivo, mentre picchietta sul tavolo dove lui può vederlo così da attirarne l'attenzione. Quello che Iwaizumi si ritrova a vedere è un sorrisetto divertito: «Tooru non ti ha parlato di me, giusto?» lo incalza e Hajime evita di dirgli che Tooru non gli parla, punto. Non lo ha fatto per dieci anni, improbabile lo faccia dopo dieci minuti dall'essersi rivisti. Hinata sembra intuirlo senza bisogno che lui lo dica ad alta voce e questo rende molto più semplice la loro conversazione.


«In pratica ci ha fatti conoscere Wayne-sensei.» comincia a raccontare «Perché sono un recessivo.»


Hajime ne ha sentito parlare, per lo più quando erano a scuola e le lezioni di educazione sessuale sul secondo genere li menzionavano brevemente, ma sa anche quanto sia incredibilmente raro che la condizione si presenti. Così raro da rendere molto difficile sentir dire a qualcuno di aver incontrato una persona con quel gene - uno che ha portato da un secondo genere assodato e ottenuto come risposta ai test standard a uno completamente diverso, in età avanzata. Il ragazzo seduto di fronte a lui, per quanto ne sa dai pochi articoli sull'argomento che ha avuto modo di leggere in passato, potrebbe aver vissuto come un beta fino all'anno scorso ed essere ora in una clinica come omega.


«Sono l'unico qui non per il medicinale ma perché, insomma, è un casino quando non ti sei abituato a tutte quelle cose a cui adesso devi fare attenzione.» ammette con uno sbuffo leggero. Eppure è proprio quella leggerezza a sembrare strana agli occhi di Hajime, chiedendosi cosa mai possa essere uscito fuori dalla prima seduta in cui la dottoressa Wayne ha presentato lui e Oikawa. Quanto si può ottenere dal mettere a confronto un ragazzo che dovrebbe essere molto più turbato dal ritrovarsi omega all'improvviso, ma sembra invece averla già superata, con uno che è stato omega per tutta la sua vita e altrettanto a lungo ha cercato un modo per smettere di esserlo?


Se si parlasse dell'Oikawa che conosce, Hajime non esiterebbe a dire che deve essere stata catastrofica: se al Tooru dei suoi ricordi avessero messo davanti qualcuno che aveva ottenuto, senza apparente sforzo né turbamento, qualcosa che lui desiderava fortemente e che non riusciva ad avere nemmeno con tutto l'impegno del mondo, Oikawa l'avrebbe detestato con tutto il cuore. Non ci avrebbe di certo fatto conversazione su una panchina in giardino.


«Mi sorprende abbastanza siate diventati amici.» commenta, deciso ad alzarsi per recuperare qualcosa da mangiare o, forse, solo per sottrarsi a una conversazione che comincia a credere non dovrebbe avere. In un posto in cui, a dire il vero, non sarebbe dovuto venire.


«Beh, a me non tanto in realtà.» ammette Hinata, sorprendendolo di nuovo in poco tempo. Quando lo guarda, Hajime lo vede scrollare le spalle: «Tooru una volta mi ha chiesto: non maledici mai quello che sei adesso? Credo sia una cosa molto triste da dire. E ho capito che forse possiamo essere amici proprio perché agli occhi di Tooru io ho perso quello che lui voleva e mi sono ritrovato con quello che ha sempre avuto. Non sono granché con i ragionamenti complicati eh, ma magari se sono io a dirgli che si può sopravvivere pure a questo, ci crede di più. Magari Wayne-sensei ha pensato di vedere se riuscivo a farglielo capire.» conclude Hinata, per poi dare un morso al suo sandwich.


Hajime, mentre lo guarda esterrefatto, avverte un pensiero intrusivo disturbarlo con un brivido inaspettato lungo la schiena - Tooru vuole che qualcuno lo salvi o vuole che qualcuno lo condanni?


*


Non saprebbe dire di preciso se ci arrivi per un filo di pensieri così intricato da farlo finire anni indietro ma, come un fulmine a ciel sereno, Hajime si ricorda dell'unica volta in cui ha toccato, guardato e trattato Oikawa non come si fa con un amico. In modo così diverso da come aveva sempre fatto dall'infanzia da venirne stordito.


Da quando gli aveva rivelato del proprio secondo genere, Hajime non si era mai dovuto preoccupare che Oikawa prendesse le sue medicine. Semmai, si era sempre dovuto assicurare che non esagerasse, pur essendosi reso complice del fatto che l'altro ne prendesse più di quanti prescritti. Mai delle quantità allarmanti, ma Hajime preferiva comunque tenerlo d'occhio. Se il mondo avesse dovuto scommettere sul secondo genere di Oikawa, non una sola persona avrebbe scelto qualcosa di diverso da "alfa". E mentre lo guardavano vincere ed essere la colonna portante di una squadra, tutti vedevano anche lui - Hajime, un beta - e gli associavano la figura dell'ago della bilancia immaginaria che manteneva l'equilibrio di Tooru.


Finché non era andato in calore. Finché lo spogliatoio, per fortuna ormai del tutto svuotato tranne che per loro, non si era riempito dell'odore dei ferormoni di Tooru al punto da averli non solo resi percepibili anche per Hajime, ma avergli fatto pensare per la prima volta quanto pericoloso sarebbe stato se al suo posto ci fosse stato Matsukawa. Se, in quel momento, fosse passato qualcuno.


Oikawa si era accasciato contro gli armadietti, facendo un rumore metallico all'urto del proprio corpo contro lo sportello, e aveva digrignato i denti e soffiato fuori un «Cazzo.» che Hajime non aveva saputo dire se fosse più sofferto, arrabbiato o eccitato. Eppure all'inizio aveva pensato di poterlo comunque gestire, perché si era preparato per questo da quando Tooru aveva pianto dicendogli di essere un omega - Hajime aveva studiato, aveva fatto qualche ricerca quando aveva potuto, sbirciato tomi medici troppo costosi e che non avrebbe comunque capito nella loro interezza nella biblioteca della città. Si era tenuto pronto, nascondendo un inibitore nella borsa anche se a lui in quanto beta non serviva. Aveva creduto sarebbe stato sufficiente e invece Oikawa si era mosso verso di lui e gli aveva afferrato un braccio, lo aveva tirato fino alle docce, lo aveva spinto dentro uno stallo.


Hajime aveva battuto la testa contro le mattonelle e aveva imprecato a mezza bocca, alzando lo sguardo verso Oikawa per dirgli «Che cazzo fai» e invece se lo era ritrovato vicino, troppo per come l'altro lo aveva abituato durante i periodi in cui andava in calore: pochissimo contatto, per lo più messaggi. Ogni tanto accettava che Hajime andasse a casa sua, salisse le scale e gli parlasse da dietro la porta. Ma erano occasioni rare. Di certo Oikawa non lo aveva mai voluto più vicino di quanto un muro tra loro gli permettesse; eppure, in quel momento, non c'era neanche un metro a dividerli.


«Ho un inibitore nella cartella.» aveva soffiato, non osando parlare più forte «No, anzi, possiamo andare all'infermeria e--»

«Dove vuoi che vada... così.» aveva sentito mormorare a Tooru mentre la sua mano prendeva quella di Hajime in un gesto poco amichevole e di certo per nulla romantico, la guidava verso un'eccitazione evidente sotto i pantaloncini d'allenamento. Aveva sentito Oikawa farsi sfuggire un mugolio di piacere e l'aveva poi visto mordersi a sangue l'interno della guancia, per punirsi.


Hajime vorrebbe poter dire di aver avuto la lucidità di spingerlo via per tutto il tempo in cui l'istinto aveva guidato Oikawa a cercare di avere da lui il sesso che Hajime non avrebbe mai sopportato dargli in quel modo, sapendo quanto Oikawa si sarebbe sentito male una volta passato il calore, senza più l'istinto e il bisogno ad avere la meglio sul suo cervello. La verità però è che alla fine lo aveva toccato - solo toccato -, l'aveva fatto venire come Oikawa aveva fatto con lui, la mano sul suo membro e i tocchi impacciati di chi era spezzato a metà tra un desiderio irrazionale e il volere che finisse prima possibile.


Tooru non glielo aveva mai rinfacciato. Semplicemente avevano entrambi raggiunto l'orgasmo, Oikawa si era accasciato sfibrato di ogni forza e Hajime aveva se non altro avuto il tempo di recuperare l'inibitore e portarglielo, aspettare che facesse effetto e poi sciacquarsi velocemente e aspettare che l'altro facesse lo stesso. Senza offrirsi di aiutarlo, consapevole più di chiunque quanto qualcosa che molti adolescenti facevano a prescindere dal loro secondo genere avesse sbriciolato un'altra parte dell'orgoglio di Oikawa, quanto avere un aiuto avrebbe fatto il resto.


Così Hajime aveva aspettato nello spogliatoio. Per un'ora, prima di sentire l'acqua della doccia iniziare a scorrere e quasi due per vedere finalmente Oikawa ricomparire vestito con la divisa scolastica e un sorriso tirato sulle labbra. Gli aveva letto nello sguardo la muta preghiera di fingere che non fosse mai successo. E lui l'aveva accontentato.


Ripensandoci ora, mentre sdraiato sul letto fissa il soffitto di una stanza sconosciuta in una clinica in cui tutti i pazienti restano chiusi perché fuori non riuscirebbero ad avere una vita normale, si chiede: cos'avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto fare, di diverso?


Hajime non è mai stato la persona dei "forse" o dei "se", eppure se non avesse permesso a Oikawa di dissimulare, se lo avesse affrontato con più forza quando aveva preso il vizio di prendere "solo qualche pastiglia in più", se gli avesse detto che poteva essere magari non qualsiasi cosa desiderasse ma quantomeno felice a prescindere dal risultato di un test... forse, adesso, non sarebbe lì a chiedersi se lo vedrà uscire mai da quella clinica. Forse Tooru avrebbe fatto scelte diverse e ora non sarebbero lì, lontani da casa, a cercare dopo dieci anni di ritrovare l’uno nell’altro l’unica cosa familiare che ricordano.


Forse ci sarebbe meno senso di colpa a inchiodarlo su un letto. Forse Tooru sarebbe lì, a dargli una cuscinata per farlo alzare perché ha deciso di voler andare da qualche parte proprio adesso, ridendo in quel modo insopportabile che però è uno dei ricordi migliori che Hajime ha di lui.
hakurenshi: (Default)

Prompt: magia (scienza/magia)
Missione: M3 (week 4)
Parole: 9173
Rating: gen
Warnings: HP!au, slow burn, pining, Miya Atsumu è uno sfigato



E’ il secondo anno quello in cui Atsumu pianifica di dare fuoco al Cappello Parlante per la prima volta, mentre seduto al tavolo di Serpeverde deve scendere a patti che anche quest’anno - come per i prossimi cinque - non potrà passare il tempo libero tra le lezioni a lagnarsi con Osamu in Sala Comune. Perché uno straccio formato cappello ha deciso di dividerli in due casate diverse. Sottintendo tra l’altro che lui sia quello scemo dei due, perché ovviamente Osamu è finito a Corvonero. Atsumu odia quel cencio sullo sgabello.


Takeda sta spiegando con il sorriso sulle labbra al gruppo di undicenni più o meno spauriti davanti a lui a cosa stanno per andare incontro. Atsumu è tentato di urlare “Vi toglierà tutto ciò che avete di più caro!” per il puro gusto di dire ciò che nessuno ha il coraggio di dire e di seminare il panico. Se si distrae dal suo piano malvagio è solo perché uno dei primini sta letteralmente saltellando fino allo sgabello come se quello fosse il momento più bello del mondo. Atsumu si augura per lui che non abbia fratelli gemelli.


Da lì a pochi minuti, si convince di essere il mago più potente del mondo a soli dodici anni - non che non sia stato sempre molto sicuro delle sue capacità, da quella volta in cui l’iguana di zia Touko è esploso perché la magia di Atsumu ha deciso di manifestarsi e lui era un po’ arrabbiato. Ha sempre saputo che avrebbe fatto grandi cose, magari dopo essersi diplomato a Hogwarts e essere diventato il più fantasmagorico giocatore di Quidditch degli ultimi due secoli. Invece deve aver appena ucciso il Cappello Parlante con tutte le maledizioni mentali che gli ha lanciato. 


Si sistema meglio sulla panca e ne approfitta per accostarsi a Hanamaki, del terzo anno, e bisbigliargli un: «Secondo te l’ho ucciso col pensiero? Sono almeno tre minuti che non dice niente.» sussurra, mai abbastanza piano evidentemente visto che dall’altro lato di Hanamaki spunta Oikawa, lo sguardo di chi non crede di dover spiegare certe ovvietà a qualcuno. Fissa Atsumu quasi non fosse sicuro di volergli concedere la conoscenza di quanto stia avvenendo, ma alla fine sbuffa e gli offre un: «Certo che non l’hai ucciso col pensiero. Solo perché a te ha solo sfiorato la testa prima di mandarti da noi non significa che tutti siano così semplici. Anche il sottoscritto ci ha messo ben un minuto e ventitre secondi


Atsumu frequenta Toru Oikawa da appena un anno ma ha sentito la storia del suo Smistamento almeno cinque volte. E’ divertente perché ogni tanto la ripete davanti a Iwaizumi che gli ricorda anche quanto abbia frignato quando sono stati divisi di casata. 


«GRIFONDORO!» tuona il Cappello Parlante, e il ragazzino è tutto un woah e un waaaah mentre corre verso il tavolo rosso-oro. Atsumu invece si volta verso quello di Corvonero, individua Osamu e gli fa cenno di aver avuto un’idea geniale. Suo fratello sembra già stanco.


*

Atsumu dimentica del tutto l’esistenza di Hinata Shouyo - se non una sommaria e rumorosa consapevolezza in Sala Grande durante i pasti - fino alla fine del quarto anno. La sua carriera sportiva è già avviata da due e Serpeverde è una squadra piuttosto competitiva quell’anno: perdono contro Grifondoro per un soffio, nonostante Oikawa riesca a prendere il boccino d’oro, ma l’assenza di Matsukawa dopo essersi preso un bolide sul gomito si è fatta sentire, costringendo Atsumu a coprire quasi tutto il campo da solo come Battitore. 


Dopo due anni in squadra e considerata la quasi inesistente differenza di età tra lui e Oikawa, Atsumu sa fare di meglio che tornare nello spogliatoio finché non si sarà calmato o finché Iwaizumi non avrà avuto la forza di farlo calmare e di fargli passare la frustrazione che Atsumu stesso condivide, a essere del tutto sincero. Perciò devia altrove, la divisa ancora indossata a eccezione delle protezioni riposte in fretta e furia prima che Oikawa entrasse nello spogliatoio, e per un momento pensa di aver ricevuto un bolide in pieno stomaco. Pensa già a possibili invidie che vogliono metterlo fuori gioco, stroncare la sua futura sfavillante carriera - ignorando la totale assenza di senso nel farlo a stagione conclusa, cosa a cui Osamu di certo penserebbe in maniera più lucida di lui - quando è la zazzera di Hinata Shouyo a rientrare nel suo campo visivo e non un bolide impazzito.


Hinata alza lo sguardo e c’è un letterale brillio nei suoi occhi quando realizza di averlo davanti. Da lì comincia a parlare così velocemente che Atsumu perde metà delle informazioni che gli vengono date.


«E poi hai roteato la mazza e bam e il bolide è sfrecciato via e wham! ha preso Nishinoya-senpai! Cioè, io ho tifato per Grifondoro tutto il tempo, ovvio, però! Però!» continua a dire, più entusiasmo che sangue nelle vene e Atsumu vorrebbe mantenere una certa classe ma è stanco, viene da una vittoria e quelli sono complimenti e chi è lui per rifiutarne. Sarebbe meglio se avesse vinto, in condizioni normali tutta questa attenzione e da un tifoso avversario basterebbe a fargli prudere le mani tanto da voler mettere mano alla bacchetta, ma qualcosa in Hinata gli fa intuire che non lo stia facendo per prendersi gioco di lui. L’ammirazione che esprime sembra essere sincera, quindi per una volta Atsumu decide di concedere il beneficio del dubbio.


«Grazie,» replica con una punta di esitazione data dalla troppa esagitazione «Iwaizumi e Tanaka non mi hanno reso facile il compito.» aggiunge, riferendosi ai Battitori Grifondoro che lui odia dover affrontare in partita. Stupidi forzuti.


Hinata ha tantissimo da dire anche su di loro, il che è scontato in effetti, ma quando ormai sono fermi nel corridoio da buoni dieci minuti Sawamura - capitano e portiere - viene a recuperarlo e ci aggiunge un «Scusalo, gli ho detto che non era il caso dopo la partita.» di chi è abituato a fare più da padre che da capitano, alla propria squadra, specie visti diversi soggetti presenti. Atsumu apprezza che ci sia una certa sensibilità da parte di chi ha vinto e sa di dover scegliere il giusto momento per complimentarsi con gli avversari. Perciò scuote la testa e fa un occhiolino complice a Hinata: «Non c’è problema, abbiamo fatto due chiacchiere interessanti.»


Di lì a poco entrambi si avviano per il corridoio, probabilmente per riunirsi alla squadra. Nell’andarsene, Hinata gli dice: «Il prossimo anno saremo avversari, Miya-senpai!»


*


A partire dall’anno successivo, Atsumu fa molto più caso a Hinata, forse aspettandosi un agguato in qualche corridoio. E’ così che finisce con il notare molte cose a cui non aveva badato e che, di norma, non sarebbero nemmeno troppo di suo interesse. Hinata Shouyo è una strana creatura capace di farsi amici in qualsiasi casata e in qualsiasi anno: amato e preso in simpatia da persone come Sawamura, che ne è il capitano della squadra di Quidditch, ma anche da Sugawara di Corvonero che sembra averlo adottato, passando da Kozume di Corvonero che non è famoso per avere tutta questa schiera di amici e finendo con l’interagire anche con Oikawa stesso. Atsumu lo vede nei corridoi, di passaggio tra una lezione e l’altra, mentre si muove con il suo anno che non ha nulla da invidiare quanto a soggetti difficili ai superiori - Atsumu non crede avrebbe resistito in una classe con Kageyama e Tsukishima.


Non gli sfugge nemmeno come Hinata sia ogni giorno a invadere un tavolo diverso in Sala Grande, non per tutta la durata del pasto naturalmente, ma la facilità con cui scivola nelle conversazioni con chiunque lo incuriosisce. Così lo segue con lo sguardo più di quanto si accorga di fare, anche se ci vuole la prima partita della stagione di Quidditch del suo quinto anno perché qualcosa cambi davvero.


Le fila di Grifondoro hanno cambiato formazione, inserendo in rosa tre studenti che fino allo scorso anno non facevano altro che da riserve. Non si stupisce troppo di vedere Hinata finire a confrontarsi con Oikawa nel ruolo di Cercatore, perché la fisicità lo rende anche troppo scontato; al contrario si rivela un fastidio non indifferente avere tra i nuovi Cacciatori Haiba e Goshiki. Atsumu li ha visti spesso con Shouyo ma non aveva mai badato troppo ai termini delle loro conversazioni. Haiba è alto, così tanto che Atsumu ha dubbi su come riesca a stare in equilibrio sulla scopa durante certe manovre - a un certo punto, durante la partita, Haiba fa un volo di tre metri prima che per pura fortuna riesca a finire di nuovo attaccato alla propria scopa almeno con le mani. Dagli spalti, Yaku Morisuke impreca. 


Goshiki è un Cacciatore di un’aggressività incredibile, tanto che a un certo punto Atsumu e Matsukawa si dividono i compiti e a lui tocca scaricare ogni singolo bolide che gli passa sotto mano contro Goshiki, al punto tale che la palla magica sembra essere stata incantata per seguire solo lui quando sono ormai agli sgoccioli di una partita tiratissima. Goshiki è inesperto abbastanza da mancare l’ultimo tiro in porta, superando l’anello di parecchio e facendo finire la Pluffa da tutt’altra parte. Per motivi che Atsumu non conosce, dagli spalti Grifondoro si eleva non un verso scontento, ma un «HOMERUN TSUTOMU» che fa vergognare Goshiki abbastanza da farlo accartocciare sulla scopa, forse nel tentativo di sparire o mimetizzarsi. 


Qualche secondo dopo uno scoppio di applausi dagli spalti Serpeverde porta Atsumu ad alzare lo sguardo in tempo per vedere Oikawa fare un ampio cerchio in volo, pugno che stringe il boccino teso verso il cielo. Hanno vinto, ma lo sguardo di Atsumu è attirato da Hinata: due metri sotto Toru, ha lo sguardo di una bestia famelica pronta a qualsiasi cosa per avere quel boccino la prossima volta che il campo lo ospiterà come giocatore. Ed è di fronte a quella fame insaziabile che Atsumu lo ricorda: un ragazzino saltellante rimasto troppo tempo sotto il Cappello Parlante perché la scelta della sua casata possa essere stata semplice e sbrigativa.


Adesso ne capisce il motivo.


*


Contrariamente al pensiero di chiunque, non gli parla dopo quella partita folgorato da chissà cosa. Comincia con i saluti quando si incrociano agli allenamenti, uno in procinto di iniziare e l’altro con il forte desiderio di una doccia; si prendono qualche minuto in corridoio, tra incantesimi che vengono lanciati dove non si dovrebbe e magici quadri pronti a ficcanasare in qualsiasi momento. Qualche volta Hinata si ferma alla sua tavolata in Sala Grande, inizialmente attirato dal vedere lui e Osamu vicini - ma siete gemelli! - e poi per questo o quell’aneddoto, per una domanda su una Pozione che per Atsumu è già programma affrontato l’anno precedente.


La sorpresa è quando a ridosso di un’uscita a Hogsmeade Atsumu viene abbandonato letteralmente da chiunque, perché la sua vita è evidente debba essere un continuo tradimento. Osamu è raffreddato, Oikawa ha un appuntamento con Iwaizumi - finalmente, ha detto Hanamaki quella mattina a colazione, stava diventando imbarazzante fingere di non sapere che si fanno il filo da due anni - e Atsumu potrebbe ammettere (solo per stavolta) di non essere esattamente pieno di amici.


L’aspetto sconvolgente è che Hinata, sempre circondato di persone, si ritrovi solo al punto da chiedergli di passare la giornata a Hogsmeade insieme. E Atsumu non ha motivo di rifiutare.


«E a quel punto» continua Hinata mentre camminano, i piedi ad affondare un poco nella neve non del tutto spazzata via in alcuni punti della strada «Yaku-san ha fatto rimanere Lev per altri trenta minuti di allenamento.» aggiunge, l’espressione di chi rabbrividisce non per il freddo ma per evidenti metodi spartani a cui Atsumu non fatica a credere. Una delle cose più divertenti della compagnia di Hinata, nonostante parli più di quanto Atsumu di solito sia abituato ad ascoltare, è l’immensa espressività: non soltanto quella tradotta in sorrisi e facce buffe, ma anche quella intravista sul campo da Quidditch. Mentirebbe a se stesso se dicesse di non esserne stato incuriosito o addirittura affascinato, in una certa misura. 


«Miya!» sente chiamare e fa appena in tempo a poggiare una mano sulla spalla di Hinata e a tirarlo indietro prima che una palla di neve di discrete dimensioni gli passi a pochi centimetri dal naso, mancando di un soffio la sua testa e quella del Grifondoro. Gli basta voltarsi nella direzione da cui è venuta per inquadrare Suna e Ojiro, il primo che non si sta neanche impegnando a nascondere la bacchetta con cui sta facendo fluttuare diverse palle di neve intorno a lui e con la quale di certo deve avergli lanciato quella appena evitata. 


Suna ha un sorrisetto che mette su ogni volta che ha tra le mani del materiale da ricatto per qualcuno, e Atsumu suppone di essere diventato una vittima; Ojiro sembra quasi volersi scusare con lo sguardo per questo.


«Avevi detto che non saresti venuto!» esclama Suna, fingendo un melodramma assolutamente non credibile visto che non si sta neanche impegnando a mostrare doti da attore che - comunque - non ha mai posseduto. E lo fa di proposito, per far capire di non essere affatto ferito. 


«Ho detto che sarei venuto con Samu!» rimbecca, mentre sta già tirando fuori la bacchetta «Ma è in infermeria con il raffreddore e qualcuno che dovrebbe essere mio amico deve fare la passeggiata romantica a Hogsmeade con il quasi fidanzato.» commenta senza privarsi di sottolineare ogni singola parola con cui ha tutta l’intenzione di mettere l’altro in imbarazzo e farlo tacere. Per sfortuna di Suna, Atsumu un amico orribile. Per sua fortuna, Aran e Suna inorridiscono contemporaneamente e gli offrono l’occasione perfetta per sussurrare l’incantesimo giusto e accostarci il movimento di polso necessario a far finire in faccia a Suna una palla di neve.


«Shouyo-kun, andiamo di là.» lo istruisce con un sorrisetto da schiaffi stampato sulle labbra, facendo una lieve pressione sulla sua spalla per indirizzarlo dalla parte giusta. Abbandonano quasi subito la strada principale girando dietro uno dei negozi meno frequentati del piccolo villaggio e, anche se gli sembra di sentire un’imprecazione alle sue spalle, è abbastanza sicuro di non essere seguito.


Quando lui e Hinata risbucano, dopo un paio di angoli girati e lontani dalla strada principale, a pochi passi da Mielandia il Grifondoro ha gli occhi colmi di curiosità. Di lì a poco sfocia in un: «Ma era un incantesimo velocissimo! Nemmeno Kageyama è così veloce!» esclama, e Atsumu trattiene giusto in tempo sulla punta della lingua un ci mancherebbe altro, visto che sono di un anno più grande


«Mi dicevi, Shouyo-kun,» riprende invece Atsumu, glissando sulla questione «che hai iniziato a sentir parlare di magia solo a Hogwarts?» 


Hinata annuisce, affondando le mani prive di guanti nelle tasche e lasciando che i piedi lo guidino con naturalezza verso Mielandia, anche se stranamente rimangono fuori e lui non sembra intenzionato ad andare a infilarsi tra gli scaffali di dolci. Il freddo di un inverno inoltrato non pare togliergli comunque le energie necessarie a divertirsi in un’uscita a Hogsmeade o a cercare subito il riparo del Tre Manici.


«Sì, i miei sono Babbani.» replica lui con un’alzata di spalle «Forse il nonno di mia mamma era un mago, non lo so. Lei me ne ha parlato qualche volta da piccolo, ma non me lo ricordo nemmeno bene e lui non l’ho mai conosciuto. Comunque a un certo punto ero a scuola, la scuola quella normale no, e sai come abbiamo scoperto che avevo la magia?» lo interroga, come un cantastorie che coinvolge il suo pubblico, ma al tempo stesso con il malcelato entusiasmo di chi vorrebbe raccontare tutto e subito. Atsumu lo guarda e scuote appena la testa, incentivandolo a continuare. 


«Wham!» esclama, come se dovesse essere un effetto speciale «All’improvviso stavo volando in mezzo alla classe!» 


Atsumu si riscopre a figurarselo con estrema facilità, forse perché dopo averlo visto volare su una scopa durante la partita di Quidditch gli riesce difficile immaginare Shouyo in un contesto più naturale del volo. E lo fa sbuffare divertito il pensiero di uno Shouyo bambino, più corto di tutti i suoi compagni di scuola, poco più di un frugoletto forse che ride mentre vola involontariamente per tutta la classe. 


«Che c’è? Guarda che dico la verità!» esclama il Grifondoro, pensando erroneamente che lo sbuffo divertito di Atsumu sia dovuto all’incredulità; lui ridacchia più apertamente, una mano guantata va a scompigliare i capelli di uno studente più giovane a cui non avrebbe mai dato un galeone la prima volta che lo ha avvicinato come un fan potrebbe fare con il suo idolo. 


«Ci credo, ci credo,» lo rabbonisce «ma penso ancora che far esplodere l’iguana di tua zia sia molto più figo.»
«Hai fatto esplodere cosa?! Ma dai!» ribatte Shouyo, capendo che non c’è partita in quella gara che poi gara davvero non è se non lo scambio di due adolescenti che si vantano di cose che non avrebbero comunque potuto controllare nemmeno volendo. 


Una folata di vento gelido fa rabbrividire Atsumu, e lo sguardo va a cercare d’istinto il Tre Manici di Scopa, poco lontano da loro. Fa un cenno con la testa verso il locale, in un muto invito per Hinata a muoversi in quella direzione, e mentre si avvicina già riesce a vedere attraverso i vetri che danno sulla strada qualche pentola che si sta lavando da sola grazie alla magia e boccali intenti a raggiungere fluttuando i giusti clienti.


Shouyo, quando li nota, sembra vedere un incantesimo concretizzarsi davanti ai suoi occhi per la prima volta nonostante abbia avuto di certo modo di vedere quel locale già l’anno prima con l’inizio delle sue visite a Hogsmeade. Quasi distrattamente, Atsumu si ritrova a pensare che emozionarsi a quel modo ogni volta senza lasciare che l’abitudine smussi la meraviglia sia la vera magia.


*


Il quinto anno, o quel che ne rimane dopo Natale, è un insieme di prese di coscienza molto scomode da sommare all'inesorabile avvicinarsi dei GUFO. Dopo l'uscita a Hogsmeade Atsumu passa più tempo di quanto gli piacerebbe ammettere, con Hinata, e senza la più pallida idea di come questo possa o debba significare qualcosa. Ne approfittano spesso per qualche allenamento extra insieme, anche se si parla più di manovre di volo che di altro, visti i ruoli diversi.


A un certo punto Suna decide di mettergli una fastidiosa pulce nell'orecchio alla quale è difficile sottrarsi quando la causa è un compagno di anno e di casata e avete avuto la sventura di scegliere anche le stesse materie facoltative. Così mentre sostano sulle scale che, come magia impone, sono intente a cambiare - costringendoli a un giro molto più lungo - Suna gli picchietta su una spalla e gli indica la rampa di scale sopra la loro, ferma e occupata da una classe del quarto anno. Riconosce la testa di Shouyo un momento prima che lui lo veda e si sbracci con un «Atsumu-san!» che, data la vicinanza e la reazione del poveretto davanti a lui, deve aver appena stordito Goshiki.


Atsumu ricambia con un cenno breve e un mezzo sorriso, sentendosi chiedere «Alla prossima ora sei libero?» e, alla sua risposta positiva, un «Vengo a prenderti fuori dall'aula!» che è sufficiente a Suna per dedurre tutto ciò di cui ha bisogno e che, invece, Atsumu non vorrebbe mai e poi mai offrirgli così su un piatto d'argento. E infatti, non appena Hinata e compagni spariscono dalla loro vista - incentivati da un «Muoviti, idiota» di Kageyama - Suna non perde un solo secondo.


«Devo fare domande sul fatto che uno studente di un altro anno con cui sei uscito a Hogsmeade a Natale venga a prenderti alla fine di una lezione di cui non dovrebbe sapere l'orario?» chiede e Atsumu percepisce il godimento altrui nel porgli quella domanda che è, in realtà, una provocazione evidente.


«Ti ricordo che Tanaka e Nishinoya sono nel nostro anno.» sottolinea, sapendo lui per primo che nessun kohai si prenderebbe mai il disturbo di memorizzare l'orario di un senpai. Di sicuro non Atsumu.


Suna blatera qualcosa ma lui, in modo molto maturo, gli cantilena sopra fingendo di non sentirlo.


*


Verso Aprile il suo mondo viene quasi completamente distrutto dal fatto che suo fratello si fidanza. Un concetto inaccettabile da qualsiasi punto di vista, a cominciare dall'averlo battuto sul tempo quando Atsumu è palesemente il più popolare dei due - il conteggio ufficiale che lui e Samu tengono dal loro terzo anno recita settantuno lettere di ammiratrici e ammiratori per lui e sessantanove per Samu. Non è lui a fare le regole, okay?


In secondo luogo, come sarebbe a dire che all'improvviso non è più lui il centro del mondo di suo fratello? Non se ne fa niente di Suna che gli dice è ridicolo oppure prima o poi doveva succedere. In quanto gemello ha degli specifici diritti e se gli altri non capiscono, che tacciano. E' già pronto a dirigersi al Reparto Proibito in biblioteca e a cercare qualche libro su veleni letali ma che non lascino la minima traccia quando Osamu gli tira una gomitata nel fianco dopo essersi seduto (con un certo slancio) accanto a lui, esasperato.


«E' Shin, okay?! Ora smettila di fare il cretino abbandonato!» gli dice ed è un'epifania della stessa portata di Bombarda in pieno petto. Perché Shin si traduce in Shinsuke e l'unico che sia una conoscenza di entrambi e per il quale suo fratello abbia mai mostrato una parvenza di ormone funzionante è Kita. Ed è tutto estremamente sleale.


Atsumu fissa il libro dei veleni - nel normalissimo reparto di Pozioni a cui può accedere letteralmente chiunque - e sbuffa, senza celare il broncio infantile che gli piega le labbra: «Sei sleale.» ribadisce a voce «Non posso dire nulla se si tratta di Kita-senpai.» perché in nessun altro caso accetterebbe questa cosa, ma Shinsuke è speciale per entrambi i gemelli, anche se in modi del tutto diversi.


Osamu gli pizzica il braccio giocosamente, intimandogli di lasciar stare i veleni, visto che i suoi voti in Pozioni fanno schifo.


*


Atsumu si ritiene capace di diventare il migliore in qualsiasi cosa decida di voler fare. Anche fingere che il problema sia suo fratello e il suo essersi fidanzato, o gli esami in avvicinamento, o l'essersi quasi fatto disarcionare dalla scopa all'ultima di campionato da Kageyama Tobio. Tutto piuttosto che ammettere che il profumo della sua Amortensia gli ricorda pericolosamente Hinata Shouyo, perché quello è un problema, fare un volo di cinque metri rischiando di diventare una figurina delle Cioccorane invece no.


*


Si incontrano un paio di volte in estate, del tutto a caso e per poco tempo, e qualche giorno prima del rientro a Hogwarts, per le ultime spese a Diagon Alley. Succede quando con lui c'è anche Samu, il che è bene perché ha la scusa perfetta per defilarsi quando tutto diventa troppo per il suo ego intento ad autoconvincersi da tre mesi che la sua Amortensia non sa proprio di niente, e molto male perché bastano dieci passi dopo aver salutato il trio Shouyo, Lev e Goshiki perché suo fratello cominci a guardarlo con l'insistenza che gli rivolge solo quando c'è tra loro una domanda evidente che non vuole perdere tempo a pronunciare ma di cui vuole conoscere la risposta. Così Atsumu resiste per ben cinque minuti prima di rivolgergli un esasperato «Che c'è?!» quando sono ormai quasi arrivati al Serraglio dove hanno appuntamento con Kita.


Osamu lo guarda, lo studia quasi non lo conoscesse a memoria, come se i loro volti non fossero identici da quando sono nati e solo alla fine scrolla le spalle e gli rivolge un semplice: «Contento tu.»


Atsumu lo detesta.


*


Al sesto anno Atsumu ha meno lezioni, dopo aver abbandonato le materie di cui non gli interessa prendere i MAGO, ancora più voglia di dimostrare il valore sul campo da Quidditch e meno maturità di quanta ne avesse l'anno prima. Così quando viene a sapere per caso che l'estate ha formato un sacco di coppie e che tra questa ci sono Shouyo e Kageyama la prende così sportivamente da evitare in modo molto accurato e calcolato entrambi. Non ci sono più allenamenti extra, uscite a Hogsmeade e soprattutto quando li vede per caso in corridoio con le mani che si sfiorano in modo goffo, si accerta che non ci siano nemmeno incontri fuori dalle aule o pezzi di tragitto fatti insieme.


E' quasi sicuro che Osamu lo sappia, a quel punto, ma vige la regola del se non parliamo, non lo chiediamo tra loro e ha sempre funzionato - e per una volta aiuta che siano in due casate diverse. Suna ha la decenza di glissare sull'argomento dopo la prima e unica volta che tenta di prenderlo e si ritrova nelle orecchie la minaccia di essere schiantato giù dalle scale. Atsumu non l'avrebbe fatto sul serio, ma si impegna per essere convincente; sa che Suna probabilmente è consapevole non lo farebbe mai, ma apprezza il suo fingere di essere spaventato abbastanza dall'eventualità di sbagliarsi.


Futakuchi arriva come una sorpresa e una scontata possibilità al tempo stesso. Atsumu non sa se tra loro sia il fatto di avere addosso la stessa carica post partita o post allenamento dovuta dall'essere entrambi nella squadra di Quidditch, o se siano solo l'uno l'opzione più semplice per l'altro avendo uno spogliatoio a disposizione. Fatto sta che sono gli ultimi a restare, un giorno, e si stanno rifilando battutine degne dello stereotipo dello sportivo quando di punto in bianco sono uno addosso all'altro e Atsumu sta dando il primo bacio degno di questo nome. Nessuno dei due è granché, ma nel complesso non va affatto male. Si limitano a quello, qualche occhiata in dormitorio, qualche cenno d'intesa quando gli altri compagni Serpeverde del loro anno non ci sono e scuse sul restare ad allenarsi poco credibili ma a cui nessuno bada davvero. Non c'è un vero inizio così come non c'è una vera fine, arriva solo il momento in cui entrambi hanno sperimentato abbastanza e non ci sono drammi tra loro quando semplicemente smettono di farlo quasi di comune accordo.


Di Goshiki nota le occhiate e gli fa tenerezza vedere il modo impacciato in cui ogni tanto si arma del coraggio proprio della sua casata e cerca di approcciarlo in quello che dovrebbe essere un flirt. Ma per fortuna di Tsutomu, ha troppe cose in comune con Shouyo - il Quidditch, la casata, l'anno di appartenenza e anche parte del modo in cui si entusiasma per le cose - e Atsumu non vuole Hinata, figurarsi qualcuno che gli somiglia abbastanza da ricordarglielo. Mette in chiaro nel modo più tacito e discreto possibile che non è il caso. A Goshiki passa in fretta, forse perché non diventa mai niente più di una cotta passeggera per uno studente più grande. Ad Atsumu chiude lo stomaco per due settimane.


Semi è un'incognita inaspettata. E' diametralmente opposto ad Atsumu in qualsiasi aspetto si prenda in esame, ma c'è qualcosa nel modo calmo con cui lo approccia ad attirarlo. Ci prova senza una vera certezza quando sono entrambi di ronda, butta lì una battuta e si finge il gentiluomo che non è nel riaccompagnarlo verso la parte dei sotterranei che gli spetta - poi stanno lì, un po' come se aspettassero entrambi di fare qualcosa, e Atsumu si piega in avanti per un bacio. Semi non si sposta quella sera, né quella dopo, né quella dopo ancora e per qualche mese è un insieme di cose piacevoli su cui non avrebbe mai scommesso. Nel silenzio del dormitorio non nega a se stesso che sia piacevole il modo in cui Semi nota le più piccole cose e fa gesti infinitesimali con cui riesce comunque a far sentire l'altra persona apprezzata. Ha un modo complesso, di cui Atsumu non sarebbe mai capace, di offrirgli un abbraccio quando serve, una stretta amichevole sulla spalla se necessario, di far scivolare la mano nella sua quando Atsumu si chiude in silenzi pochi tipici di lui ma che con Semi può concedersi lo stesso. Proprio perché ha una sensibilità particolare, Semi capisce di non essere l'unico, o di non essere esattamente quello che Atsumu vorrebbe. Rimane per un po', Atsumu non sa perché.


A Natale fa un regalo a Eita anche se non stanno più insieme. Osamu, che non ne può più di quelle che reputa scappatelle tanto per girarsi dall'altra parte quando vede Hinata e Kageyama in giro, gli dice di smettere di fare lo stronzo. Atsumu sa che ha ragione, ma discutono lo stesso mentre gli rinfaccia di farsi gli affari suoi e tornarsene dal suo fidanzato - che non è affatto giusto o corretto nei confronti né di Samu, né di Shinsuke. Si scusa con entrambi senza che siano passate nemmeno ventiquattro ore e offre in segno di pace una porzione di pasticcio di patate dal tavolo Serpeverde. Non ha senso, ma è il gesto che conta.


Febbraio si trasforma lentamente in Marzo, e i primi giorni del mese si ritrova in infermeria con Sakusa. Stesso anno, stessi corsi - almeno alcuni, Sakusa segue davvero troppe materie per i suoi gusti - eppure non potrebbero essere più diversi e Sakusa non potrebbe rendere più evidente di preferire un tentacolo di piovra del Lago Nero nel piatto del pranzo piuttosto della compagnia di Atsumu. Motivo per cui il Serpeverde sente l'impellente necessità di tampinarlo da lì alle settimane seguenti, non senza una certa difficoltà data da una discreta abilità di Sakusa di sgusciare via quando ha l'intenzione di evitare qualcuno, mescolandosi perfettamente ai gruppi di studenti nei corridoi. Quando Sakusa non ne può più, gli dice che lui non è Eita e non ha intenzione di fargli da balia. Per questo Atsumu è confuso quando lo bacia e non si ritrova una bacchetta infilata in posti molto sconveniente o schiantato contro una parete dalla magia più potente possibile, se è vero che dipendono dalle emozioni, perché Sakusa ha forti emozioni verso di lui. Solo che Atsumu pensa siano tutte molto aggressive.


Non sa bene nemmeno lui perché funzionano, ma in qualche modo lo fanno. Sakusa è il primo di molte cose di cui il mondo crede Atsumu sia un esperto o, viceversa, di cose che pensano tutti non lo riguardino. Sakusa è il primo a rifiutarlo quando Atsumu si dice che se limonano nelle aule vuote, potrebbero almeno tentare di uscire insieme. E' il primo che tocca in un certo modo, diverso dalla frettolosa curiosità con Futakuchi e dalla risoluta gentilezza di Eita; Sakusa non ama toccarlo né essere toccato, in linea di pensiero generale, ma ci sono modi in cui riesce a sopportarlo e in cui addirittura lo cerca, anche se Atsumu è sicuro non se ne renda conto e lo faccia in modo del tutto istintivo. Sakusa è il primo per cui deve davvero impegnarsi prima che ceda e gli permetta almeno di portarlo da qualche parte all'ultima uscita a Hogsmeade; certo, con qualche velata minaccia nel mezzo - se provi anche solo a fare cose come prendermi per mano o portarmi in quel tugurio di pub ti faccio volare fino a Mielandia con l'incantesimo più doloroso che conosco - ma lo fa. Sakusa è il primo per cui si impunta e decide di provarci più di quanto abbia fatto con Futakuchi o con Eita, con cui c'è la promessa di scrivergli (risparmiami il tedio, Miya) o di andarlo a trovare durante l'estate (sarò irrintracciabile, te lo assicuro) e di avere quello che anno per più di quanto gli ultimi giorni di scuola concedano.


A un certo punto, mentre arrivati alla stazione di King's Cross si salutano come gli sconosciuti che ormai nessuno crede siano più, Atsumu pensa quasi che forse è così che doveva andare e basta. Di sicuro la sua Amortensia, ora come ora, profumerebbe di tutt'altro.


*


Il settimo anno è quello delle scelte. Un po' perché il mondo pretende da lui che decida e metta nero su bianco cosa fare della sua vita di giovane mago a un passo dall'entrare a tutti gli effetti nella società magica, un po' perché è tra gli studenti più grandi e tutti lo guardano come si fa quando ci si aspettano grandi cose e nessuna incertezza. Deve scegliere per quale squadra di Quidditch professionale fare i provini, perché non riesce a vedersi a fare niente di diverso da quello; deve scegliere di smettere di fare il ragazzino, come Samu ormai ama ricordargli, e tornare a parlare con Hinata prima che metta su una squadra investigativa per scovarlo nei corridoi, specie perché Atsumu sarebbe destinato a perdere visto che Shouyo è riuscito in sei anni a diventare amico anche dei quadri. Lo troverebbero subito.


Osamu ha scelto di restare con Shinsuke anche se l'ex Tassorosso si è diplomato dalla scuola di Hogwarts l'anno prima, ma Atsumu continua a ripetergli che per lui e Sakusa è diverso, non c'è niente da scegliere visto che sorprendentemente mirano alla stessa carriera e quindi sarà più semplice. Deve scegliere la formazione per il suo ultimo campionato tra le mura di Hogwarts, ora che è capitano della squadra perché la scelta era tra lui e Futakuchi e quest'ultimo ha reso piuttosto chiaro il suo e dovermi occupare di altre mille cose oltre a cercare di non fallire platealmente Pozioni ai MAGO? No grazie, facciamo che di quelle ti occupi tu e io al massimo controllo che tu non faccia stronzate.


Logica vorrebbe si preoccupasse anche di parlare con Sakusa perché, a dispetto di quanto dica a Osamu, non è che abbiano esattamente parlato. Stanno insieme, si sono visti in estate. E' un gioco di pazienza, con Sakusa, ma Atsumu si è riscoperto meno scocciato o annoiato di quanto avesse preventivato. Se si fosse trattato di scommettere, lo avrebbe fatto contro se stesso, invece si ritrova tra le mani una parvenza di relazione da sette mesi quando ad Halloween decidono di potersi concedere di andare insieme al banchetto in Sala Grande come farebbe una qualsiasi coppia normale. Nella difficoltà generale di un diciassettenne considerato ormai adulto e responsabile dal mondo adulto, ma a cui gli ormoni fanno ancora qualche scherzo, Atsumu è convinto di starsela cavando egregiamente.


Poi arriva Natale, lui è quasi arrivato in cima alla rampa di scale che porta verso la zona dove si trova la Sala Comune di suo fratello, e sente sbraitare l'inconfondibile - suo malgrado - voce di Kageyama. Gli bastano quattro gradini per vedere un guizzo di scintille rosse e capire che c'è un duello in corso nei corridoi. Impiega dieci secondi lunghissimi a ricordarsi che, nonostante uno dei Caposcuola sia di Corvonero e stia sentendo le voci da dentro la Sala Comune (sempre ammesso sia lì e non a lezione), anche lui è del settimo anno e può cercare di portare la calma. Osamu, sbucando da dietro di lui, lancia un Expelliarmus che fa volare la bacchetta di Kageyama un  metro indietro rispetto a lui e Akaashi, il Caposcuola che come supponeva deve essere appena uscito dalla Sala Comune Corvonero, disarma con la stessa facilità Hinata.


Questo non li fa urlare di meno, né li aiuta a smettere di abbaiarsi insulti in faccia. Due giorni dopo, le voci di corridoio parlano di come Kageyama e Hinata si stiano a stento parlando, figurarsi se stanno ancora insieme.


Atsumu deve scegliere di fingere che questo non lo riguardi - perché deve pensare agli esami, al Quidditch, parlare con Sakusa e perché la sua Amortensia che ormai non annusa da anni perché non gli è più capitato di prepararla a lezione di sicuro, senza alcun dubbio, non ha più nulla a che fare con Hinata Shouyo.


*


Poiché il settimo anno deve concludersi in grande stile, anche se sono solo a Dicembre, lui e Osamu decidono di stilare una lista delle cose mai fatte nei loro anni a Hogwarts e di spuntarle tutte entro Giugno. In verità forse lui fa la lista e sempre lui insiste, ma in fondo Osamu non accetterebbe se non lo trovasse divertente e non fosse incuriosito da alcune possibili reazioni. Così decidono di scambiarsi all'ultima lezione prima delle vacanze natalizie, prima che Osamu lasci il castello per andare a casa di Shinsuke e Atsumu rimanga invece tra le mura di Hogwarts. Un incanto per il colore dei capelli di qua, uno scambio di cravatte di là e ci vuole davvero poco per riuscire a ingannare tutto il mondo - forse Suna li guarda con un po' di insistenza all'inizio della lezione, mentre dall'espressione di Aren Atsumu capisce di essere stati beccati subito, ma il resto della classe perde completamente per strada lo scambio e così fa apparentemente il professore di turno. Così Atsumu ha la brillante idea di portare avanti quella farsa almeno fino al pranzo, solo perché nel pomeriggio i diversi corsi lo renderebbero impossibile.


Per ogni successo deve andare storto qualcosa, però. Si autoconvince che il problema sia questa massima legge senza alcun fondamento magico quando lungo le scale una mano si aggrappa al suo copridivisa e, senza troppi convenevoli, a malapena riconosce il profilo di Hinata prima che questi cominci a tirarlo su per le scale. Atsumu vorrebbe ritirare il braccio, non fosse che sarebbe un'evidente ammissioni dello scambio tra lui e suo fratello, dal momento che Osamu non avrebbe motivo di evitare Shouyo. Un po' come lui, per quanto alla fine si sia detto che c'è una ragione del tutto valida, solo non gli va di esporla quando gliela chiedono.


Mentre Shouyo lo tira su per i gradini e poi lungo i corridoi, e Atsumu riconosce senza difficoltà la strada che deve fare suo fratello per raggiungere la Sala Comune, il Grifondoro parla a raffica: «Ho deciso» comincia «che l'unico modo è prendere te, Osamu-senpai, e portarti da qualche parte non so dove okay, tipo la torre di Astronomia. O la guferia. Cioè volevo portarti giù nei sotterranei ma sarebbe scontato e Tsukishima continua a dire che non sono capace di fare un piano segreto nemmeno impegnandomi— che poi, comunque, non è colpa mia se lui invece pensa troppo e non mi aiuta a trovare una soluzione.» blatera e blatera, tirandolo abbastanza da farlo quasi inciampare a un certo punto, perché nonostante dovrebbe sapere dove stanno andando il Grifondoro sembra decidere sul momento, passo dopo passo. Atsumu potrebbe giurare a se stesso di non aver capito per nulla quale sia la questione per cui suo fratello dovrebbe essere l'elemento chiave, almeno in apparenza.


«Dico davvero, insomma, è impossibile che Atsumu-san continui a sparire in qualsiasi corridoio anche quando tento di incrociarlo alla fine di una lezione. Nemmeno con gli orari che mi hai dato tu ci sono riuscito, e a meno che non sparisca nel nulla— insomma, sì, siete più avanti di un anno e siamo in una scuola di magia ma non è possibile, giusto? A Hogwarts non ci si può smaterializzare. Comunque,» prosegue senza quasi riprendere fiato ma fermando di botto i suoi passi - Atsumu gli finisce in parte addosso, torace contro schiena, rendendosi conto quasi per sbaglio che Hinata è più alto del ragazzino che al suo terzo anno si è avvicinato per fargli i complimenti dopo una partita persa. Forse se anziché guardarlo da lontano al puro scopo di evitare di incrociare il suo sguardo avesse solo continuato a passare del tempo in sua compagnia, se ne sarebbe accorto. E' un pensiero fugace che si impegna a mettere a tacere prima che possa trasformarsi in un qualcosa di più grande, pesante e pericoloso.


Shouyo si volta a guardarlo ed è ancora il Grifondoro esagitato, ma al tempo stesso è anche un sedicenne che dei lineamenti della fanciullezza ha perso quasi tutto, ed è la persona per cui Atsumu è stato confuso abbastanza da chiuderla fuori nel momento in cui ha scelto qualcuno che non era lui. Poco importa che non gli abbia mai messo di fronte l'altra possibilità o dell'essersi trattato di Kageyama e basta, perché ha soffocato l'alternativa prima ancora che fosse chiara e visibile per lui.


«Puoi aiutarmi a parlarci? Una volta sola. Voglio chiedergli se c'è qualcosa che non va... volevo domandarglielo quando tu e Akaashi-san avete disarmato me e Kageyama, ma...» lascia cadere la frase, abbassando per un momento lo sguardo. Atsumu non ha bisogno di chiedere a quale litigio si riferisca perché è impossibile dimenticarlo, né vuole davvero mettersi nella condizione di farsi raccontare la storia romantica finita probabilmente male tra loro due. Per quanto Osamu lo stuzzichi in merito lui sta ancora con Sakusa, più o meno e in un modo tutto loro, perciò la vita sentimentale di Shouyo non lo riguarda. Per nulla. Assolutamente no.


Sta per dirgli che non pensa ci sia molto da dire, o magari sarebbe meglio optare per un diplomatico consiglio di avvicinare Atsumu - di avvicinare lui - come meglio gli riesce, inventandosi che sarebbe controproducente se lui (Osamu) si mettesse di mezzo. Fa per aprire bocca ma Shouyo lo fissa, aggrotta un poco le sopracciglia e poi gli lascia la manica che non ha fatto altro se non tirare per tutto il tempo, tenendola fra le dita anche quando si sono fermati. Atsumu lo occhieggia, vagamente incuriosito, e capisce che Shouyo ha appena compreso di non avere davanti Osamu Miya, non importa se il cravattino con i colori di Corvonero dice il contrario.


*


Serpeverde vince la Coppa di Quidditch e lui non potrebbe chiedere di meglio per la sua ultima stagione. I festeggiamenti partono dallo spogliatoio, si trascinano per i corridoi, scivolano nei sotterranei e si concludono a tarda notte - per non dire mattina molto presto - in Sala Comune. Sarebbe perfetto se ci fosse Osamu, mentre si è fatto bastare i complimenti sinceri di Shouyo a fine partita. Corvonero dovrà riprendersi dalla batosta di essersi giocato il campionato agli ultimi due minuti di partita prima che suo fratello possa accettare la sconfitta tanto da aver voglia di festeggiare la sua vittoria, ma per adesso Atsumu se lo fa andare bene così. A un certo punto, quando l'alba si sta affacciando timidamente e l'orario implica ancora un castello deserto, Atsumu abbandona le coperte di un letto su cui per motivi a lui ignoti è svenuto anche Suna a un certo punto della festa, si mette addosso abiti semplici visto che il weekend lo libera dall'obbligo della divisa e scivola fuori dal dormitorio prima e dalla Sala Comune poi. Lo accolgono sotterranei bui, silenziosi e solitari e sarebbe così fino alla Sala d'Ingresso se non incrociasse Sakusa proprio dove i sotterranei si immettono nel piano terra del castello. Con Tassorosso e Serpeverde ospiti della medesima area di Hogwarts nessuno dei due si stupisce della presenza altrui, specie conoscendo l'uno le abitudini dell'altro.


Non sa perché, ma Atsumu percepisce senza bisogno di parole che è arrivato il momento di avere una conversazione rimandata dall'inizio dell'anno. Mentre gli esami MAGO sono alle porte e loro si trascinano dietro più di un anno di relazione stabile in cui Atsumu non ha mai guardato né toccato nessuno oltre Sakusa e senza che abbia mai anche solo flirtato per scherzo con qualcun altro, ha la stessa sensazione avuta con Futakuchi e con Eita. Quella consapevolezza di dover mettere la parola fine, in un modo o in un altro, per un motivo più o meno evidente e comprensibile.


Camminano uno di fianco all'altro, in silenzio, fino a quando non riescono a sgattaiolare fuori nel giardino. Sakusa è prudente abbastanza da non rischiare inutili perdite di punti senza ragione, perciò se lui per primo vuole uscire Atsumu lo segue senza troppe domande. Li accoglie un'aria frizzantina nonostante si parli ormai degli sgoccioli di Maggio, la fine di sette anni di scuola pericolosamente vicina e ad Atsumu per la prima volta sembra di non aver concluso nulla pur avendo fatto così tanto e aver stretto, fino alla sera prima, la Coppa del Quidditch in mano. Si fermano in un punto del Porticato, a un certo punto, e Sakusa si siederebbe se solo non fosse per lui inconcepibile poggiarsi su qualcosa di così sporco. Lo fa Atsumu al posto suo, quindi, e aspetta.


Il sole ha ormai rischiarato buona parte del cielo quando Sakusa gli dice: «Possiamo essere compagni di squadra, se lo stesso team decide di volerci tra i giocatori professionisti.»


Non è un drammatico addio, non sono urla e schianti di incantesimi lanciati con rabbia, e una parte molto infantile di Atsumu si chiede se sia perché Sakusa non ci tiene abbastanza; ma poi pensa che per più di un anno Sakusa è stato questo, sempre: la calma di chi lavora duramente, come ogni figlio di Tassorosso, tutti i giorni e mettendo su un tassello dopo l'altro, fino ad avere un risultato. E che non sempre si aspettano che quel risultato sia una vittoria. A volte si aspettano un pareggio o anche una grande sconfitta in cui si fa largo appena appena un piccolissimo traguardo raggiunto. Fa per allungare una mano verso la sua, ma poi cambia idea e scuote la testa. Sbuffa una mezza risata, o almeno così crede.


«Non sei per niente romantico.»

«Ti preferivo quando stavi zitto.»


*


Gli esami sono ormai finiti, tutti gli studenti del settimo anno non aspettano altro che i risultati e il banchetto finale, insieme alla proclamazione della Coppa delle Case. Serpeverde non se l'è giocata male, pur restano di qualche punto sotto Grifondoro ed è difficile pensare che ci saranno stravolgimenti dell'ultimo minuto.


Atsumu ha accennato a suo fratello di Sakusa e, per forza di quella cosa chiamata convivenza con Suna e Futakuchi, l'ha detto anche a loro al solo scopo di evitare imbarazzanti battute sull'Espresso di Hogwarts durante il ritorno. Non c'è nulla che potrebbe sconvolgerlo a questo punto, con l'incubo di inchiostro e calamaio e tempo che scorre ormai lontani, con uno stomaco da riempire e che verrà presto saziato. E' nell'atrio, a una manciata di metri dalla Sala Grande; il vociare si fa più alto e concitato quando qualcuno comincia a insultarsi al punto tale da far impallidire la povera occupante di uno dei quadri più vicini al litigio, una dama di altri tempi per cui qualsiasi cosa venga prima del linguaggio di tre secoli prima è classificabile come volgare e inaccettabile. Facendosi largo tra la piccola folla nessuno si stupisce di trovare Hinata e Kageyama di nuovo ai ferri corti - niente di troppo drammatico, ben diverso dalle bacchette sguainate e gli incantesimi volanti dell'ultima occasione in cui Atsumu li ha visti così, ma si tengono testa abbastanza da portare diversi del settimo anno a chiedersi come sopravvivranno senza Akaashi a far da paciere l'anno prossimo.


Il Caposcuola chiede di lasciar passare, per andare pazientemente a recuperarli. Shouyo protesta, qualcosa riguardo all'essere colpa di Kageyama e sei sempre il solito condito con non capisci niente detto in modo molto più colorito, concludendo con un e intanto hai perso detto di sicuro con tutta l'intenzione di pungerlo sul vivo. Non fallisce di certo - non che ci voglia un grande stratega a capire come provocare Kageyama, comunque. Atsumu si è sincerato di farlo per tutta la partita finale a suon di bolidi tirati casualmente in direzione di Tobio - e Kageyama è lì per estrarre la bacchetta. I suoi muscoli tradiscono meno intenzione di quanto si potrebbe credere, ma Atsumu è più veloce e ha dalla sua la sorpresa di chi non lo ha minimamente considerato fino a quanto un fascio di luce si schianta contro le gambe di Kageyama.


Il Corvonero ci guadagna un balletto di fronte a tutti e ad Atsumu tocca la gomitata di suo fratello nelle costole e il richiamo di un docente perché mi aspetto tu abbia raggiunto una maturità più alta del castare un Tarantallegra contro uno studente più giovane al tuo ultimo giorno in questa scuola, Miya Atsumu!


Serpeverde perde venti punti poco prima della cerimonia di chiusura. Atsumu ci guadagna la soddisfazione di chi voleva farlo da anni.


*


Lui e Sakusa finiscono a giocare per la stessa squadra, quella che già l'anno prima ha accolto tra le sue fila Bokuto. Ad Atsumu non dispiace per nulla, perché Bokuto è un giocatore che ha imparato ad apprezzare durante il campionato scolastico e che è sempre stato curioso di vedere come sarebbe stato avere in squadra, coprirgli le spalle e gestire la distribuzione dei Bolidi in modo da facilitargli il compito già aiutato da un talento evidente. Sakusa probabilmente vorrebbe più silenzio in spogliatoio di quanto possano offrirgli un estroverso cronico e il suo ex fidanzato.


L'anno dopo si unisce a loro Hinata Shouyo. Fa già ridere così.


*


«Dici che ce la fa?» bisbiglia Aren, preoccupato come la mamma chiocchia che è sempre stato per i gemelli Miya, benché lo neghi - nessuno può capirlo come Suna o Futakuchi. Qualsiasi madre rinnegherebbe i gemelli, soprattutto Atsumu.


«Non ci credo nemmeno se lo vedo con i miei occhi.» «State tutti sottovalutando il piccoletto. Salazar piangerebbe sangue se vi vedesse ora, pensavo che la mia presenza vi avesse plasmati almeno durante gli anni che abbiamo condivi—»

«Zitto, imbecille.» sibila Iwaizumi, dando un colpetto tutt'altro che leggero a Oikawa e piantandogli con poca gentilezza una mano sopra la bocca quando intuisce che sta per iniziare a lamentarsi del suo essere manesco. Stanno insieme da anni e non hanno mai perso la dinamica da vecchia coppia sposata.


Osamu non sa quando, di preciso, si sono ritrovati come un gruppo di vecchie streghe riunite nella sala da tè per eccellenza a scambiarsi pettegolezzi, con la differenza che loro sono appostati a un tavolo come un gruppo di sfigati che fingono di bere insieme quando stanno solo spiando l'unico vero perdente interagire con la sua cotta da quindicenne in denial, durante un appuntamento che finalmente ha avuto il coraggio di chiedergli. Sempre ammesso non sia stato Hinata a proporlo.


Si domanda se faranno prima i due interessati a scoprirli, il padrone del locale a cacciarli o il resto degli avventori ad accorgersi che in un tavolo sono concentrati giocatori di Quidditch professionistico, un allenatore che sta compiendo i suoi primi passi ufficiali nell'ambiente e altre persone più o meno conosciute tra l'essere negozianti di Diagon Alley o dipendenti del Ministero della Magia - tutti schiavi della gavetta, ma tant'è.


*


Atsumu ripensa in modo grottesco a quella volta in cui, durante il suo terzo o quarto anno a Hogwarts, aveva pensato sarebbe stato intelligente nonché prova di grande abilità di volo passare sopra al Platano Picchiatore e sfidarlo a colpirlo, così da poter mostrare le manovre imparare come il genio del Quidditch che sentiva di essere. Vorrebbe essere di nuovo il punching ball del Platano, in questo momento.


Ha chiesto a Shouyo di uscire durante il giorno libero, senza specificare se si trattasse o meno di un appuntamento, cosa che però Shouyo si è fatto scappare come l'affermazione più naturale del mondo. Da quel momento Atsumu vorrebbe dire di aver sentito le farfalle nello stomaco e sarebbe molto romantico se solo non somigliassero più a delle tarantole che gli ballano la tarantella dentro. Nonostante questo è stata un'uscita piacevole - con qualche fermata obbligatoria per alcuni fans, ma piacevole.


L'obiettivo della giornata non era certo ritrovarsi davanti Shouyo intento a parlargli di Kageyama.


«Quella volta durante il tuo ultimo anno,» gli dice «quando ti ho scambiato per Osamu e poi me ne sono accorto mentre eravamo sul pianerottolo...» prosegue e lo guarda, aspettandosi un cenno che Atsumu gli concede immediatamente, perché si ricorda bene di quel momento. Quello in cui ha avuto la sensazione, subito dopo essere stato riconosciuto, che Shouyo stesse per dirgli qualcosa di importante che non avrebbe mai più potuto sapere. E infatti non gli era stato detto niente, se non qualche richiesta sul perché non avessero più passato del tempo insieme come prima. Mi manca stare insieme, gli aveva detto con un candore che aveva sortito più o meno lo stesso effetto di un Pietrificus Totalus.


Shouyo si apre in un sorriso e basterebbe già quello a mandare in corto circuito buona parte delle sue elucubrazioni, com'è sempre stato da quando un ragazzino di un anno più piccolo gli finì addosso in un corridoio, pieno di entusiasmo e di complimenti per lui che aveva perso. Come quella volta a Hogsmeade, a Natale, mentre l'ex Grifondoro riusciva a entusiasmarsi per magie a cui chiunque alla sua età era già abituato abbastanza da non stupirsene più. Come quando una voce per la scuola aveva detto qualcosa che poi gli era stata messa di fronte agli occhi, mentre le mani di Hinata e Kageyama si sfioravano con impaccio in corridoio.

 

Atsumu ci ha pensato mille volte, più di quanto gli piaccia ammettere. Le sue prime esperienze sono state con tante persone diverse - Futakuchi, Semi, Sakusa - e quelle di Shouyo magari sono state tutte di Kageyama, ma ciò che li accomuna è non averle condivise. E lui non sa se quanto Hinata sta per dirgli è che vorrebbe tornare con il ragazzo con cui quelle esperienze le ha fatto ma Atsumu, invece, vorrebbe dirgli che dopo Sakusa non ci sono stati altri e che da quando Shouyo si è presentato nella loro attuale squadra Atsumu ha capito che non sarebbe stato in grado di guardare nessuno oltre lui.

 

Ma Atsumu ha imparato negli anni a essere molte cose: è stato scaltro come lo voleva Salazar, ed è stato il complice perfetto di suo fratello, le vuote minacce di Suna, il caso perso di Aran, il cameratismo da spogliatoio per Futakuchi, la cotta adolescenziale di Goshiki. E' stato la spalla di Semi mentre Eita gli faceva da posto in cui tornare, ed è stato per Sakusa più di quello che pensava e meno forse di ciò che si aspettava. Per Hinata Shouyo non ha idea di cosa possa essere stato, ma non sente di poter improvvisamente essere coraggioso.

 

«Tu e Sakusa state ancora insieme?» gli domanda l'altro a bruciapelo e di tante cose che pensava gli avrebbe potuto chiedere quella non c'è mai stata. Di nuovo, a un passo da quella che pensava sarebbe stata una rivelazione, si ritrova con la schietta richiesta di essere sincero.

 

«No,» pronuncia e giura su Osamu che non sa perché il suo cervello decida che quattro anni di silenzio debbano essere recuperati ora ma all'improvviso parla, parla, parla di tutto ciò che non ha mai detto - né a Shouyo, né a Osamu che lo aveva capito da solo, né a Suna - e dopo non sa quanto tempo ha appena ammesso di aver rimpianto di non aver schiantato Kageyama all'ultimo giorno del suo ultimo anno quando Shouyo si alza in piedi e no no no è tutto sbagliato

 

Le labbra di Shouyo sono sulle sue, in uno schiocco che sa di abitudine più che di dichiarazione, di affetto smisurato anziché della passione di chi forse con altre scelte avrebbe avuto questo molto prima. Lo guarda e ride, e che Salazar lo incenerisca con un incantesimo fulminante per quanto sdolcinato sia il pensiero di avere la sensazione che tutta la stanza si stia illuminando quando Shouyo ride per lui. Poco importa che rida di lui.

 

Nessuno al mondo sembra accorgersi del piccolo miracolo che ad Atsumu sembra di stringere tra le mani, almeno finché non sente un coro da stadio due tavoli più in là e inorridisce nel vedere chi lo occupa.

 

Casta un incantesimo non verbale, e negherà fino alla morte che il bordo bruciacchiato del vestito buono di Suna sia colpa sua. 

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: age difference (10 anni)
Missione: M1
Parole: 10187
Rating: sfw
Warnings: au, dancer!oikawa, 27!Iwaizumi, 17!oikawa


Hajime non ha idea di come si sia ritrovato lì. 

Bugia. Hajime sa bene per quale motivo ora è fermo davanti alla porta di un locale dove da solo non andrebbe mai, una musica allegra e dal ritmo incalzante che riesce a passare oltre le finestre e le porte chiuse raggiungendo in parte la strada. Per quanto riesce a vedere da dove si trova, l’interno sembra accogliente e le persone – quelle sedute più vicino ai vetri – hanno sulle labbra i sorrisi di chi si diverte ed è perfettamente a suo agio. I visi di alcuni di loro sono coloriti dal rosso del vino su alcuni tavoli, o forse dallo sforzo della risata, e da tutti traspare un sentimento di contentezza e complicità generale. È una visione strana e lo fa sentire come se fosse in un altro mondo, e non è così lontano dalla realtà dopotutto, con il sole dell’ora della siesta a picchiargli sulla nuca, un leggerissimo velo di sudore sulla pelle che probabilmente finirà con lo scurirsi quando sarà ora di tornare sul suolo giapponese. Al suo fianco Yachi, l’unica vera ragione per la quale si trova lì, indossa un vestitino giallo e leggero e nella mano sinistra tiene il manico dell’ombrellino con cui si ripara dal sole; i capelli sciolti, a eccezione del codino laterale che ha sempre tenuto da quando Iwaizumi l’ha conosciuta all’università facendo accoglienza ai kohai, gli fanno venire caldo. Ammira come le ragazze riescano a sopravvivere all’impulso di tenersi su i capelli. 

Gli occhi castani di lei brillano mentre restano posati sulla porta d’ingresso, il legno chiaro che pare promettergli una certa frescura all’interno, e ogni suo muscolo sembra comunicare quanta voglia abbia di entrare ma non si senta di farlo da sola – forse per un senso di colpa dovuto dalla troppa cortesia per cui non vuole lasciare Hajime fuori, quasi abbandonandolo quando sono usciti dall’alloggio studenti insieme. La rassicurerebbe se non sapesse quanto inutile risulterebbe il tentativo, e in più non è molto favorevole all’idea di lasciarla da sola in un locale sconosciuto di un Paese straniero: non esiste proprio.

La vede lanciargli un’occhiata di sottecchi, incerta, titubante e lui sospira, rassegnato, occhieggiando l’insegna del locale che in lettere colorate gli rimanda indietro la scritta “Bailamos” a cui Iwaizumi riconduce la musica che arriva dall’interno – non che sia questa gran sorpresa, da quando sono arrivati lì non ricorda molte occasioni in cui girando per la strada non abbia sentito brani musicali di vario tipo colorare le strade con suoni ritmati e che “sanno di Spagna”; non ha mai saputo spiegare quell’espressione, né comprenderla quando gliel’hanno rivolta, ma ora riesce a capirla alla perfezione (o, insomma: meglio di prima). Un po’ come intuisce il desiderio palese di Yachi di entrare lì dentro, e così muove un primo passo fino a raggiungere la porta, una mano sulla maniglia, voltandosi a guardarla da sopra la propria spalla: «Andiamo?» pronuncia per incalzarla, e lei gli rivolge un sorriso grato e luminoso, con un «Sì!» in risposta prima di muoversi per affiancarlo mentre lui spinge la porta verso l’interno, la musica ad accoglierli prima di qualsiasi dipendente. 

Ha conosciuto Yachi alla festa di benvenuto delle matricole, o meglio ancora, lungo il tragitto verso il secondo locale dove avevano deciso di andare a bere tutti insieme. Yachi era rimasta indietro, non ricorda nemmeno bene perché ora come ora – forse era stata solo più lenta delle altre ragazze  - e Hajime aveva rallentato il passo, per ovvi motivi. Aveva così scoperto che anche lei aveva optato per lo stesso dipartimento di lui, e così era diventato naturale incontrarsi più volte nei corridoi o indicarle cosa fare in questa o quella situazione, specie quelle relative alla documentazioni universitarie. È una brava ragazza, e mai si sarebbe aspettato di ritrovarsi in erasmus con lei in Spagna, né di tornarci insieme e far incrociare di nuovo le loro strade diversi anni dopo la laurea. E invece eccoli lì in un locale dove… non sa bene cosa stia succedendo, in realtà, e forse glielo si legge in faccia perché la ragazza che li accoglie ha sulle labbra il sorriso divertito di chi ha colto tutta la tua perplessità. 

«Aye, ustedes son japoneses, verdad?» pronuncia in uno spagnolo veloce che Hajime coglie per un pelo; per quanto sia stato abituato a parlarlo tra i compagni e in classe, è qualcosa con cui ha perso quella fluidità che aveva un tempo; specie da quando il suo lavoro lo ha portato a comunicare, se non nella sua lingua madre, in inglese. Non certo in spagnolo e in ogni caso sentirlo da un madrelingua è tutta un’altra cosa. Annuisce, incerto, e la vede ridacchiare e voltarsi verso l’interno del locale pronunciando un «Shouyo! Trae tu culo aquì!» e qualcosa verso di loro che non coglie ma immagina sia un “divertitevi” o qualsiasi altra cosa si possa dire a un cliente appena entrato e che si suppone rimanga almeno per una consumazione. Dopo pochi istanti un ragazzo li raggiunge, l’aria assonnata mentre risponde alla giovane che li ha appena abbandonati in favore del bancone. Iwaizumi non coglie appieno ma sospetta ci sia più di qualche parola che qualunque giapponese considererebbe poco cortese. Quando il ragazzo rivolge a loro la sua attenzione e inquadra Yachi, un sorriso ampio gli curva le labbra «Giapponesi?» chiede per sicurezza, mostrando una maggiore intelligenza di quanta Hajime gliene attribuisca a guardarlo. Gli unici che non partono dall’idea che chiunque abbia tratti orientali venga dallo stesso luogo sono quelli che ne sanno poco; visto che il giapponese altrui suona pressoché perfetto, suppone di avere davanti un compatriota o almeno qualcuno dal vissuto anche solo per qualche anno in Giappone. Annuisce con un mezzo grugnito, e per fortuna Yachi è più amichevole e ben disposta di lui, anche se lo strascico di agitazione che si porta dietro dall'adolescenza le gioca ancora il brutto scherzo di farla impappinare per le prime quattro sillabe che tenta di pronunciare, facendo ridere apertamente il ragazzo di fronte a loro.

«Va bene, va bene, non preoccuparti!» scherza su, dandole un paio di pacche fin troppo amichevoli sulle spalle, e fa cenno a entrambi di seguirlo. Li guida verso uno dei tavolini sul lato sinistro del locale, non di fronte alle vetrate – forse intuendo il loro desiderio di non essere messi in vetrina – ma nemmeno in un punto troppo appartato, quasi a non isolarli dal resto dei clienti. Il locale è discretamente pieno, i tavolini liberi non sono molti e i presenti sono organizzati nei modi più disparati: famiglie, coppie di fidanzati, coppie di amici, un paio di solitari al bancone o almeno alla parte di esso che presenta degli sgabelli per consumare direttamente lì. Il legno è il materiale preponderante del locale, dalle sedie ai tavoli, al pavimento; sembra voler dare l’idea di un posto d'altri tempi, semplice, “del pueblo” come dicono lì in Spagna. Aleggia l’odore di cibo, per lo più, ma anche il profumo che spesso Hajime ha sentito per le strade da quando è arrivato, quello particolare e proprio della terra in cui si trova – secco, caldo, naturale. Non somiglia a nessuno che abbia sentito prima, e di certo è lontano anni luce da qualsiasi aroma possa esserci in Giappone.

Sui tavoli delle tovagliette colorate di giallo o di rosso stanno sotto i piatti e sotto i bicchieri così che la condensa non bagni il legno; su buona parte di essi sta un contenitore in vetro fine, snello, che ospita qualche fiore più per ornamento accennato che non usato come centro della tavola. Colora il tutto ancora di più e contribuisce all’atmosfera allegra ma, inutile aspettarsi qualcosa di diverso, è la musica a fare il grosso lì dentro: note incalzanti e voci di madrelingua spagnoli aleggiano nell’aria mantenuta fresca da un condizionatore per cui Hajime ringrazia in silenzio, godendo della differenza di temperatura rispetto a fuori. Gli salta all’occhio come, nonostante non sembri esserci una disposizione precisa dei tavoli, questi lascino uno spazio importante tra la porta e il bancone e risultino per lo più ammassati su due lati: sono, tra loro, distanti abbastanza da concedere un po’ di privacy ma non troppo da isolare un cliente rispetto a un altro. 

«Come mai c’è così tanto spazio tra i tavoli?» è un’osservazione ad alta voce la sua, e si dimentica di avere altri potenziali interlocutori oltre Yachi fin quando non è il ragazzo con loro a rispondere, mentre scosta una sedia in maniera galante invitando con un occhiolino Hitoka ad accomodarsi: «Qui decide tutto la señora» dice con un sorrisetto, neanche quello spiegasse tutto. Mentre si allontana allo scopo di recuperare un menù che allunga sul tavolo per poi lasciargli il tempo di studiarlo e scegliere, Iwaizumi ha modo di notare come sia lui che la ragazza dell’ingresso abbiano abiti simili pur senza essere una vera e propria divisa. Hanno entrambi su dei pantaloni scuri e una camicetta bianca, con le proprie personali accortezze – la ragazza dell’ingresso ha le maniche, probabilmente corte, arrotolate fino a sopra la spalla; il ragazzo-interprete chiamato “Shouyo” ha le maniche arrotolate ma fino ai gomiti ed entrambi hanno un grembiule nero a coprirgli la parte davanti dei pantaloni. Mentre Yachi sbircia il menù, Hajime sente di nuovo la voce della ragazza urlare mentre si sporge da una porta che si può supporre porti alle cucine: «Señora Vanesa, tenemos que» qualcosa persa in un momento di percussioni della musica.   

Makki li raggiunge subito dopo, distogliendo l’attenzione di entrambi posando davanti a loro due bicchieri pieni di un liquido rosso dall’aroma fruttato e con pezzi di frutta dentro; Hajime non ha bisogno di chiedergli di cosa si tratti, nonostante non sia pratico delle bevande spagnole.

«Una sangria migliore di quella della señora non la trovate, garantito.» assicura loro «Deciso cosa ordinare? Serve una mano?» li incalza, e poi «Conviene che fate veloci, mica per altro, tra poco si comincia con l’attrazione forte del locale.» spiega e Hajime inizia a rimpiangere molte delle sue scelte di vita. Rivolge la propria occhiata dubbiosa a Yachi che invece sembra divertita e incuriosita al tempo stesso, per quanto sia chiaro come non abbia idea di cosa aspettarsi. Ordinano entrambi i due piatti che sembrano più innocui pur nei loro nomi originali e spagnoleggianti, e quando Shouyo si allontana Hitoka si sporge appena verso di lui e sorride entusiasta, con un: «Non è carino, Iwaizumi-senpai? Mette un sacco di allegria!» esclama felice di essersi decisa a entrare, sebbene con un piccolo incoraggiamento da parte dell’altro. Lui non è altrettanto sicuro, ma se ne guarda bene dal farglielo presente – ha imparato a sue spese quanto dannosa, nella sua completa goffaggine, possa essere la paranoia dell’altra in merito al disturbare gli altri o all’essere fuori luogo. Cosa che non è praticamente mai, ma Hajime ha rinunciato a farglielo notare. Si limita a rivolgerle un sorriso e a limitarsi ad annuire, e poi torna ad abbracciare il locale con lo sguardo; è così che inquadra quella che con ogni probabilità deve essere la più volte citata “señora”. È una donna a cui dà almeno settant’anni ma con una vitalità espressa in ogni singolo segno sul viso, nel modo in cui sorridendo ai clienti al bancone le si formano delle rughe d’espressione intorno agli occhi e agli angoli della bocca, e una gioia di vivere facile da notare nel modo in cui si muove e si avvicina alle persone. C’è una forza prorompente in lei, una a cui Hajime non è abituato perché è del tutto diversa dal modo discreto in cui si esprime un qualsiasi giapponese. La sente ridere e immagina senza difficoltà come, lì dentro, tutti i suoi dipendenti possano adorarla, comprende quasi fosse un sentimento proprio l’adorazione nel modo in cui la chiamano, come sia molto più di un’inflessione idiomatica.

 

Si ritrova a sorridere mentre le ultime note di una chitarra fanno scivolare via la canzone appena iniziata quando lui e Yachi sono entrati, lasciando il posto a delle nuove ancora più movimentate; si chiede se esistano, in Spagna, canzoni lente. Al momento la sua modesta esperienza gli suggerisce di no. 

La sorpresa più grande arriva insieme alle prime battute di quella nuova canzone, sembra come un incantesimo dei libri per bambini che si impossessa all’improvviso di chiunque lo senta mentre viene pronunciato: se Shouyo inizia a battere istintivamente il piede per terra a ritmo, la ragazza dell’ingresso ora ferma in attesa di un ordine al bancone ancheggia piano insieme alla musica con il sorriso divertito di chi è finalmente nel proprio habitat naturale. Nel guardarsi intorno, Iwaizumi incrocia lo sguardo con il giovane che da solo occupa il tavolo di fianco al loro – quello lo nota a sua volta, com’è ovvio, e fa un cenno del capo. Coi suoi capelli scuri appena mossi e i lineamenti orientali, Hajime non riesce davvero a stupirsi quando lo sente parlargli nella sua lingua madre: «È l’attrazione maggiore del posto.» gli dice soltanto, forse dandogli la spiegazione che dal suo sguardo è palese gli serva. In realtà, quando riporta l’attenzione verso il centro del locale tutto diventa più chiaro: le parole di Shouyo, quelle del ragazzo a cui si è appena rivolto e il suo interrogativo sulla disposizione dei tavoli. La ragazza dell’ingresso ha appena finito di fare una giravolta e sta ridendo, dicendo qualcosa al giovane che l’ha fatta ballare sul posto e che suona come un «Tu único rasgo bueno es la forma de bailar, Tooru!» e fa sorridere persino Hajime, un po’ per il suo significato – “il tuo unico lato positivo è il modo in cui balli” – e un po’ per l’espressione del ragazzo quando la sente, un broncio da ragazzino che lascia spazio quasi subito a una linguaccia infantile  e a un sorriso di sfida. Ha tra le mani un piatto con sopra, a vederlo e per quanto possa capirne, ciò che suppone sia una porzione di tortilla; questo non lo ferma dall’avanzare verso un tavolo dal lato opposto a quello occupato da Hajime e Yachi, posandolo sulla superficie di legno davanti al ragazzo della coppia che vi sta seduto. Gli fa un occhiolino, quasi a mo’ di scusa, e il perché è chiaro nel momento in cui – come una sorta di pedaggio da pagare per avere il proprio cibo – prende la mano della ragazza facendola alzare. La coinvolge nel ballo immediatamente, e basta dargli un’occhiata per capire come danzare a quei ritmi musicali gli scorra nelle vene, e dunque l’appunto fatto dalla ragazza dell’ingresso: Tooru, chiunque egli sia, si muove con una tale disinvoltura da far sembrare stia facendo qualcosa di molto più semplice; respirare, per esempio. 

La sua partner improvvisata ride divertita e sta al gioco, forse abituata e quindi non presa del tutto alla sprovvista, e il suo ragazzo dal tavolo la indica e sillaba qualcosa che Hajime non riesce a cogliere del tutto ma immagina sia una presa in giro bonaria, quasi un “ah beh, io non ti salvo di certo ora”. 

Durano il tempo di qualche battuta, e Tooru con un mezzo inchino guida il movimento con cui la porta a prendere di nuovo posto; da vicino al bancone la señora si limita a richiamarlo e mima con la mano il gesto di solito rivolto ai bambini per ammonirli sullo scappellotto che potrebbero ricevere se continuano. Il punto è il suo farlo con un sorriso allegro e divertito, materno e rassegnato insieme, accondiscendente tanto da smorzare il monito; e Tooru ride e le risponde, udibile per tutti «No sea celosa, abuela! Tù sabes que eres mi bailarina favorita!»

Sarebbe divertente da guardare, una scena famigliare e bella per questo, se poi il ballerino non si dirigesse proprio verso il loro tavolo e rapisse Yachi, che diventa un insieme di imbarazzo e ansia mentre cerca di articolare delle scuse. Tooru forse è abituato o forse no, Hajime non lo sa ma lo sente ridere in maniera cristallina ancora una volta e dirle in un giapponese pulito e privo di strani accenti: «Impossibile che il ballo non faccia per qualcuno, vedrai che ti diverti, puoi persino pestarmi i piedi.» facendole un occhiolino complice. 

Non sa se abbia la dote naturale di mettere a proprio agio la gente o se sia piuttosto un trascinatore carismatico a cui nessuno sa – o prova a – dire di no; fatto sta che persino Yachi pare sciogliersi il tanto che le serve per accettare la sua mano e alzarsi muovendo qualche passo incerto fino al centro dello spazio. Tooru la guida in movimenti sempre a ritmo della musica ma meno complessi, forse conscio della differenza fra lei e la sua precedente ballerina improvvisata, anche perché non ci vuole un genio per notarla; nonostante quello Tooru riesce a farla ballare, con qualche incertezza iniziale ma un sorriso che va allargandosi sempre di più e un divertimento facile da notare sul suo viso, gli occhi che brillano di curiosità e coinvolgimento, il viso alzato in modo da guardare finalmente l’altro negli occhi in maniera diretta. Tooru le tiene la mano con delicatezza e fermezza insieme, la guida in una giravolta che la fa ridere e l’accompagna poi a sedersi come fatto in precedenza. Hajime contro ogni propria previsione gli è grato di averla fatta sentire a suo agio in un posto estraneo come se abitasse lì da sempre – è stato, peraltro, il motivo principale per cui hanno deciso di uscire nel pomeriggio libero dagli impegni di studio a cui quella trasferta di lavoro li sottopone. Si aspetta già di vederlo andare alla ricerca della prossima compagna di danza, per quanto sia abbastanza sicuro la canzone non durerà a lungo ancora, quando il ragazzo gli porge la mano in un inequivocabile invito. Sbatte le palpebre un paio di volte, ed è sicuro di avere uno sguardo allucinato, mentre cerca sul suo viso il segno di uno scherzo ben celato – una risata di fronte alla sua reazione silenziosa sarebbe un punto di partenza, per esempio, ma presto è chiaro come quel Tooru si aspetti davvero un suo accettare l’invito, un suo alzarsi e mettersi a ballare in mezzo al locale sotto gli occhi di tutti.

Si chiede se sia scemo. Magari ha bevuto troppa sangria e lo licenzieranno per quello perché non ci si ubriaca sul lavoro, specie se (a occhio e croce) si è fin troppo giovani e poi succedono cose sgradevoli: tipo invitare un altro uomo a ballare la salsa con te. La sorte sembra dalla sua parte quando la musica scema nel finale della canzone, e si crea qualche momento di silenzio prima dell’inizio della seguente, ma ormai l’attimo non è stato colto, è scemato e c’è una delusione così ovvia negli occhi e nel broncio sul viso di quel ragazzo che gli sta di fronte impossibile da non notare. Non è comunque abbastanza per farlo sentire in colpa, e alza un sopracciglio come a sfidarlo a lamentarsi della sua non-risposta al suo invito.

La ragazza dell’ingresso si avvicina e gli dà una pacca energica sulla spalla: «No te pongas de mal humor, Tooru» lo rincuora, per quanto Hajime si chieda perché mai l’altro dovrebbe essere tanto intaccato dal suo rifiuto; la ragazza posa sul loro tavolo degli stuzzichini con un sorrisetto complice, sillabandogli in spagnolo un “per essere il primo a rifiutare di ballare con lui” a cui segue un «Yo soy Ines» veloce prima di muoversi di nuovo verso il bancone. 

Il resto del pomeriggio si rivela persino più piacevole del previsto.


*


Hajime non si è mai occupato in prima persona dell'immagine di una squadra, dal momento che il suo ruolo non lo prevede. In verità, l'impiego di allenatore è qualcosa di nuovo, ma è rimasto in contatto con abbastanza senpai da sapere che in genere questo non avviene. Certo, non si aspettava di incontrare Yachi, benché abbia poi scoperto che entrambi sono lì per lo stesso motivo - un aggiornamento, ma in due campi del tutto diversi -, ma deve ammettere di gradirne quella compagnia che non è stata scalfita dagli anni passati rispetto alla fine della sua carriera universitaria. Gli impegni giornalieri tengono occupata la mattinata e il primo pomeriggio di entrambi, offrendo loro soltanto una discreta pausa pranzo che è, poi, quando si sono incrociati il primo giorno. E' stato mentre mangiavano che hanno deciso di recarsi in quel locale che aveva già incuriosito Yachi e dove Iwaizumi non è sicuro di voler tornare. Più o meno.

 

In compenso, ha accettato di accompagnare Yachi in una zona che ospita uno dei mercati più famosi dell'area in cui alloggiano. Il luogo dove si sono dati appuntamento è poco prima dell'inizio dell'ampia via che ospita le prime bancarelle. Basta uno sguardo per capire che il mercato è trafficato abitualmente dagli abitanti del posto: non c'è una vera e propria calca, ma le strade sono già piuttosto animate. Hajime ricorda di aver già notato questa cosa una volta, quando anni prima è stato in Spagna in erasmus: è incredibile come sia sempre un concentrato di colori, di sapori, di odori. E di rumori, anche, in un modo del tutto diverso da come riesce a esserlo il Giappone con i suoi quartieri trafficati al punto che dall'alto sembra di osservare più una colonia di formiche operaie affaccendarsi in giro, anziché delle persone. E' qualcosa di impossibile da descrivere, uno dei tanti casi in cui nemmeno un libro sull'argomento riuscirebbe a essere esaustivo se non si è visto di cosa si parla con i propri occhi, non lo si è vissuti sulla propria pelle. L'Occidente è un mondo del tutto diverso a quello a cui lui è abituato, nella sua madrepatria, eppure Hajime ha imparato ad apprezzarne e ammirarne alcuni aspetti che pensava avrebbe potuto trovare insopportabili. Ritrovarli ora, dopo diversi anni, come se non se ne fosse mai davvero andato per troppo tempo è incredibile.

 

«Iwaizumi-senpai!» la voce di Yachi richiama la sua attenzione. E' una donna adulta tanto quanto lui è un uomo, ma una parte di lui non riesce a scostare da lei l'immagine di una studentessa più giovane conosciuta come manager di una squadra avversaria, poi di una kohai universitaria. Non direbbe che non riesce a vederla come una donna, ma al tempo stesso le domande complici dei colleghi che lo hanno visto passare con lei diversi ritagli di tempo in quei giorni gli hanno fatto capire che all'occhio esterno di chi non conosce il loro rapporto l'idea che danno deve essere quella. Magari di due che si sono ritrovati e hanno finalmente la loro occasione. Non fosse che conosce anche il suo ragazzo e dunque, se anche la vedesse in quel modo, non oserebbe nemmeno metterla in difficoltà con un corteggiamento. Si limita a darle la sua compagnia finché lei la vuole e la trova piacevole abbastanza da voler addirittura azzardare un gironzolare tra bancarelle con lui. La raggiunge, lì dov'è poco più avanti, e la affianca senza fermarsi del tutto ma adeguando il proprio passo al suo.

 

«Mi ricorda un po' un matsuri.» fa presente lei, gli occhi che vagano da destra a sinistra, incapaci di soffermarsi su una sola cosa perché troppo desiderosi di guardare tutto insieme «Molto più grande, forse. Almeno di quelli della mia zona.» si corregge, portando una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio. Capisce bene cosa intenda, ritrova qualche somiglianza lui stesso. «Come sta andando l’aggiornamento?» le sente chiedere e gli occhi scuri vagati poco prima su una delle bancarelle più vicine tornano ora su di lei.

 

«Abbastanza bene, direi. Il tuo?» «Incredibilmente stimolante.» offre lei con molto più entusiasmo di lui - non che Iwaizumi non apprezzi le tecniche che sta imparando con quel corso, ma è sempre piuttosto complesso spiegarlo a chi non mastica i termini tecnici, anche se Yachi è stata la manager di un club di pallavolo per tre anni o poco meno, quindi in effetti potrebbe capirlo meglio di molti altri. In ogni caso a Iwaizumi non dispiace lasciare sia lei a parlare per prima, a raccontare piccoli aneddoti e aspetti interessanti di cosa sta imparando. Si fermano, come prevedibile, prima a una bancarella con del cibo, l’odore troppo allettante per ignorarla; con qualcosa di buono nello stomaco Hajime finisce con il lasciarsi coinvolgere dalla conversazione e vi prende parte attivamente. Parlano saltando di argomento in argomento, abbandonando presto - ma non prima di aver detto buona parte di cosa ci fosse da dire - quello del corso. Ogni tanto qualcosa che attira la loro attenzione si collega in automatico a ricordi di un erasmus ormai di diversi anni prima, forse l’occasione in cui hanno avuto modo di instaurare un reale legame tra senpai e kohai. 

 

«Yamaguchi?» le chiede anche, a un certo punto. Lei fa un sorriso più ampio, probabilmente senza nemmeno rendersene conto. La ascolta parlare di una quotidianità semplice, di progetti per il futuro e ne parla con la contentezza di chi ha trovato la persona giusta ma anche con l’attenzione di chi ha riflettuto a lungo prima di prendere una decisione importante. Quando Yachi gli domanda «E tu, senpai?» Iwaizumi legge nelle sue parole un interesse sincero e non la semplice voglia di ficcanasare. Per questo le risponde con sincerità – non c’è nessuno di speciale nella sua vita, anche perché il suo lavoro occupa una parte ampia del suo tempo e non tutti sono disposto a scendere a patti con questo. D’altronde nemmeno lui, finora, ha avvertito il bisogno di trovare un compromesso per garantire qualcosa a qualcuno.

Il resto del loro giro si rivela piacevole e interessante: al cibo si alternano bancarelle con alcuni abiti più o meno tradizionali o per turisti, oggettistica particolare e, in punti strategici, anche alcune che offrono bevande fresche alla cui tentazione decidono di cedere quando le ore calde sono ancora persistenti. Iwaizumi è troppo impegnato a sbirciare le opzioni che il chiosco offre per accorgersi di chi sia il padrone  della voce che si rivolge a loro. Probabilmente ci baderebbe poco se non lo sentisse parlare in giapponese.

«Ah! Quello che non ha voluto ballare con me!» sente esclamare, alzando lo sguardo prima che il suo cervello possa registrare il senso di quelle parole e associarle a un viso che si ritrova a guardare. Lì dall’altra parte del piccolo bancone del chiosco, come – apparente – unica persona a gestirlo c’è il ragazzo ballerino del locale che hanno visitato. Hajime non si è preso troppo tempo per osservarlo la volta scorsa, impegnato a rendere chiaro il non volersi assolutamente rendere ridicolo ballando di fronte a un gruppo di estranei. A guardarlo ora, mentre anche Yachi lo riconosce e intavola una conversazione con lui, Hajime individua facilmente in lui i segni di una giovane età; non saprebbe nemmeno dire se sia maggiorenne o meno. Ha la faccia di uno che nella vita finora deve aver avuto intorno solo due tipi di persone: quelli che lo adorano e quelli che lo odiano. È probabilmente anche uno di quei tipi che da grande potrebbe diventare molto carismatico e, chissà, magari già ora potrebbe avere un discreto ascendente… ma Iwaizumi ha conosciuto, a scuola, tipi come lui e a quell’età sono per lo più insopportabili e basta.

«Quindi, aranciata per Yacchan.» ma quando, esattamente, sono passati a un soprannome del genere?! «e una bevanda che ancora non so per un uomo senza nome e che mi ha rifiutato.»

«Ho rifiutato di ballare con uno sconosciuto.» puntualizza Iwaizumi. Il ragazzo lo guarda poco convinto, ma poi inizia a servire almeno Yachi «Quindi se non fossi uno sconosciuto balleresti con me?» «No.» ribatte senza alcun bisogno di rifletterci su. Al contrario di quanto fa invece con la scelta della bevanda, prima di optare per qualcosa che sembra essere alla mela verde. Il ragazzo serve Yachi e poi si occupa di lui, ma prima di dargli la sua bevanda lo occhieggia.

«Oikawa Tooru.» si presenta, aspettandosi una presentazione di rimando «Vorrei la mia bevanda.» gli fa lui e lo vede gonfiare le guance con fare infantile. «Solo se mi dici come ti chiami.»

«Sai che sono un cliente, vero?»

«Purtroppo il padrone del chiosco mi adora.» sottolinea, sfacciato.

«Mi domando perché.» ribatte sarcastico – con la coda dell’occhio vede che Yachi sta faticando a trattenersi dal ridere. Sospira, rassegnato: «Iwaizumi.» dice alla fine e vede il sorrisetto soddisfatto sul viso dell’altro; l’istinto di rovesciargli la bibita in testa è pressante, quasi. Quello gli allunga il bicchiere di plastica: «Tieni, Iwa-chan.»

Lui gli sbatte le monete sul bancone e se ne va senza nemmeno degnarlo di una risposta.

 

*

 

I colleghi di Iwaizumi a un certo punto finiscono con il chiedergli più o meno direttamente chi sia la ragazza con cui lo hanno visto andare in giro in fin troppe occasioni per essere una conoscenza fatta qui per caso. Lui non ha problemi a fargli presente di chi si tratti e a presentarla per ciò che è, una kohai; non si aspetta di certo che loro le chiedano di organizzarsi per una di quelle sere, in gruppo, anche con qualche sua collega. Non lo chiamano goukon ma è esattamente ciò che è. Yachi non sembra del tutto a suo agio, ma è anche diversa dalla ragazzina di dieci anni fa che faticava a instaurare un contatto visivo con chi non conosceva bene e le sue colleghe sono spigliate abbastanza da offrirsi per una serata piacevole in cui conoscere altre persone. Iwaizumi non solo non può sottrarsi, essendo insieme a Hitoka l’anello di congiunzione di quel gruppo improvvisato, ma non può nemmeno sbilanciarsi troppo quando la scelta sul locale finisce con il vertere sull’unico che effettivamente conoscano bene abbastanza da poter garantire su cibo e atmosfera.

La fortuna non lo ha mai amato in maniera particolare, perciò non c’è l’ombra nemmeno vaga di sorpresa quando varcata la soglia ritrovano parte dello stesso assetto di camerieri della volta precedente: Ines, Shouyo e – con suo grande rammarico – Oikawa, che lui sperava fosse solo un ballerino e non di turno magari. Poco male, però. Se è impegnato a servire i tavoli, si dice mentre Ines fa loro strada per farli accomodare, non si soffermerà troppo al loro. Sorprendentemente si rivela essere così per buona parte della serata, al punto che Iwaizumi a un certo punto si dimentica della sua presenza lasciandosi prendere dalle chiacchiere con i colleghi e le colleghe di Yachi. La compagnia si rivela piacevole, di tanto in tanto Shouyo o Ines nel portargli questa o quella ordinazione scambiano qualche parola con loro ma niente di troppo prolungato dal momento che più avanza la serata più il locale si riempie. Non arriva mai al punto di diventare soffocante e lo spazio tra i tavoli, studiato per l’intrattenimento, si rivela provvidenziale in questo caso.

Per tutta la cena la musica li accompagna, mantenuta a quel volume che la rende udibile e persino riconoscibile se si conoscono le canzoni, ma mai di troppo costringendo ad alzare la voce per farsi sentire dai propri compagni di pasto. A un certo punto Oikawa si esibisce, insieme a Ines tra l’altro, in un ballo latino di coppia che Iwaizumi non ha nessuna competenza per riconoscere; gli avventori che fanno da pubblico si appassionano subito ai passi veloci e all’evidente complicità tra i due, dedicandogli un applauso rumoroso e anche abbastanza lungo quando finiscono. Oikawa vi risponde con un primo inchino un po’ più “serio” seguito da un altro paio più giocosi. Con orrore Iwaizumi si accorge di essere stato notato quando i loro sguardi si incrociano.

Lo vede scambiare qualche parola con Ines in uno spagnolo veloce abbastanza da non permettergli di leggere il labiale – ma, a dire il vero, Hajime scosta così in fretta lo sguardo nella speranza che questo faccia desistere il ragazzo dal raggiungere il loro tavolo, che non avrebbe comunque potuto indovinare le parole. Quando rialza lo sguardo è perché sente, fin troppo vicino ormai, uno «Yacchan!» di saluto, il tono amichevole. Percepisce, quasi, la curiosità dei presenti e Hitoka purtroppo non è tipo (né ha motivo di farlo) da ignorare un saluto. Lo invitano a sedere con loro fin troppo presto per i gusti di Hajime, ma almeno gli viene risparmiato di essere protagonista di un racconto breve ma intenso su come si siano conosciuti proprio lì al locale. A pelle tutti sembrano apprezzarlo senza che Oikawa debba nemmeno impegnarsi.

Una parte di Hajime non riesce nemmeno a stupirsene davvero.

*

A fine cena Hajime si è ritrovato tra le mani molte più informazioni riguardo Oikawa di quante ne avrebbe volute: come aveva supposto, innanzitutto, si tratta di poco più di un ragazzino con i suoi diciassette anni e un anno intero di scuole superiori prima di potersi dire diplomato. Perché un ragazzo così giovane decida di passare le vacanze estive in un luogo così lontano dal Giappone è diventato chiaro abbastanza presto visto che una delle colleghe di Yachi si è dimostrata interessata da subito. A quanto pare Oikawa ha un qualche amico di famiglia lì che lo ha ospitato per anni ogni estate o comunque in quelle più recenti - non stupisce che conosca così bene la lingua del posto, una fluidità nel modo in cui conversa acquisibile solo quando si vivono un Paese e una lingua quotidianamente - e quest'anno non ha fatto eccezione. Da un paio di estati lavora in quel locale, sotto le cure attente di Vanesa e coltivando l'amicizia con Ines e Shouyo, persino più giovane di lui di un anno ma di cui Iwaizumi non sa molto più di quanto sapesse prima di questa serata.

Da quanto ha detto di sé, la madre e il padre di Oikawa sono separati e lui ormai vive solo con sua madre e sente suo padre il necessario. Non si è sbilanciato troppo sull'argomento, dimostrandosi furbo abbastanza da scegliere di focalizzare l'attenzione su tutt'altro e trovando terreno fertile nella curiosità delle donne al tavolo, ma Iwaizumi ha supposto che fosse lui il primo a non voler per nulla incentrare la chiacchierata su un padre che forse non è presente come lui avrebbe voluto. 

Balla da quando è piccolo, ha detto. Per passione ma anche per agonismo. Lo ha detto proprio quando Hajime si chiedeva se esistesse il ballo a livello professionale anche per ragazzi così giovani, un pensiero stupido tipico di chi non conosce una disciplina e dunque non si è mai informato, quando basterebbe riflettere sul fatto che i ballerini famosi dopotutto devono pur aver cominciato prima dei vent'anni. Ha scelto il ballo latino quasi da subito, e non lo ha mai lasciato. Iwaizumi deve dargli atto del fatto che quando ne parla, gli si illuminano gli occhi, tradendo un amore sincero e una devozione che solo gli atleti capaci di dedicare anima e corpo a qualcosa hanno. Quello è un aspetto facile da riconoscere anche per lui, che di ballo non sa nulla ma di sport sa tanto - lo ha vissuto, ha sudato, pianto, provato il cento per cento di quanto fosse possibile provare su un campo da pallavolo. Uno come Oikawa avrebbe amato quello sport, se non si fosse innamorato del ballo, forse.

Hajime non ha capito perché o quando questo sia successo, ma si ritrova a salutare Yachi e le sue colleghe che hanno riaccompagnato al loro alloggio con Oikawa al proprio fianco, lì a muovere la mano avanti e indietro in modo infantile e con un sorrisetto divertito sulle labbra. Qualche preparatore atletico come lui, Hajime, ha bevuto qualche bicchiere di troppo ma nulla che non possa essere combattuto con un lunga camminata nella discreta frescura serale mentre tornano indietro. Decide di chiudere la fila, lasciando che i tre del gruppo gli camminino davanti per tenerli d'occhio, e non si stupisce davvero di vedere Tooru affiancarlo: ha le mani in tasca, le braccia mollemente piegate per la posizione e la postura rilassata mentre camminano. Ha un paio di pantaloni bianchi di lino che Hajime è sicuro abbia indossato a fine turno, perché aveva addosso tutt'altro quando ha ballato con Ines. I capelli sono leggermente arricciati contro la fronte, con ogni probabilità perché ha sudato prima. Ha un profilo regolare, i lineamenti freschi di chi non ha preoccupazioni al mondo o che si suppone non ne abbia di troppo gravi. Le maniche corte della camicia che indossa sono state arrotolate alla meno peggio, ma da una delle spalle ogni tanto la stoffa scivola di nuovo giù e l'altro la risistema con un gesto veloce e abitudinario. 

«Iwa-chan, mi stai fissando.» Tooru fa presente, quasi cantilenando. Iwaizumi riporta lo sguardo davanti a sé, gli altri tre ridono e ondeggiano ma nessuno minaccia ancora di cadere faccia avanti, perciò l'ordine del cosmo non è ancora perduto. «E tu ci stai seguendo.»
«Chi ti dice che non stiamo solo andando nella stessa direzione?»
«Il fatto che mi tormenti.»
«Crudele.» 

Hajime sbuffa, senza rispondergli, e il silenzio si adagia tra loro in un modo fin troppo confortevole. I passi di Oikawa, nota, sono leggeri. Hajime è stato abituato per troppo tempo ai passi pesanti sul parquet, ancora oggi è uno dei suoni più familiari di tutti, perciò è strano sentirne uno simile a pochi passi da sé - è come ascoltare lo scroscio di una cascata tutti i giorni per tutto il giorno e poi, all'improvviso, dover distinguere una piuma cadere sul pavimento. E' quasi impossibile eppure è lì. 

«Come mai hai deciso di fare questo lavoro?» gli chiede Oikawa all'improvviso. Di tante domande, Hajime non si aspettava quella, così seria. Cosa possa importare a un diciassettenne che lo conosce appena non lo sa, ma si risponde che in fondo l'altro è in quell'età in cui la scuola comincia a voler sapere i tuoi piani per il futuro e forse non ne ha ancora idea. Magari non ha ancora capito cosa voglia fare oltre a ballare. Può darsi stia cercando di capire, come è stato anche per lui, se esista un modo per conciliare cosa vorrebbe fare davvero con cosa la società si aspetta da lui. Per una volta, di certo la prima da quando si sono conosciuti, Hajime non è infastidito all'idea di rispondere a una sua domanda. 

«Ho fatto pallavolo per moltissimi anni.» replica, una premessa più che una vera risposta «E con il tempo ho cercato di capire cosa potessi fare senza allontanarmene troppo.» ammette, un mezzo sorriso sporcato dalla nostalgia di anni scolastici ormai passati da un bel po'. Percepisce lo sguardo di Oikawa su di sé, ma non dice niente e infatti la voce dell'altro non tarda a farsi sentire: «Perché non sei diventato un giocatore professionista?» gli chiede quasi spazientito, come se Iwaizumi avesse preso la cosa più ovvia e logica e l'avesse abbandonata in favore di una assurda. A lui però non fa che scappare da ridere, uno sbuffo e poco più. 

«Perché non ero abbastanza bravo.» pronuncia con la leggerezza di chi ha avuto modo di crescere e scendere a patti con l'idea, di rendersi conto dei propri limiti ma soprattutto di capire che quei limiti non dovevano per forza fare di lui un fallito. Ci è voluto un po', col suo carattere, ma una volta trovata la giusta chiave di lettura è riuscito a rendere i ricordi degli anni passati a giocare a pallavolo qualcosa di piacevole, di prezioso, e non un rimpianto - e ancora oggi, di tanto in tanto, fa due scambi e qualche partita amichevole perché dalla pallavolo è probabile non riuscirà mai ad allontanarsi davvero. 

«Perché, tu vorresti fare il ballerino?» gli chiede, occhieggiandolo. Lo vede aggrottare le sopracciglia per una manciata di secondi, prima di sbuffare piano e distendere di nuovo i lineamenti. Alla fine però curva le labbra in un sorriso amaro che a Iwaizumi non piace: riconosce in quella semplice espressione un rimpianto che non si dovrebbe avere a diciassette anni. Oikawa affonda ancora di più le mani nelle tasche e poi gli offre una scrollata di spalle: «Forse lo avrei fatto prima dell'operazione. Adesso non penso potrò.» pronuncia, asciutto quasi riguardasse le gambe, la passione e il futuro di un'altra persona. A Iwaizumi viene spontaneo postare l'attenzione sulle sue gambe, chiedendosi quale ginocchio sia, cercando per deformazione professionale di cogliere qualche piccolo dettaglio che tradisca una delle ginocchia del più giovane. Gli sembra di notare, ma potrebbe essere la suggestione, che poggi più peso su una rispetto all'altra... ma decide tornare a guardare il suo viso. 

«E' un infortunio grave? O ti hanno dato la possibilità di migliorare con la riabilitazione?» domanda, cauto. Incredibile come, pur non conoscendosi affatto, diventi palese dall'espressione altrui cosa gli stia passando per la testa - o almeno, Hajime si accorge di cambiamenti che è abituato a non riuscire a intravedere sul volto di adulti come lui, abituati a celare dietro la cortesia, l'educazione e la riservatezza la maggior parte dei loro sentimenti. In Tooru c'è la spontaneità e l'irruenza di un'età giovane dove non si riesce a nascondere le cose a lungo, perché non si ha pazienza. «Più o meno. Posso ancora ballare,» ed era ovvio viste le esibizioni occasionali al locale «ma saperlo fare ed eccellere sono due cose molto diverse.» 

La durezza di quelle parole la comprende bene, ma arriva inaspettata. Si era fatto un'idea abbastanza superficiale dell'altro, ma si sta ritrovando davanti una serietà e un realismo inaspettati. Chissà se è dovuta, almeno in parte, al divorzio di cui ha accennato durante la cena.

«Nel dubbio, trattalo bene dopo aver ballato al locale.» gli fa presente, con naturalezza. Deformazione professionale, di nuovo. Tanto basta a dipingere un sorrisetto divertito sul viso di Oikawa e a fargli rivolgere un'occhiata strafottente a Iwaizumi, come quella al chiosco dopo aver finalmente ottenuto il suo nome: «Ma allora hai un cuore d'oro, Iwa-chan.» lo sfotte senza nemmeno provare a mascherare la presa in giro. Hajime fa schioccare la lingua contro il palato in un verso seccato. I tre colleghi davanti a lui sembrano pendere pericolosamente verso sinistra, tutti insieme, ma solo allora si accorge che sono arrivati e gli idioti stanno semplicemente cercando di imboccare l'ingresso dell'hotel dove alloggiano. Ferma i propri passi e non ha bisogno di voltarsi per vedere che Oikawa fa lo stesso; li lascia addentrare oltre l'ingresso e solo allora guarda il più giovane, in attesa. 

«Forza.» lo incita quando sembrano entrambi congelati sul posto. «Sto aspettando di darti la buonanotte quando entri, Iwa-chan!»
«Ti accompagno.»
«Oh. Anche gentiluomo.»
«Muoviti, prima che cambi idea.» gli intima, alzando gli occhi al cielo perché davvero, anche solo interagire con lui è una fatica. Lo sente ridere però, e sembra una risata sinceramente divertita, genuina. Qualunque cosa ci fosse prima, sembra sparita insieme alla brezza serale che di tanto in tanto ha preso a soffiare. Iwaizumi è consapevole di star inarcando un sopracciglio in una muta richiesta su cosa ci sia da ridere, ma tutto ciò che ottiene in risposta è un sorriso da parte di Tooru.

«Non c'è bisogno. Sono poco più avanti, in ogni caso. Puoi riaccompagnarmi la prossima volta però.» fa notare, dando per scontato ci sarà un'altra occasione. Hajime non fa in tempo a chiedere qualcosa in merito che lo sente riprendere a parlare «Per quanto mi piacerebbe dire che sono gentile con tutti i clienti del locale, e lo sono, infatti tutti mi adorano» ribadisce, andando fuori tema perdendosi in inutili digressioni «il mio camminare per tutti questi interminabili metri è un gesto mosso unicamente dal secondo fine.»
«Non avevi detto di vivere poco più avanti?»
«Iwa-chan, non rovinare tutto e fai le domande giuste: "quale secondo fine?", per esempio.» fa notare e, quando lui non chiede nulla ma resta solo a guardarlo, lo sente sbuffare ma il sorriso non se ne va e questo la dice lunga «Quanto sei difficile, Iwa-chan.» borbotta, sporgendosi abbastanza da dargli un bacio leggero che non è sulle labbra ma non è neanche propriamente sulla guancia. 

«Usciamo per un appuntamento.»
«Non esiste.»
«Uno solo.»
«Hai dieci anni meno di me.»
«Dettagli.»
«Raccontalo alla polizia.» gli fa notare, ma è una debole protesta la sua. Uscire di per sé non sarebbe mai un motivo sufficiente per farsi arrestare - potrebbero essere mille cose diverse da amanti, loro due, ma non ha alcuna intenzione di accettare l'invito per un appuntamento di un diciassettenne. Lo stesso che sta ridendo delle sue serie considerazioni in merito a quanto sia una pessima idea: «Come sei melodrammatico, Iwa-chan. Concedimi un appuntamento.» ripete, testardo. Hajime lo fissa nemmeno stesse considerando se mandarlo via a calci o se arrivare fino alla porta facendosi seguire per il puro gusto di chiudergliela sul muso. Moccioso arrogante. 

«Mi hai già negato un ballo.» rimarca Oikawa «Almeno uscire me lo devi.» 

Gli chiude la porta in faccia ma, prima di voltarsi per andare verso la reception a recuperare la chiave lasciata in precedenza, lo vede ridere con la coda dell'occhio prima di avviarsi lungo la strada.

 

* 

Avrebbe mantenuto il punto, se solo Oikawa non si fosse rivelato la più grande seccatura su due gambe mai esistita. Una settimana dopo la cena con i colleghi e l'essersi fatto riaccompagnare - benché non sia mai stato chiaro fino alla fine che l'intento fosse quello - quel ragazzino lo ha letteralmente tampinato. Iwaizumi non crede così tanto alle coincidenze da reputare plausibile e accettabile incontrare una persona con cui non si ha pressoché nulla in comune almeno una volta al giorno. Invece è proprio quanto successo e Hajime non è così stupido da credere che Tooru non si sia impegnato fin troppo a rendere la cosa molto più semplice di quanto sarebbe dovuta essere. 

Odia ammetterlo ma alla fine si è arreso. Quando persino i suoi colleghi hanno cominciato a dire, per prenderlo in giro, che non fosse il caso di maltrattare un povero liceale che sembra averlo preso come modello Hajime ha capito che forse avrebbe potuto limitare molto di più i danni accettando di fare una stupida uscita e sopportandolo per un pomeriggio anziché fuggendo. Certo, avrebbe anche voluto far presente ai suoi colleghi che non c'è niente di "povero" in Oikawa Tooru, ma sarebbe stato fiato sprecato. Tra l'altro non ci tiene a far sapere a tutto il piccolo e ristretto mondo nipponico nel suo stesso hotel che esce con un diciassettenne. 

Deve persino dare atto all'idiota danzante con cui si accompagna di non aver pianificato una brutta giornata. Quando Hajime ha ceduto - a lui piace pensare di essere stato maturo e accomodante - si è almeno premurato di scegliere un giorno libero da attività, assecondando la propria sensazione per cui Oikawa avrebbe finito con il trascinarlo in giro per buona parte del giorno e non avendo intenzione di correre sotto il caldo estivo solo per cercare di tornare in tempo a qualche appuntamento pomeridiano con i colleghi o con qualcuno degli istruttori che a volte si mettono a disposizione di chiarimenti e approfondimenti nelle ore prima della cena. E come volevasi dimostrare, Tooru ha subito approfittato della cosa dandogli appuntamento a metà mattinata e facendo da perfetta guida per un paio di ore, finché non sono stati a ridosso del pranzo abbastanza da cercare un buon locale in cui mangiare. Per forza di cose ha lasciato scegliere al ragazzo, molto più pratico di quanto Hajime potrebbe mai essere entro la fine della sua permanenza lì, e si è rivelata una giusta decisione. Ogni piatto tipico che ha assaggiato sotto consiglio era delizioso.

Dopo pranzo non c'è molto di aperto in termini di negozi, gli ha spiegato Tooru, e quella è stata la scusa ufficiale per portarlo a visitare i suoi posti preferiti della città che però hanno poco da spartire con le mete turistiche più gettonate sulle guide. In una passeggiata durata abbastanza da digerire persino la colazione, Oikawa gli ha parlato di tutto e di più: delle calde estati passati lì dalla prima volta in cui ce lo hanno portato, di come ha imparato a sentirsi a casa anche lontano chilometri e chilometri dal Giappone. Gli ha parlato della sua prima visita, quando ancora erano una famiglia composta da tre persone; non si è troppo sbilanciato su suo padre e Iwaizumi, per delicatezza, non ha chiesto. Ha lasciato fosse Tooru a prendere le misure delle rivelazioni da concedere. Così non ha avuto da lamentarsi quando l'argomento è cambiato in fretta in una replica difettosa di quanto avvenuto alla cena al locale. Lo ha ascoltato blaterare sulla scuola, sugli amici, sui colleghi e su Vanesa. Lo ha interrotto poco, ma non gli ha lasciato fare un monologo. Ogni tanto si è rifiutato di rispondere alle sue domande più scomode, lo ha redarguito con lo sguardo o lo ha apostrofato come cretino - e Tooru ha riso, Hajime non capisce perché. Forse quando si è giovani come lui si ha una percezione molto meno seria di certe dinamiche di conversazione, o magari è solo che gli insulti di Iwaizumi non hanno la verve che avrebbero avuto un tempo. In ogni caso, non dura granché: Oikawa gli mostra dove si muove quando vuole stare solo, i piccoli angoli di città dove può stare tranquillo quando è stanco e poi fa sì che entrambi si tuffino di nuovo nelle vie più trafficate e che nel frattempo si sono animate di nuovo. Lo porta in un bar piccolo ma accogliente dove prendere un caffè e riposarsi per dar tregua ai piedi di entrambi e poi vagano, fino all'ora di cena. Iwaizumi non si abituerà mai a quanto tardi si mangi lì rispetto a come accade in Giappone. 

La cena è piacevole quanto lo è stato il pranzo. Per quanto non sia mai davvero assente dalla conversazione, Tooru gli sembra più lontano, non tanto in termini di freddezza ma più come se non riuscisse a dedicarsi del tutto a quello di cui parlano. Per essere sincero, a Iwaizumi non pesa troppo la cosa di per sé, ma la consapevolezza di quali potrebbero essere le motivazioni gli fanno presagire un disagio che non ha fatto altro se non aleggiare su di loro fino a questo momento e minaccia ora di calare come un sipario. 

Quando si alzano, insiste per pagare lui perché non esiste che permetta a un liceale di offrirgli la cena. Tooru insiste all'inizio ma capisce presto di non poter vincere quella battaglia e lo lascia fare. Proprio quando Hajime è convinto di poter considerare la serata finita, Oikawa gli chiede di accompagnarlo ancora in un posto prima di salutarsi. Si immagina di essere trascinato in qualche locale degno della movida spagnola e non se ne stupirebbe, visto che a quell'ora le strade sembrano animarsi per la prima volta, giovani riversati per le vie quasi fossero rimasti addormentati a causa di qualche forza misteriosa fino a quel momento. Tooru però lo guida da tutt'altra parte - seguono le strade principali sono per un po', ma a un certo punto le abbandonano e Hajime non può che affidarsi a lui. Si spostano in silenzio, stranamente. Tooru ha il passo lento ma sicuro di chi potrebbe percorrere quella strada a occhi chiusi e lo vede alzare lo sguardo verso il cielo notturno di tanto in tanto, seppure senza soffermarcisi troppo.

«Voglio farti vedere l'ultimo posto speciale di questo tour, Iwa-chan.» gli rivela quando ormai Iwaizumi non ha davvero più idea di dove siano, avendo svoltato già più di due volte in viuzze secondarie per lui irriconoscibili. Ma di lì a poco si ritrovano su uno spiazzo ampio che sarebbe perfetto per un parco e che, invece, presenta sì e no un paio di panchine, quasi fosse stato pensato per ospitare pochissimi visitatori alla volta o ci si aspettasse che siano in pochi a riuscire a scovarlo. Mentre lui si ferma a osservare il luogo, cercare qualche punto di riferimento per potersi ricordare come arrivarci magari, Tooru si va a sedere su una delle due panchine e solo dopo qualche secondo gli fa cenno di unirsi a lui. Hajime lo fa, gli si siede accanto ma né le loro gambe né le loro spalle si sfiorano per la troppa vicinanza. Oikawa sembra non badarci neppure, il naso all'insù e gli occhi puntati a cercare qualcosa tra le rade nuvole disperse in un cielo sereno. 

«Dove siamo di preciso?» si decide a chiedergli Iwaizumi dopo un po', quando ormai non pensa la spiegazione arriverebbe se lasciasse dettare i tempi della conversazione a Tooru come ha invece fatto finora. Lo vede, mentre osserva il suo profilo, incurvare le labbra in un sorriso leggero che si estende agli occhi in modo strano: li coinvolge, ma è come se qualcosa impedisse al sentimento di spandersi a macchia d'olio per tutto il viso. Cosa dovrebbe fare, poi, quando sente la mano altrui cercare la sua?  

L'istinto gli dice di allontanarla, ma non riesce davvero a farlo quando sente le dita altrui muoversi timidamente, saggiare le sue, cercare con i polpastrelli dei calli che ormai sono molto meno facili da trovare rispetto a quando ancora giocava. Non lo incoraggia, ma non lo rifiuta. Vorrebbe dirgli che non deve, ma sente che non lo sta cercando solo come naturale conseguenza di un appuntamento ma anche in un altro modo difficile da inquadrare, senza una risposta alla sua domanda. Quando arriva, Hajime dopo averla ascoltata non è più certo sia stato un bene aver chiesto. 

«Il posto dove vengo quando penso non potrò più ballare come avrei voluto.» ammette con una voce bassa che non ha niente di saccente, niente di arrogante. Non c'è la disperazione, il rimpianto, ma qualcosa di troppo simile alla rassegnazione per essere sopportabile. Hajime ne ha provato un briciolo, alla sua età, eppure avrebbe preferito avere dentro di sé un'esplosione di emozioni completamente diverse da quella se avesse potuto scegliere. Il problema però è proprio quello: non si può scegliere - e lui che può, invece, tra tenere la mano lì inerme e ritrarla? Rimane immobile come un codardo, almeno finché non ricorda di essere stato molte cose fin da giovane, ma non un codardo. E allora la stringe. Lo sente restare fermo per un momento, forse troppo sorpreso, e poi avverte le dita scivolare per incastrarsi al meglio fra le sue. 

Una parte del suo cervello gli intima di lasciare la presa, alzarsi, vagare finché non troverà di nuovo la strada per il suo alloggio da solo. L'altra parte invece no. 

«Iwa-chan.» pronuncia e lo cerca con lo sguardo per la prima volta da quando si sono seduti. Iwaizumi lo avverte sul lato sinistro del proprio viso, quello che offre alla vista altrui dalla posizione seduta in cui si trovano, ma non si volta subito. Se può giustificare tenergli la mano come la solidarietà di chi è stato uno sportivo e avrebbe voluto esserlo a livelli molto più alti ma non ha potuto, sebbene per motivi diversi... se può raccontarsi che in quella settimana di tormento hanno in qualche modo trovato un inspiegabile punto di incontro e che forse, ma solo forse, lo ha avvertito da quando gli ha chiesto in quel modo irriverente di ballare con lui senza nemmeno sapere il suo nome... come potrebbe, Hajime, giustificare di aver risposto ad attenzioni lampanti e inequivocabili? Tooru ha dalla sua parte la sconsideratezza della sua età e il lusso di un ventaglio di possibilità tutte molto diverse dall'uscire con un uomo. Hajime ha la conoscenza di se stessi che si acquisisce con il tempo e la consapevolezza di dover essere quello assennato e coscienzioso dei due. Senza contare che esistono un migliaio di motivi per dire no e nemmeno uno, non logico almeno, di dire sì.

«Iwa-chan.» lo richiama Tooru, più serio, e deve almeno arrendersi a concedergli un contatto visivo. Non si aspetta la serietà che trova nel suo sguardo, mista a una punta di disperazione tipica di chi si gioca il tutto per tutto e riesce in qualche modo a farlo perché quello che desidera vince ogni accenno di paura. «Puoi dire che è colpa mia.»

Hajime sbuffa. 

«Hai diciassette anni, come può essere colpa tua.»
«Può essere solo un flirt.»
«Ma non lo è, giusto?»
«Certo che tu non rendi mai le conversazioni facili.» sbuffa divertito, ma sbuffa sulle sue labbra e questo rende tutto molto più difficile, sì. «Non lo è.» aggiunge poi «Ma tu puoi fare finta di sì.»

Hajime tace, per nulla convinto. C'è una distanza irrisoria tra di loro, basterebbe muoversi di pochissimo per annullarla del tutto e fare una cazzata colossale. Ha ventisette anni e non se lo può permettere. Ha davanti a sé un diciassettenne che può permettersi il mondo, ma non di gettarlo via, specie se quello che voleva costruirsi è già andato parzialmente in pezzi per un'operazione al ginocchio.

Sente il pollice altrui carezzargli piano il dorso della mano, la punta del suo naso sfiorare la propria. Lo chiama di nuovo con quel nomignolo idiota e Hajime azzera la distanza, posa la bocca sulla sua. Trova labbra secche che però si schiudono con una facilità disarmante - tutto il corpo di Tooru gli urla che vuole quel bacio e lo vuole adesso, niente giochi da bambini, vuole essere trattato da adulto. 

Hajime ha ventisette anni e sta baciando un ragazzo di diciassette. E quando lo accompagna a casa, stavolta sul serio, e sciolgono l'intreccio delle loro dita e Tooru gli ruba un altro bacio e poi un altro e un altro ancora, Hajime non sa dire di no. Non sa dire di sì. Sa soltanto che tra tre giorni parte per tornare in Giappone ed è per questo che non voleva rendere facile né la conversazione su quella panchina quasi segreta, né voleva che baciare Tooru si rivelasse così naturale.

 

*

 

Lancia un'occhiata al trolley già recuperato mentre aspetta che il secondo gli faccia finalmente il favore di palesarsi lì sul nastro trasportatore; vorrebbe davvero poterli assicurare ogni volta che deve fare avanti e indietro per le competizioni e invece no, nessuno ha ancora pensato di inventare qualcosa che renda meno infernale aspettare i bagagli insieme ad almeno un altro centinaio di passeggeri. Nell'attesa, senza scorgere ancora nemmeno l'ombra della sua seconda valigia ammessa in stiva, recupera il cellulare scorrendo la serie di notifiche che inevitabilmente arriva in massa quando accende il telefono appena atterrato dopo un volo, specie se lungo. Il primo messaggio che legge è di sua madre - gli dà il bentornato, si raccomanda di chiamarla appena si sarà sistemato e di riposarsi, ora che ha finalmente un po' di respiro.

Ines si complimenta con lui. E' riuscita a recuperare in streaming buona parte della competizione a cui ha preso parte e sostiene lui sia stato insopportabilmente bravo come sempre. Aggiunge, perché lo adora ed è evidente, che ha molta pena per la sua partner: deve essere terribile ballare con te quando vuoi vincere, gli scrive. Le risponde brevemente, riempiendo il resto del messaggio di emoji giapponesi perché sa che li odia. Aggiunge, en passant, di sentire la sua mancanza.

Una serie di notifiche infinite viene brutalmente annullata con uno semplice movimento del dito, così per ricordare a se stesso che il mondo può aspettare. Lo stesso viene fatto con le e-mail a cui ha intenzione di dedicarsi dopo una doccia e un buon pasto, come minimo. Con la coda dell'occhio nota un azzurrino familiare e finalmente la sua seconda valigia ha deciso di palesarsi, così la recupera prima che sia troppo tardi e comincia a muoversi per guadagnare l'uscita dall'area bagagli. Telefono alla mano, mentre si porta dietro i due trolley con l'altra, individua il messaggio di cui gli interessa davvero leggere il contenuto. Il mittente recita un Iwa-chan a cui non ha saputo rinunciare nemmeno quando al cognome di quell'uomo dieci anni più grande di lui si è aggiunto un nome, dopo tanto penare. Lo schermo gli rimanda indietro pochissime parole di cui una è un insulto. Lo fa ridere e gli si stringe lo stomaco dall'emozione.

Fuori dall'area bagagli si immette in un fiume di gente e con lo sguardo cerca nella massa di persone venute a recuperare i propri cari lì in aeroporto. Individua Hajime con una facilità quasi imbarazzante - per l'altro lo è di certo, anche se mai quanto il suo ignorare il resto del mondo e lasciare in malo modo le valigie al proprio destino per avere entrambe le braccia libere e cingergliele attorno al collo. Sa che l'uomo di fronte a lui, già con un insulto tra le labbra, non ama le manifestazioni di quel tipo, troppo poco contaminato dall'estero per riuscire a godersele senza preoccuparsi di cosa gli succede intorno. Per stavolta, però, spera lo perdonerà (come fa sempre).

Lo bacia, perché gli è mancato, e non gli interessa sia davanti agli occhi di tutti. E' un bacio breve, ma è più importante di un qualsiasi "bentornato" detto a voce. Hajime lo guarda male, ma lo vede quell'accenno di sorriso che persino lui non riesce a trattenere.

«Muoviti prima che cambi idea e ti mandi in albergo anziché farti venire a casa mia.» borbotta quello, allungando una mano verso uno dei trolley.

«Casa nostra.» lo corregge e sente la mano di Hajime scivolare vicino alla sua e poi intrecciare le loro dita con la discrezione che a Tooru manca, ma di cui è innamorato da tre anni ormai. E' stata una battaglia lunga, ma se è riuscito a tornare in pista come ballerino professionista, perché mai avrebbe dovuto fallire in questo?




hakurenshi: (Default)

Fandom: Haikyuu!!
Prompt: time travel + memory loss (m4)
Parole: 4466
Pairing: Tsukishima/Hinata
Warnings: death!characters, assoluta mancanza di basi di fisica nel concetto di time travel, pseudo kagepro!au (ma proprio vaga eh) il che significa che se si arriva alla fine chiedendosi "wtf" ho fatto bene il mio sporco lavoro.



C’è un momento preciso in cui Tsukishima sente di uscire da una sorta di gelo interiore che gli ha paralizzato corpo e mente e quando succede si sente soffocare: le urla gli riempiono le orecchie, il dolore fisico gli avviluppa ogni muscolo di cui ha coscienza e lo piega in due, le ginocchia che cozzano contro il pavimento lasciando che un mugolio sofferente scivoli tra le sue labbra contro la sua volontà. Sente gli occhi pizzicare ma non delle lacrime bagnargli le guance, mentre un nodo gli blocca in gola il fiato per unirsi alle grida che sente e un bruciore divampa sotto pelle come se il suo corpo fosse soggetto a uno sforzo troppo grande per essere sopportato. Nella sua testa qualcosa gli dice di non voltarsi; quando lo fa si maledice, e il nodo in gola improvvisamente si scioglie – un conato di puro acido spinge per svuotargli lo stomaco, le mani che vanno una contro il pavimento nel tentativo di sorreggerlo e l’altra a coprire la bocca per ricacciare la bile indietro.

Corpi. Corpi senza vita di persone con cui, volente o nolente, ha instaurato legami. Non riesce nemmeno a pensare che Oikawa e la sua fastidiosa abitudine di provocare il prossimo se lo siano meritato.

Non mentre sente la voce di Yachi penetrargli nelle orecchie urlando ancora e ancora nomi di persone che non respirano più e che rivuole indietro – con la coda dell’occhio scorge Azumane provare a darle conforto in un modo in cui non crede nemmeno lui, entrambi davanti al corpo di Sugawara dove l’unica cosa viva è il calore che ha ancora la sua pelle. È orrendo vedere lo sguardo vitreo di chi invece ha sempre avuto la sfumatura gentile e il calore negli occhi.

A un certo punto Yachi singhiozza il suo nome come se fosse l’unica preghiera a cui può appellarsi. Tsukishima non sa bene cosa sia ma qualcosa, dentro di lui, spinge per uscire fuori; è come se gli dicesse “è il momento”, quasi avesse aspettato un’eternità intera solo per quel singolo, vitale istante.

Lui si volta di nuovo, cerca nella mano ancora sul pavimento una risposta che non può essergli rivelata così e la stringe, quasi si conficca le unghie corte nel palmo della mano; poi torna a cercare con lo sguardo quello di Yachi, e dentro di sé stavolta qualcosa grida ma è troppo tardi: gli occhi della ragazza sono rossi, e pieni di lacrime e c’è una supplica che si confonde a ricordi che non pensava neanche di avere – “promettimi che non dimenticherai quello che è successo”.

Quello che avverte non è descrivibile a parole, perché non esiste un modo di far comprendere a qualcuno così tanto dolore.

Sente un verso graffiargli la gola e l’attimo dopo è di nuovo curvo verso il pavimento, vomitando mentre troppe immagini e troppi ricordi gli sovraccaricano la mente al punto di essere sicuro di dover solo aspettare, presto sarà così piena da esplodere e lui avrà pace. Quasi ci spera. Tutto è meglio di ciò che sta vedendo.


*



Tsukishima, che colore ha la felicità secondo te?


È un giorno afoso quello in cui Kei si ritrova a guardare il soffitto della propria stanza, rendendosi conto davvero di ciò che sta facendo. Somiglia a quando si sta sott’acqua troppo a lungo e quando finalmente si riemerge, all’improvviso l’aria invade di nuovo i polmoni e sembra di essere al mondo ancora una volta, o di esserci per la prima, senza averci creduto davvero. L’effetto è lo stesso, anche se la sua stanza ha l’odore di chiuso molto diverso da quello dell’esterno, un caldo mitigato solo dal condizionatore che gli permette di indossare una maglietta a maniche lunghe senza che il sudore gli incolli il tessuto alla pelle. Il soffitto è bianco e potrebbe essere qualunque posto: l’infermeria della scuola, per esempio.

Lo detesta. Il bianco gli è insopportabile, la luce troppo forte gli è insopportabile, la sveglia che anima con clic leggero allo scattare del minuto una stanza altrimenti nel completo silenzio; non è mai stato un suono percettibile e invece ora è così forte che gli sembra gli rimbombi nelle orecchie, è come uno stridio fastidioso, come una voce troppo alta per essere apprezzabile.

Si gira d’istinto con il viso verso il muro, trovando lo stesso biancore e il nulla che anche il soffitto gli ha offerto. Aggrotta le sopracciglia, infastidito; la sveglia sul comodino scatta di nuovo. Non ha idea di che ore siano, non ha controllato – con un gesto stizzito alza la testa, sfila il cuscino da sotto di essa e lo porta a coprire l’unico orecchio che la posizione su un fianco offre ai suoni della stanza. Spera che quello scattare si senta meno. A ben pensarci, però, non ci sono altri rumori in casa. Nessuno che oltrepassi la barriera della porta della sua stanza, chiusa da quelle che non sa se considerare ore o giorni.

Clic. Scatta un altro minuto e lui fissa ostentatamente lo sguardo verso il muro.

Clic. Si augura che le pile di quella stupida sveglia si scarichino, per poi ricordare che forse è attaccata alla corrente; spera ci sia un calo di tensione.

Clic. Chi diamine ha avuto l’idea di regalargli una sveglia che scatta ogni minuto di ogni ora, tutti i giorni?

A pensarci bene gli torna in mente una zazzera dal colore fastidioso alla vista quasi quanto la forma-non-forma scompigliata che ha sempre avuto. Giusto. Hinata Shouyo. Chi altri mai poteva pensare a un regalo di compleanno così fastidioso.

Clic. Il movimento con cui si volta di scatto, mettendosi a sedere e dando un colpo alla cieca a ciò che c’è sul comodino mandando a terra la sveglia che si stacca dal filo per lo strattone improvviso è un picco d’isteria tanto improvviso quanto per nulla raro nell’ultimo periodo.

Detesta la stanza, detesta la sveglia, detesta non avere più cognizione del tempo, detesta il ricordo di Hinata. Ma poi, questo “Hinata Shouyo”, chi è?

«Kei, va tutto bene?»

«Sta’ tranquilla mamma, ci penso io.»

A volte è grato che Akiteru risparmi a lui le domande piene di premura di sua madre, a cui non vuole rispondere.

Però ogni volta che gli sente aprire la porta come promesso, e lo vede scivolare nella sua stanza con lo sguardo di chi vorrebbe aiutarti ma non sa come fare, in quel momento lo detesta.

«Tutto a posto? Ti sei mosso nel sonno?» domanda con premura e un accenno di sorriso.

Si morde il labbro. Dormire? Non ricorda nemmeno l’ultima volta che ha fatto una dormita decente.

Sente la pressione di un peso sul materasso, ad avvisarlo che suo fratello si è seduto, rendendo vano il suo guardare la sveglia a terra come se Akiteru non si trovasse nemmeno nella camera: «Kei, non c’è niente di male se fai dei sogni agitati.» lo sente cominciare «Forse dovresti solo provare a parlarne. Quando vuoi.» aggiunge.

C’è stato un tempo, forse, in cui raccontare i suoi incubi infantili a suo fratello maggiore o sgattaiolare nel suo letto quando condividevano la stanza era utile. Tutto improvvisamente era meno spaventoso e meno reale. Andrebbe bene se i suoi brutti sogni fossero popolati da mostri terribili o killer furiosi che tentano di ucciderlo; invece la sua dimensione onirica è fatta di ricordi e sorrisi troppo luminosi e voci che lo chiamano in continuazione e gli ripetono quanto bello sia un mondo che non conosce più, non nella sua interezza.

Fa schioccare la lingua contro il palato, sentendo l’amaro in bocca, quello del veleno più che quello delle delusioni.

Si alza scomposto, quasi deambulando verso la porta, e gli risuona nelle orecchie la versione roca della propria voce che manda al diavolo suo fratello e lo deride – c’è una frase che gli suona terribilmente simile a un “fai resuscitare le persone? Sei diventato Dio?” con una cattiveria e derisione di cui non è mai stato capace nemmeno quando si impegnava a risultare antipatico agli altri o a esternare la propria non sopportazione per le persone che non gli andavano a genio.

Ora è facile come sbattere la porta con rabbia.

I suoi incubi sono pieni di Hinata. E parlare, come sognare, non riporta indietro i morti.

A volte sogna dei giorni di scuola. In alcune occasioni si tratta di momenti normali, dove il dettaglio sempre identico è la presenza di Shouyo: la prima volta che si è presentato davanti al banco di Kei implorandolo di spiegargli matematica in vista degli esami di recupero imminenti, quando lo ha trascinato a fare la prova al club di pallavolo nonostante non avesse alcuna voglia di impegnarsi così tanto in un club scolastico, lo stupido sorriso rivoltogli quando ha condiviso una scatola di pocky con lui di ritorno dall’allenamento, almeno fino all’incrocio dove le loro strade si sono sempre divise. Ogni tanto ci sono stralci di conversazione che rivive in quei sogni, mentre alcuni sono privi di voci o di rumori di qualsiasi tipo; quando si sveglia, a volte, gli sembra di sentir pronunciare il suo nome e si odia, si tappa le orecchie con forza finché non preme così forte che gli sembra di sentire lo stesso fastidio di quando l’acqua di mare entra nelle orecchie e tutti i rumori arrivano lontani, ovattati. Solo allora azzarda a scoprirle: la scia di una voce che non può più sentire non c’è, ma la morsa allo stomaco non diminuisce mai. 

E mai, mai, mai c’è un viso ad accompagnare quei sogni. Non è la più grande presa in giro che la sua mente possa rivolgergli? Pare dirgli “tieni questi ricordi, tienili incompleti, ti do indietro tutto quello che ho preso tranne il dettaglio più importante”.


*


Kei non crede ai miracoli e non crede alle seconde possibilità. Quando fa i controlli periodici, interminabili minuti in un tubo mentre un macchinario gli mappa il cervello perché un medico possa dirgli che è tutto a posto, la memoria tornerà piano piano, non crede la sua amnesia guarirà mai del tutto; quando passa ore sul divanetto di uno sconosciuto che ormai vede più del suoi genitori, a raccontargli di sogni mai davvero completi, a volte violenti e a volte incredibilmente normali e della frustrazione o del tremore che gli lasciano, pensa che anche se la memoria tornasse non cambierebbe niente; quando si sente dire dal suo psicologo che sta andando meglio, rispetto al primo incontro in cui non hanno parlato, ecco, Kei non crede alle seconde possibilità se non quelle che può procurarsi da solo.

Lui è una mente razionale, da quanto la sua memoria fatta a pezzi gli fa presente lo è sempre stato - glielo assicura suo fratello con gli album di fotografie in cui sono bambini e Kei è sempre attaccato a qualcosa di scientifico, glielo conferma Yamaguchi che lo segue dall’infanzia - e non esistono preghiere che possano riportare in vita i morti. Però il Paese in cui è nato è costruito sulle leggende, sulle tradizioni, su una moltitudine di cose senza basi reali. Se Kei deve immaginarsi un viaggio nel tempo, lo fa con un macchinario e soggetto a regole impossibili persino da elencare tutte, lo figura pieno di leggi intoccabili e ripercussioni destabilizzanti e di proporzioni così colossali da aver reso il viaggio nel tempo, il piegare lo spazio al proprio volere, niente più di un sogno per chi crede nella scienza e sogna lo stimolo di tutta una vita.

«Tsukishima-kun» lo richiama alla realtà lo psicologo che lo segue da ormai tre mesi «stai facendo grandi progressi.» gli dice conciliante.

Ma quali progressi?, vorrebbe sputargli in faccia. Invece si limita a guardare il suo sorriso ottimista; in una piccola, minuscola parte della sua testa, gli sembra di sentirsi ripetere la domanda con cui si è svegliato.

Sa che è Hinata, ormai. Ma chi è, Hinata?

Tsukishima, cos’hai pensato quando ti ho preso la mano?
Quale mano. Quando è successo. Perché, perché sta ricordando lentamente tutto ma non il suo viso.
«Hai subito un forte trauma e lo stress post traumatico non si può superare in un batter d’occhio. Potranno sembrarti frasi fatte, ma devi avere pazienza. Stai andando davvero bene, Tsukishima-kun. Hai appuntato qualcosa sui sogni di cui abbiamo parlato l’ultima volta?»

Kei ripensa al quaderno nella sua borsa, a quanto sia leggermente più fino - sebbene in maniera impercettibile a occhio nudo e senza aprirlo - per colpa delle pagine che ha strappato quella mattina, piene solo di un nome scritto e poi cancellato con rabbia.
«Niente di che.» mente «Solo qualcosa sulla scuola.»
«E su Hinata-kun?»
«No.» ribatte secco. Sembra bastare per mettere a nudo davanti allo psicologo tutte le sue bugie quando quello, pacato, gli dice di prendersi il suo tempo, che va bene così, che non c’è fretta.

Quando esce dalla seduta, dalla clinica, dal quartiere che la ospita la sente per la prima volta: una voce sconosciuta, forse nella sua testa, che gli dice “ma se ci fosse, un modo per tornare indietro?


*


Da quel giorno, Kei non la sente di continuo ma abbastanza da renderla non più sconosciuta: le sue notti sono occasionalmente prese d’assalto dagli incubi di quello che ormai ha in parte ricostruito come l’incidente riportato da così tanti giornali e notiziari da avere il vomito di come i giornalisti lo abbiano raccontato a ripetizione con parole più o meno sensazionalistiche. Le sue ore diurne, invece, sono alternate tra i preparativi per riprendere una vita normale e le sedute dallo psicologo; in questa routine che fa da conto alla rovescia per il suo rientro a scuola, ogni tanto quella voce si insinua tra le mura della sua stanza o attraverso le cuffie che ha preso l’abitudine di mettere su fingendosi intento ad ascoltare la musica anche quando non lo sta facendo. Gli sussurrano quella piccola tentazione irrealistica, facendola sembrare fattibile come alzarsi e andare a comprare il latte al minimarket vicino casa.

Non cambiano mai le parole, fino al giorno in cui torna a scuola - una volta la Karasuno era famosa per aver, dopo anni, riconquistato il proprio posto alle nazionali ora invece è una delle scuole coinvolte in uno dei più grandi e tragici incidenti che il Giappone ricordi dopo i tremendi terremoti che hanno scosso le vite di una popolazione conosciuta dal mondo come quella che, più di moltissime altre, nella propria storia ha dimostrato di sapersi rialzare da un disastro con grande dignità e forza di spirito.

Kei ha messo in conto gli sguardi degli altri studenti, le parole gentili di alcuni senpai, la riservatezza di altri, le raccomandazioni dei docenti; si è mentalmente preparato all’effetto di guardare verso la palestra, al sentire di nuovo i rumori tipici dell’edificio scolastico, all’idea di infilarsi di nuovo in una routine fatta di compiti, orari precisi, pause pranzo. E’ persino riuscito a riprendere lo studio mentre era ancora diviso tra riabilitazione e tutto il resto.

Ma non è pronto ai rumori improvvisi, non è pronto al grido dalla classe accanto quando questo rumore forte arriva, quando lo stress post traumatico gli gioca il brutto scherzo di far cozzare insieme un suono irrilevante alle immagini di una tragedia. Non è pronto a sentirsi gelare seduto sulla sedia, a chi lo chiama per sincerarsi delle sue condizioni.

Non si stupisce quando sente che, nella classe accanto, Yachi Hitoka - una delle sopravvissute, come definiscono anche lui - ha avuto un attacco di panico ed è stata portata in infermeria.

Quasi si aspetta, invece, la voce nella sua testa:  perché non provi ad aggiustare le cose?

Se la creazione del Giappone può essere affidata a due dèi nelle leggende, in linea teorica chiunque può scegliere di credere a qualsiasi storia circoli tra i paesini di campagna o le pagine web di persone dalla fantasia troppo fervida.

Così mentre sente il sudore freddo scendergli lungo il collo, e a stento percepisce l’insegnante chiamarlo, le immagini confuse di corpi stesi a terra gli affollano la mente e Kei - contro ogni cosa, persino se stesso - decide di credere alla voce che gli sussurra “tornare indietro è facile: esaudisco io il tuo desiderio, se mi dai qualcosa in cambio.


*


Kei apre gli occhi e la palestra che li ospita è piuttosto grande per quello a cui sono abituati, bene illuminata tra luce esterna e faretti, pulita, sistemata per il match e soprattutto intera. Deve fare uno sforzo di memoria per capire se tra i ricordi riacquisiti dopo l’incidente ci sia anche un qualche dettaglio che abbia preannunciato il crollo del soffitto e tutto ciò che ne è conseguito. Deve anche ignorare la nausea lì pronta a bloccargli lo stomaco e l’istinto di fuggire, cercare di razionalizzare di essere nel passato - in un sogno? Per davvero? Non ne ha idea - per muoversi e fare qualsiasi cosa quella voce gli abbia offerto.

Lui non crede nei miracoli e nelle seconde possibilità, ma solo uno stupido non ne approfitterebbe ritrovandosene una tra le mani e lui non è uno stupido, nemmeno nei sogni, se quello lo è.

«Tsukki!» la voce di Yamaguchi lo chiama mentre lo affianca, palla alla mano mentre si avvia nella fila degli attaccanti per finire il riscaldamento prima della partita vera e propria «Hai parlato con Hinata…?»
Una maledizione, quel nome, ecco cos’è. Kei fa schioccare la lingua contro il palato, seccato, e sembra la reazione giusta per la situazione che non ricorda affatto; poco importa a cosa sia davvero dovuto il suo fastidio, Yamaguchi sembra interpretarlo nel verso corretto per quella realtà. Kei lo vede sospirare, posare lo sguardo su Hinata; Kei lo imita e si aspetta di guardare per l’ennesima volta una figura dal volto irriconoscibile e indefinito, come in una foto sfocata, e invece viene colpito in pieno da tratti chiari, puliti. Lo stomaco gli si contorce mentre Oikawa - ah, giusto, si dice, c’era anche la sua squadra - chiama Hinata da sotto rete, lo provoca e subito si sente rispondere perché, ora Kei non sa secondo quale logica ma lo ricorda bene, Hinata non è capace di capire quando lo provocano volutamente per bearsi delle sue reazioni.

Stranamente, però, Shouyo non si trattiene lì troppo e invece punta proprio verso Kei. Al proprio fianco, sente Yamaguchi dirgli «Scusati prima della partita, Tsukki.» con il tono rassegnato di chi conosce bene il proprio amico e, proprio per questo, tende a fargli notare gli errori e ad avere un occhio di riguardo per lui al tempo stesso. Hinata li raggiunge, scambia due parole con Yamaguchi, poi si avvicina; ci sono pochi passi tra loro e Kei non sa nemmeno dove guardare: una parte di lui avverte il bisogno viscerale di studiare quel viso agognato per mesi nei minimi dettagli, fino a imprimerselo nella memoria al punto di non dimenticarlo mai più; l’altra parte di lui è mossa da un principio di panico, dalla consapevolezza di cosa deve avvenire, dall’urgenza di capire come evitare un disastro che razionalmente sa essere impossibile da evitare davvero.

Ma se la voce gli ha dato una seconda occasione, deve essere perché qualcosa da fare c’è, giusto? Sarebbe troppo crudele per qualsiasi leggenda dargli l’illusione di poter cambiare le cose quando non è vero.
«O-Ohi, Tsukishima.» la voce di Hinata lo distrae, non riesce a guardare dove dovrebbe, a cercare un segno, qualsiasi cosa; eppure alle sue orecchie ora persino quel modo di chiamarlo, di farsi avanti quando bisogna scusarsi e chiarire e Hinata sa di dover essere il primo a sbottonarsi, gli è familiare tanto da fargli pensare “come ho fatto a dimenticarlo?

«Potrei… potrei aver esagerato un po’, okay? Un pochino. Tanto così!» fa un gesto con le mani «Ma anche tu hai esagerato, sì?» rimbrotta, perché ha ragione e perché a modo suo alleggerisce le situazioni pur rimanendo fedele al suo vizio di dire sempre la verità senza averne paura. Così diverso da Kei, a cui la verità fa male se detta e fa ancora più male quando nascosta - all’improvviso si ricorda persino di quanto sia stato insopportabile non riconoscere il loro rapporto, forse persino più insopportabile dell’onta di riconoscerlo, in effetti.

Non saprebbe dire l’esatto momento in cui tutto fluisce di nuovo nella sua testa come un fiume, ridandogli i ricordi rincorsi per mesi da quando si è risvegliato dall’incidente: a un certo punto, semplicemente, succede e Hinata Shouyo non è più uno sconosciuto né un qualcuno senza volto ma con un ruolo nella sua vita che Kei non può individuare. In un preciso istante, Hinata torna a essere il compagno di squadra, il ragazzo a cui ha permesso un avvicinarsi diverso da quello concesso a Yamaguchi insieme al privilegio di un’amicizia selettiva. Si ritrova a voler allungare le mani e a volerlo avvicinare fino a sentirlo contro il proprio corpo, una prova tangibile di un’esistenza che non sapeva più dove cercare se non negli incubi. Sta per farlo, per cedere, ma quando si muove nota delle scarpe da ginnastica ai propri piedi, sposta lo sguardo e vede le gambe nude fin sopra le ginocchia e poi incontra la divisa da partita e capisce - è il se stesso del passato e al tempo stesso non lo è, deve cercare qualcosa da cambiare, un dettaglio infinitesimale che può mutare il corso degli eventi.

La terra trema e poco dopo cade tutto e c’è solo un rumore assordante, delle grida. Quando riapre gli occhi, Yachi sta urlando dietro di lui e nel voltarsi la vede di nuovo, la scena che lo ha tartassato per mesi dopo l’incidente: Azumane le sta vicino, il corpo di Sugawara senza vita (di nuovo), corpi incoscienti o ormai cadaveri a terra (di nuovo), tra di loro e a poca distanza da lui c’è Hinata, gli occhi sbarrati.
Kei sente un conato, si piega verso il pavimento, vomita fino a sentire solo l’acido in gola e la disperazione di un fallimento.

La voce nella sua testa si fa strada tra il ronzio: puoi tornare indietro, puoi cambiare le cose, gli dice.

Kei inspira forte dal naso, si sente svenire e sa che si risveglierà in un letto di ospedale, sa cosa sentirà su mille notiziari e leggerà su centinaia di giornali; sa che ci vorrà riabilitazione, uno psicologo e non servirà a niente fino al giorno in cui quella voce non gli proporrà di nuovo di tornare indietro, di riprovare.

Sarà pronto, si dice. La prossima volta sarà pronto.


*


Ripete quel tentativo una seconda volta, una terza, una quarta. A un certo punto anticipa anche i respiri di Hinata nel breve tempo in cui si parlano prima del crollo e non ha più bisogno di ascoltare parole imparate a memoria e cerca febbrile qualcosa, un metodo efficace per uscire - e poi capisce, alla fine, che la voce nella sua testa non ha mai parlato di salvare tutti, ma di cambiare qualcosa e quel qualcosa è il fato di Hinata.

Quando se ne rende conto Kei sorride senza gioia, perché avrebbe dovuto immaginarlo: tutte le storie inverosimili di miracoli narrano di un sacrificio immenso per un solo desiderio esaudito. Così torna di nuovo indietro con la consapevolezza di dover scegliere e rendersi carnefice, in qualche modo, o Hinata o un altro, o qualcuno e non Hinata. In ogni caso può salvare una sola vita e poi conviverci per il resto della sua.

Kei sente Yamaguchi parlargli e annuisce senza ascoltarlo davvero, poi vede Hinata avvicinarsi e per un istante qualcosa dentro di lui lo detesta, una parte della sua mente gli dice che potrebbe arrendersi o potrebbe ucciderlo con le sue stesse mani, tanto varrebbe. Ma l’altra parte di lui ha vissuto il futuro senza Hinata abbastanza da non volerne sapere mai più e così, alla fine, Tsukishima sceglie.

Sceglie Hinata - lo prende per il braccio, lo trascina fuori dalla palestra ignorando i richiami del capitano e di Shouyo stesso, cammina come se avesse un mostro a corrergli dietro e in fondo forse è un po’ così. Si sono appena affacciati sulla strada quando un boato alle loro spalle avvisa Kei che di nuovo è crollato tutto, presto Yachi urlerà (ma chissà se da fuori la sentirà) e Azumane le sarà vicino, e Sugawara sarà a terra senza vita e—
Hinata è gelato sul posto e, oh, Kei lo sa bene cosa si prova.
La voce nella sua testa ride, gli dice ce l’hai fatta e Kei sa che a questo punto deve solo pagare la sua parte di debito.


*


«Tsukishima-kun?»

La voce del medico lo richiama, portandolo a scostare lo sguardo dalla finestra e riportarlo su di lui; sua madre e suo fratello sono nella stanza con lui, le espressioni gentili e pazienti. Il dottore torna a parlare, a spiegare la situazione, il responso degli esami: tutto nella norma, può riprendere le sue attività normali, rientrare a scuola. Gli incontri con lo psicologo stanno andando bene e fisicamente non ci sono più problemi. Kei lo ascolta distrattamente, sono cose che in parte ha già sentito dal suddetto psicologo che vede due volte alla settimana - grande positività e ottimismo verso i suoi progressi, l’amnesia non è sparita del tutto ma potrebbe migliorare ancora, deve essere paziente.
Quando possono finalmente uscire percorrono a ritroso corridoi che è riuscito a memorizzare, a dispetto di quanto la sua memoria in generale sia stata un discreto colabrodo fino a un paio di mesi fa; in sala d’attesa Yamaguchi e un altro paio di membri della squadra - chi è rimasto, chi ce la sta facendo - sono ad attenderlo, di sicuro avvisati da sua madre del suo venire dimesso dall’ospedale. Le stampelle sono fastidiose, ma dovrà tenersele dietro ancora un po’, finché il fisioterapista non gli darà il via libera: gli sfugge completamente come abbia fatto a farsi male, nonostante fosse il più distante di tutti dal crollo. C’è chi ha ipotizzato fosse andato a recuperare qualcosa di dimenticato - che ironia -, chi ha sostenuto di essere abbastanza sicuro di averlo visto andare fuori con un’altra persona, ma di cosa si vuole essere certi nelle ricostruzioni frammentarie di studenti sottoposti al fortissimo stress e trauma di un crollo che ha ucciso persino alcuni dei loro compagni?

Nel vederlo Yamaguchi gli sorride felice, lo avvicina, «Tsukki!» esclama e poi gli dice «Il capitano, Hinata e Kageyama sono venuti con me.» gli fa presente, accennando ai tre ragazzi poco distanti.

Kei fa un verso stizzito mentre tra le labbra si fa scappare un «Grandioso.» riferito a Kageyama, ma poi si focalizza sugli altri due, aggrotta le sopracciglia confuso. Yamaguchi lo nota, segue il suo sguardo e non capisce, torna su di lui: «Non ti senti bene?»
«Hinata chi?» gli chiede.

Se solo fosse ancora in grado di sentirla, sentirebbe una voce nella sua testa ridere di gusto mentre gli dice visto? Ti ho fatto tornare indietro a sistemare le cose.
 
hakurenshi: (Default)

Fandom: haikyuu!!
Prompt: spokon (m1)
Parole: 1990
Warnings: established relationship, yaoi, handjobs.





La porta di casa Iwaizumi si chiude alle spalle dei genitori di Hajime, mentre lui e Tooru sono appena oltre il genkan da dove li hanno salutati dopo aver ascoltato le raccomandazioni che qualsiasi padre e madre fa al proprio figlio prima di lasciarlo solo a casa per un weekend. Non è la prima volta che a Iwaizumi viene affidata la casa in assenza dei genitori, e di certo non è la prima in cui Tooru si ferma a dormire dall'amico d'infanzia; si può dire che la madre e il padre di Hajime non facciano nemmeno più caso - in senso buono - al fatto che il figlio degli Oikawa si trattenga per una o due notti, abituati a un via vai in casa loro gemellato nella casa dello stesso Tooru quando è lui a ospitare Hajime. Perciò i due coniugi hanno salutato lui esattamente come se fosse il proprio secondo figlio per poi lasciarseli alle spalle, dietro una porta chiusa.

Tooru apprezza il fatto che abbiano aspettato fino a dopo cena per andare, prendendosi tutto il tempo di festeggiarli entrambi dopo la vittoria dell'ultima partita di campionato, una piccola tradizione sempre avuta da quando Tooru e Hajime giocano nella stessa squadra; ora però sono rimasti da soli, Iwaizumi si è appena assicurato di chiudere la porta di casa così da non dover scendere di nuovo in un secondo momento e si sta muovendo per salire le scale fino al piano di sopra dove si trovano le camere da letto, compresa la sua. 

Tooru non ha alcun bisogno di essere guidato dall'altro, conoscendo quell'abitazione tanto quanto la propria, tuttavia aspetta che Iwaizumi gli passi accanto per allungare una mano e prendere la sua, fermandolo finché l'altro non si volta a fissarlo, l'espressione interrogativa sul viso; Tooru sorride, quasi ridacchia: «Iwa-chan» lo chiama con il fare divertito di un ragazzino pestifero, accennando con uno sguardo allo stretto corridoio che porta al bagno dove si trova una vasca in cui una volta stavano in due comodamente e ora, per entrare insieme, sono costretti a invadere l'uno lo spazio dell'altro «facciamo un bagno?»

Forse Iwaizumi non si aspettava la proposta, ma nel momento in cui gli viene rivolta, la sua espressione la dice lunga su quanto sappia che sarebbe inutile provare a farlo desistere.


Una volta nel bagno, Tooru riconosce a se stesso di essere sorprendentemente docile per un periodo di tempo piuttosto prolungato, considerati i suoi standard di molestie ai danni del padrone di casa. Ha lasciato a entrambi il tempo di spogliarsi, privi di qualsiasi timidezza - sotto questo aspetto l'essere passati da amici d'infanzia a fidanzati non ha davvero fatto alcun effetto, troppo abituati alle rispettive nudità per imbarazzarsene a prescindere dalla situazione -, e di lavarsi con calma fino a potersi immergere nella vasca. Come c'era da aspettarsi è troppo piccola e se l'acqua non è uscita fuori dal bordo quando Tooru è entrato per primo, ogni speranza è andata perduta nel momento in cui è stato Iwaizumi ad aggiungersi. In un primo momento sono entrambi costretti a  tenere le gambe piegate in una posizione abbastanza scomoda, ma non dura a lungo; Tooru non ha proposto un bagno per la semplice condivisione di uno spazio: si muove presto dalla sua posizione, riuscendo alla meno peggio a sistemarsi tra le gambe di Hajime. Avesse più spazio starebbe gattonando come un felino piuttosto ruffiano, lo sguardo incollato al viso dell'altro mentre una mano gli accarezza il petto, scende fino al bacino; stranamente lo salta, passa direttamente alle gambe dove lascia una carezza lasciva e intanto si china su Hajime, pretende prima un bacio, poi un altro, un terzo che però dà all'angolo delle sue labbra, fastidioso e molesto come al solito, provocatorio perché può permetterselo con lui più che con chiunque altro.

Hajime dapprima ci prova a sopportarlo e lasciarlo fare, ma si stufa presto e gli cinge i fianchi con le braccia e lo chiude tra le proprie gambe, quasi lo imprigiona; la mano di Tooru che non deve sorreggere una buona parte del suo peso scende, si intrufola tra le gambe di Hajime, sfiora l'accenno della sua erezione come un assaggio che si tramuta quasi subito in una carezza vera e propria. Ama sentire il respiro di Iwaizumi farsi più pesante e più veloce, carico di un desiderio che ha sempre la tendenza a tenere per sé non per pudore, quanto per una punta di orgoglio e di volontà di non dargliela vinta. Alla lunga, però, persino Hajime deve arrendersi a quanto piacevole sia sentire la mano di Tooru masturbarlo, per quanto sia anche insopportabilmente lenta perché il suo ragazzo è uno stronzo.

«Se non la fai finita di-» prova a dire, ma Oikawa decide di velocizzare le carezze proprio in quel momento e guardare Hajime mentre si morde quasi a sangue il labbro pur di non farsi scappare un gemito alto che finirebbe con il riecheggiare nel bagno. Tooru sbuffa divertito mentre si china per baciarlo, e non si stupisce di sentire quasi subito la mano dell'altro catturargli una ciocca di capelli e tirare, per punirlo e non mosso dalla passione. Mugugna ma non ferma le sue attenzioni, continua a masturbarlo e ad aggiustare il tiro in base alle reazioni del corpo di Iwaizumi - sempre, sempre più oneste di quanto Hajime sarà mai in grado di essere - e lascia che lui sfoghi la frustrazione e l'eccitazione crescente in quel bacio. La lingua di Hajime non gli dà tregua, non lascia a quel bacio la possibilità di essere lento nemmeno per un momento e se gli lascia un secondo di respiro è solo per mordergli il labbro inferiore o succhiarglielo, facendogli venire i brividi nonostante l'acqua calda e il vapore nella stanza la rendano tutto fuorché fredda.

Iwaizumi viene nella sua mano con un gemito roco e quasi del tutto riversato nella sua bocca, il liquido orgasmico a mescolarsi nell'acqua ormai inutilizzabile; quando Tooru fa per allontanarsi, Hajime affonda la faccia nel suo collo e morde forte.


A un certo punto si spostano nella camera di Iwaizumi che sono ancora mezzi svestiti, perché non aveva davvero senso prepararsi per la notte sapendo che di lì a poco si sarebbero comunque spogliati di nuovo. Per tutte le scale e la porzione di corridoio da percorrere per arrivare alla stanza di Hajime passano il tempo a fare gli stupidi - o meglio, Tooru fa l'idiota continuando a rubare baci leggeri e quasi scherzosi ad Hajime, che tra un o e l'altro ripete «Falla finita», «cretino», «ora ti butto giù dalle scale» ma non si sottrae mai davvero e a un certo punto finisce con il sorridere contro le labbra di Tooru, pur non ammettendolo nemmeno una volta.

Quando sono nella stanza trovano il letto con una facilità unica, senza nemmeno bisogno di cercarlo con gli occhi in pratica; si baciano per una quantità di tempo che Tooru non riesce mai a definite: un sacco di volte gli sono sembrati minuti e invece erano ore, altre ha pensato avessero quasi fatto l'alba e invece tutto sommato non era nemmeno così tardi. Tooru rabbrividisce quando ormai è un po' che sono praticamente nudi, boxer a parte, e gli si stringe d'istinto addosso visto quanto calda è la pelle di Iwaizumi ora come ora. Le mani dell'altro gli passano sulle braccia, sulle spalle, poi però lo abbandonano quando si Hajime si alza a sedere. Tooru si lascia guidare a fare lo stesso, senza bene idea di cosa voglia fare: si fa tirare leggermente su fino a doversi puntellare sulle ginocchia, non si oppone quando Hajime lo spinge leggermente fino a farlo spostare e solo quando Oikawa si ritrova a fissare se stesso nello specchio capisce il fine ultimo di tutti quei movimenti.

«Mpf, Iwa-chan ma allora ce l'hai una libido.» lo prende in giro, come se non lo sapesse e non ne fosse oggetto, poi.

Iwaizumi non dice nulla, alza soltanto gli occhi al cielo e poi si muove a sua volta, poggia il petto contro la schiena di Tooru, gli cinge di nuovo la vita con un braccio e con l'altro scende subito con la mano; più che infilarla nell'intimo di Tooru, però, ci insinua appena due falangi per arpionare i boxer e tirarli giù un in movimento unico e abbastanza fluido. Non si dà la pena di farli scendere fino alle ginocchia poggiate sul materasso, non serve davvero e nemmeno Tooru ora come ora ha tutta questa attenzione ai dettagli. La mano risale poco, quanto basta a prendere tra le dita l'erezione già piuttosto evidente di Oikawa. 

A vedere Iwaizumi, uno potrebbe immaginarselo manesco e rude anche al letto - sempre che uno se lo immagini mentre fa sesso, Tooru capisce bene di non fare testo in questo senso e che la maggior parte se non tutti i loro compagni di squadra e scuola probabilmente non lo fanno - e invece per quanto le sue mani siano leggermente ruvide e le dita abbiano qualche piccolo callo qua e là, se Iwaizumi non sceglie di comune e tacito accordo con lui di essere un po' più rude del normale, i suoi tocchi si rivelano sempre inaspettatamente gentili. 

Così le sue carezze si rivelano ancora più snervanti, nella loro iniziale lentezza; Tooru mugola quando i tocchi gli danno piacere, si lamenta con qualche «Iwa-chan» infantile quando Iwaizumi si ferma o sfiora in modo troppo leggero quell'erezione ormai totale ed evidente. Iwaizumi ha il viso affondato nel suo collo dove continua a baciare, mordere, a tratti anche dare piccoli tocchi di lingua; Tooru lo vede bene perché gli basta guardare allo specchio - persino lui ha una punta di imbarazzo nel vedersi così, del tutto abbandonato alla mercé di Hajime e in condizioni simili, con il membro eretto, il corpo accaldato, un orgasmo ormai agli sgoccioli e l'espressione eccitata. Ma tutto peggiora esponenzialmente quando Iwaizumi alza appena il viso dal suo nascondiglio per portarsi vicino al suo orecchio: Tooru si sente mordicchiare il lobo, sente Hajime succhiare leggermente quella parte di pelle morbida e sensibile, e poi gli sente dire «Tooru, allarga un po' le gambe.» con il respiro pesante e il tono arrochito.

Gli basta poco per fare quanto Iwaizumi gli ha chiesto, e ancora meno per sentirlo infilare il pene tra le sue cosce; le stringe d'istinto, capendo dove l'altro stia andando a parare, anticipando cosa vuole che faccia. Si concede un sospiro pesante quando sente il gemito di Hajime così vicino al suo orecchio e mentre lo chiama; pronuncia il suo nome di rimando quanto Iwaizumi comincia a muovere il bacino, come se dovesse spingersi dentro di lui ma, invece, sfregando tra le sue gambe e contro la sua stessa erezione, dandogli un piccolo colpo di grazia a ogni spinta.

Tooru deglutisce, poi si arrende e si permette di essere vocale, a un certo punto quasi lo fa come provocazione. La mano di Iwaizumi non si ferma e, anzi, aumenta il ritmo e diventa un mix letale insieme al sentirlo spingere, cercare il piacere contro di lui - è una tortura, perché Tooru comincia a volerlo dentro di lui e non semplicemente così, che per quanto piacevole lascia quella sensazione di non completezza che non gli piace per nulla.

Hajime dà un'ultima spinta, tanto che Tooru quasi perde l'equilibrio in avanti; le mani puntano contro il muro e lo sostengono, mentre alza lo sguardo verso lo specchio e vede l'espressione di Hajime completamente abbandonata, le labbra dischiuse a lasciare liberi i respiri pesanti e i gemiti che di tanto in tanto ormai nemmeno Iwaizumi può controllare come vorrebbe.

Quando lui viene, e il suo viso è trasformato dal piacere, Tooru sente l'ondata dell'orgasmo colpirlo in pieno e poggia la fronte contro il vetro freddo, mentre una scarica di piacere gli attraversa la schiena e gli rende le gambe molli. Lo chiama ancora una volta e viene nella sua mano sentendo tutto il peso del corpo di Hajime su di sé.

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Fandom: Haikyuu!!
Prompt: spokon (m1)
Parole: 900
Warnings: established relationship, levyaku, blowjob, nsfw.



Quando si diceva "giocare col fuoco", Lev non ha capito subito il senso figurato della frase. Si immaginava qualcuno accendere un fuoco o stare vicino a uno e allungare una mano, bruciarsi, letteralmente. Poi crescendo ed essendo il tipo di persona da agire spesso prima di riflettere, ha compreso quanto la cosa potesse applicarsi al senso più generico di "rischio consapevole", di sfidare la sorte, e quando ha iniziato a giocare a pallavolo con la Nekoma quel detto ha collimato sempre di più con la figura di Yaku - se commentava la sua altezza, Yamamoto diceva ridendo e preannunciando un calcio volante "ti piace giocare col fuoco, Haiba", e lo stesso quando ripeteva per l'ennesima volta lo stesso errore per il quale Kenma lo aveva già ripreso almeno tre volte.

Dalla prima volta in cui ha preso un calcio da Yaku sono passati due anni, ormai. Lev sta finendo il suo ultimo anno mentre Yaku prosegue gli studi in università e i weekend sono le parentesi che si concedono insieme, quando sono liberi dagli impegni; se nessuno dei due ha da fare la domenica, Yaku ogni tanto gli permette di restare a dormire - ogni tanto, perché sostiene Lev non debba trascurare né gli studi, né gli amici, né il club e nemmeno la famiglia. Una serie di "né" che Lev non può esattamente rifiutare, tenendo a tutti quanti anche quando diventano una sorta di "ma" tra lui e il suo ragazzo. Eppure ci sono le volte in cui niente gli impedisce di restare da Yaku, di passare per bene del tempo insieme: alcuni weekend potrebbero sembrare scialbi a qualcuno - giornate semplici, ore trascorse tra qualche acquisto qua e là, un pranzo insieme, un film magari e poi addormentarsi perché si viene da una sessione di allenamento o da una settimana di corsi massacranti. Lev ama già il fatto di svegliarsi con Yaku vicino, nelle rare occasioni in cui il più grande dorme più di lui, o di riprendere coscienza con i rumori familiari di Yaku che si muove nel piccolo angolo cottura del suo appartamento da studente squattrinato per preparargli la colazione.

Poi ci sono weekend come quello, dove si concedono qualcosa in più, dove la stanchezza non ha il sopravvento poco dopo cena o gli lascia l'autonomia sufficiente solo a guardare qualcosa di poco impegnativo alla tv; se qualcuno lo vedesse ora, mentre volta appena il viso per baciare la gamba di Yaku che tiene ferma e poggiata sulla propria spalla, penserebbero che è impazzito e in cerca di una morte lenta e dolorosa. Invece Lev con gli anni ha imparato a osare quando può - sebbene continui a farlo anche quando non dovrebbe - e lo fa, come ora. Yaku è sdraiato sul letto, lo guarda con il viso in parte coperto dal proprio braccio. E' nudo, Lev lo ha appena spogliato dei boxer, l'ultimo indumento che era rimasto, e mantiene gli occhi su di lui con la stessa adorazione rivolta al proprio signore. Le sue labbra si posano di nuovo sulla gamba di Yaku, risalgono verso la caviglia ma quando sente Yaku mugugnare qualcosa si ferma e riporta lo sguardo chiaro su di lui.

Yaku non dice niente di comprensibile, ma in qualche modo Lev capisce - o, a prescindere da quello, decide di farlo e basta - di dover cambiare direzione: la scia di baci riprende ma scende, sul polpaccio e poi vicino al ginocchio, scende ancora mentre lui si piega in avanti senza lasciare andare la gamba dell'altro; arriva all'interno coscia e i baci si fanno più umidi, ogni tanto lo chiama per nome, lascia un morso lieve che fa sussultare Yaku sotto di lui. A essere sincero, da quando stanno insieme Lev ha sempre apprezzato più lo stare sotto che lo stare sopra, gli piace il modo in cui Yaku prende l'iniziativa quando fanno sesso, il modo in cui nonostante sia eccitato si prenda sempre il tempo di prepararlo a dovere, con una premura che è sempre stata tipica di lui; gli piace come si spinga dentro di lui, l'immobilità della prima manciata di secondi perché quel primo movimento lo eccita sempre più di quanto vorrebbe ammettere; Lev ama come Yaku abbia imparato a conoscere i suoi punti sensibili, come a ogni spinta faccia combaciare dei tocchi precisi. 

Perciò in momenti come questo, quando Yaku è sotto di lui, Lev cerca quegli stessi punti sensibili sul corpo dell'altro - si china maggiormente fino a essere con il viso fra le sue gambe e a prenderlo in bocca, succhiare finché non sono solo i gemiti di Yaku a riempire il silenzio della stanza, la tv un sottofondo dimenticato. Le mani di Lev tengono entrambe le sue gambe, si arpionano sulle sue cosce e questo gli permette di sentire Yaku tremare e sussultare ogni volta che una carezza della sua lingua lo porta un passo più vicino all'orgasmo.

Quando Lev sente una mano dell'altro arrivare a sorpresa sulla sua testa, le dita tra i capelli, si stacca dall'erezione di Yaku solo per leccarne la punta e sentire il suo compagno gemere più forte, chiedergli di più. Quando glielo dà lo fa con la mano - Yaku chiama il suo nome, getta la testa leggermente all'indietro e Lev lo morde, vicino all'inguine e lo sente gemere ancora una volta mentre raggiunge l'orgasmo, infine.

I suoi ansimi riempiono ancora la stanza, più forti di qualsiasi rumore. 

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Prompt: omegaverse (m2)
Parole: 1500
Warnings: nsfw, alpha!yaku, omega!lev


It’s been two years since he graduated from Nekoma high school and started not only university but a part-time job too. His parents would have never thought that Lev could leave home so soon to live with someone else, and yet that’s exactly what happened. Well, not right after graduation, but during his freshman year in college it suddenly became his new reality. The best part of it is, for sure, how little Lev had to fight for his freedom: not only because his family had never been one to stop their children from finding their own happiness, wherever it could lead them to, but because the only thing they really worried about at that time was… his partner. Lev will never forget how embarrassing it was, despite the fact that he could have been worse than that. Way worse than his parents telling Yaku all their child’s flaws. 

To say that his family literally adores Yaku is almost an underestimation. The moment he introduced his senpai they practically adopted him on the spot; even if Yaku wanted to call the engagement off, at this point, it would be hell. Sometimes Lev thinks it could still be possible - when he really, really makes Yaku angry, basically. 

«Yaku-san, I’m home!» he says as he enters their apartment, closing the door behind him. He doesn’t get any reply and once he passes the genkan and looks at the small whiteboard they bought recently - “you keep forgetting stuff so just remember to write them down!” - he notices a note written by Yaku: dinner with colleagues, it says


*


«Lev?»

Yaku’s voice reaches him from the entrance, but Lev doesn’t answer. He can feel Yaku’s scent all around him and can’t help but snuggle, inhale deeply and let a pleasant sound out of his mouth. It is the kind of comforting atmosphere he can enjoy when he’s awake but still has time to stay in bed, without lessons in the mornings; at the same time, he feels that slight arousal Yaku’s scent brings to him. It’s understandable that he doesn’t notice Yaku in the room until the older one moves his jersey jacket away from him and looks at him, frowned eyebrow and a confused look on his face.

«Lev, are you in heat?» he asks bluntly. Lev, his nose hidden in the fabric of one of Yaku’s shirts, finally lifts his gaze until he notices the older one. He inhales deeply and nods, absentmindedly. The look in Yaku’s eyes is hard to get - partly worried and partly angry, maybe? Lev isn’t sure.

«You told me it was going to come next week.»
«’m sorry, Yaku-san...» he murmurs, one of the rare cases when he’s not loud and over excited as much as he was in high school. He feels sluggish, almost feverish in a good way, but since Yaku came in the room something is definitely different. The scent that was all around him is now way stronger and Lev can feel is guts twist in a funny yet pleasant way. He was sure the heat wasn’t so around the corner that he had to ask Yaku to stay home with him, yet apparently his own body is betraying him. To build a nest with Yaku’s clothes is something Lev has rarely done since they got together - maybe it happened the first time his heat came when he was already living with Yaku, but it’s not usually like that and he’s not used to it, despite technically knowing what he’s doing and why. 

He feels a cold hand against his forehead and it’s funny how it is pleasant and how, at the same time, it makes his body feel warmer. Yaku’s touch is one of the most direct expressions of how caring he is; no matter how much he threatens to kick his ass, even that is so dear to him that Lev would never give up on it.

«Yaku-san...» he calls, raspy voice and unfocused gaze on him. He thinks he sees Yaku slightly jump on the spot, but may it be because he hides it well or because it never really happened, in a split second Lev is not sure if it’s true or just his imagination anymore. Yet, Yaku’s free hand goes to his tie to loosen it and get rid of it; Lev trembles a bit when he notices Yaku unbuttoning his shirt and it’s funny how Yaku’s scent is even stronger now. 


*


Light touches are driving him crazy. Yaku’s hands are all over him and the worst (best?) thing is that Lev doesn’t want them anywhere else.

The room is filled with just a dim light and their breathes and scents, most of the clothes he used to build a nest now scattered all over the floor together with what they were wearing who knows how much time ago; Lev can barely remember when Yaku undressed him or when he took off Yaku’s shirt to be able to touch his skin directly, no layers between them.

Yaku’s fingers are brushing against his legs, along the whole length, starting from the hip and going down and down until fingertips are on Lev’s ankles. The unbearable aspect is that Yaku never once touched his legs with his mouth, not even a kiss until now. Lev feels his lips as Yaku - finally - places a light kiss on the left ankle and trails an invisible path upwards; when he reaches the inner part of his thigh Lev jumps, never expecting a small bite there where the skin is so sensitive.

He is quite sure to hear a muffled chuckle and pouts, mumbling a «Yaku-san» that is supposed to make the other feel guilty, but the small rationality left in him suggests that it’s not going to happen.

Yaku’s index and middle finger press against his entrance, already wet and loosened enough that one of them slips inside him and makes him gasp, loud. It’s almost like being unable to breath and breathing again at the same time, a brief moment of clarity of mind in which every inch of Yaku’s body is exactly where it should be or at least close enough for Lev to feel it. 

«Lev.» Yaku calls his name and it makes him shiver - his middle finger enters him too, moves back and forth, makes him gasp and moan. It’s starting to get annoying, no matter how his mind should know that this is how Yaku has always been, that this is his way to be caring despite the instinct is probably telling him to just thrust in and move and fuck him, knotting and then come inside him. It’s how an alpha behaves with an omega, no matter how level-headed and kind they are or want to be to their mate. Lev knows and he should be grateful but right now his body is shouting that he wants Yaku, not his finger or his tongue or anything else. And maybe Yaku is at his limit too, as he thrusts in without warning and makes him come.

This is something he will never come to terms with, how fast this can happen when he knows he could endure it much longer, but once in heat none of this is under control. Yaku moves inside him, touches his weakest spot over and over again and the louder Lev moans the harder and deeper he thrusts.

Lev learnt to notice long ago when he’s at his limit, about to come, and he is - again? Already? How much time has passed? - and clings to Yaku, long arms around his neck as he pulls him, face against face. It’s a hard, clumsy kiss, foreheads bumping each other and tongues making the kiss wetter.  He’s tightening around Yaku, he’s doing it on purpose and Yaku groans into his mouth before one of his hands grabs Lev’s chin in order to turn his face on the side.

The bite is hard, deep and Yaku’s teeth are sinking into his skin; Lev moans, louder than before and shudders when his orgasm hits him. And it’s not only him, Yaku too comes inside him after a couple of thrusts and bites harder as if he wishes for the wound to fester because of him, to leave a mark that won’t ever fade away - and it won’t, something inside Lev knows that this is it, it’s the mark fated pairs talk about, the one that makes you belong to the other for the rest of your life.

He feels Yaku letting him go, his sweated body on him, his weight that makes it look more real; he pants against his ear, his breathe tickling Lev’s skin. He’s still not clear headed at all, yet he turns slightly to kiss Yaku’s forehead.

«...so sappy.» Yaku murmurs as he nibbles his cheek.

«Love you too, Yaku-san.» he whispers back. 

A faint slap on his arm makes him chuckle.

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Prompt: scontro
Missione: M1
Parole: 761
Warning: future!fic, angst




Iwaizumi non ricorda una sola parentesi della sua vita senza un litigio o una discussione con Oikawa. Forse solo l’infanzia, ma si risponde sempre che è perché Oikawa da bambino era solo un piagnucolone che lui non aveva la pazienza di stare a sentire più di tanto - Hajime si ricorda come, all’epoca, il loro rapporto fosse bianco o nero: o lo ignorava, o lo consolava. Gli scontri erano rari.
Poi la squadra alle medie, quella del liceo; l’università e l’appartamento insieme, che non è mai stato poi così diverso da come hanno sempre vissuto in simbiosi.
Iwaizumi ha imparato ad accettare i difetti di Oikawa - alcuni li ama anche, ma si guarda bene dal farglielo presente - tuttavia ci sono volte in cui entrambi si trovano nel momento sbagliato, con l’umore sbagliato, e si ritrovano solo così: a vomitare parole.
«E poi» sta continuando a strillare Tooru, una cosa che detesta perché con quella voce ha la capacità di farlo incazzare senza nemmeno bisogno di ulteriori motivi «Mattsun e Makki mi hanno portato a casa!»
«A casa, certo!» gli sbraita contro «Così ubriaco che ti tenevano in due.» puntualizza, piccato.
«Ero brillo.»
«Brillo non inizia nemmeno a descriverti. Solo perché hai smesso di giocare non significa che puoi fare l’idiota e riempirti di alcolici.»
«A sentire te sembro un alcolista!» sbotta Tooru, continuando a girare sempre dallo stesso lato del divano, avanti e indietro, come se questo lo aiutasse a scaricare un minimo di tensione che è invece chiaramente chiusa nel suo corpo, lì a farlo vibrare come una corsa di violino pizzicata di continuo: «La prossima volta vieni anche tu così puoi controllarmi, visto che ci tieni tanto. Ah già. Hai il tuo stupido lavoro troppo impegnativo per uscire.»
«Non fare lo stronzo, potevi scegliere di venire a lavorare con me, quindi non rinfacciarmelo!»
«Beh forse preferivo che facessimo altro insieme, non andare in una palestra a insegnare pallavolo così presto!»
«Sono passati tre anni!»
«Tre anni fa il mio futuro è andato al diavolo, Iwa-chan!» grida Tooru, e a questo punto Iwaizumi ha abbandonato la speranza di non essere sentito da tutto il palazzo in cui hanno l’appartamento che condividono da anni. Iwaizumi sa che Tooru è frustrato, che non ha ancora superato - e non sa se ci riuscirà mai, di questo passo - l’infortunio al ginocchio che ha stroncato definitivamente la sua carriera. Lo ha seguito nella riabilitazione, lo ha aiutato fisicamente e non, è stato paziente ma ora nemmeno lui ce la fa più.
E finisce sempre così, a scoppiare per un’inezia che si trasforma in tragedia, puntualmente.
«Quindi è per questo che bevi fino a quando non cominci a lamentarti con gli altri di cose di cui potresti parlare con me, la persona con cui vivi da anni, che ti ha ascoltato ogni notte in cui ti sei svegliato per il dolore. Giusto. Maturo da parte tua, come sempre.»
«Oh, andiamo Iwachan cosa sei, mia madre?!»
«Forse sarebbe l’unico modo per farti entrare in quella testa di cazzo che non sei il centro del mondo!»
Tacciono entrambi, guardandosi in viso per la prima volta da quando hanno cominciato a urlarsi addosso. Hanno persino il respiro affannoso come non avevano da quando facevano così tante ore di palestra al giorno da averne fin sopra i capelli; il silenzio cade tra loro, quasi stessero cercando di assorbire l’uno le parole dell’altro, di farle arrivare davvero solo per poterle comprendere.
Tooru lo guarda e incurva le labbra in un sorriso amaro, una briciola di sarcasmo che Iwaizumi sente prima ancora che l’altro parli: «Wow. Quindi è questo che pensi di me. Questo sì che mi invoglia a parlarti.»
Prima ancora di rendersene conto, Iwaizumi avanza verso di lui un passo dopo l’altro, fino a far cozzare la fronte contro la sua - non è una vera testata, ma il gesto vale più di mille parole.
«Non osare.» sibila come se dovesse ucciderlo con quelle uniche due parole «Questa casa ha girato intorno a te da quando ti sei fatto male, io ho girato intorno a te. Non osare nemmeno provare a rinfacciarmi di non annullarmi per te.»
«Non ti ho mai chiesto di annullarti per me! Voglio solo sentirmi diverso da “Oikawa Tooru” quando siamo insieme!» gli grida in faccia, ma stavolta suona così disperato che Iwaizumi ne è quasi stordito.
Ogni tanto pensa quasi che vorrebbe quel ginocchio non ci fosse più. Cerca di immaginarlo lì, ma non davvero parte della gamba e di ciò che Tooru ormai si sente da anni: un legamento spezzato. 

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