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Prompt: “Entrarono nella stanza chiedendosi perché lo stessero facendo”

Missione: M2 (week 1)
Parole: 1550
Rating: teen up
Fandom: original

Warnings: accenni di violenza




Entrarono nella stanza chiedendosi perché lo stessero facendo.


O meglio: perché lo stessero facendo nonostante entrambi avessero cambiato vita, in un certo senso, dando a essa un indirizzo in apparenza lontano anni luce dal precedente. 


A Tatsuya veniva da ridere: non importava a quante persone, tra quelle che conoscevano Aoi da molti anni, rivelasse la loro parentela. C'era sempre una reazione al limite dell'incredulo che per lui finiva con l'essere solo estremamente divertente. Ma questo, al contrario del legame di sangue tra lui e Aoi, non stupiva nessuno. Dopotutto come Irina avrebbe detto - così sosteneva - anche quando da morta starò di sicuro tormentando qualcuno, era troppo stronzo perché il suo ridere del disagio altrui arrivasse come qualcosa di inaspettato. D'altronde, non sentiva di poterle dare torto. Lui stesso con Aoi non aveva condiviso l'infanzia, ma lo aveva comunque conosciuto che era un ragazzino di quindici anni di cui comprendeva il terribile lutto subito - la perdita di una madre, Tatsuya lo sapeva, era qualcosa di insuperabile. All'epoca non aveva la forza né l'empatia necessaria (e forse neanche il coraggio) di dirgli che il massimo che sarebbe riuscito a fare sarebbe stato imparare a convivere con quel dolore, con quella mancanza. Era il massimo che si poteva fare. Il massimo che si poteva chiedere a se stessi.


Guardandolo ora, a venticinque anni e dopo dieci di conoscenza, era quasi difficile credere di avere davanti la stessa persona; Tatsuya, tuttavia, riconosceva in lui ancora un'anima non così dissimile da quella che era certo non avrebbe retto a lungo nella vecchia organizzazione in cui si erano incrociati per la prima volta. Era difficile dimenticare un ragazzino non troppo alto, pronto a impegnarsi nel comprendere qualcosa di difficile come la medicina pur di essere di supporto a discapito di un potere potenzialmente distruttivo. Era quasi impossibile dimenticarsi le sue mani fasciate nella speranza che una perdita di controllo distruggesse delle bende, prima di fare del male a qualcuno; di come lo trovava spesso a dormire fuori della sua stanza, rannicchiato tra i mobili, perché le cose, se distrutte, posso in qualche modo provare a ripararle. Lo aveva visto tentare e lo aveva visto fallire; lo aveva osservato affezionarsi e colpevolizzarsi ogni volta in cui qualcuno tornava con una ferita di troppo; lo aveva visto diventare il centro del mondo di una persona, condividere con quella tutto ciò che di più intimo aveva e di cui non aveva mai osato parlare; giorno dopo giorno Tatsuya aveva osservato, notato come Aoi fosse riuscito alla fine a toccare qualcuno senza paura di ucciderlo per errore. Lo aveva visto trovare una figura a metà tra un padre e un fratello.


Poi lo aveva visto capire di non essere abbastanza per loro - in quel modo terribile e collaterale, in cui si era importanti ma non abbastanza, non tanto quanto un ideale, non al pari di una decisione.


Tatsuya era sicuro di poter dire, non che fosse questo grande vanto nei confronti di un altro essere umano, di aver visto l'esatto istante in cui Aoi era passato dall'essere un ragazzo testardamente ottimista all'essere un uomo capace di vedere ancora il buono, ma anche di riconoscere le verità più crude. Non avrebbe saputo dire se quello fosse stato il momento in cui anche il suo potere aveva fatto un cambiamento importante né se fosse necessario perché avvenisse. Era solo cambiato, divenuto più stabile e Aoi aveva ora una consapevolezza e comprensione tale del proprio potere da essere uno degli ability user più forti e pericolosi in circolazione. Poco importava sottolineare quanto non fosse praticante, per dirlo in modo delicato, se non per esigenza.


«Non c'è nulla di sospetto nella stanza.» pronunciò Aoi, tirandolo fuori da quel flusso di coscienza che tempo fa non si sarebbe mai concesso. Tatsuya vorrebbe poter dire di non avere più l'istinto di una volta, ma saprebbe di mentire. Mai come negli ultimi anni aveva compreso le parole di suo padre che, nonostante non gli mancasse nemmeno un'unghia di quanto gli manchi sua madre, non era mai davvero riuscito ad accantonare. Troppo tempo della sua infanzia e della sua adolescenza era stato passato ad apprendere anche solo passivamente da lui, consapevole di come un giorno lo avrebbe sostituito, com'era poi successo. Lo diceva sempre, Kensuke Miyuki: un assassino non smette di esserlo solo perché decide di vestirsi da essere umano da un giorno all'altro.


A onor del vero, i Miyuki non erano mai stati assassini. Il codice gli imponeva un rigore assoluto. Ma nel loro ambiente era poco credibile pensare non sarebbe arrivato il giorno in cui ci si sarebbe sporcati le mani del sangue di qualcuno e Tatsuya non aveva fatto eccezione - aveva lasciato alle spalle, tra le dicerie dei vicoli, un record di cui non c'era nulla per cui essere fieri umanamente parlando. Ma il punto era che suo padre aveva ragione: Tatsuya non era più a capo del Miyuki-gumi - non esisteva più, un Miyuki-gumi - ma sapeva ancora come si impugnavano due katane contemporaneamente ed era certo di poterle usare meglio di molti altri, con la stessa precisione e freddezza di un tempo, al pari di quanto era sicuro di saper ancora respirare senza nemmeno dover pensare di farlo.


«Certo» riprese Aoi spostando lo sguardo su di lui e mantenendo un sorriso morbido «non pensavo sarebbe di nuovo capitato di essere insieme in una circostanza come questa, Tsuya.»


Ci era voluta una vita, prima di sentire Aoi utilizzare un nomignolo con lui; ora lo faceva come se non avessero avuto mai un rapporto diverso da quello di adesso.


«Ti dirò, un fidanzato nella mafia russa e essere adottato da una famiglia di assassini tedeschi forse avrebbe dovuto suggerirmi che potesse almeno succedere. Anche se ormai non esercito più, come direbbero alcuni.»

«Credo sia solo perché non ti chiedono di esercitare.» sentì dire ad Aoi, il tono morbido di chi immaginava non sarebbe mai stato in grado di smettere di essere gentile almeno con i suoi affetti: «Ma se chiunque della famiglia di Xylia ti chiedesse di tornare a fare questo lavoro ogni giorno, non ci penseresti affatto. Nemmeno ora che sei padre, forse.» lo sentì aggiungere, quasi in extremis.


Padre. Non ci avrebbe scommesso neanche uno yen, meno di un anno fa.


«Ahimé, rimango uno dei migliori ed è la croce delle persone di talento.» pronunciò, suonando volutamente più arrogante di quanto già non fosse la frase di per sé. Aoi, alla sua destra e di un paio di passi più avanti per meglio lasciar fare al suo potere il proprio dovere, sbuffò una risata quasi infantile.




«Allora sarai felice di sapere che la tua fama ti precede.»

«Ah, mi dai sempre buone notizie. Ero quasi preoccupato di aver lucidato le lame per niente. Ci pensi, tornare da Irina e deluderla dicendole di non averle nemmeno estratte dal fodero?» ironizzò, premurandosi di estrarne una sola per il momento. Avvertì gli occhi di Aoi seguire quel movimento, attenti ma al tempo stesso come si sarebbe potuto fare nel vedere un gesto conosciuto. 


«Sai chi sarà davvero deluso? Chihiro.»

«Non dirglielo» si raccomandò con un pizzico di serietà in più «penserebbe che sono tornato davvero a muovermi in un certo ambito e insisterebbe per venire qui.» proseguì, cercando il contatto visivo con Aoi «E non tornerebbe più a casa.»


Aoi non chiese di più, perché in fondo non aveva bisogno di farlo - aveva conosciuto Chihiro, aveva parlato con lui e aveva inquadrato più di quanto forse lo stesso Chihiro immaginasse. 


«Quindi» riprese Tatsuya guardando davanti a sé prima e verso il soffitto poi «quanti ne senti?»

«Difficile darti un numero esatto. Se salissi più di due piani, forse bloccherei qualche piede e perderemmo l'effetto sorpresa.» ammise, spostando anche lui lo sguardo verso il soffitto «Ti direi Due. Poi tre.» riportò, abbassando gli occhi sulle proprie mani. Tatsuya lo vide iniziare a liberare la destra della benda - ormai erano più simboliche, lo sapeva, ma c'era qualcosa di inspiegabile nel vedere Aoi toglierle volontariamente e con la calma di chi si priva di un indumento nel cambiarsi d'abito, quando si sapeva cosa nascondevano. 


«Solo la destra?»

«Preferirei non dover togliere anche l'altra. Significherebbe che siamo nei guai.»

«Stai insinuando che non sappia proteggerti, moccioso?» lo prese in giro Tatsuya, incurvando le labbra in un sorrisetto sghembo. Sentì Aoi cercare, senza troppo impegno, di mascherare l'accenno di una risata da sbuffo rassegnato.


«Non oserei, Tsuya.»

«Bene.» chiuse il discorso ma, soprattutto, la parentesi poco seria lasciando che il proprio potere andasse a coprire più superficie possibile. Al contrario di Aoi, esteso per due piani o per quindici non c'era affatto differenza nel suo caso - se non nella stanchezza che lo avrebbe aggredito a lungo andare, era ovvio. Ma in termini di percezione, non c'era modo per un nemico di accorgersene, nemmeno per la quasi totalità degli ability user. O forse nemmeno tra loro c'era qualcuno che avrebbe potuto percepirlo prima che fosse troppo tardi. 


Una manciata di lunghissimi secondi, quelli in cui rimasero avvolti nel silenzio per lasciare a Tatsuya tutto il tempo del mondo - un modo di dire che non avrebbe mai smesso di farlo ridere.


«Aoi.»

«Mh?»

«Non credo avrai bisogno di togliere le altre bende.»


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L'aura che si respira nel castello è così strana, nel suo silenzio innaturale, che risulta quasi impossibile credere a quanto sia pieno di vita quel luogo in ognuno dei suoi ricordi. Sospira; è così che funziona la guerra dopotutto, no? Distrugge ogni cosa a cui si tiene, la rende irriconoscibile e, a quel punto, non rimane più nulla.

Lo sguardo cade sullo specchio, sul riflesso che questo gli rimanda indietro: nemmeno una volta ha pensato si sarebbe vestito in quel modo. Non importa quanto sia abituato ai colori del regno che chiama "madrepatria": nei suoi ricordi, gli abiti che indossa ora sono sempre stati qualcosa di strettamente legato a sua madre. Tsubaki era meravigliosa in quel lungo abito bianco dalle decorazioni blu. Le donava tanto eppure, nei dettagli rifiniti e nel tessuto pregiato, riusciva ad avere quella naturalezza di chi non bada a cosa indossa; lo sguardo deciso era ciò che attirava davvero l'attenzione, di lei, tanto che nonostante la figura esile era sempre sembrata, ai suoi occhi, la più forte dei guerrieri. Ma forse quelle erano solo le fantasie di un bambino.

Non ha mai più visto quell'abito, dalla morte di sua madre. Eppure ora si ritrova a osservare la versione maschile di quello stesso vestito - lo sta indossando: i pantaloni blu scuro sono quasi invisibili sotto la lunga tunica dal taglio orientale, bianca e dai bordi blu sul colletto. Sul torace, di una sfumatura più chiara, tre alamari chiudono la tunica; l'assenza di maniche, invece, rende visibile la parte sottostante, dello stesso blu scuro dei pantaloni. Ogni parte di quell'abito, nel suo alternarsi di chiaro e scuro, sembra suggerire come in una singola persona sia sempre possibile trovare tanto l'oscurità quanto la luce - così è stato pensato e così è stato realizzato, un abito cerimoniale appositamente per chi ricopre quel ruolo. Si chiede se lui abbia mai percorso, o se mai percorrerà, un sentiero fatto unicamente di oscurità. A volte, quando c'è così tanto dolore ovunque lui posi lo sguardo, gli sembra così probabile - se non l'unico futuro possibile - da far male.

Sospira, guardando verso il piccolo mobile in legno e soffermandosi sul vaso di fiori sopra di esso, contenente una modesta quantità di camelie; proprio di fianco, si trova l'unico ricordo che sua madre gli ha lasciato: una catenina fine con una piccola pietra preziosa a forma di goccia.

"Quando perdi una persona cara", gli aveva detto una volta mentre lui giocava con il gioiello indossato da Tsubaki, standole in braccio "hai sempre bisogno di qualcosa a cui aggrapparti."

«Aoi» la voce di un servitore lo chiama, senza appellativi a cui ha espressamente rinunciato, nonostante il suo ruolo: «il discorso del re è quasi finito.»

Annuisce, mentre la mano raggiunge la catenina; la indossa, giusto un attimo prima di raggiungere la porta e lasciare la stanza, i piedi scalzi a contatto con il freddo marmo.

Non guarda più verso lo specchio.


C'è qualcosa di innaturale nel modo in cui il cortile è pieno di persone e, al tempo stesso, così silenzioso. Se ascolta con attenzione, può sentire i singhiozzi soffocati provenire da direzioni imprecisate. Mentre cammina verso il centro del cortile, dove si trovano le due bare piene di fiori, guarda di sottecchi verso il due principi con cui è cresciuto: non stanno piangendo, e questo lo fa sentire come se fosse lui a essere schiacciato dal dolore, anziché loro. Perché quando i figli guardano i corpi senza vita dei genitori senza tradire emozioni, ferendosi in modi che una battaglia fisica non contempla solo per mantenere un contegno a cui sono obbligati dal proprio status, non c'è altro modo in cui lui - che ha potuto piangere sua madre per tutto il tempo di cui ha avuto bisogno - possa sentirsi. Per un momento detesta con un forza che non gli appartiene le loro origini: leale al suo attuale re come lo è stato con colui che lo ha preceduto, affezionato al ricordo di un sovrano gentile che gli ha permesso di vivere il suo lutto nella riservatezza assoluta, la cerimonia che si svolge di fronte ai suoi occhi e il prezzo che essa richiede sono per lui disumani.

Stringe i pugni, inspira e tenta di rilassarsi: i suoi sovrani, ora, sono feriti e arrabbiati e disperati. Lo sa meglio di chiunque altro e, per questo, è conscio di cosa debba diventare: "qualcosa a cui aggrapparsi", anche se solo per un momento.

Il reggente lo guarda: Aoi non si inchina né a lui, né al suo defunto figlio - il vecchio re - né ai suoi nipoti, ma non è una mancanza di rispetto nei loro confronti. Quello è il ruolo che fu di sua madre e che ora è suo; ricorda alla perfezione come Tsubaki danzasse e cantasse per dare l'ultimo saluto ai defunti secondo il rito proprio del loro regno, senza curarsi dello stato sociale, perché era così e sempre lo sarebbe stato: a nessuno interessano cose del genere in circostanze come quella. Il Cantante, colui che nelle cerimonie più importanti rivolge un augurio facendosi portavoce degli dèi, è al di sopra di tutti e al tempo stesso compagno fedele di ogni presente.

Chiude gli occhi, schiude le labbra; il canto che accompagna chi li lascia è lento, malinconico e dolce come una ninna nanna - muove un piede lateralmente, il primo passo di un addio e una pausa quasi impercettibile per formulare il pensiero "possiate riposare in pace".

Non gli è permesso piangere o sentirsi addolorato, ora. Non è quello che fa il Cantante.


Dopo la cerimonia se lo concede.

Il futuro Consigliere gli passa di fianco e poggia una mano sulla sua spalla, stringendo appena e sussurrandogli un «Grazie» sincero, con un tono morbido che di norma non gli appartiene affatto; Aoi lo guarda e nota quasi per caso come si morda il labbro inferiore. Lo sguardo sul viso dell'uomo è quello di qualcuno che ha perso più di una persona. Ha perso una ragione.

Per cosa, Aoi non lo sa. Ma fa così male che le sue gambe perdono ogni forza.

Nella sua stanza, dove nessuno può vederlo, copre il volto con le mani e un singhiozzo abbandona le sue labbra.

"I Cantanti come me - come noi - dicono addio due volte: durante la cerimonia lo fanno per gli altri. Solo dopo per se stessi."

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