hakurenshi: (Default)

Prompt: Singolarità

Missione: M2 (week 3)
Parole: 7677
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: spoiler Stormbringer!




Il vago rumore di dita a picchiettare sulla tastiera del computer era l'unico a riempire effettivamente la stanza, se si escludeva il canticchiare distratto e a mezza bocca che di tanto in tanto scivolava tra le labbra di uno dei fratelli su cui quell'organizzazione sembrava basare buona parte del suo lavoro o quantomeno dei suoi obiettivi. Dazai non era particolarmente amante del restare in quella stanza se non per il tempo necessario a raccogliere, silente, le informazioni di cui aveva bisogno. A quanto sembrava, tuttavia, quella era una delle diverse e bizzarre regole sotto cui bisognava sottostare per scelta di Deus ed era probabile che se a Jane fosse toccato un altro turno ferma nella stanza non sarebbe stato particolarmente costruttivo. Persino Jun era sembrato preoccupato abbastanza da decidere di seguire la ragazza quando quella aveva sbraitato di non avere intenzione di stare lì al posto di altri, per poi uscire sbattendo la porta.


Dazai non lo reputava così drammatico; tediante, forse, ma non drammatico, specie nella misura in cui per scelta non avrebbe condiviso lo spazio con nessuna delle persone con cui aveva finito con il ritrovarsi in quella convivenza forzata. Se poi avesse dovuto indicare un buon motivo per accettare di restare oggi, più che in altre occasioni, sarebbe stata la presenza dell'unica vera incognita in quel gruppo. A sentire Jane, diversi di loro lo erano, ma Dazai era di un'opinione ben diversa. Tra tutti quelli che aveva avuto modo di osservare finora, c'erano solo diversi livelli di mistero tra loro ma non avrebbe mai potuto dire credendoci che fossero addirittura delle incognite.


Per cominciare, Jun era in realtà piuttosto semplice da inquadrare e - per quanto a lei di certo non sarebbe piaciuto sentirselo dire - lo era anche Jane: entrambi avevano qualcosa che volevano a tutti i costi recuperare e questo li rendeva prede estremamente semplici e alla mercé di Deus, il cui mezzo di coercizione era il ricatto. Quanto più le persone mostravano cosa desideravano in maniera aperta e autentica o erano solo incapaci di nasconderlo abbastanza bene, tanto più per quell'uomo le cose si facevano a dir poco semplici. Cosa desiderassero, poi, per Dazai non era un mistero rilevante fin dall'inizio: non gli importava e ora come ora non gli serviva nemmeno a qualcosa conoscerlo.


I fratelli erano una curiosità, più che una vera incognita: non ci era voluto un genio a coglierne la co-dipendenza e quello aveva reso tutto abbastanza semplice. C'erano solo due possibilità, dopotutto, entrambe piuttosto banali dal suo punto di vista e da tenere in considerazione solo perché come tutte le situazioni in cui due persone legate erano nella stessa missione quello poteva sovvertirne le sorti da un momento all'altro a seconda di cosa potesse succedere all'uno o all'altro. Ma che si trattasse del desiderio di entrambi di riavere indietro qualcosa di importante per tutti e due o che fosse solo ottenere qualcosa per il bene di uno dei due, il risultato finale non cambiava poi di molto.


L'uomo seduto a un angolo della stanza, ecco, quella era l'incognita la cui osservazione da parte di Dazai non aveva ancora dato i frutti che sperava desse o che erano stati anche troppo semplici da raccogliere con gli altri. A vederlo era senza alcun dubbio il più grande di loro, sui quaranta, forse quasi cinquant'anni. Dazai non riusciva a dargli una collocazione anagrafica precisa perché quell'uomo si trascinava addosso senza alcun dubbio la stanchezza di chi ha vissuto una vita troppo lunga al punto da portare a chiedersi se fosse davvero giovane come i lineamenti suggerivano o se ci si dovesse invece basare sul carico emotivo che sembrava portarsi dietro. L'altro aspetto curioso era proprio che quel carico emotivo non veniva mai trasmesso dalle espressioni facciali ed era stata questa la prima cosa a interessare Dazai. Nell'ambito della Port Mafia non era così strano trovare persone capaci di mascherare le proprie emozioni al punto tale da sembrare incapaci di provarne: in alcuni casi era una scelta fatta per proteggersi, per mettere un muro tra la propria sensibilità e quello che il mondo racchiuso nel lato oscuro di Yokohama portava a fare. In altri, c'era un pizzico di follia - a volte, Dazai doveva ammetterlo, anche di psicopatia - nelle persone che si incontravano in quello stesso mondo e dunque non stupiva troppo che il loro modo di provare e mostrare qualcosa fosse piuttosto singolare. Quell'uomo, invece, sembrava solo un guscio vuoto e stanco a cui era stata tolta persino la personalità, almeno in apparenza. Ed era questo a incuriosire Dazai: perché l'istinto e la capacità di osservazione gli suggerivano con insistenza che non fosse una mancanza di personalità reale ma che servisse solo scavare.


Un verso a mezza bocca lo distrasse dalla figura dell'uomo per portarla su Wilhelm, intento a stiracchiarsi con le braccia verso l'alto e a brontolare qualcosa su quanto fosse tediante continuare a monitorare durante i momenti fermi come quello. Dazai lo vide alzarsi, dare un colpetto a suo fratello per svegliarlo e - una volta ottenuta la sua attenzione - proporgli di andare a mangiare qualcosa perché a stomaco vuoto era impossibile continuare a fare qualcosa di utile.


«Tanto finché Deus non ci porta altro materiale da J, c'è poco che possiamo fare.» borbottò Wilhelm infastidito, facendo schioccare la lingua contro il palato e lanciando un'occhiata proprio a Dazai quasi stesse vagliando se minacciarlo di non osare toccare il suo computer o evitare per questa volta. Alla fine, come era già capitato in un'altra occasione, fu il fratello Jacob a mediare dando un colpetto sulla spalla del fratello e indirizzandolo verso la porta. Dazai lo sentì persino rivolgergli un: «Vi portiamo da mangiare?» ignorando i borbottii del fratello che, Dazai poteva scommetterci, gli avrebbe portato volentieri qualcosa con almeno del lassativo dentro. Anche per questo si esibì nel proprio miglior sorriso da schiaffi, prima di replicare con un: «No, non vorrei mai che poi il povero Wilhelm rimanesse con il cibo sullo stomaco per avermi fatto una gentilezza.» tanto per versare benzina sul fuoco e irritarlo per il semplice gusto di farlo. Chi l'avrebbe mai detto che si sarebbe ritrovato con la probabile versione venticinquenne - o poco più - di Nakahara e che sarebbe stato comunque così divertente e fastidioso al tempo stesso.


Un cenno di Jacob fu tutto ciò che ottenne prima che l'attenzione si spostasse brevemente sull'altro uomo, di cui dopo giorni Dazai sapeva ancora solo il nome - Antonio - e, una volta che i fratelli furono usciti, anche che forse non si fidava nemmeno lui a farsi portare del cibo non controllato da lui stesso. Oppure non era abbastanza affamato, ancora.


Rimasti soli, Dazai non perse particolare tempo a osservarlo più che in altre occasioni, se non in modo sommario e quasi annoiato: Antonio era un uomo dal modo di vestire piuttosto distinto, mai visto fino a ora senza giacca e cravatta, un modo di vestire che gli aveva ricordato vagamente quello di Mori per un'associazione mentale immediata e forse viziata dall'ambiente in cui si era sempre mosso. I capelli raccolti in una crocchia il cui senso estetico non era particolarmente spiccato - e, Dazai sospettava, non fosse in cima alle priorità dell'uomo - era la carnagione un poco più scura degli altri ad attirare forse di più l'attenzione in un luogo come il Giappone dove la diversità razziale non era esattamente all'ordine del giorno.


Dazai aveva notato, piuttosto, che i movimenti di Antonio erano sempre essenziali e tradivano, in alcuni aspetti, un'educazione di un certo tipo e adatta all'alta società o ad ambienti che dovevano esservi quantomeno collegati. Il modo in cui sedeva, per esempio, mostrava una compostezza particolare che sarebbe dovuta essere associabile alla rigidità e invece risultava fin troppo naturale nel linguaggio del corpo dell'uomo. Oppure anche quando era capitato di mangiare insieme nello stesso spazio, per quanto non necessariamente allo stesso tavolo, Dazai si era accorto di come i movimenti delle mani fossero sempre minimi, necessari e mai tanto per fare: anche una cosa semplice come tagliare della carne se il cibo era più occidentale o il modo di tenere le bacchette quando quanto offerto era tipicamente nipponico, avevano un'eleganza semplice.


Si era chiesto, Dazai, se quelle fossero le mani di un assassino esperto contro ogni possibile sospetto o se invece si trattasse di una natura diversa. Quello di cui era sicuro, invece, era che non gli fosse ancora chiaro al cento per cento quale fosse il ruolo di un uomo che non sembrava desiderare nulla e quindi non sarebbe dovuto essere particolarmente ricattabile.


«Cos'ha Deus su di te?» chiese quindi, perché tanto valeva capire quanto potesse spingere prima di rischiare di superare un limite pericoloso. Vide Antonio alzare lo sguardo su di lui, con la lentezza di una preda inconsapevole - o di un predatore pigro. Occhi dalla sfumatura carminia che, ancora una volta, sembravano incapaci di focalizzarsi davvero su ciò che vedevano e le labbra piegate in una linea di indifferenza. Dazai sapeva distinguere il disinteresse dall'insensibilità, di norma, ma con Antonio il confine sembrava talmente labile che l'ex - ex? - membro della Port Mafia non avrebbe saputo dire con esattezza da quale lato pendesse in quel momento e questo gli causò un vago moto di fastidio. Lo stesso che avrebbe provato nel cercare di trattenere la sabbia in un pungo e sentirsela comunque scivolare tra le dita, granello dopo granello.


«Nulla.» replicò l'altro, in modo piuttosto prevedibile. Dopotutto, Dazai non aveva mai pensato che avrebbe potuto avere da lui una risposta precisa solo per aver chiesto in modo educato in un momento in cui ingannare il tempo nell'assenza degli altri due. Inoltre, Antonio gli aveva dato la sensazione di una persona intelligente abbastanza da capire da solo che non fosse certo un caso che la domanda fosse stata posta solo quando si erano ritrovati da soli. Dazai gli dava almeno atto di sembrare parecchio più sveglio della media e se avesse dovuto scommettere su chi tra gli altri oltre lui avrebbe potuto cercare di mettere i bastoni tra le ruote a Deus... quello sarebbe stato Antonio, con molta probabilità.


«Apprezzo il tentativo» pronunciò Dazai, sistemandosi meglio sulla sedia, il gomito sul tavolo e il volto poggiato alla propria mano così da poterlo continuare a osservare in tutta comodità «ma spero non mi consideri il tipo di ingenuo capace di crederci.» insinuò senza farsi poi tanti problemi. Non era mai stato famoso nel suo ambito per rendersi amabile nemmeno alle persone a cui teneva - ed erano così poche da far sì che in un conteggio sulle dita di una mano ne avanzassero diverse -, perciò era pressoché impossibile si facesse remore in un contesto simile e con degli sconosciuti che era quasi scontato sarebbero stati nemici il giorno dopo. O che lo fossero già adesso.


Vide Antonio dedicargli un'occhiata più lunga, attenta. Nonostante la provocazione fosse lì alla luce del sole - o delle fastidiose lampade di quel posto - Dazai capì di non aver nemmeno scalfito la corazza in superficie. Il che lo rendeva particolarmente interessante e, al tempo stesso, fastidioso.


«Tu daresti a me la stessa informazione?» sentì domandare all'uomo, il tono profondo di qualcuno dava la buffa idea di aver parlato a bassa voce per tutta la sua vita, senza sentire il bisogno di farsi notare o forse avvertendo quello opposto: passare inosservato, lasciare che il mondo si dimenticasse di poterlo vedere. La mente di Dazai correva veloce, assimilando tutte le informazioni che gli arrivavano ora dalle risposte verbali di quel mistero chiamato Antonio e associandole a quanto aveva solo avuto modo di osservare.


Sorrise, seppure non con il fare allegro di un ragazzino di sedici anni incuriosito da qualche strano meccanismo incomprensibile. Era il sorriso di chi aveva davanti un enigma e aveva tutte le intenzioni di risolverlo, senza che farlo implicasse necessariamente delle soluzioni "pulite". O moralmente accettabili: «Oh-oh, touché.» commentò, alzando solo la mano libera in falso segno di resa senza scomodare l'altra, rimanendo quindi nella nella stessa posizione di osservazione. Un'ennesima provocazione, forse. Quello sarebbe dipeso dalla percezione dell'uomo ma in ogni caso Dazai avrebbe avuto - da quella stessa reazione - una risposta in più su di lui.


«Ah, forse dovremmo cominciare dalle presentazioni per bene?» pronunciò con un pizzico di falsa innocenza, quasi ci avesse pensato solo ora e avesse collegato in automatico la reticenza altrui alla mancanza di un dettaglio inutile come nome e cognome: «Dazai Osamu.» aggiunge, facendo un gesto verso di lui per invitarlo a condividere a propria volta. L'iniziale silenzio gli fece ipotizzare che forse non avrebbe avuto alcuna risposta neanche a questo, ma alla fine lo vide sospirare leggermente e poi tornare ad abbassare lo sguardo sul blocco che aveva avuto davanti agli occhi da quando Dazai era entrato nella stanza.


«Antonio Salieri.»


Salieri, si ripeté mentalmente Dazai, assaporando quel cognome quasi già così potesse ricavarne qualcosa. Europeo, senza dubbio. Del tutto sconosciuto nell'ambito della mafia e questo da un lato allargava il campo - perché se fosse stato un nome conosciuto nel suo ambiente Dazai era certo che non sarebbe stato possibile non risultasse in nemmeno un file della Port Mafia - ma dall'altra lo rendeva ancora più caotico. Insensato, quasi. Era evidente che Deus si fosse circondato di persone con abilità speciali di soli due tipi: quelli facili da controllare per qualcosa di cui avevano bisogno, come Jane e Jun, oltre presumibilmente a Dazai stesso; oppure quelli che al di là di cosa desideravano, erano anche persone dalla morale dubbia. Capaci di cose che altri avrebbero considerato terribili pur di raggiungere il loro scopo e il cui peso delle proprie azioni non era grande abbastanza - né lo sarebbe stato - tanto da distoglierli dall'obiettivo. Se Antonio Salieri non rientrava in questa casistica e non aveva nemmeno qualcosa con cui Deus poteva ricattarlo... per quale motivo era lì?


Dazai si alzò, muovendosi senza troppe cerimonie per avvicinarsi al tavolo su cui si trovava seduto l'altro, una delle scrivanie vuote di quell'ufficio che sembrava più il quartier generale e operativo di un'organizzazione improvvisata come in fondo era quella di Deus. Non ebbe il dubbio neanche per un attimo, sul fatto che Antonio avesse subito inquadrato il suo movimento con la coda dell'occhio, ma il fatto che non si stesse spostando o che il suo linguaggio del corpo non comunicasse alcun intento di impedirgli di avvicinarsi incuriosì Dazai ancora di più. Lo rese anche attento abbastanza da decidere, tacitamente, di non osare più del necessario e di considerare la persona davanti a sé come avrebbe considerato una bestia ferita nell'infilarsi in una gabbia dello zoo. Nessuno poteva dire quale gesto lo avrebbe fatto sentire minacciato, scatenando una reazione inaspettata.


Una volta accanto a lui, posando lo sguardo su quel blocco, Dazai dovette ammettere di essere stupito: aveva ipotizzato diverse possibilità, alcune meno fattibili di altro o che quantomeno gli sarebbero suonate molto strane. A cominciare dalle probabilità che si trattasse di un documento ufficiale lasciato da Deus per qualche incarico, non così strano di per sé ma di certo poco intelligente da tenere dove chiunque avrebbe potuto spiare anche solo qualche parola. Poteva essere un documento personale, ma dato quanto riservato sembrasse essere quell'uomo, Dazai aveva escluso la questione quasi subito dopo averla presa in considerazione. Qualcosa per passare il tempo era sembrata quella più esatta, per il semplice fatto che fino a quel momento non aveva mai visto Antonio Salieri muoversi senza che Deus gli desse un preciso ordine o lasciasse intendere che ce ne fosse stato uno dato in privato.


Per essere "personale", quel blocco doveva esserlo, solo non nel modo scontato che chiunque - compreso lui - si sarebbe aspettato: benché i fogli non fossero pentagrammati, Antonio aveva disegnato il pentagramma da solo e lo stava riempiendo di note. Non c'era alcun titolo e Dazai non avrebbe saputo leggerlo correttamente, quindi non aveva idea se si trattasse di un brano già esistente o di qualcosa che l'altro stesse componendo in quel momento a tempo perso. Di sicuro era peculiare pensare che un potenziale assassino, o qualunque cosa facesse per conto di Deus quando spariva, avesse anche la sensibilità artistica di un compositore.


Dazai aveva appena deciso di non punzecchiarlo sulla cosa, o almeno di non farlo per il momento, quando fu proprio Antonio ad alzare lo sguardo e puntarlo su di lui pronunciando un: «Quale risposta ti sei dato, Dazai?» sottintendendo, forse provocatoriamente per la prima volta, di aspettarsi ci fosse stata una domanda alla base di quello sguardo prolungato al foglio e alle note musicali che ospitava. Nonostante il tono fosse privo di inflessioni particolari, Dazai era certo che in quella richiesta ci fossero così tanti sottotesti che sarebbe stato divertente segnarli tutti proprio su un foglio come se fosse un compito in classe e chiedere poi al diretto interessato di controllare di averli azzeccati tutti. Invece Dazai si limitò a sostenere il suo sguardo, rivolgendogli un sorriso sbieco, tra il divertito e l'infastidito - piuttosto consapevole di saper rendere la prima emozione preponderante al punto da nascondere molto bene la seconda.


«Nessuna interessante, per il momento.» replicò, spostando la sedia opposta a quella di Antonio senza chiedere il permesso e prendendovi posto, facendo aderire la schiena alla seduta e incrociando mollemente le braccia al petto. L'occhio non coperto dalla benda non avrebbe abbandonato la figura di Salieri, ora come ora, nemmeno se glielo avessero imposto con una pistola puntata alla tempia - non che sarebbe stata la prima volta che qualcuno lo minacciava con un'arma, in ogni caso.


Salieri sostenne il suo sguardo per un po' e poi, decidendo che non ne sarebbe venuto fuori nulla fin quando Dazai non si fosse deciso a parlare di nuovo, lo portò ancora una volta sul blocco; Dazai lo vide impugnare la penna - il che gli suggerì, vista anche l'assenza di cancellature sul foglio, che l'altro si sentisse sicuro abbastanza delle sue conoscenze musicali da non temere di sbagliare e dover correggere - e riprendere a scrivere.


Una, due, tre note. O almeno gli sembravano tre, ma il punto ora non era imparare a leggere un pentagramma: era imparare a leggere Antonio Salieri.


«E' un peccato che Deus non ci abbia lasciato almeno un mazzo di carte: sono curioso di vedere come giochi, Salieri-san.» buttò lì, osservando l'uomo tenere lo sguardo basso per finire la sequenza che stava scrivendo. Dazai non era certo se fosse più corretto considerare quel tipo di atteggiamento come il disinteresse che in parte gli aveva già associato oppure se fosse un aspetto ancora più contorto nella sua semplicità: il non sentirsi affatto minacciato né fisicamente, né psicologicamente. Per l'esperienza di Dazai, se quell'ultima opzione fosse stata il caso di Salieri, avrebbe significato che la persona di fronte a lui era così al di sopra delle capacità di chiunque nella stanza - non solo ora che erano soltanto in due, ma anche quando erano tutti lì insieme - da non essere facile per lui considerare degno di attenzione chiunque altro.


Proprio mentre questo pensiero affondava le radici nella sua mente, Dazai lo vide alzare lo sguardo e puntare gli occhi su di lui: «Mi aspettavo più che proponessi gli scacchi, Dazai-kun.» pronunciò Salieri e per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Dazai poté osservare le labbra dell'uomo incurvarsi nell'accenno di un sorrisetto. Notò subito che non si estendeva affatto agli occhi, risultando l'espressione di un divertimento vuoto, quasi di riflesso. Quasi non fosse in grado di provarlo davvero.


Sentì un brivido percorrergli la schiena, in maniera non così diversa da quando - raramente - trovava di fronte a sé qualcuno di abbastanza interessante o che potesse essere un degno avversario. Aveva la sensazione di aver provato la medesima sensazione in un momento specifico e in una situazione particolare, eppure ancora non riusciva a mettere insieme tutti i pezzi al punto da capire con precisione chi gli ricordasse quell'uomo. Aveva però tutto il tempo per capirlo, se necessario.


«Perché no?» lo incalzò, osservandolo con tutta l'intenzione di lanciargli una sfida.


Se Antonio Salieri voleva una partita a scacchi per passare il tempo, chi era lui per non concedergliela?


*


Trovare una scacchiera non era stato difficile né lo aveva sorpreso scoprire che fosse il tipo di oggetto che fosse quasi scontato trovare in un luogo voluto e arredato da un uomo come Deus. Salieri, nel vederlo tornare con quella tra le mani, aveva sospirato piano spostando di lato il blocco e chiudendolo, così da non lasciare più alla mercé di chiunque quelle note musicali annotate lì sopra fino a poco prima. Dazai gli aveva lasciato scegliere se muovere i bianchi o i neri e Antonio non aveva fatto altro che rispondere con totale disinteresse che non gli importava; così Dazai gli aveva lasciato i bianchi, perché potesse muovere per primo e per vedere in che modo un uomo simile dava inizio a una partita.


Non c'era stata la fretta delle partite professionistiche, né Dazai aveva cercato qualcosa che potesse sostituire l'orologio utilizzato nei tornei ufficiali. Avevano continuato a fare le mosse con i propri tempi, a volte dilatati da qualche chiacchiera, perché per lui gli scacchi erano come bere qualcosa con qualcuno: c'erano infiniti dettagli che si potevano cogliere e lui non aveva intenzione di farsene sfuggire nemmeno uno. Sebbene, doveva ammetterlo, Salieri era un uomo complesso da inquadrare. Talmente silenzioso da rendere un'impresa titanica più il tirargli fuori le parole che interpretarle o leggervi davvero qualcosa più del semplice significato linguistico.


«Tutti sembrano essere arrivati qui in coppia, a parte il famigerato J.» pronunciò Dazai dopo aver mosso un pedone sulla parte laterale della scacchiera, in un gesto di poche pretese «Jane e Jun. I due fratelli. Tutti tranne te.» sottolineò.


«E te.» fu la replica di Salieri, mentre gli occhi si spostavano pigramente sulla scacchiera per decidere la propria mossa successiva. Dazai sbuffò appena: «Forse questo ci accomuna, ma non credo ci renda uguali.» sottolineò, osservandolo muovere un pedone dalla parte opposta rispetto a quello della propria ultima mossa. Di nuovo, Salieri non alzò subito lo sguardo ma rimase in silenzio per qualche istante prima di restituire il contatto visivo a Dazai.


«Non lo siamo, infatti. Sarebbe strano se un adolescente fosse sullo stesso piano di uno come me.» osservò l'aspetto più scontato, eppure l'executive della Port Mafia capì che non era casuale o tanto per porre l'attenzione sulla differenza di età. Comprese che nelle parole altrui non ci fosse un significato superficiale dal modo in cui Salieri lo guardò. Per questo attese qualche istante a rispondergli, soppesando la cosa: «Su quale piano è uno come te, quindi?»


Salieri sbuffò piano, di nuovo un'espressione che non si estese allo sguardo. Dazai trovava quel particolare interessante e più degno di attenzione di quanto forse lo avrebbero considerato altri. Il fatto che qualche emozione ogni tanto stesse iniziando a riflettersi almeno nel modo di parlare, significava che l'altro non era una persona anaffettiva o incapace di provare le cose; il modo in cui però non si appropriasse neanche una volta di tutto il viso, invece, dava a Dazai segnali contrastanti. Era abbastanza sicuro che non fossero emozioni simulate, quindi doveva esserci qualcosa di più profondo. Cosa o se fosse un aspetto che sarebbe riuscito a svelare con un'unica partita a scacchi, questo Dazai non avrebbe ancora saputo dirlo.


«Pensavo ti piacessero gli enigmi, Dazai-kun. E' l'idea che mi hai dato finora.»

«Dipende, alcuni sono tremendamente noiosi e io mi annoio molto facilmente.» rimbeccò, consapevole di suonare arrogante e non che gli interessasse nemmeno troppo l'opinione di gente che sembrava essere stata messa insieme solo perché erano un gruppo di disadattati - lui compreso, a seconda dei punti di vista. Era ancora piuttosto convinto che Deus avesse preso un grosso abbaglio con lui, sebbene si fosse ben guardato dal farglielo notare visto che era tutto a proprio vantaggio, ma almeno a uno sguardo superficiale non aveva alcun dubbio su come quel gruppo costruito dal nulla e senza quasi nessuna base solida potesse apparire.


Comprendendo che non avrebbe avuto subito una replica, Dazai si concentrò sulla mossa da fare. Un'occhiata alla scacchiera gli suggerì che per quanto avessero già fatto più di qualche azione a testa, non ci fosse ancora troppo per evincere della personalità di Salieri. Era come se in fondo si stessero studiando alla lontana, per decidere come colpire più forte possibile. Con un sorrisetto, decise di muovere il cavallo portandolo leggermente verso il centro della scacchiera rispetto alla posizione di partenza.


L'uomo sembrò in qualche modo colpito dalla cosa, per quanto fosse una reazione più tiepida di quella che avrebbe avuto una persona normale. Lo vide soppesare la cosa, con un pizzico di interesse in più rispetto a quanto mostrato finora; Dazai stesso riportò lo sguardo sul gioco, chiedendosi quale filo di pensieri potesse star seguendo l'altro per aver trovato proprio quella mossa - e nessuna delle altre precedenti - degna di qualcosa di più di un volto impassibile. Forse l'aggressività? Eppure Dazai era ben consapevole di essersi trattenuto.


«Dobbiamo davvero farci domande da chiacchiere in un bar?» lo punzecchiò, attirando la sua attenzione e vedendolo distoglierla dal gioco. Capì quasi subito che stavolta non lo stava studiando come si sarebbe potuto fare con un avversario, né lo stava studiando in generale - non come stava facendo Dazai, di sicuro. Era più come se Salieri avesse davanti un bambino in cui vedeva qualcosa, ma non una minaccia, né un mistero da svelare, solo una giovane mente che per ovvie ragioni poteva solo approcciare e pensare in modo del tutto diverso dalla sua. Per quanto Dazai non amasse particolarmente l'idea di essere sottovalutato per l'età, dal momento che era abituato proprio al contrario, si astenne da commenti di sorta per non troncare a metà una eventuale risposta dall'altro. Una che impiegò un po' ad arrivare, ma senza diventare assente ingiustificata in una conversazione che per quanto fosse bravo non poteva continuare a portare avanti da solo.


«Qual è il tuo più grande talento, Dazai?» chiese Salieri, non senza colpirlo un poco. Non aveva chiesto "pensi di avere un grande talento" o "quale credi possa essere un tuo talento". Aveva posto quella domanda dando per scontato che dovesse per forza essercene uno e Dazai sospettava non fosse solo una questione di associazione al suo essere stato scelto da Deus. In una certa misura era ovvio che ognuno di loro fosse utile alla causa di quell'uomo, ma quello era da ricercarsi nelle loro abilità speciali. Non era un caso, dopotutto, che ne avessero tutti una. Salieri tuttavia l'aveva posta in un modo che a Dazai era suonato leggermente diverso, uno che esulava da quel tipo di capacità. Lo portò a chiedersi, forse per la prima volta, se avesse il tipo di talento che Salieri andava cercando in lui in questo momento tanto da sembrare dimentico di dover fare la propria mossa. O forse l'aveva appena fatta con quella domanda.


«Nessuno degno di una persona decente.» replicò «Tutti piuttosto affini a chi ha fatto scelte che molti non farebbero.» aggiunse, osservandolo. Salieri non sembrava colpito: la totale assenza di rifiuto per qualcosa che andava contro la morale diceva già tutto. Era una persona che, come avrebbero amato dire i più romantici, aveva guardato l'Abisso in fondo abbastanza da aver rischiato di perdersi dentro di esso e di non poter raccontare di essere stato fissato di rimando.


Salieri si limitò a un «Mh.» iniziale, decidendosi finalmente a fare la propria mossa - un ulteriore avanzare di uno dei pedoni, mangiandone uno dei suoi - per poi riportare lo sguardo sulla figura di Dazai: «Quindi non hai nessun interesse oltre quello che fai per sopravvivere.» decretò, ma non c'era giudizio nel suo tono di voce. Suonava solo come un'osservazione, una deduzione logica da quanto ascoltato fino a quel momento e Dazai non sentiva di potergliene fare un torto. Se l'uomo davanti a lui sembrava più che capace di celare le emozioni, Dazai era sicuro di essere bravo quanto lui a lasciare nascosto ciò che voleva restasse celato. Perciò non avendo fatto altro che dirgli e mostrargli solo ciò che sarebbe stato deducibile per chiunque, non era una sorpresa che fosse giunto a quella conclusione - non era nemmeno sbagliata, oltretutto.


«Immagino tu intenda cose come la musica» pronunciò Dazai con un cenno del capo verso il blocco spostato di lato in precedenza, fissando Salieri con l'insistenza di chi non aveva alcuna intenzione di perdersi una reazione, soprattutto quando era certo ne avrebbe avuta una «quindi no, non ne ho.» aggiunse più blandamente, come se fosse un in più poco importante rispetto al resto. Salieri non sobbalzò di sorpresa, non si mise sulla difensiva, non lo guardò con l'astio di qualcuno colto in flagrante e in fondo non aveva fatto nulla per nascondere quel blocco pentagrammato a mano fin dall'inizio. Eppure quel che Dazai vide formarsi sul viso dell'uomo lo lasciò più confuso di quanto avrebbe fatto qualsiasi di quelle altre reazioni prevedibili. Per la prima volta e proprio quando non pensava nemmeno di essersi sforzato particolarmente per ottenerlo, Salieri mostrò un vero cambio di espressione: i suoi lineamenti adulti si piegarono fino a mostrare un'espressione sulla quale Dazai non avrebbe mai scommesso.


Quella era un'espressione di pura adorazione. Dazai non avrebbe saputo se accostarla più alla devozione di un fedele per il suo Dio o a quella di un uomo per l'unica persona che reputi degna tra tutte quelle di cui ha incrociato il cammino. In entrambi i casi, comprese che Salieri era più pericoloso di quanto chiunque potesse aver pensato e forse anche più di quanto lo stesso Deus avesse immaginato: perché un uomo con quella devozione avrebbe fatto qualsiasi cosa per l'oggetto della sua adorazione. Anche tradire chi gli aveva promesso ciò che desiderava di più, salvo che quel desiderio non fosse la persona stessa.


Perché di quello Dazai era certo al cento per cento, ora: non poteva essere solo la musica. Doveva essere un mezzo, un tramite, qualcosa che gli ricordasse la persona in questione o la rappresentasse in un modo che Dazai avrebbe potuto solo cercare di indovinare - ma le possibilità erano molte più di quanto potesse sembrare a una prima analisi.


Non poté fare a meno di offrire un piccolo vantaggio su di sé anche lui, mostrando a Salieri un'espressione molto meno pura: quella di una persona che aveva appena visto qualcosa di estremamente sgradevole ma anche esilarante. Dopodiché, senza apparente senso, scoppiò a ridere.


Anche Salieri dovette esserne sorpreso, perché la sua espressione tornò più simile a quella di sempre - una da cui non si tirava fuori un solo pensiero dell'uomo - ma con una vaga sfumatura di confusione o curiosità. Era difficile distinguerli.


«Non è la risata di una persona sinceramente divertita.» gli sentì sottolineare, seppur senza astio o accusa di alcun tipo. Dazai, che si era portato una mano al viso per celare un poco la risata pur senza preoccuparsi di farlo completamente, abbassò la mano per avere di nuovo completa visione dell'uomo: «Oh, ma io sono divertito!» assicurò «E' solo così inaspettato che proprio tu abbia una cosa del genere!»


Salieri fece un'altra cosa che non aveva mai fatto prima: sospirò, ma con al rassegnazione più sostenuta di un adulto con un bambino, consapevole di non poter pretendere un atteggiamento diverso da quello a cui sta assistendo ma senza davvero condannarlo. Diede a Dazai l'idea che fosse abituato a essere con persone più giovani o che forse lo fosse stato fino a prima di unirsi al gruppo di Deus: «Tocca a te.» pronunciò invece, accennando alla scacchiera.


Dazai, senza nemmeno degnare più di qualche secondo di attenzione l'oggetto, allungò una mano spostando un alfiere in una mossa ancora più aggressiva della precedente senza che questa decretasse ancora alcuno scacco. La partita non poteva né doveva essere così corta, dopotutto.


«Non mi domandi cosa intendo?»

«So bene cosa intendi.» replicò Salieri senza farlo attendere, benché gli occhi stessero analizzando come procedere dopo quell'attacco da parte dell'alfiere «Aspetto solo che tu pronunci un'affermazione diretta. Supponendo tu ne sia più che capace, quando la persona davanti a te non ti sta privando delle risposte, il che significa non avere alcun bisogno di indagare come fai con tutti gli altri.» chiarì l'uomo e Dazai non poté che inclinare le labbra in un sorriso ferino. Quindi il signor Salieri non era così disattento, proprio come aveva supposto dall'inizio. Se si sentisse a suo agio con uno come Dazai perché abituato o perché si sentisse al di sopra non gli era ancora del tutto chiaro ma, mentre la sensazione di aver già avuto a che fare con qualcuno del genere si faceva ancora più pressante, aveva intenzione di scoprirlo entro la fine di quella partita.


Fischiò con ammirazione, quasi a complimentarsi per averlo notato: «E pensare che cercavo di essere sensibile e avere tatto» mentì, senza alcuna pretesa di essere creduto visto quanto poco si stesse impegnando a risultare credibile «mi domando come mai nessuno lo apprezzi mai, considerando quanto sia raro io lo faccia.» commentò, senza che fosse davvero importante e Salieri sembrò non farsi distrarre da quel breve, inutile sproloquio.


Dazai puntò l'unico occhio non coperto dalla benda in quelli dell'uomo, sorridendogli di un'affabilità piuttosto falsa; era più la voracità di chi aveva davanti la preda perfetta e l'unico motivo per cui non la divorava era che fosse fin troppo divertente continuare a giocarci per privarsene così in fretta: «Quale persona si merita la devozione di un uomo che non mostra la minima emozione di fronte a nulla? Non di fronte a ragazzini che sono stati portati qui contro la propria volontà» iniziò a elencare, facendo un cenno vago verso la scrivania più vicina alla porta d'ingresso, quella dove in genere si fermavano Jane e Jun durante i loro "turni" «non di fronte a due fratelli con evidenti problemi di connessione con la realtà che di sicuro non fanno nulla di sano tra il sonno di uno e la veglia dell'altro» continuò, con un cenno stavolta verso i computer dai quali si erano allontanati Wilhelm e Jacob «senza menzionare il misterioso J, a cui basta passare vicino una volta per sentire quanto puzzi di cadaveri.» concluse, osservandolo e sicuro del fatto che Salieri non avrebbe frainteso la frase sui cadaveri come una semplice offesa per il cattivo odore di qualcuno, ma come la precisa indicazione di come Dazai stesso sapesse che qualunque cosa facesse quel dottore non era su persone vive. O che sarebbero rimaste vive alla fine del trattamento.


Salieri lo osservava, forse aspettandosi qualcosa; Dazai lo apprezzò, perché non aveva finito: «Ma soprattutto perché la persona a cui sei devoto non è abbastanza da evitarti di sottostare a qualsiasi cosa Deus abbia in mente, va oltre la mia comprensione per il momento.» una specifica necessaria, anche solo per principio «Sono indeciso: ti ha promesso di fartela incontrare di nuovo e per questo gli fai da cagnolino, oppure ti ha minacciato di farle qualcosa se tu non avessi fatto da cagnolino? Illuminami, Salieri-san. Spero la risposta mi intrattenga più della partita a scacchi che stiamo facendo.» concluse, lasciando la mossa a lui proprio come nella partita che dubitava avrebbero finito.


L'uomo non aveva ancora battuto ciglio da quando Dazai aveva cominciato a parlare con affermazioni ben più decise e pressanti di prima. Eppure, si concesse uno sbuffo divertito e uno scuotere lieve della testa - ma quel divertimento non era dato dall'ilarità. Era il divertimento arido di un disperato.


«Nessuna delle due cose, Dazai.» replicò in un primo momento «Non ho nulla da guadagnare, come non ho nulla da perdere. Nulla che abbia a che fare con la mia devozione, come la definisci tu.» precisò, abbassando gli occhi sulla scacchiera e muovendo la torre. Dazai occhieggiò la mossa con interesse, perché era come aver appena visto un coniglio togliersi di dosso il costume e rivelarsi una volpe. Non mosse a propria volta, preferendo tornare a scrutare il volto di Salieri.


«Quelli come me, dopotutto, sono raramente fortunati abbastanza da avere quello che tu definisci "una possibilità". Poco importa questa sia di rivedere qualcuno di perduto o di evitare di perderlo in prima battuta.» disse Salieri, spostando gli occhi cremisi verso il blocco pentagrammato.


Dazai tacque. Sapeva riconoscere un indizio quando gliene presentavano uno e sapeva anche che poteva essere la chiave di svolta per individuare quella fastidiosa sensazione di avere di fronte qualcuno di già visto, già conosciuto. Continuava a sfuggirgli in modo a dir poco irritante, perciò se Salieri gli stava offrendo una soluzione più o meno su un piatto d'argento, Dazai non aveva intenzione di farsela sfuggire.


Passò mentalmente in rassegna le persone con cui aveva avuto modo di interagire, escludendo da principio chiunque avesse incrociato il suo cammino prima della Port Mafia e, subito dopo, tutti quelli che non avevano lasciato questa grande impressione al punto da ricordarne almeno il nome senza uno sforzo di memoria. A rimanere erano ben pochi individui e di sicuro sentì di poter tenere fuori anche i pochi che aveva conosciuto al di fuori del proprio ambiente, certo che la "fortuna" di cui l'altro parlava non sorridesse a chi faceva scelte di vita capaci di portare qualcuno ben lontano da un cammino "nella luce" anziché nell'ombra.


Il suo primo pensiero andò a Mori Ougai. Un uomo che aveva mostrato un cinismo che si discostava poco dalla follia eppure rimaneva appigliato alla genialità senza mai sfociare in modo definitivo nell'alternativa. Salieri però non aveva granché di ciò che distingueva Mori, a cominciare dal fatto che la sua devozione aveva una connotazione incredibilmente pura di cui dubitava il suo ex boss sarebbe mai stato capace. Subito dopo, ebbe una veloce immagine di Nakahara e per quanto ci fosse qualcosa che glielo ricordava molto vagamente, era come il sentore che Salieri potesse essere stato simile a lui in qualcosa... ma almeno vent'anni, forse trent'anni prima addirittura. Era l'ombra di una gioventù che non c'era più, di una inconscienza tipica di una persona senza esperienza e senza granché da perdere - per quanto lo stesso Salieri si fosse definito come qualcuno a cui Deus non poteva togliere chissà cosa, Dazai aveva il sentore che non fosse proprio la stessa cosa. Nakahara era il più grande concentrato di rabbia e istinto che avesse avuto la sventura di incontrare sul proprio cammino, mentre Salieri sembrava tutto tranne che in grado di lasciarsi andare alle proprie emozioni o di sicuro non con quella frequenza e facilità. Sembrava anzi estremamente equilibrato, persino più di un normale adulto.


Dazai, osservandolo, aveva avuto in un paio di occasioni la percezione che l'equilibrio raggiunto da Salieri fosse uno artificiale, ossia uno guadagnato con le esperienze e piegando un carattere altrimenti diverso. E per quanto spesso si preferisse pensare il contrario, Dazai era piuttosto certo ci fossero poche esperienze davvero capaci di piegare un'indole al punto da renderla quasi l'opposto di ciò che era in principio: qualcosa di così totalizzante da rendere inermi, quasi paralizzati. La perdita, aveva imparato guardando morire più persone di quante potesse ricordarne, era l'emozione che insieme al terrore aveva reso più immobili i suoi avversari e i nemici della Port Mafia. Non importava quante cose si fossero fatte, quanti combattimenti o scontri si fossero affrontati, qualsiasi uomo di fronte alla giusta perdita o al giusto moto di paura diventava semplice da uccidere come un bambino. Quel tipo di emozione divorava qualsiasi altra cosa - il coraggio, la forza, persino la crudeltà.


Salieri doveva aver subito qualcosa del genere. Anni prima, molti anni prima, perché sembrava al tempo stesso ammantato della rassegnazione che solo chi ha già fatto tutto quanto in suo potere senza ottenere risultati poteva accogliere senza opporsi alla ricerca di un'ultima, vana speranza.


Se solo Dazai avesse avuto un ultimo indizio, quell'ultimo ma imprescindibile pezzo di puzzle...


«Dazai» lo richiamò Salieri, nonostante non fosse davvero necessario visto che non aveva mai smesso di guardarlo dalla sua frase precedente. Fu certo, già solo guardandolo, che non fosse un richiamare la sua attenzione come se avesse il dubbio di averlo perso tra mille ragionamenti. Salieri lo esortava a osare, a pronunciare un verdetto che Dazai sentiva di avere ma non nella sua totalità «eppure tu, più di tutti, non sei stato altro che circondato da quelli come me nell'ultimo anno. Così diceva Deus.»


Qualcosa lo gelò, per quanto non lo diede a vedere, imponendosi di mostrare solo uno sguardo indagatore. Non il fatto che Deus potesse avere informazioni su di lui al punto da dire a qualcuno con chi avesse avuto a che fare, perché era una cosa piuttosto scontata: nessuno avrebbe riunito persone che non si conoscevano tra loro e che non avevano una storia comune, per renderli parte del proprio grande piano, senza prima conoscerli nella misura necessaria a controllarli o almeno a farlo più possibile. Se poi Deus si fidava di Salieri al punto da rivelare alcuni dettagli, la cosa rientrava ancora nella misura di ciò che Dazai aveva se non dato per assodato, almeno previsto o ipotizzato. No, il gelo di Dazai in quel momento fu dovuto alla comprensione. A quel tipo di illuminazione che i saggi dicono di raggiungere a un certo punto della loro vita, quella capace di cambiare intere esistenze come un'apparizione.


L'ultimo anno, era un'indicazione temporale incredibilmente specifica e purtroppo per lui non lasciava spazio a molti dubbi. Nell'istante in cui se ne rese conto, fu come se uno specchio buttato a terra con rabbia e spaccato in miliardi di schegge di vetro impossibile da rimettere insieme si fosse appena riformato sotto i suoi occhi come per magia, rimandandogli indietro un'immagine perfetta con la propria superficie riflettente. Purtroppo l'immagine che gli rimandava indietro non era la propria e meno ancora quella di qualcuno di gradito - non era nemmeno quella di qualcuno, ma di qualcosa. Una creatura che chiunque avrebbe definito mostro anche solo guardandola, una potenza al pari di un cataclisma naturale che era quasi impensabile fosse racchiusa anche solo per un secondo nel corpo di un unico uomo.


Dazai non poté ricacciare indietro abbastanza veloce le parole che aveva sentito pronunciare una volta come se venissero pronunciate dalle viscere della terra stessa - lascia che mostri loro l'odio di una creatura non umana, il vuoto di un essere nato senza la benedizione di Dio. Gli mostrerò l'inferno assopito nel profondo del mio vero essere, nella mia stessa essenza-- e nel profondo della mia anima.


Lunghi capelli biondi in una treccia a poggiare morbida sulla spalla, occhi chiari come il cielo e un fetore putrido al proprio interno, ormai rinchiuso in un luogo simile alle segrete di un castello e che altro non era che la prigione autoimposta di un sotterraneo.


«Paul Verlaine.» pronunciò Dazai, fissandolo. Salieri non sorrise soddisfatto, non storse il naso, non mostrò il piacere di sentir pronunciare un nome che per forza di cose doveva essergli almeno un minimo familiare. Eppure quel silenzio fu comunque una conferma.


Dazai capì che la sensazione avuta fino a quel momento era quel brivido vago di chi si rende conto a livello inconscio di avere vicino una bomba pronta a esplodere, l'esperimento proibito che nessuno dovrebbe mai compiere e che a quanto sembrava non era stato portato avanti una volta, non due, ma ben tre.


Di fronte a lui, c'era la terza Singolarità che il mondo non sapeva nemmeno cosa fosse e che se anche lo avesse saputo, non avrebbe potuto contrastare in alcun modo. E lui, Dazai, non poteva far altro che chiedersi quanto folle e studiato fosse il piano di Deus o il suo obiettivo se teneva un uomo che da solo avrebbe potuto distruggere il mondo intero anche solo per capriccio come se fosse un innocua compagnia per i momenti di noia.


«E' uno dei nomi con cui so essere stato conosciuto uno come me.» confermò Salieri, facendo grattare la sedia indietro e alzandosi. Dazai non degnò di uno sguardo la scacchiera, comprendendo che la partita non era mai stata destinata a essere conclusa fin dall'inizio e che forse era stato oggetto di studio più di quanto pensasse quando si era seduto per propria scelta di fronte all'uomo. Lo vide recuperare il blocco e la penna, capendo che cercare di trattenerlo al momento sarebbe stato inutile e forse andava bene così: aveva bisogno di raccogliere le informazioni, per capire cosa farne e soprattutto come considerarle singolarmente e nella loro interezza.


Lo osservò allontanarsi, senza alcuna parola di congedo.


Proprio quando pensava che avrebbe semplicemente sentito la porta aprirsi e richiudersi, Salieri lo richiamò con un ennesimo «Dazai?» che gli fece alzare lo sguardo. Finì per incontrare quello duro di chi avrebbe potuto distruggere chiunque e qualunque cosa sul suo cammino in quel preciso istante e comprese che l'unica cosa a muovere quell'entità che gli stava di fronte era una disperazione così cupa da aver fatto più che logorarlo.


Aveva divorato qualsiasi briciola di umanità una cosiddetta Singolarità potesse avere.


«Il cammino che percorri ha solo una fine. Da quella non si torna indietro e tutti quelli come me l'hanno già percorso.» fu l'unica cosa che Salieri pronunciò prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle lasciandolo solo. Del vociare all'esterno gli suggerì che i fratelli stessero tornando.


Abbassò lo sguardo sulla scacchiera e pensandoci, Dazai comprese che c'era molto di più del piano di Deus.


Se la distruzione indiscriminata avesse avuto un volto, quello sarebbe stato senza dubbio il volto di una Singolarità e il suo nome sarebbe stato Antonio Salieri.

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Prompt: lettera/diario personale

Missione: M1 (week 1)
Parole: 1760
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: accenni più o meno velato al tema della morte, del suicidio e alla violenza in generale





Le lettere sono una cosa sciocca, Odasaku. Le persone suppongono di poterne scrivere per mantenere un legame con chi è lontano fisicamente e si illudono possa essere il sostituto di una quotidianità che per un motivo o per un altro non avranno mai più. Non la trovo una cosa intelligente.


Sembra che queste persone, che io definisco disperate ma tu etichetteresti come speranzose, ci credano davvero. C'è chi scrive persino ai morti e non so come si possa ascoltare qualcuno dirlo credendoci e non ridergli in faccia, ma immagino tu ci riusciresti. Se hai raccattato uno mezzo morto dalle scale di casa tua, quando il pensiero più comune e scontato sarebbe stato quello di non immischiarsi negli affari di qualcuno che non avrebbe portato a nulla di buono, perché non dovresti legittimare qualcosa di sciocco solo perché dà conforto a qualcuno?


Scriverti non ha niente di terapeutico, comunque. Non ho nemmeno molto da dirti, poi. Mi è solo venuto in mente di averne parlato una volta con quello che teniamo alla Port Mafia come le famiglie normali e - presumo - funzionali tengono gli scatoloni con le cose passate nello scantinato. Lettere, su lettere, su lettere. Ne ha scritte così tante da riempirci scatoloni che tiene impilati con lo stesso maniacale ordine con cui gli assassini tengono le loro armi - pulite, come se poi fossero il vestito buono da cerimonia. Non l'ho mai capito questo attaccamento alle armi se non per il fatto che debbano funzionare quando servono e per il resto tenere in mano la pistola di un sottoposto o quella di Hirotsu-san non è mai stato poi così diverso per me. Forse è perché alla Port Mafia ero circondato di persone che hanno sempre visto qualcosa di onorevole e romantico nella nostra missione: c'era davvero, Odasaku? Qualcosa di romantico e onorevole che solo io non sono mai stato in grado di trovare e che tu forse hai intravisto dalla prima volta? Ancora oggi c'è una cosa che, in effetti, vorrei chiederti: cosa vedono vedevano gli occhi di uno come te? Chissà cosa hanno visto, soprattutto, quando ero mezzo morto sulle scale che portavano a quell'appartamento discutibile che ti ritrovavi.


Cosa vuoi che ti dica, Odasaku? E' un giorno come un altro. Le lettere devono raccontare cosa c'è di nuovo? Non c'è niente di nuovo. E visto che tanto non c'è nemmeno nulla da spedire, né una risposta da aspettare, più che una lettera sentita questa può solo diventare un foglio di carta dove scrivere qualcosa che mi viene in mente.


Pensavo: se scrivo una volta ogni tanto, può paragonarsi al compito che mi darebbe uno di quegli illustri medici pieni di empatia che pensano di poter migliorare la tua vita quando ti mettono a posto la testa o ti danno uno strumento per lasciare fuori i pensieri intrusivi?

Pensa se ci provassero col sottoscritto. Saresti il primo a dire che poi avrebbero bisogno anche loro di qualcuno con cui parlare.


Fai del bene, mi hai detto. Impara a stare nella luce.

E a te dove ha portato, la luce, Odasaku? Oltre che tre metri sotto terra.


Mi è capitato per caso di intravedere Akutagawa con Hirotsu per le strade di Yokohama. Akutagawa ha ancora il difetto fatale di sembrare un cucciolo randagio che ha bisogno di un padrone a tirargli il guinzaglio. Ho pensato, in fondo non è più un mio problema. La Port Mafia non lo è più. Lo sarà quando Chuuya proverà a farmi fuori - e non sarei nemmeno contrario al concetto di per sé, non fosse che non ci tengo a una morte lenta e dolorosa. Nemmeno a una gloriosa, per la verità, perché sa di qualcosa per cui ci si deve impegnare e non c'è molto nella vita che mi faccia ancora venire voglia di impegnarmi, Odasaku. Ma questo non è cambiato rispetto a quando c'eri ancora.


Questo è il terzo foglio di una lettera senza un destinatario fisico. Ho iniziato cinque mesi fa a scriverla quindi suppongo sia evidente che non sono mai stato io, quello adatto alle parole su carta. Sono passato dalla tua tomba e c'erano un paio di ragazzini, mai visti prima, forse lì ad accompagnare i genitori. E' stato strano vedere dei mocciosi proprio vicini alla tua lapide, perché sa di cosa che in fondo bisognerebbe aspettarsi, da uno come te. Persino da morto. Così mi sono ricordato casualmente di avere la lettera chiusa nel cassetto.

E' molto facile scordarsi di te, Odasaku. Anche raccontarsi di saperlo fare lo è.


Guardando negli occhi un uomo come Fukuzawa Yukichi ci si possono chiedere solo due cose: se esista qualcuno capace di mentirgli bene abbastanza da ingannarlo e impedirgli di guardarti dentro come se fosse la cosa più semplice del mondo è la prima. La seconda è se uno a cui Mori Ougai ha detto “mi ricordi me” sia adatto a parlarci. Ti viene da chiederti chi la spunterebbe dai due e ti dirò, Odasaku, trovo divertente non avere una risposta certa e almeno dieci possibili modi in cui la conversazione potrebbe andare lì a girarmi per la testa. Fukuzawa ti guarda in un modo che apprezzeresti: diretto. Io lo detesto. Sa di un uomo di ideali, poco importa che sia evidente come sia passato dall’Inferno - e allora, mi chiedo, come si esce dall’Inferno credendo ancora di avere qualcosa per cui vivere?
Quando l’ho guardato ho anche pensato: Odasaku lo avrebbe seguito. Lo avresti fatto in modo diverso da come hai fatto con me, da come hai fatto con Mori-san. Lo avresti seguito nel modo in cui fa un uomo per bene e, ne sono sicuro, staresti ancora a calpestare questa terra.


Si potrebbe dire tu abbia fatto scelte sbagliate a seguito di incontri sbagliati, Odasaku?

Si potrebbe dire che la tua incapacità di lasciare soli i casi disperati ti abbia portato alla rovina?

Si potrebbe dire, per essere più filosofici, che hai guardato l’Abisso troppo in fondo e quello anziché guardarti indietro ti abbia ingoiato tutto intero come la più semplice delle prede?

Potevi risparmiartelo.

Potevi scegliere altro.

Dovevi andartene dovevi salvarti dovevi morire morire morire morire

Fa ridere come le tragedie teatrali scritte da autori da quattro soldi, lo sai vero?


Edogawa Ranpo è un genio racchiuso nel corpo di un giovane uomo e intrappolato nel comportamento di un ragazzino di quattordici anni. Lo avresti adorato.

Lo detesto.


Sai cosa non capisco, Odasaku?

Come può uno che vede il futuro morire come il più inutile degli esseri umani.


Avevo deciso di saltare la visita alla tua tomba, poi Kunikida ha sentito il bisogno di farmi la morale sull’importanza di ricordare i morti. Ho deciso che sarò il suo incubo in terra così, magari, troverò qualcosa di abbastanza divertente da fare per una settimana.


Te lo immagini, Odasaku? Ango si fa ancora vedere al bar Lupin, ogni tanto. Così mi hanno detto. Farebbe quasi ridere, se tu potessi vederlo coi tuoi occhi.


So che c’è una quantità di alcolici sufficiente a farti andare in coma etilico e, se poi sei particolarmente sfortunato, a farti anche morire. Il mio problema è quanto poco apprezzo la perdita di controllo, oltre a trovarla poco intelligente. E’ proprio vero quando dicono che l’ignoranza e la stupidità sono una benedizione; a quelli come me rimane solo di essere del tutto consapevoli che non importa quanto alcol beva, mi fermerò sempre prima di perdere lucidità e questo non sarà mai abbastanza a scordarmi che Oda Sakunosuke ha camminato su questa terra. Ci crederesti? Potrei fare pena persino a Mori-san, se leggesse queste parole su una carta che le vedove macchierebbero di lacrime e che io invece ho solo accartocciato troppe volte perché sia comodo scriverci ancora su.


Vorrei


L’Agenzia è quel posto che per chi è stato abituato a


Cosa mi risponderebbe Mori-san se gli chiedessi di nuovo


Odasaku, quando mi hai detto non sarei stato in grado di colmare quel vuoto era un consiglio o era una vendetta? A volte credo tu mi abbia maledetto per il resto dei miei giorni A volte penso di sapere la risposta, altre no.


Arriverà un momento in cui butterò questo foglio.
Un attimo in cui vincerò ogni pensiero logico nella mia testa ma, soprattutto, ogni fastidiosa e superflua emozione che dovrebbe rendermi umano, quello che non sono mai stato ma tu hai insistito col farmi diventare. In giorni come questo, Odasaku, quelli senza rilevanza particolare se non di essermi svegliato e aver avuto la sfortuna di un pensiero fisso scatenato dalle più insulse piccolezze della quotidianità, penso a quando possa essere successo. Poi lo realizzo: è stato lento, inesorabile, un veleno iniettato con noncuranza e che non ha fatto altro che farmi marcire dentro e costringermi a diventare qualcosa di diverso. E’ una seconda pelle in cui mi hai imposto silenziosamente di entrare, costringendomi a una muta che non avevo preventivato. E’ un’eredità non richiesta che non sono in grado di gestire e che tu mi hai messo tra le mani, impedendomi di rifiutarla.
Non c’è niente di peggio di un lavoro lasciato a metà, Odasaku. Pensavo che uno sopravvissuto tra i ranghi della Port Mafia lo sapesse.


Quanta ironia c’è in me che raccatto sulla riva del fiume - se volessimo metterla nel modo romantico che tanto avresti saputo apprezzare tra le pagine di un libro - un orfano? Questa sarebbe stata una cosa da te.
Atsushi-kun sarebbe stato una cosa te.
Sareste stato il duo più stupido di tutta l’Agenzia e quello che alla fine, rischiando anche troppo per persone di cui non sappiamo quasi nulla se non le tragedie, avrebbe salvato la situazione. E le persone. 

O sareste morti come i due troppo umani che siete.


Sono mesi che non riprendo questa lettera che ormai non ha nemmeno molto senso scrivere, visto che quel che c’è da dire, tendo ormai a raccontartelo quando vengo a trovarti.
Ma mi è tornata in mente mentre Kunikida-kun continua a chiamarmi al telefono per urlare di essere qui sotto ad aspettarmi– come se non lo sapessi. E’ solo divertente farlo arrabbiare, cosa posso farci?
Mi ha fatto pensare a come, più passano gli anni, più credo che questo posto sia come qualcosa che tengo da parte per te, per un giorno in cui verrai a riprenderti qualcosa che mi hai solo lasciato temporaneamente perché la curassi al posto tuo. Lasciami dire, Odasaku, che la tua fiducia non è esattamente ben riposta.

Dopo anni, però, credo di essere un passo più vicino a quello che hai visto e che io ancora non riesco a inquadrare del tutto.


Sai cosa penso, Odasaku? A come, ora, so che potrò finalmente in–


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Prompt: Leone
Missione: M12
Parole: 1091
Warnings: kindergarten!au, sensei!Kunikida




Portiamo i bambini allo zoo, dicevano. Sarà una bella esperienza formativa, dicevano.
Kunikida non pensa di meritarsi una cosa del genere, invece. Non pensa di aver studiato per formare giovani menti e ritrovarsi con piccoli cuccioli d’uomo dalle più disparate personalità che potrebbero morire in qualsiasi momento per la cosa più assurda.
«Sensei! Poe non vuole venire via dalla gabbia!» sente strillare a troppi decibel di potenza per non attirare la sua attenzione - e non far sanguinare le sue orecchie -, così da farlo voltare. Edogawa Ranpo è un bambino carino quando è impegnato a leggere qualcosa o a interessarsi a dettagli che non crede sia sano un bambino noti, ma se a volte serve a farlo stare buono va bene. Purtroppo, molto spesso, a impegnarlo è il piacere perverso di tormentare il suo compagno di classe più silenzioso (qualità molto apprezzata e molto rara), Poe. Il povero ragazzino, di cui Kunikida crede di ricordare a stento la voce per quanto poco si esprima fra timidezza e indole tranquilla, è del tutto a suo agio lì davanti alla gabbia a osservare l’animale meno spettacolare della terra: un procione.
Doppo inspira, cercando di farsi forza, e si accosta a Poe; il piccolo, già sentitosi chiamare in causa fin troppo, alza lo sguardo con l’aria di chi vorrebbe già scusarsi mille volte o, in alternativa, nascondersi sotto terra.
«Al ritorno passeremo di nuovo davanti al tuo amico, Poe-kun.» pronuncia con austera delicatezza - che non è sicuro esista, ma Yosano ci ha tenuto a specificare come sia l’unica descrizione possibile della sua persona - e il bambino sembra quantomeno convinto a permettere a tutta la classe di proseguire.
«Sensei» lo richiama, addirittura, con fare timido ma pieno di speranze «da grande posso tenere un procione a casa?»
Perché il suo gruppo deve essere il più strano. Perché.


Nonostante le stranezze la giornata sembrava quasi destinata a finire bene, se non fosse che di punto in bianco Oda Sakunosuke, il bambino preferito di Kunikida che preferenze non ne mostra, ma apprezza il suo essere l’esatto opposto di un cinquenne che fa solo danni, richiama la sua attenzione.
«Kunikida-sensei» dice, l’espressione non troppo turbata in apparenza - a volte Kunikida si domanda se sia sano alla sua età non sembrare toccato da niente a parte i libri - «Dazai-kun ha detto ad Atsushi-kun di andare a salutare suo fratello.»
...Un momento. Non gli risulta proprio che Nakajima abbia fratelli dentro lo zoo e questo lo colma di terrore, perché Dazai è il figlio del demonio senza ombra di dubbio.
«Suo fratello? Dove?»
«Nella gabbia dei leoni.»
Per un fugace istante Kunikida ricorda due pomeriggi precedenti, la classe in aula, Yosano a leggere un libro illustrato per loro con tanto di effetti sonori di animali feroci e lui a dividere la classe dando un ruolo a ognuno di loro. Sembrava un esercizio innocuo e divertente per permettere loro di imparare i versi degli animali e divertirsi allo stesso tempo. Nella sua testa l’immagine di Akutagawa - dall’importantissimo ruolo del lupo - preso a guardare in cagnesco (che non vorrebbe essere una battuta) Nakajima e dà voce alla domanda «Perché Atsushi fa la tigre?» lo fa rabbrividire.
Dazai. Cos’ha fatto, lui, per meritare una cosa distruttiva come Dazai Osamu nella sua classe e soprattutto nella sua vita?


Quando raggiunge di corsa la gabbia, non così distante per fortuna, l’immagine che vede è raccapricciante: Nakajima è davvero a un soffio dalla gabbia, appena prima del limite di sicurezza segnalato dagli inservienti dello zoo. Per fortuna ci sono anche diverse famiglie e qualche adulto responsabile ha ben pensato di fermarlo, prima che finisse davvero nelle fauci del leone che sembra momentaneamente interessato abbastanza da gironzolare lì nei pressi e puntare il suo sguardo ambrato su Atsushi di tanto in tanto. Kunikida non vuole credere che lo stia guardando pensandolo come il suo prossimo, lauto pasto.
Atsushi sembra contrariato dal fatto che qualcuno lo abbia fermato e lì, ben poco distante, Dazai sta tenendo per un polso Akutagawa e con l’altra mano ha appena agguantato Oda. Ride, lui.
«Atsushi-kun.» tuona, severo quanto serve a far capire già dal tono della propria voce che quello è un rimprovero serio; il piccolo sussulta e subito sembra rannicchiarsi su se stesso. Considerando il suo background famigliare Kunikida mantiene sempre una distanza fisica evidente per il bambino, così da non metterlo in allarme riguardo ad eventuali (impossibili) percosse di sorta. Ma vede che ha già capito di aver fatto qualcosa di sbagliato, sebbene di certo non sappia cosa. Kunikida lo vede alternare lo sguardo tra lui e il leone - forse sta vagliando la possibilità di lanciarsi del tutto in pasto alla bestia piuttosto che al suo rimprovero.
In verità, lo sa, è solo mortificato ma al tempo stesso ancora ammirato dall’animale.
«Sai quale animale è quello?»
«Un leone...»
«E i leoni abbiamo detto che sono?» prosegue con pazienza.
«Pericolosi…»
«Esatto. E la regola numero uno davanti alle gabbie degli animali pericolosi è?»
Il leone decide di sbadigliare proprio in quel momento, e scrollarsi facendo ondeggiare la coda. Questo sembra distrarre Nakajima, ma Kunikida sa di dover insistere ora, perché poi Dazai richiederà molto più tempo.
«Atsushi-kun, la regola numero uno?» lo incalza, braccia incrociate al petto; Atsushi è di nuovo con gli occhi spauriti su di lui e tanto basta a convincere Oda a lasciar andare la mano di Dazai e allungarsi fino a sistemarsi di fianco ad Atsushi e offrirgli la mano. Quello ci si aggrappa come se ne dipendesse la sua vita.
«Stiamo lontani dalle gabbie...» pigola a quel punto.
«Molto bene. Quindi adesso starai due passi dietro la corda con il cartello e non andrai più verso la gabbia. Intesi?»
«Mh-mh.»
Kunikida sospira, soddisfatto. Almeno finché la soave voce di Nakahara - bambino sereno finché non coesiste nello spazio di Dazai, cosa che accade sempre e inevitabilmente in una classe, e che dovrebbe essere in gruppo con Yosano - non lo raggiunge.
«SE DAZAI VA NELLA GABBIA DEL LEONE CI VOGLIO ANDARE ANCHE IO.»
Gelo. Si volta lentamente. Inquadra Dazai. Dazai oltre la corda. Dazai che verrà ucciso con o senza l’aiuto del leone.
«Dazai!» tuona, stavolta lo sentono fino alla gabbia delle scimmie forse, non lo sa.
Il leone, per tutta risposta, è già a dare le spalle a tutti loro per andare a sonnecchiare dove c’è più silenzio. Mentre tira indietro Dazai e si prepara a una ramanzina di trenta minuti che culminerà con la grave e tremenda punizione di un “niente merenda”, Kunikida vorrebbe essere lui.
 
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Prompt: Tristezza
Missione: M2
Parole: 8103
Warning: au, 18!Dazai, 23!Odasaku





Per Dazai è difficile ricordare la prima occasione in cui ha visto uno dei fili del destino con la piena consapevolezza di cosa fossero. Di certo non da bambino, tanto che se prova ad andare indietro con la memoria, si rende conto di aver forse parlato a sproposito più di una volta riguardo essi, ma di non aver presente l’avvenimento nello specifico. Conoscendosi non si stupirebbe se avesse semplicemente tirato uno di quei fili chiedendo all’adulto di turno cosa fosse, ma il punto è che non lo ricorda.
Come tutto ciò che c’è stato prima dei suoi diciassette anni, d’altronde.



Un giorno Dazai si è risvegliato in un letto d’ospedale. In che modo ci sia arrivato, glielo hanno dovuto raccontare: incidente d’auto, i testimoni dicono di averlo visto buttarsi da un cavalcavia. Un miracolo che sia sopravvissuto, un miracolo che non sia rimasto paralizzato, un miracolo che il punto da dove si è buttato non fosse alto quanto credeva e che sotto di lui non sia passato un autobus o un camion ma un furgone aperto della spazzatura. Ha sentito pronunciare la parola “miracolo” fino alla nausea, non si sarebbe stupito nemmeno se glielo avessero dato come secondo nome, a un certo punto.
E’ rimasto in quell’ospedale per un tempo lunghissimo, considerato quanto ci è voluto a rimetterlo in piedi e in grado di camminare e di badare a se stesso. Parenti non ne hanno trovati: nessuno ha denunciato la sua scomparsa, nessuno è andato a cercarlo. A Dazai non ci è voluto molto per capire di aver cercato di suicidarsi, considerata l’accortezza con cui ha gettato la tessera studenti; sfortunatamente per lui, di mezzi per identificare un essere umano ne esistono fin troppi. Così prima “lo sconosciuto del miracolo” è diventato “Dazai Osamu” e poi è uscito dall’ospedale a pochi giorni dal suo diciottesimo compleanno è stato dimesso; sarebbe potuto rimanere per un paio di anni, quello a dividerlo dalla maggiore età, all’orfanotrofio in cui apparentemente è sempre stato. Tuttavia mettere uno che ha tentato di suicidarsi in mezzo ai bambini non sembrava una grande idea, così Dazai ha dovuto seguire interminabili e tediose sedute con uno specialista, una volta a settimana e rintanarsi in un alloggio per studenti che cade a pezzi ma che è, tutto sommato, più di quanto gli servirebbe davvero.
A diciotto anni Dazai non si ricordava nemmeno perché avesse avuto tanta voglia di morire, perché buttarsi giù con la speranza di ammazzarsi in un secondo fosse sembrata una buona idea. Il terapista gli ha chiesto più volte - in maniera più o meno enigmatica a seconda dei casi - se avvertisse di nuovo il desiderio di porre fine alla sua vita, o se gli fosse tornato in mente qualcosa.
Dazai è rimasto in silenzio tante volte, fino a che un giorno ha guardato la mano dell’uomo e il suo anulare sinistro, con una bella fede al dito, di quelle semplici ma che ci si è chiaramente impegnati a scegliere.
«Sua moglie che lavoro fa?»
Il terapista lo ha guardato perplesso dalla domanda, ma in evidente entusiasmo per avergli tirato fuori dalla bocca qualcosa che non fosse imboccata a forza da lui stesso.
«L’insegnante alle medie. Dazai-kun, stai pensando a quale lavoro fare?»
Dazai ha scosso la testa, aggiungendoci un’alzata di spalle.
Il filo rosso del suo terapista era collegato alla segretaria.



Quando è stato dimesso e ha capito, con i mesi di terapia, che quei fili li vedeva solo lui a Dazai non ci è voluto molto per decidere cosa fare dell’informazione intanto che un tedioso, ultimo anno di liceo scivolava lento giorno dopo giorno verso una fine che Dazai si augurava avrebbe messo un punto tra sé e i suoi compagni di classe. Niente di personale, ma anche per un adolescente normale sarebbe stato difficile inserirsi per bene in una classe dove in parecchi erano già amici e il resto si conosceva almeno di vista.
Dazai non è mai stato (nell’unico anno di vita che ricorda) normale.
Prima ha fatto una prova su se stesso: ha seguito con lo sguardo un filo rosa partendo dal proprio dito e ritrovandolo legato a una studentessa della classe accanto; ha studiato sia quello che lei per qualche giorno, e notato una cosa simile a un interesse nei propri confronti. Così lo ha tagliato, e a partire da quell’istante in lei non c’è stata quasi più coscienza della sua esistenza.
Ha ripetuto quell’esperimento un’altra volta, con fili di diverso colore - ce n’erano così tanti gialli, di recente, da non sentire certo la mancanza di uno o due - e constatato come al taglio del filo corrispondesse la perdita di un legame. Da lì il passo è stato semplice e breve: i pettegolezzi proliferano in pochi luoghi come nei corridoi di un liceo, e lui lo ha sfruttato a proprio vantaggio. In brevissimo tempo la voce di qualcuno che taglia i legami del destino per un compenso irrisorio si è sparsa, e Dazai si è ritrovato una paghetta tra le mani senza nemmeno troppo impegno. All’inizio forse con qualche piccolissima difficoltà dovuta allo scetticismo, ma è stato sufficiente aiutare due o tre ragazze e via, la voce ha finito con lo spargersi come una macchia.
Di fili alle sue mani non ce ne sono mai stati in abbondanza da quando ha riaperto gli occhi in ospedale, ma mentre taglia quello della sua ultima cliente per dividere il suo destino da quello di un ragazzo che continua a farle una corte indesiderata, non può fare a meno di sorridere.
«Cosa c’è?» lei sembra guardinga, e solo per quello si accorge di essersi quasi fatto scappare quell’espressione.
«Nulla. Il filo è scomparso.» assicura, vedendola rilassarsi.
Forse se tagliasse tutti quelli che vede collegati alle proprie dita, riducendosi a essere qualcuno completamente slegato dal mondo, allora in un certo senso sarebbe un po’ come morire.


Quando a contattarlo sul proprio indirizzo mail “di lavoro” è qualcuno che si firma come uomo, Dazai è inizialmente abbastanza perplesso. Non perché non sia più che pronto ad accettare clienti di qualsiasi sesso, quanto perché non gli è quasi mai capitato fossero uomini o ragazzi a rivolgersi a lui - d’altronde la storia del filo rosso del destino è più famosa tra le ragazze che altro.
Ciò nonostante dà appuntamento a lui come ha fatto agli altri, a eccezione del luogo che in questo caso è per forza di cose esterno alla scuola, trattandosi di un adulto almeno secondo quanto scritto nella mail. E’ un linguaggio non troppo formale, quindi Dazai esclude si tratti di qualcuno di troppo grande rispetto a lui, e le frasi sono piuttosto brevi e con quasi la totale assenza di fronzoli oltre la normale buona educazione degli adulti per bene.
Si firma Heigo, e assicura - in risposta al suo breve messaggio con indicati luogo e ora dell’incontro - che sarà riconoscibile grazie a un libro intitolato Discourse on Decadence.
Dazai non commenta oltre, ma lo trova quasi divertente. E’ piuttosto curioso di vedere di che tipo di persona si tratti, quando arriva al locale dell’appuntamento con un certo anticipo; prende posto per primo a un tavolo che gli permetta sia di osservare che di essere in vista dall’ingresso e attende, tra le mani un libro a propria volta. La cameriera gli porta un bicchiere d’acqua, e lui specifica di star aspettando un amico per ordinare.
Quella se ne va e Dazai non deve attendere molto. Legge appena un paio di pagine, prima che con la coda dell’occhio non individui qualcuno vicino al proprio tavolo. Mentre alza lo sguardo sente dire «No longer human?» con un po’ di perplessità a cui è abituato, visto che non molti alla sua età leggono un libro come quello; però anche a Dazai tocca sorprendersi, visto che si ritrova davanti due persone e non una sola come credeva. Sono entrambi senza dubbio più grandi di lui, e a parlare è stato Heigo - quantomeno ha il libro concordato in mano, Dazai lo può vedere senza difficoltà - mentre l’altro sembra non sapere nemmeno perché si trova qui. A Dazai non crea grandi problemi avere uno o due clienti contemporaneamente o avere l’accompagnatore di un cliente con loro, così si premura di mettere il segnalibro tra le pagine e poi dedicarsi a loro.
Sa qual è la prima cosa che l’uomo con gli occhiali sta pensando, perché è cosciente di avere l’aspetto di un ragazzo che subisce violenza domestica a causa delle bende che gli coprono le braccia fino a parte delle mani e che precludono la vista di uno dei suoi occhi. Per tutta risposta, rivolge loro un incurvarsi di labbra senza sbottonarsi oltre.
«Dicono che vedi i cosiddetti fili del destino.» incalza Heigo.
«E li taglio su richiesta, se serve.» replica lui, con tutta la tranquillità del mondo sebbene il suo sguardo sia impegnato a cominciare a scorrere il menù «Devo tagliare o soltanto osservare?» domanda, cercando di inquadrare il tipo di lavoro e il dolce che lo ispira di più.
Ci sono diversi istanti di silenzio che portano Dazai ad alzare lo sguardo su di loro; l’uomo che non ha ancora aperto bocca mantiene comunque lo sguardo su di lui - per essere un giapponese è un po’ strano, con i capelli rossicci e gli occhi di quel colore particolare.
«Vedi un filo a collegare me e quest’uomo?» Heigo attira di nuovo la sua attenzione, costringendolo a chiedersi se non stia perdendo tempo o se invece l’altro sia solo uno di quei clienti molto scettici che lo contattano ogni tanto. Abbassa gli occhi sulle mani dell’uomo, lasciando da parte il menù; Heigo non sembra avere molti amici, ma molte persone a cui è in qualche modo legato per il lavoro o in generale in modo superficiale sì. Tra quel groviglio di fili di poco conto ne cerca uno verde oppure quello rosso - esclude possano avere un rapporto di odio, non gli danno quell’idea, né di gelosia negativa e questo lo porta a escludere nero, blu e giallo. Il rosso lo include perché, dopotutto, il Destino secondo Dazai è complicato e infantile abbastanza da poter accoppiare chiunque se solo lo desidera.
Lo trova poco dopo aver iniziato a cercare, e avvicina due dita alla mano di Heigo. Non sfiora lui, ma prende tra pollice e indice il filo verde: al contrario di quello rosso, che sembra collegato a qualcuno che non è però nelle vicinanze, il verde scivola giù dal tavolo e Dazai lo segue, lo tira leggermente e si sporge un poco sul tavolo finché non vede che sì, è legato a una delle dita dell’altro uomo. Prima che possa dire qualcosa però Heigo parla di nuovo, solo non con lui.
«Cosa ne dici, Odasaku?»
«Li vede.» replica l’altro con semplicità e a Dazai non sfugge cosa significa.
I fili del destino li vedono entrambi.
I due lo stanno studiando, Dazai lo sai e li lascia fare per qualche momento per poi incalzarli; apprezza la curiosità e vuole e aspettare di consumare il proprio ordine prima di prendere e andarsene, ma essere come in uno zoo non lo esalta troppo.
«Devo tagliarlo?» domanda, giusto per capire se quello è mai stato un vero ingaggio; Heigo - ma a questo punto dubito sia il suo vero nome, così come quel “Odasaku” - scuote subito la testa.
«No.»
«Quindi eravate solo curiosi.» sentenzia Dazai di rimando, occhieggiandoli; la cameriera li raggiunge e attira tutta la sua attenzione. Ordina un caffè, sentendo Heigo fare lo stesso per sé e per l’altro e quando la giovane va via il silenzio che cade fra loro è macchiato da una sorta di disagio invisibile e dalle molteplici cause.
«Non capisco bene perché fosse così curiosi, quando il tuo amico li vede come me. O non te lo hai mai detto?»
Li vede guardarsi, ma negli occhi di Heigo non vede la sorpresa di chi non sapeva fino a quel momento. Dazai deduce quindi che non abbiano semplicemente incontrato qualcuno prima di lui e con la stessa capacità - d’altronde dubita che siano in tanti - o che Odasaku l’abbia usata come scusa. Dazai non sa bene cosa si provi a voler o non voler condividere una capacità simile con un amico, né se si possa essere triste o feriti da un rifiuto.
Lui non ci ha mai pensato.
«Non abbiamo mai incontrato qualcuno con la stessa capacità.» è Odazaku a parlare, per la prima volta peraltro, confermando quanto Dazai aveva già ipotizzato e guardandolo dritto in faccia; gli adulti, di solito, non lo fanno oppure lo fanno in maniera tale da credersi discreti. E’ una sorpresa, questa, più di quanto lo sia il vedere i fili che legano le persone.
«E l’unico che conosco» puntualizza Heigo, sistemandosi gli occhiali sul viso «non mette annunci sul saper vedere o sull’essere disposto a tagliare i legami delle persone su richiesta.»
Il tono con cui lo dice ricorda a Dazai una delle prime persone a cui ha offerto il proprio aiuto, una delle sue prime “clienti”. Una di quelle che nonostante sia troppo frenata dalla propria morale per accettare e approvare un atteggiamento, finisce comunque con il cedere se a macchiarsene sono gli altri, mentre a lei rimane solo un manto di ipocrisia a fare da vestito.
«Quindi pensavi che fossi un malintenzionato?» lo prende in giro, abbastanza apertamente perché l’altro lo capisca ma non in maniera così sfacciata da risultare maleducato. Ritira la mano, lasciando andare il filo incriminato e portando lo sguardo fuori dalla finestra; tende sempre a sede in  modo che il lato cieco non sia mai quello offerto ai suoi interlocutori, proprio come adesso.
Sente uno dei due schiarirsi la voce, appena appena, e con la coda dell’occhio inquadra il tipo chiamato Odasaku; è in quel momento che la cameriera porta loro le ordinazioni, e Dazai non fa tanti complimenti per bere il proprio caffè, zuccherandolo quanto basta. Ha appena mandato giù una sorsata quando quella che, a quel punto, immagina essere la vera richiesta arriva.
«I fili si possono accorciare, che tu sappia?» domanda Heigo a bruciapelo, in evidente difficoltà sul come dare forma a un pensiero che è chiaro non sappia associare a un’immagine reale, non potendo vedere nulla. Dazai non può non riportare lo sguardo su di lui, celando la sorpresa e il pizzico di perplessità di fronte a quella domanda che non gli è mai stata posta prima, nemmeno da chi si è dimostrato piuttosto interessato all’argomento.
«Accorciare in che senso?»
«Oltre a tagliarli, è possibile che si accorcino se il legame si sta spezzando naturalmente? Oppure essere più corti o più lunghi a seconda del caso.» Heigo cerca di fare di meglio, con la spiegazione di cosa intende. Non ci riesce del tutto ma, a onor del vero, non è colpa sua.
«Non ho mai visto i fili “accorciarsi”. Se il legame si spezza naturalmente, così fanno i fili. In genere li taglio, quindi non ho badato molto a quelli che si interrompono da soli, ma a grandi linee so per certo che non si consumano.» ammette con un totale disinteresse per la cosa. Per notare una cosa simile si sarebbe dovuto interessare dei legami di almeno una persona e controllarli giornalmente, uno per uno, oppure individuarne uno singolo e tenerlo d’occhio. Per lui che, dopo un primo momento di studio, ha deciso di ignorare persino i suoi di fili del destino, è assurdo pensare di essersi potuto preoccupare di quelli altrui. Tuttavia la domanda di Heigo lo pungola nel modo sbagliato: se capisce lo scetticismo negli altri, di fronte al suo “lavoro”, gli riesce molto complesso comprendere l’urgenza che gli sente appena nel tono. A discolpa dell’uomo, Dazai è convinto che chiunque altro non ci avrebbe fatto troppo caso.
Purtroppo per Heigo, però, lui non è chiunque altro sebbene non sappia poi con esattezza chi sia stato e - di conseguenza? - chi lui sia ora.
Heigo e Odasaku si scambiano un’occhiata in silenzio, ma quest’ultimo a Dazai non sembra particolarmente preoccupato. L’occhio gli cade senza grande discrezione sulle mani dell’uomo: un po’ come Dazai, i suoi fili non sono molto, ma gli sembrano a posto e meglio distribuiti. Oltre al verde che lo collega a Heigo ce ne sono un altro paio - un uomo con pochi amici ma buoni, è chiaro -, di giallo non molto, di nero niente (un uomo benvoluto, quindi) e diversi rosa che sono sempre un po’ complessi da distinguere tra affetto dei parenti e degli amici da un interesse romantico di qualcuno. Nessuno di quei fili è molto lungo, ma niente che a Dazai faccia scattare chissà cosa.
Poi nota il filo rosso, e di norma non si cura di seguirne il percorso fino all’altro capo a meno che non gli venga espressamente richiesto, ma in questo caso è indipendente dalla sua volontà: il filo rosso di Odasaku fa un paio di giri attorno al suo anulare sinistro, come succede per tutte le persone, ma lì dove dovrebbe poi proseguire è già spezzato. La lunghezza non arriva nemmeno ad attraversare l’intero palmo di mano dell’uomo.
«...»
«Lo hai visto.» quella di Heigo, stavolta, non è una domanda.
«Mi chiedo come lo sappia tu.»
«Me lo ha detto Odasaku. Io non vedo nulla.» replica, forse indispettito abbastanza da lasciarselo sfuggire in una sfumatura del tono di voce. Dazai sospetta che non lo disturbi il non vedere una manciata di fili attaccati alle mani della gente come se fossero tutti marionettisti, ma non riuscire a vedere quelli di Odasaku nello specifico.
Dazai tace, rifugiandosi in un generoso sorso di caffè dalla propria tazza, tenendo lo sguardo sulla mano dell’uomo per un lungo istante e ponderando. Di possibile causa gliene salta in mente una sola, a essere sincero, e sebbene nessuno lo paghi per avere tatto con gli altri non è sicuro che quell’individuo che ha pronunciato una sola frase da quando sono lì sia pronto a sentirsi dare l’unica spiegazione plausibile.
«Se vuoi posso osservare i fili per un periodo.» propone «Vedere se, guardandoli a intervalli regolari, noto qualche differenza e la causa dello stato di quello rosso.» spiega meglio le sue intenzioni - a dire il vero lo incuriosisce: sarà davvero quello l’aspetto del filo rosso di qualcuno la cui anima gemella è già morta?
Perché è quella l’unica opzione che a Dazai sembra possibile.
«Non ho mai offerto un lavoro a lungo termine, ma non è un problema e possiamo concordare il compenso.» assicura con un sorriso costruito, imparato guardando business men che si possono incontrare ovunque per le strade, mentre si va a scuola.
Heigo e Odasaku si guardano per un attimo, e quest’ultimo sospira. Heigo invece torna con l’attenzione su Dazai, fino a che non allunga una mano sul tavolo. offrendogliela. Dazai gliela stringe, convinto di star sigillando un accordo, ma Heigo gliela trattiene.
«Ango.» pronuncia, sistemando con l’altra mano gli occhiali in quello che Dazai ormai ha classificato come un gesto meccanico.
«Cosa?»
«Sakaguchi Ango è il mio nome. Heigo è un alias.»
«Dazai Osamu.» si presenta a sua volta, perché non ha niente da perdere a dire il proprio nome reale: chi sarebbe così stupido da rivelarlo quando farlo significa quasi sempre ammettere di aver creduto che una persona potesse vedere fili invisibili al resto del mondo?
«Bene, Dazai-kun. Abbiamo un accordo allora.» pronuncia Ango, lasciandogli la mano e bevendo il proprio caffè in un solo sorso, per potersi poi alzare in piedi: «Darò io a Odasaku il tuo indirizzo mail, ora purtroppo siamo di fretta entrambi.» rivela, portando la mano nella tasca interna della giacca e tirandone fuori una busta semplice che allunga sul tavolo, perché Dazai possa prenderla. Non ha bisogno di chiedere per sapere che dentro ci sono i soldi dell’incontro di oggi, sia perché non vede cos’altro potrebbe dargli Ango, sia perché è un uomo facile da inquadrare almeno nel suo fare troppo serio e troppo formale.
Dazai si limita a un’alzata di spalle e un cenno della testa - non gli tange molto che lui e Odasaku si scambino ora gli indirizzi o tramite una terza persona. Anche lui si è alzato, ha bevuto il caffè in un paio di sorsi e ora lo osserva.
Ango fa per voltarsi e andarsene, ma Odasaku mantiene lo sguardo su Dazai e alla fine si decide a pronunciare una domanda che Dazai, nel sentirla, sospetta si sia tenuto finora.
«Per quelle hai bisogno di aiuto?» domanda, accennando alle bende.
Dazai vorrebbe ridere: Odasaku avrebbe potuto chiedere in maniera molto più invadente a cosa fossero dovute - una rissa, violenza domestica, un incidente - o cosa nascondessero, e invece l’unica cosa di cui sembra preoccuparsi è come aiutare un minorenne appena conosciuto in maniera anche vagamente losca.
E’ apprezzabile, sì, perciò decide di premiarlo con una cosa rara da parte propria: la verità.
«No» pronuncia con un sorriso affabile a incurvargli le labbra «ho cercato di uccidermi, ma non ha funzionato.» minimizza, sapendo bene nel momento in cui lascia scappare quelle parole quale effetto esse possano avere sugli altri.
Ango si irrigidisce, ma poi sembra analizzarlo per cercare di capire quanto sia vero quello che sta dicendo - Dazai lo capisce perché hanno un modo di studiare gli altri non troppo dissimile, lo ha capito subito.
Odasaku invece lo guarda, in silenzio, e quasi sembra non aver avuto reazioni.
Escono entrambi dal locale poco dopo, lasciandolo solo al tavolo. Fuori ha cominciato a piovere a dirotto, senza alcune preavviso come spesso succede durante la stagione.
Dazai guarda fuori, lasciando libera la sua testa di farsi affollare di pensieri.
Ho cercato di uccidermi ma non ha funzionato.
Non ricorda nemmeno perché ci abbia provato, ma a volte pensa sia una gran seccatura aver fallito.


Lui e Odasaku finiscono per incontrarsi più di quanto lui creda, e in generale il suo lavoro di osservatore diventa più lungo del previsto. Uno dei pochi motivi per cui nessun cliente ha mai avuto di che lamentarsi riguardo Dazai è che lui non ha mai reso più complesso del previsto un lavoro solo per guadagnare più soldi. Anche con Odasaku se potesse troncherebbe di netto la cosa passando al prossimo lavoro, non importa che Ango sia estremamente puntuale con i pagamenti - la cifra non è mai stata chissà quanto alta, visto che di bisogni non ne ha di così impellenti da necessitare l’arricchirsi, d’altronde.
In questo caso, però, davvero non sa bene come definire la situazione. Si vedono in media una volta a settimana, qualche volta due compreso uno dei giorni del weekend; la compagnia di Odasaku è migliore di quella di molti altri che hanno provato a passare del tempo con lui, di questo Dazai gliene ha dato atto fin dal primo incontro senza Ango presente. Odasaku non è tanto più grande di lui, a conti fatti, ed è un avido lettore cosa che a Dazai fa piacere per due motivi: preferisce la compagnia di un libro a quella delle persone, quindi avere qualcuno con cui fare due chiacchiere in merito non è male, e soprattutto possono passare la maggior parte del tempo insieme in silenzio, senza dover per forza instaurare un dialogo di qualche tipo destinato a rivelarsi del tutto superficiale e indesiderato.
Quando parlano, è su qualche impressione sui libri che tengono tra le mani ma ogni tanto Dazai concede anche un argomento un pelo più personale; non gli dispiace che Odasaku sia il tipo di persona riservata abbastanza da non voler essere invadente con gli altri, ma al tempo stesso lo incuriosisce che esista una persona così. Prima di dirigersi da qualche parte e prima di separarsi, Dazai ha sempre tenuto d’occhio quel filo rosso - ma anche tutti gli altri - per constatare la presenza o meno di cambiamenti di qualche tipo.
Sono quasi tre mesi che si incontrano, quando Odasaku finalmente oltrepassa un confine probabilmente autoimposto e che, a essere sincero, Dazai avrebbe preferito non superasse.
«Non si stanno avvicinando gli esami di ammissione, per gli studenti del liceo?» gli chiede di punto in bianco, tanto da portarlo ad alzare lo sguardo dai caratteri sulle pagine e puntarlo su di lui, quasi cercando di capire dove sia l’inganno. Quella è la tipica domanda che Dazai si aspetterebbe da uno come Ango, non da Odasaku che sembra a stento interessato alla sua persona o a qualsiasi altra cosa - a volte lo irrita persino. Farebbe qualcosa in merito se non temesse di vederlo trasformarsi in una adulto come il suo responsabile di classe, che continua a trattarlo come il figlio che non ha mai avuto e soprattutto come se Dazai desiderasse un padre sopra ogni altra cosa.
«Direi di sì.» commenta mantenendosi vago e neutrale, lasciando che sia Odasaku a fare la fatica, se proprio ci tiene a conversare su un argomento tanto inutile.
«Possiamo vederci meno. Per lo studio, intendo.»
«Perché pensi che debba fare gli esami di ammissione all’università?» lo incalza Dazai, sbirciando nella sua direzione ma assicurandosi che Odasaku se ne accorga. A ben pensarci, quando ha scoperto che “Odasaku” non era un nome inventato come “Heigo”, ma il modo in cui i suoi pochi amici lo hanno sempre chiamato - Oda Sakunosuke, Odasaku va bene, gli ha detto la prima volta - se ne è stupito. Lo ha aiutato a inquadrarlo con grande facilità ma, al tempo stesso, qualcosa ha suggerito a Dazai che non potesse esistere una persona più distante da lui.
Odasaku alza un sopracciglio, chiaramente perplesso: «Sei intelligente.»
«E questo significa che devo per forza proseguire gli studi?»
«No.» osserva Odasaku «Ho solo pensato fosse un peccato.»
«La vita è breve, Odasaku.» e detto da lui fa così ridere che non riesce a non sbuffare divertito, sebbene sia certo che nessuno lo trovi divertente quanto lui «La mia è più lunga del previsto, chi ti dice che io abbia voglia di arrivare a laurearmi.»
Cade il silenzio tra loro per diversi attimi, tanto che Dazai a un certo punto si convince di aver chiuso la questione con insospettabile velocità. Odasaku forse sta riorganizzando i pensieri, o magari sta solo lasciando cadere il discorso, non lo sa e non sa nemmeno quale opzione preferisca - non ama essere interrogato e doversi esporre, tant’è che riesce a evitarlo sempre con facilità e spesso senza impegnarsi però una parte di lui prova disappunto e fastidio nei confronti di quell’uomo capace di interessarsi alle cose sbagliate e, con altrettanta velocità, a lasciarle andare.
Dazai voleva (lo voleva?) lasciar andare tutto, dalla sua vita al resto del mondo, e adesso gli resta in mano un mondo che se lo è tenuto stretto e che lui deve imparare a conoscere di nuovo da zero, perché in cambio ha avuto solo un buco nero di sedici anni e mezzo sulle spalle.
Ma Odasaku non sta facendo scivolare via nulla, in verità.
«Pensi di riprovare a ucciderti?» domanda con una pacatezza quasi fuori luogo. Questo a Dazai non dispiace, ma solo perché non sarebbe stato in grado né invogliato a sopportare una reazione isterica sull’argomento; d’altronde, nemmeno la prima volta che lo ha menzionato Odasaku è sembrato particolarmente turbato, non nel modo in cui lo sono gli adulti di solito.
«Sto studiando il modo migliore. Non so cosa ne pensavo prima, ma ho deciso che il dolore non mi piace, quindi devo trovare la tecnica perfetta per morire in fretta e non soffrire.»
Odasaku lo studia, forse per cercare di capire se lo stia prendendo in giro oppure no. Dazai non può dargli torto, sull’avere quel dubbio; in tre mesi Odasaku ha già capito che in lui non deve cercare un diciottenne ormai prossimo al diploma e pieno di curiosità e speranza per il futuro, di preoccupazioni normali e banali, di interesse romantico per l’amica di sempre e il sogno di un lavoro e una strada da percorrere che sta appena iniziando a scoprire. Dovesse lui, Dazai, elencare cosa si potrebbe trovare in lui non avrebbe una lista pronta. Si sente come un buco nero, niente di quello che si avvicina rimane lì a lasciare traccia di sé.
«Non sai cosa ne pensavi prima.» ripete l’altro, non come domanda ma come constatazione. Dazai lo percepisce, nel suo tono, che Odasaku sta facendo due più due.
Chissà quanto può spingersi oltre prima che lui ceda.
«L’unica cosa che mi sono portato dietro dall’ultimo tentativo è una tabula rasa in testa, quindi mi dispiace ma chiedermi perché io ci abbia provato è inutile.»
«Le bende.»
«Mh?»
«Una tabula rasa e le bende, sono quello che ti sei portato dietro?» lo interroga Odasaku, e Dazai ammette che per una volta non capisce dove il discorso stia andando a parare. O meglio, non riesce a capire se l’altro stia cercando di portarlo all’ammissione di qualcosa o se le sue siano solo osservazioni casuali. Alza un sopracciglio e lo fissa per una manciata di secondi, prima di annuire lentamente; non intende entrare nel merito di come le bende, ormai, non nascondano più ferite fresche. Dà per scontato che anche Odasaku ci abbia pensato.
«Mh.» pare l’unico commento con cui Odasaku sembra intenzionato a sbilanciarsi. Dazai riporta lo sguardo sul libro, ma è dopo nemmeno tre righe lette che sente la voce al suo fianco parlare ancora una volta.
«Credo che sotto le bende sia rimasto qualcosa ancora.»
«Nah» quasi lo canticchia, inquadrando quel lungo silenzio per la preoccupazione di qualche cicatrice, forse «non c’è nessuna cicatrice sotto, ma mi donano, no?» scherza su.
«Non le cicatrici» riprende Odasaku, ma il suo sguardo sta tornando sul libro che stava leggendo prima «tutto il resto. Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.»
Lui non è solito ammutolire, ma un po’ per scelta e un po’ per colpa di Odasaku lo fa; si sente montare nella bocca dello stomaco un sentimento a cui non sa dare nome, niente di positivo, un mix di cose che non ci tiene a riconoscere ma che si traducono in un filo blu che ora lo lega a Odasaku, così, per prendersi gioco di lui - un filo blu per la paura e la tristezza e tutti quei sentimenti umani che Dazai non sa mai riconoscere, incolpando della cosa l’assenza di memoria.
Si morde l’interno della guancia, scaricando lì parole e accuse che ricaccia indietro, giù per la gola.
Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.
Perché, c’è qualcosa oltre quello che si vede?


Quando si salutano , Odasaku lo guarda con una briciola di apprensione nello sguardo e gli offre di mangiare insieme, una cena leggera, dopodiché lo riaccompagnerà a casa.
Dazai odia essere sfiorato più di quanto odi essere toccato - quando lo toccano, non che ci abbiano provato in molti, può scrollarsi la mano di dosso e mettere in chiaro che non è un gesto gradito. Ma le persone che sfiorano gli altri senza un contatto vero perché hanno paura di spezzarlo sono quelle alle quali non può scacciare la mano perché tempo di voltarsi verso di essa, e quella non è più lì.
Così quando la gentilezza di Odasaku cerca di farsi appena percepire, Dazai si scosta nell’unico modo possibile che conosce: ferisce.
«Non preoccuparti per me, Odasaku. Non so se è la persona a essere stata dall’altra parte del tuo filo rosso a essersi uccisa, ma io e lei siamo due cose distinte.»
Una volta a casa, una stanza stretta appena sufficiente a esistere senza soffocare, gli occhi gli cadono per caso sul filo blu e si aspetta di trovarlo giallo - il colore della gelosia, ma anche quello del disprezzo e dell’antagonismo in generale, uno di quelli che gli è più familiare.
E’ ancora blu.
Questo non sa come lo faccia sentire, ma di sicuro non è felicità.


Lo sorprende vedere Odasaku contattarlo di nuovo, ma lo sorprende ancora di più accettare di incontrarsi ancora, sebbene all’inizio ipotizzi che potrebbe anche essere la scissione di un contratto che in fin dei conti è solo verbale. Mentre si dirige al luogo dell’appuntamento si prepara persino a trovare Ango, e di certo non per complimentarsi con lui del lavoro svolto finora.
Invece Odasaku è da solo, sulla panchina del parco, a dare attenzioni a un gatto randagio ben accomodato accanto a lui.
«Ti piacciono così tanto i randagi, Odasaku?» gli scappa di bocca al posto di un saluto e prima che possa tenerselo per sé - non è così grave, Dazai non si è mai preso la briga di avere tatto nei confronti degli altri o di privarsi di rendere chiara la cruda realtà così come lui l’ha sempre vista dal risveglio in ospedale. Il suo modo di fare è in bilico tra il desiderio di ferire per vedere le reazioni degli altri, e la speranza di riscoprire in quelle stesse reazioni qualcosa di familiare che gli ricordi come si fa a essere umani, persone normali. Non perché brami la banalità che vede negli altri, ma perché forse più di un anno a farsi studiare il cervello con domande su domande e a osservare gli altri con l’avidità di chi del mondo non sa niente gli sono bastati per capire di essere un contenuto vuoto. E qualcuno ha detto, o magari anche scritto, che un recipiente vuoto tende sempre al riempimento.
Odasaku lo guarda e sospira, quasi rassegnato, prima di tornare con lo sguardo sul felino; quello pare più interessato a fissare Dazai, quasi a giudicarlo, ma lo lascia stare presto per alzarsi e andarsene via.
Quasi fosse una ripicca, Dazai si siede al suo posto con uno sbuffetto tra il divertito e il soddisfatto.
«Quello che hai detto la volta scorsa» comincia subito Odasaku, senza aspettare oltre o introdurre l’argomento in modo più soft «non credo sia corretto.»
«Perché?» domanda, provocatorio. Ovvio che non è stato corretto, gli ha praticamente sbattuto in faccia di non fare l’errore di sovrapporre lui alla figura della persona che un tempo è stata dall’altra parte di un filo del destino spezzato e per cui non esiste riparo, al contrario di quelli degli altri legami. Di anima gemella ce n’è una sola, d’altronde.
«Perché non ho mai avuto una persona che potesse essere dall’altra parte del filo rosso.» ammette con un candore che nemmeno Dazai può ignorare e che lo sorprende al punto da non permettere alla sua solita poker face di ingannare il suo interlocutore in merito all’interesse che la cosa gli susciti. Più che interesse specifico, quello di Dazai è dovuto a un unico fattore: non pensava potesse esserci qualcuno dell’età di Odasaku il cui filo, non ancora connesso, somigliasse a uno tranciato di netto.
«...Mi stai dicendo che potresti essere un caso di persona senza anima gemella?» lo interroga, guardingo - forse la sua anima gemella non è ancora nata? Impossibile, ci sarebbe un esagerato divario di età a renderlo impossibile. Forse è morta prima che Odasaku nascesse, o prima che si rendesse conto di cosa significava quel filo? La differenza in quel caso non sarebbe altrettanta, per quanto sarebbe… insoddisfacente. Crede.
«Questo dovresti dirmelo tu, Dazai.» replica Odasaku con un mezzo sorriso, il gomito poggiato sul proprio ginocchio e la mano a sostenerne il volto mentre se ne sta voltato verso di lui a osservarlo «Sei tu l’esperto.»
«Beh, però quello strano sei tu, Odasaku.» rimbecca «Hai il mio stesso potere, ma non lo utilizzi e non te ne sei mai interessato. Ho capito subito, quando vi ho visti, che è stato Ango a insistere per incontrarmi e non tu. Poi non hai mai avuto un’anima gemella, il tuo filo è interrotto non come quando non è ancora collegato ma come quando viene spezzato, eppure tu dici che è sempre stato così.» sciorina tutte le proprie motivazioni, bravo come un libro che non ha mai bisogno di essere corretto perché dice solo cose giuste.
«Un filo rosso come il tuo non l’ho mai visto.»
«Persino il tuo è collegato, Dazai?» sembra genuinamente sorpreso dalla cosa, e Dazai non può dargli torto. Però, contro ogni aspettativa, si lascia sfuggire la pura e semplice verità - per quanto sia conscio che, a dire certe cose nel modo in cui lo fa lui, come se non fossero affatto importanti, lascia sempre il dubbio agli altri se stia mentendo o meno.
«Io non ce l’ho.»
«...» Odasaku tace, e in quel silenzio a Dazai sembra di sentire delle scuse incerte, un’indecisione di base su come comportarsi ora, su cosa dire.
«E’ possibile?»
«Direi di sì.» replica, con una sfumatura di ovvietà nella voce, alzando la mano incriminata e mostrandogliela: pochi fili, di colori diversi tra loro, ma nemmeno l’ombra di uno rosso.
«Non avevo mai visto qualcuno senza.»
«Allora forse siamo in due.» sottolinea «Ho immaginato fosse perché avevo il potere di vederli, ma forse non è così visto che tu lo hai, per quanto malconcio.»
Rimangono entrambi in silenzio, Odasaku ancora con gli occhi sulla mano senza filo rosso, Dazai a guardare lui.
I silenzi di Odasaku sono sempre duplici: lo fanno sentire rilassato come di rado accade per la presenza di un’altra persona, ma sono anche estremamente pericolosi. Quell’uomo di solo qualche anno più grande di lui ha la capacità di parlare poco e cogliere sempre nel segno, una qualità che Dazai apprezza più dell’ipocrisia ma che mina troppo a tutta quella parte di sé che è al pari di una tavolozza che nessuno - lui per primo - vuole prendersi la briga di riempire con qualche colore o anche solo una bozza di qualcosa.
«Ti rende triste?» domanda così, dal nulla, riconfermandosi una mina vagante pronta a esplodere in territorio nemico in ogni istante.
Ci pensa, per un attimo, anziché minimizzare subito; non è tanto il desiderio di aprirsi quanto il pensiero di dover forse concedere un pezzetto per averne indietro un altro, qualcosa che lo aiuti a districare la matassa di misteri che si concentrano in quell’unico, incomprensibile filo.
La risposta però è più difficile da trovare di quanto sembri. Lo rende triste? Da quando si è risvegliato nel letto di ospedale, senza poter muovere nemmeno un muscolo senza sentire dolore, era triste di essere vivo? Triste per aver provato a uccidersi? Triste di non ricordare nulla?
E’ triste quando guarda la propria mano e realizza che forse nemmeno il karma ha avuto il coraggio di unire la sua vita a quella di un’altra persona?
«Si può essere tristi per qualcosa che non si ha mai avuto?» replica, ma non è una provocazione questa volta il suo farlo con un’altra domanda. Torna a guardare davanti a sé, abbassando la mano e posandola mollemente sulla propria gamba, lasciandola lì perché Odasaku la guardi pure, se preferisce. A volte, quando lascia vagare la mente si accorge di guardare sempre più in fondo, sempre più verso l’orizzonte e di cercare di superarlo, quasi avesse piena coscienza della presenza di qualcosa al di là ma non riuscisse a vederla.
Non c’è mai niente da vedere davvero, però.
«Voglio dire, non so nemmeno se ho mai avuto questo filo prima. Se c’erano persone, prima. In ogni caso, se c’erano, non sono venute a cercarmi.» non lo dice con amarezza, non è il tipo. Crede, almeno, di non essere il tipo. In ogni caso di questo è abbastanza sicuro: parlare di come sia solo e rendersi conto di non avere nessuno - o almeno, nessuno che abbia deciso di tornare a riprenderlo in ospedale - non lo fa sentire distrutto dal dolore.
Nostalgico nemmeno, si ha nostalgia di qualcosa che si aveva un tempo e che ora manca.
«A te fa sentire triste, averlo così?»
«Non proprio.» ammette Odasaku, sebbene non si sbilanci di più «Forse ti senti solo.»
Sbuffa divertito, Dazai, non può non farlo perché la solitudine è una cosa che veste come una seconda pelle e con piacere: «Solo mi piace.»
«Non ho detto che non ti piace.» sottolinea Odasaku, la spalla che tocca quella di Dazai «Ma il fatto che ti piaccia, non significa che “solo” è una cosa che non senti distante da te?»
«Odio come usi le parole, Odasaku.» lo interrompe - forse cerca di distogliere la sua attenzione dall’argomento - ed è un grande complimento perché Dazai con le parole ci gioca spesso (sempre).
«Beh» dice l’altro, divertito, tanto che non sembra nemmeno stiano parlando di argomenti seri ed esistenziali «è un bene che non sia mai finito a fare lo scrittore.»
«Vuoi fare lo scrittore?»
«Da bambino. Ormai ho lasciato stare.»
«Non muori certo domani, Odasaku. Potresti.»
«Morire domani?»
«Fare lo scrittore. I tuoi libri sarebbero insopportabili, ma penso sarebbero anche belli.» gli concede, continuando a guardare con insistenza davanti a sé. Percepisce lo sguardo di Odasaku addosso ma finge di no, conscio di averlo sorpreso perché ha stupito anche se stesso - con Odasaku scopre di avere ancora qualcosa dentro di sé, qualcosa che non si vede in superficie forse. Magari l’altro aveva ragione.
«Penso che tu riconosca bene le emozioni degli altri, Dazai.» riprende l’uomo come se non avessero mai affrontato la parentesi di cosa volesse fare da ragazzino, quando cercava di immaginarsi adulto.
«Le mie no?»
«Mh. Credo di no. Penso che non esista una sola persona al mondo che sarà mai in grado di riconoscerle per te e tu le neghi, le mascheri come un ragazzino della tua età non dovrebbe saper fare e per questo… forse nemmeno tu riesci a vederle.»
Cade di nuovo il silenzio tra loro, ma non è di quelli scomodi. Dazai si lascia scivolare con la schiena contro la panchina e lo sguardo sale verso l’alto, abbandonando in parte l’orizzonte o qualunque cosa cercasse oltre esso. Sente Odasaku imitare la sua posizione, perché la spalla dell’uomo si allinea di nuovo alla sua.
«Quindi» riprende abbandonando ogni filo logico possibile di quella conversazione, sempre se ne sia rimasta almeno l’ombra «mi sento solo e questo mi rende triste?»
«Non lo so. Ti fa felice? O vorresti non essere solo?»
«...Non lo so.» si rintana dietro tre parole per non dire che, in fondo, se l’alternativa alla solitudine fosse Odasaku potrebbe non essere tanto male.
L’altro lo sta di nuovo guardando, lo percepisce.
«Vieni a mangiare da me.» propone infine, ma non aspetta la sua risposta «Puoi anche restare a dormire, per una notte.»
Fa fatica a capire perché dovrebbe e perché il suo rapporto di lavoro ormai è un legame indefinito e basta; però l’idea non gli dispiace e già questo è sorprendente.
Essere qualcosa di diverso da “solo”. Chi lo avrebbe mai detto.



Sto portando Odasaku in ospedale.
Le parole di Ango gli rimbombano in testa mentre esce di casa, prende la metro, sbaglia strada e deve chiedere informazioni - e per fortuna se ne accorge abbastanza in fretta, o perderebbe ore. Forse minuti. Ma quanto è grave il motivo per cui Odasaku è in ospedale?
C’è stato un incidente. Diceva che avevate un appuntamento.
Sì, il solito della settimana. Dazai muove un passo dietro l’altro: sostenuto, poi più veloce, poi sta correndo e non ha davvero la preparazione fisica per fare uno sforzo simile dopo appena un anno di riabilitazione completa ma a quell’ospedale ci arriva.
E’ difficile inquadrare subito chi si sta occupando della reception e chiedere di Odasaku, perché quando dice il suo nome l’infermiera controlla e gli dice che non c’è nessuno lì - Dazai fa schioccare la lingua contro il palato, Oda Sakunosuke, si corregge.
Lei gli chiede se è un parente, lui scuote la testa: sta per dire che è un amico anche se non è vero - cosa sono lui e Odasaku? - quando Ango appare dal nulla come un cavaliere dall’armatura scintillante, non fosse per il solito completo da impiegato triste e la faccia bianca come un cadavere, l’espressione grave in viso.
E’ lui che si prende la briga di parlare con l’infermiera, di spiegargli; Dazai non sa cosa gli dica ma ottiene di farlo passare, poi gli posa una mano sulla spalla per guidarlo come se Dazai non fosse in grado di camminare da solo. Appena girano l’angolo, l’uomo comincia a vomitare parole e spiegazioni che Dazai fatica a cogliere tutte insieme. Gli parla di incidenti, di Odasaku, di macchine, di incontri, di appuntamenti, di lavoro, di lui che corre, di come sembra che anche Dazai abbia corso.
Gli dice di no, ma si sente a metà quando lo dice.
La sala operatoria è ancora chiusa, la luce rossa accesa fuori segnala che è tutto in corso - Dazai detesta non avere risposte, ma detesta ancora di più il panico che si sente dentro e che è di sicuro colpa di Ango e della sua agitazione.
Non muori certo domani, Odasaku.
Glielo ha detto sul serio ma non ci credeva, era una battuta come la maggior parte di ciò che gli esce di bocca, fatto di ironia, una punta di sarcasmo a volte e zero consapevolezza del domani. Come fa uno che si è buttato da un cavalcavia per ammazzarsi ad avere la presunzione di sapere cosa aspettarsi il giorno dopo?
Non voleva nemmeno avercelo, un giorno dopo. Anche se non sa ancora perché. Però mentre si siede fuori con Ango, spera che Odasaku un domani ce l’abbia.

La luce fuori dalla sala operatoria si spegne e Ango salta in piedi come se gli avessero dato la scossa. Dazai rimane seduto, registra quel cambiamento luminoso con qualche secondo di ritardo.
Quando il medico esce e si toglie la mascherina, chiedendo ad Ango se sono solo loro due lì o se la famiglia è in arrivo, Dazai capisce che Odasaku è morto.
Potrebbe pensare “qualcosa è andato storto”, oppure “c’è stata una complicazione ma lo hanno salvato” invece l’unica possibilità gli pare quella. Non riesce a pensare al positivo, alle tante cose che potrebbero essere andate storte rimanendo comunque un’opzione migliore della morte.
Mentre Ango parla con il medico, Dazai non ha nemmeno bisogno di alzarsi per saperlo.
Oda Sakunosuke è morto.

«Vado a firmare le carte.» pronuncia Ango, senza sfiorarlo nemmeno. Il loro unico contatto è stato in quel breve momento di panico interiore per entrambi, ma ora tutto sembra tornato a un’asettica normalità.
Dazai sente a stento la porta chiudersi alle sue spalle, lo sguardo fermo sul corpo di Odasaku sotto un lenzuolo bianco. Quando è sicuro che Ango non stia per tornare dentro, lo scopre: il volto è più pallido, ma non è passato abbastanza perché sembri già morto piuttosto che in un sonno profondo e niente di più.
Allunga una mano e gli sfiora una guancia; la ritrae, la porta più giù, e gli tocca la mano.
Non muori certo domani, Odasaku.
Il filo rosso di Odasaku è ancora lì, spezzato tra fili ancora integri ma che si stanno allentando. E’ la prima volta che Dazai vede il progressivo venire meno dei legami con gli altri, e non si aspettava fosse così - eppure ora lo vede con chiarezza: quel filo non si è mai legato non perché l’anima gemella di Odasaku sia già morta, ma perché lui era destinato a morire prima di incontrarla.
Un conato di vomito gli risale dallo stomaco alla gola, l’acido della bile a grattare per uscire. Lo trattiene, portando una mano alla bocca: c’è qualcosa che lo sta mangiando da dentro e non capisce cosa sia - forse la rabbia, perché che senso ha una persona come Odasaku morta in un letto di ospedale, Odasaku che vuole (voleva) fare lo scrittore mentre uno come lui, come Dazai, che non desidera niente e non ha niente si ritrova con il peso di dieci, cento, mille domani ancora. E l’unica volta che ha provato a toglierseli di torno non ci è nemmeno riuscito.
Ti rende triste?
Gli si rivolta lo stomaco, non in senso letterale, però; le viscere gli si stringono in maniera dolorosa e gli si forma un nodo in gola, così stretto che Dazai pensa di non star più respirando nel modo giusto. La mano su quella di Odasaku si stringe, tiene la sua.
Ha sempre pensato di essere vuoto, di essere quel tipo di assenza che attira solo altra assenza, quel recipiente che tende al riempimento senza però riuscire a farcela. Non ha mai percepito né accostato a sé il vuoto che ora sente di fronte a un corpo senza vita, di fronte a Odasaku che non si sveglierà mai più.
Si è immaginato la morte come qualcosa che un se stesso a lui sconosciuto aveva cercato e desiderato, mai come una cosa immobile e triste.
Ti rende triste?
Stringe la sua mano fino a che le nocche non sbiancano, si morde l’interno della guancia a sangue, ma non lascia sfuggire un solo suono tra le sue labbra.
Forse, ormai quasi due anni fa, ha desiderato di non sentire più nulla.
Non muori certo domani, Odasaku.

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‘Osamu’ è il nome che gli ha dato sua madre. Non “i suoi genitori”, solo sua madre; si ricorda ancora di qualche anno fa, quando la sua insegnante ha chiesto a tutta la classe di scrivere un breve tema sui loro nomi, e come i loro genitori fossero arrivati a scegliere proprio quelli. Lui l’aveva scritto, e poi l’aveva letto di fronte a tutti i suoi compagni di classe - e alla fine qualcuno aveva chiesto “e tuo padre, Dazai-kun?
L’espressione della sua insegnante era stata davvero buffa, perché era sembrata terrorizzata da quella domanda; ma lui non capiva cosa ci fosse di così spaventoso. Aveva semplicemente detto la verità. Solo dopo qualche anno aveva compreso che a essere stato sbagliato era stato il modo in cui lo aveva detto, come se non fosse toccato da una domanda così personale, difficile - crudele. A lui, a quel tempo, era sembrata una come tante altre che avrebbero potuto fargli.
«Non ne ho uno.»
Nemmeno una volta aveva pensato a se stesso come sfortunato. Forse perché le persone non potevano oggettivamente sentire la mancanza di qualcosa che non avevano mai avuto, quindi Osamu non si era mai davvero sentito in difetto di qualcosa solo perché non aveva un padre: non lo aveva mai visto, neanche in un’occasione; non sa se si somigliano o se ci sono solo alcune cose che ha preso da un uomo che nella sua mente non ha nemmeno un’identità precisa. Ha provato a immaginarlo, una volta o due, ma ha fallito. L’unica cosa che sa è che era piuttosto bello, a giudicare dal poco che sua madre gli ha raccontato nei rari momenti in cui gli ha parlato di lui: un uomo davvero, davvero bello, un uomo buono - Osamu non ne è molto sicuro, visto che i padri dei suoi compagni di classe sono sempre presenti per i loro figli.
No, lui è abbastanza sicuro di essere un ragazzo fortunato: sua madre lo ha fatto nascere e lo ha cresciuto tutta da sola; a volte la sente piangere, l’abbraccia e lei ride. E’ in quei momenti che pensa di non aver bisogno di una terza persona oltre sua madre e se stesso, di non aver bisogno di un padre.
Dazai Osamu ha nove anni, e pensa che sua madre sia un’eroina.


Tutte le sue compagne di classe sono strane. E’ l’Ottobre del suo primo anno di scuola media e tutto ciò di cui parlano si riconduce alla storia dell’anima gemella; non che lui non sappia di cosa si tratta, ma proprio per questo sa che si tratta di qualcosa da affrontare nella pubertà e per cui manca ancora diverso tempo quindi - le ragazze però sviluppano prima dei ragazzi, perciò molte di loro hanno già questa frase sui loro corpi, molte ridono tutto il tempo mentre se le mostrano l’un l’altra, specie durante la pausa pranzo. A dire il vero a lui non interessa molto: innanzitutto perché non ne ha ancora una, perciò non ha niente di cui parlare; secondo, perché l’intera faccenda non gli piace granché.
Giusto qualche giorno prima ha visto una ragazza di un’altra classe piangere nel corridoio perché - a quanto pare? - le poche parole che ci sono sul suo polso sono parole che il ragazzo che le piace non potrebbe mai dire, qualcosa a proposito di una sorella minore che non ha, perché ha solo un fratello maggiore.
Non è che Osamu non capisca i suoi sentimenti, almeno su un piano teorico e generale, ma… come si può essere così disperati per una cosa così sciocca? Poche parole non sono una sentenza di morte, né rappresentano una legge assoluta.
«Dazai-kun ti posso parlare?»
La ragazza di fronte a lui è Kaori, della sua classe: è timida e gentile, una delle poche che ancora non ha visto comparire su qualche parte del suo corpo le parole della sua anima gemella o, se le ha, non sono in un punto visibile per tutti. Lui la guarda, non molto sicuro di voler davvero uscire dalla classe per ciò che lei deve dirgli, qualcosa che non è difficile immaginare. Lo fa comunque, perché c’è una vaga possibilità che non si tratti di una dichiarazione: quindi annuisce e si alza, la segue fuori mentre i suoi compagni fanno qualche battuta idiota alle sue spalle; lei per fortuna si ferma quasi subito, quando raggiungono le scale.
Ha un sorriso timido a incurvarle le labbra, mentre si tortura le mani cercando il modo migliore di dire quel che deve dire. In un certo senso lo sorprende quando punta lo sguardo su di lui, instaurando un contatto visivo diretto.
«Mi piaci, Dazai-kun.»
«Davvero?»
«Sì. Sei… gentile, e intelligente, e sembri davvero maturo. E penso che tu possa essere la mia anima gemella, Dazai-kun.»
E’ per questo che l’intera faccenda non gli piace per nulla: tutti sembrano credere che nel momento in cui scopriranno chi è questa fantomatica anima gemella saranno destinati alla più completa infelicità qualora non dovessero essere ricambiati. Non c’è alcuna logica e non riesce ad accettarlo. Sa bene che il giorno in cui le parole della persona a lui destinata arriverà, ma si limiterà a leggerle e poi a dimenticarsene; dopotutto non morirà certo per averle ignorate.
Osamu sa meglio di chiunque altro che si può sopravvivere anche senza la propria anima gemella: ha visto spesso la frase sul corpo di sua madre, ma sa che suo padre non l’ha pronunciata la prima volta che si sono incontrati. Quindi è chiaro che non fosse l’uomo destinato a sua madre.
Ma è tutta qui la questione: lei continua a incontrare uomini, notte dopo notte; a volte torna a casa di mattina, e va bene, perché Osamu può fare finta di stare dormendo quando lei apre la porta e gli si sdraia accanto - non sa se lei finga o meno di sbagliare porta, ma non la caccia mai, perché lei lo abbraccia e mormora un nome che forse potrebbe essere quello di suo padre. Eppure la maggior parte delle volte le fa anche entrare alcuni di quegli uomini mentre lui è in casa. A loro non piace mai: probabilmente pensano che avere un moccioso tra i piedi non farà altro che rovinare i loro piani o qualcosa del genere. Così sua madre lo manda via dalla sua stanza, da casa loro, e poi prova a convincere quegli uomini a restare, come se quelli fossero l’unica cosa in grado di alleviare la solitudine che le monta dentro ogni volta che la frase sul suo corpo le urla dietro di essere stata abbandonata, marchiandole la pelle come fuoco.
Osamu odia quegli uomini, li odia tutti, ma alla fine se ne va sempre e rimane fuori quanto basta, per tutto il tempo necessario. A volte va a studiare in biblioteca, perché così non deve spendere soldi. Ci sono giorni in cui sua madre si è persino dimenticata di lui e di farlo rientrare, lasciandolo fuori tutta la notte. Perciò, quando sente i suoi compagni parlare di quanto romantico debba essere il primo incontro con le loro anime gemelle, si irrita. Sua madre probabilmente non ha mai incontrato la persona a cui era destinata eppure è sopravvissuta, ha persino avuto un figlio e si svende perché è una di quelle donne che non può essere lasciata sola, che ha bisogno di un uomo a tutti i costi - una di quelle a cui non interessa niente della propria dignità, dell’amore o della famiglia.
Come fanno le persone a fregarsene della storia dell’anima gemella, che è solo una favola per bambini, per assicurargli - mentendo - che non rimarranno mai soli?
«Io no.» replica dopo una pausa forse troppo lunga «Io non penso di essere la tua anima gemella. E non penso di piacerti. Comunque, anche se fosse vero, non ho intenzione di incontrare la persona della mia frase o di uscire con lei, se anche dovessi incontrarla.»
Kaori lo guarda come se avesse detto una cosa orribile, come se fosse un serial kille che ha appena confessato crimini indicibili contro l’umanità. Un po’ lo diverte.
Dazai Osamu ha tredici anni e quando guarda sua madre non vede altro che un essere umano da compatire, solo e abbandonato a se stesso.


E’ il secondo anno delle superiori quando il suo responsabile di classe lo chiama per un colloquio privato e Osamu non sa cosa aspettarsi. Non è stato mai chiamato in sala professori perché tutti i suoi insegnanti lo adorano - o, per meglio dire, apprezzano i suoi risultati. Sua madre non è mai stata chiamata, non che sarebbe mai andata ai colloqui, e Osamu non ha mai avuto bisogno di fare dei compiti in più né ha mai sbagliato un esame. E’ piuttosto curioso quindi, il cuore gli batte appena più veloce quando apre la porta; il suo insegnante lo accoglie con un “sorriso da adulti”: è il modo in cui li chiama Osamu. Quei sorrisi che le persone usano ma che non raggiunge mai i loro occhi - il modo più semplice per capire quando ti stanno mentendo o quando stanno cercando di essere gentili solo perché devono.
«Per favore siediti, Dazai-kun.»
Il suo insegnante non è male: un uomo forse sui quarantacinque anni, bravo nel suo lavoro. Insegna Letteratura Giapponese, è appassionato riguardo quello che fa ed è chiaro che ami la materia che insegna. Osamu è abbastanza sicuro che l’università che ha scelto sia anche merito di questo professore. Ma non dovrebbe provare a occuparsi dei suoi studenti in qualità di persona: non gli riesce granché.
«Vivi con tua madre, giusto?»
«Sì.» Osamu ha imparato a non starsene sulla difensiva, quando glielo chiedono; ora è abituato a sorridere di rimando come se non ci fosse alcun problema, come se la sua vita fosse tanto perfetta quanto lo sono i suoi voti.
«E dimmi… ecco, tu sai che è un dovere degli insegnanti supportare gli studenti, vero? Perciò Dazai-kun, se avessi dei problemi di cui volessi discutere, potresti sempre--»
«Sensei» Osamu lo interrompe che ancora sorride «se è riguardo alle bende, non è come pensa. Mia madre non mi picchia.»
Si sente quasi in colpa nel vedere il suo insegnante così in imbarazzo per l’errore. Ma essere schietti è utile perché i docenti sentono di aver fatto quel che c’era da fare, di non dover ascoltare preoccupazioni superficiali di un adolescente. Infatti non ci vuole molto perché anche lui possa tornarsene in classe, congedato da qualche frase di circostanza.
Ha iniziato a indossare le bende il giorno prima, e tutti i suoi compagni gli hanno già fatto le domande più disparate. Osamu ci ha pensato, prima di rispondere: avrebbe potuto dire la verità, ma poi sarebbe solo diventato ancora più seccante; avrebbe potuto mentire, ma dal momento che intende indossare quelle bende per sempre, a che pro farlo?
Non è ancora sicuro.
«Dazaui-kun stai bene?» è la prima cosa che uno dei suoi compagni chiede quando torna in classe. La maggior parte di loro lo guarda, la curiosità nello sguardo. Takeda è il rappresentante di classe, e sembra un ragazzo serio e diligente, un tipo a posto; troppo apprensivo per i suoi gusti, ma…
«Tutto a posto. L’insegnante voleva solo un chiarimento da parte mia su una questione.»
«Intendevo le tue bende. Ti sei ferito?»
E’ questo il problema con le persone che si interessano troppo. Gli sorride lo stesso, però.
«Mh… a questo punto penso non serva più nasconderlo visto che le terrò per un bel po’.» decide all’improvviso di dire la verità - una mezza verità «Non mi sono ferito. Ho solo un brutto segno che voglio nascondere.» e potrebbe chiuderla lì, ma quasi tutti i suoi compagni ormai hanno il marchio delle loro anime gemelle sul corpo. Come potrebbero non capire cosa intende quando parla di un “segno”?
«Intendi dire il marchio della tua anima gem--»
«Un brutto segno.» ripete sorridendogli.
Nessuno fa più domande.
Osamu ha sedici anni, e dal momento che sua madre è la prova vivente di come l’amore possa essere, perché dovrebbe preoccuparsi di una cosa tanto inutile, seccante e disgustosa?


Quasi un anno dopo quell’episodio sua madre tenta di togliergli le bende mentre sta dormendo. Forse è ubriaca, o forse lo fa per curiosità perché il giorno prima non aveva nulla e quello dopo indossava delle bende intorno al collo. Ha buone intenzioni, almeno di quello Osamu è sicuro. Ma non cambia il fatto che non vuole mostrare a nessuno quello che c’è sotto, e poi cosa importa a sua madre, dopotutto?
Glielo chiede - lo intende come una domanda retorica, è chiaro - e in quel momento lei comincia a piangere: è sbalordito. Di solito lei piange perché gli uomini finiscono con l’abbandonarla, perché si sente sola, ma per lui non ha mai versato una lacrima. Beh magari quando era un bambino, le prime volte che lo ha mandato via da casa: tendeva a riaccoglierlo dentro, ad abbracciarlo e a sussurrargli delle scuse nell’orecchio; diceva spesso “Mi dispiace Osamu. La mamma ti ama davvero tanto, lo sai sì? Ma si sentiva sola. Ora però passa.” e piangeva finché non si addormentavano insieme.
Quando era un bambino, pensava che l’avrebbe perdonata sempre. Ma crescendo, volta dopo volta lei faceva la stessa cosa - alla fine il suo “la mamma ti ama” aveva perso ogni significato. Forse era una bugia.
Lui non glielo aveva mai chiesto.
Eppure, lo preoccupa che lei pianga a causa sua.
«Certo che m’importa!» urla lei e gli ricorda un bambino capriccioso che non conosce altro modo di farsi ascoltare: «Mi importa di mio figlio! Pensavo… forse Osamu mi odia e pensa che nessuno lo amerà per colpa mia… e forse non vuole amare nessuno.»
«E’ proprio così. Non voglio sapere chi è la mia anima gemella. Dopotutto tu non hai sposato la tua, no? Però sei sopravvissuta.»
E’ quasi divertente il modo in cui lei smetta di piangere quando sente le sue parole. Osamu non sa se l’ha ferita o se volesse farlo, ma la guarda aspettandosi una reazione. E la ottiene: per la prima volta da che ha memoria, lei lo schiaffeggia.
«Stai dicendo che è colpa mia se tuo padre non è qui?! Giusto perché tu lo sappia, era un uomo orribile e ha abbandonato me tanto quanto te! Avrei potuto abortire e farlo restare, invece ti ho fatto nascere! Perciò se non sai cosa sia un padre vai a prendertela con lui!» è ciò che gli grida in faccia, e Osamu non sa se la cosa lo ferisca. Forse è perché ha sempre saputo che suo padre non era il tipo da sperare tornasse a casa o nella propria vita; o forse è il modo in cui sua madre fa sembrare la sua scelta di non abortire non qualcosa di cui essere felici, ma di cui essere grati, come se le dovesse un favore.
Forse si arrabbia perché pensava lei non fosse più in grado di ferirlo o di farlo sentire così… solo. Ma quando lei allunga le mani verso di lui per disfargli le bende, lui la spinge via per la prima volta in vita sua.
«Osamu!»
«No!» urla lui, e le sue mani non si sono mai mosse così velocemente. Si toglie le bende da solo, finché la frase non è chiara e visibile. E allora comincia a graffiare con entrambe le mani. La pelle diventa rossa e a un certo punto è sicuro che finirà col sanguinare. E’ in quel momento che sua madre lo ferma.
«Ecco qui! Oh, Grantors of Dark Disgrace. Do not wake me again!» urla «Che frase romantica! Ma forse la mia anima gemella starebbe meglio morta che viva, come me. Non sei mai stata una madre degna di questo nome, non cominciare a fare il genitore ora, perché dopo il diploma andrò via, ti lascerò sola con tutti quegli uomini che ti usano. Perché forse è l’unica cosa che ti meriti.»
E’ senza fiato, quando si zittisce e la guarda: è ferita dalle sue parole, eppure lui non riesce a sentirsi in colpa per questo.
Forse è a questo che è destinato: essere solo, e non sentire nient'altro per tutto il resto della sua vita.

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