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Prompt: Hall/corridoio di albergo a tarda notte
Missione: M3 (week 7)
Parole: 1097
Rating: PG13
Warnings: //



E’ notte fonda quando sente bussare alla porta della propria stanza di albergo e il suo primo istinto, nel sentirsi strappare con tanta violenza al sonno che stava finalmente per coglierlo, è di tirare un qualsiasi oggetto contro la porta e far così desistere chiunque sia il bifolco dall’altra parte. Per sua enorme sfortuna le uniche due cose sul comodino della stanza dell’hotel in cui sta alloggiando sono il suo cellulare in carica e il telefono per chiamare la reception. Nel caso del secondo oggetto, non è un rozzo plebeo incapace di rispettare i beni altrui; nel primo, ha ancora bisogno dello smartphone perché la globalizzazione ha distrutto l’estetica in tanti modi tra cui anche piegare l’essere umano alla schiavitù di stupide notifiche luminose. 


Con un verso interpretabile in molti modi tranne che come un benvenuto, scalcia le coperte con poca grazia - il mondo glielo perdonerà per questa volta - e si trascina in piedi, lui e le sue due ore scarse di sonno a causa di un’ultima commissione da portare a termine. Sta per chiedere chi sia quando, oltre la porta, sente biascicare con tono insopportabilmente divertito uno «Shuuuu» da cui purtroppo riconosce Tsukinaga. Dio deve odiarlo davvero tanto.


Per una manciata di secondi la tentazione di fingere di non averlo sentito e ignorarlo per tornare al piacevole abbraccio delle coperte è forte; non lo fa solo perché in anni di conoscenza ha imparato che Leo, quando pensa di non essersi fatto sentire non demorde. Urla più forte. E Shu non ha intenzione di insozzare il proprio nome con un reclamo per disturbo della quiete pubblica in un albergo dove dovrà restare per altri due giorni. Inspira e sa già che non sarà sufficiente. 


Gli basta aprire di poco la porta per pentirsene subito e sentire qualcosa colpire il muro e la risata di Leo. Un’occhiata gli basta a rendersi conto che l’idiota a cui si accompagna ha appena dato una testata al muro perché non si regge in piedi. Puzza pure. 


Il corridoio del piano dove si trova la sua stanza è ancora deserto, per fortuna, illuminato dalla luce automatica che rimane accesa fin quando qualcuno occupa lo spazio comune. Leo sembra trovarlo esilarante, vestito come se si fosse cosparso di colla e si fosse buttato a caso dentro un armadio lasciandosi addosso i primi indumenti che gli si sono appiccicati al corpo. Shu occhieggia il proprio pigiama, di una stoffa più pregiata di tutti i vestiti indossati da Tsukinaga messi insieme, e decide di non infierire; tanto il compositore non riesce a seguire i suoi discorsi sul buon gusto nemmeno quando è lucido, figurarsi. 


«Shuuu»
«Tsukinaga sono le tre e quarantasei del mattino.» puntualizza con un’occhiataccia. Sono due mesi che non si incontrano per gli impegni lavorativi ed è già surreale che sia Berlino ad accoglierli in contemporanea per due cose diverse, lasciandogli comunque il tempo di incrociarsi per più di cinque minuti. Motivo per cui erano d’accordo per incontrarsi a mezzogiorno. Evidentemente il fuso orario biologico di Tsukinaga è l’ennesima cosa di lui a funzionare in modi discutibili. 


Leo lo guarda per qualche istante, cercando forse di definire l’arcano celato dietro le sue parole - Shu vorrebbe quasi suggerirgli il messaggio poco subliminale: “torna nella tua stanza e lasciami dormire”. Ma Tsukinaga comincia a ridacchiare quasi Shu avesse raccontato la barzelletta del secolo. Come se lui ne avesse mai raccontata una da quando si conoscono, poi.


«Tsukinaga» lo richiama di nuovo, la pazienza lasciata sotto le coperte mentre gli occhi si spostano da un lato all’altro per assicurarsi che nel corridoio non stia facendo capolino nessuno degli altri ospiti per intimare loro di fare silenzio, prima di tornare a focalizzarsi sul compositore «abbassa la voce.» gli sibila, un po’ un monito e un po’ una richiesta. Leo ridacchia, alzando persino il volume per una manciata di secondi mentre si stacca dal muro e gli si avvicina deambulando un poco. Shu è quasi arreso all’idea di farlo entrare perché smetta di fare casino e metterlo in imbarazzo quando Leo gli afferra il polso e lo tira un po’, facendolo inciampare nei propri stessi piedi. Questo lo porta a varcare la soglia e a ritrovarsi un paio di passi in là, ormai del tutto nel corridoio anche lui.


«Tsukinaga—» comincia, nella sua testa una filippica di almeno cinque minuti in cui gli spiega che ha passato i vent’anni e deve smettere di comportarsi come un rozzo ragazzino di dieci, ma Leo gli sta addosso di peso prima - abbastanza da far mezzo cozzare Shu con la schiena nell’odioso punto a metà tra la porta e lo stipite. Non aveva proprio bisogno di avercelo tra le scapole, tra parentesi. 


Prima che possa dirgli qualcosa, Leo lo sta baciando in modo goffo perché ha abbastanza alcol in corpo da essere brillo, sebbene Shu sia sicuro che lo stia almeno baciando volontariamente e non perché è così ubriaco da non distinguere la destra dalla sinistra. Di sicuro è il risultato di qualche cena con chi gli ha commissionato il lavoro di Berlino. Le braccia del compositore gli cingono le spalle quasi il loro fosse un bacio da manuale per un film romantico, ambientazione nel corridoio in piena notte compresa, perfetto stile amanti che si sono ritrovati dopo le avversità.


Onestamente gli unici ostacoli sono agende troppo piene e il retrogusto amaro nella bocca del compositore, mentre quello non si priva di fare di testa sua come sempre, dimenticandosi di quante volte Shu gli abbia detto che certe cose è cattivo gusto farle dove chiunque può stare a guardarli. Ma no, Tsukinaga Leo il prodigio deve fare costantemente quello che vuole. Shu lo detesta. Se non stessero insieme da tre anni lo avrebbe già bucato con i suoi spilli da sarto fino a ucciderlo.


«Itsuki, Itsuki» lo richiama cantilenando quando si stacca abbastanza da biascicarglielo sulla bocca, con quell’aria felice da scemo del villaggio «ti ero mancato, vero? Certo che ti ero mancato. Così tanto che mi hai aperto la porta anche alle tre e quarat… quarans… oh, le quattro! Le quattro, ti dico!» comincia la follia, sì, lo straparlare che non cambia mai perché Tsukinaga vive in una costante condizione di ubriacatura nei confronti della vita. Almeno ha una forza pari a quella di un infante, in momenti come questo, perciò persino Shu riesce a districarsi dal suo abbraccio per cercare di portarselo in camera.


«Quando ti vedo mi ricordo che non mi manchi affatto.» gli fa presente, spingendolo dentro la stanza. Lo sente ridere, mentre lo segue e si richiude finalmente la porta alle spalle.

 
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Il telegramma che ricevette quel giorno era un breve messaggio. Freddo e impersonale, che riuscì con poche parole a sconvolgere tutto il suo mondo.
Alla cortese attenzione di Suou Tsukasa,
ci rincresce informarla della prematura dipartita di Tsukinaga Leo. I funerali si terranno--”
Aveva dovuto leggerlo, e rileggerlo, e rileggerlo. Come si poteva morire così?


Se deve essere onesto, Tsukasa non sa cosa dovrebbe pensare del fatto che - dopo il diploma - quasi non ha mai sentito (men che meno visto) il suo vecchio gruppo. Non che non ci avessero provato: Tsukasa ricorda che all’inizio ci sono stati alcuni tentativi di incontrarsi, nonostante fossero tutti occupati. Però, man mano che gli anni passavano, era diventato impossibile coordinarsi e avevano finito con il mandarsi messaggi per i compleanni e qualche altra festa.
Nemmeno una volta aveva pensato alla possibile di incontrarsi ancora in quel modo e, non c’era davvero bisogno di dirlo, sperava che un’eventualità simile non si sarebbe mai presentata. L’autista del taxi è silenzioso, il traffico poco, per fortuna; nella sua mano il cellulare gli mostra un messaggio già letto almeno dieci volte da quando è arrivato. Il nome di Arashi, con il suo unico kanji, sembra guardarlo e accusarlo. Il messaggio è di poche parole - sarai presente, Tsukasa-chan? - ma ognuna di esse è come una pugnalata.
Il taxi si ferma, una casa modesta con il cartello solito dei funerali sembra invitarlo a entrare in silenzio; su quel cartello il nome “Tsukinaga” è scritto rivelando una realtà che non sembra ancora tale. L’autista gli comunica con più discrezione possibile il prezzo e Tsukasa paga velocemente, per poi aprire la portiera e scendere dall’auto, non prima di aver aperto l’ombrello per ripararsi dalla pioggia.
E’ il 3 Luglio. La stagione delle piogge rende il suo completo fastidioso da indossare, ma la sensazione di cui Tsukasa non riesce a liberarsi è quella della propria mano libera: la vaga percezione di star afferrando qualcosa che non riesce a trattenere in alcun modo. Cammina verso l’ingresso e nota quasi subito un uomo non troppo alto e capelli dal colore fin troppo familiare; è una ragazza, però, e non c’è dubbio su chi possa essere. Ruka stessa, quando lo vede, lo riconosce immediatamente - gli occhi verdi sembrano quelli di una bambina che si sente persa, nonostante abbia ormai venticinque anni. Suo padre, l’uomo che Tsukasa ha notato in precedenza, sembra più piccolo di quanto non sia in realtà, schiacciato contro il peso invisibile del lutto.
Loro gli rivolgono un inchino, e Tsukasa fa lo stesso. Non c’è niente che possa dire.
«Tsukasa-chan.» la voce di Arashi è bassa, come se si trovassero in un santuario; Tsukasa lo guarda, ed è quasi sorpreso nel trovare sul suo viso lo stesso vecchio sorriso di una volta. La sua espressione è gentile com’è sempre stata, ma persino Tsukasa può notare che negli occhi di Arashi c’è lo stesso dolore che ha visto nella maggior parte delle persone incrociate nella casa. C’è di più, però: il più grande sembra sapere che il senso della perdita provato da Tsukasa non è dovuto solo alla morte di Leo. E’ come se Arashi stesse aspettando la sua domanda, conscio di non poter non rispondere.
«Izumi-senpai e Ritsu-senpai...?»
«Non sono venuti.» conferma Arashi con quanta più gentilezza possibile. Tsukasa sa che sta cercando di fare del suo meglio per dare una risposta spiacevole senza che sia doloroso per lui, e Tsukasa si sente viziato ancora una volta, proprio come avveniva quando erano solo un gruppo di studenti del liceo. Non riesce a capire, però. Che motivo potevano avere per non venire - ed è arrabbiato perché è una cosa sbagliata questa, e una piccola parte di lui è egoista abbastanza da volere che le altre persone che hanno conosciuto Leo soffrano con lui.
«Tsukasa-chan» la mano di Arashi è sulla sua spalla «hai già saputo della ragione della sua morte?» domanda, facendo una lieve pressione su quella stessa spalla per spingerlo verso una parte più isolata della casa dove possano parlare senza disturbare nessuno. Mentre iniziano a camminare, Tsukasa scuote la testa; ha solo ricevuto un telegramma con i dettagli riguardo dove e quando si sarebbero svolti i funerali. Nessuna spiegazione. Arashi gira sulla destra, e si ritrovano in un corridoio piuttosto silenzioso e lontano dalla maggior parte dei presenti.
«Ho parlato un po’ con Ruka-chan quando sono arrivato.» ammette «Non c’è davvero un modo delicato per dirlo, ma prova… ricordati di respirare.» e Tsukasa conosce Arashi da tanto tempo ormai, perciò non può che preoccuparsi; perché è vero che Arashi è sempre stato il più empatico del gruppo, ma questo modo di fare così cauto non lo aiuta affatto a calmarsi, anzi. Forse Arashi ne è conscio, perché la mano sulla spalla di Tsukasa non viene spostata ma rimane lì. Se per confortarlo o per fermarlo, Tsukasa non lo sa.
«Si è trattato di suicidio.»
Quell’ultima parola riecheggia nel silenzio pesante. Tsukasa sa che la sua espressione deve star mostrando mille pensieri tutti insieme e che stanno letteralmente invadendo la sua testa con una tale forza da fargli venire la nausea; lo capisce da come la mano libera di Arashi si posa sull’altra sua spalla, come se l’altro volesse in tutti i modi cercare di evitare a entrambi di cadere o come se fosse pronto a sostenere Tsukasa nel caso svenisse per lo shock.
Non una sola volta in tutti gli anni in cui si sono frequentati Tsukasa aveva mai pensato che Leo si sarebbe potuto suicidare. Suonava così fuori dal mondo da non suonare bene nemmeno come una battuta di pessimo gusto.
Si porta una mano alla bocca, di riflesso, con la sensazione di dover dare di stomaco da un momento all’altro; è vero che avevano smesso di frequentarsi dopo l’università, ma cosa poteva essere successo? Cosa c’era stato di così doloroso e insopportabile, nella vita di Leo, da portarlo a scegliere un modo tanto estremo di mettere fine alla propria sofferenza? Si erano scambiati dei messaggi per i loro compleanni, cartoline per il nuovo anno, e all’inizio avevano anche provato a incontrarsi - avevano smesso, ma era stato a causa del lavoro, giusto?
«Respira, Tsukasa-chan» è il consiglio di Arashi, un piccolo sorriso comprensivo sulle labbra. Tsukasa non può che guardarlo: anche anni addietro, durante il liceo, si era sempre chiesto come Arashi fosse in grado di non mostrare mai i propri sentimenti, nemmeno alle persone che considerava vicine e che lo conoscevano bene. Anche ora, l’altro gli sembra triste ma non turbato. E’ perché ha avuto il tempo di venire a patti con quella verità tremenda?
«C’è anche qualcosa che devo darti, visto che doveva esserti recapitata in ogni caso.» ed è così che allontana la mano dalla sua spalla per portarla alla tasca interna della giacca del completo che indossa; ne tira fuori quella che sembra una lettera, e all’improvviso Tsukasa non vuole sapere, non vuole prenderla. Gli occhi di Arashi sono sulla busta, accarezzano la carta bianca e gli ideogrammi scritti su essa. Osservando con attenzione, Tsukasa non fatica a riconoscere il nome del destinatario: Suou Tsukasa. Il proprio nome, una calligrafia conosciuta.
I suoi occhi incontrano quelli di Arashi, una domanda silenziosa tra di loro.
«Il nostro Re ha scritto questa per te, Tsukasa-chan. Me l’hanno consegnata insieme alla mia.» spiega con attenzione, poche ed efficaci parole mentre gli dà il tempo di assorbire cosa stia dicendo. Tsukasa sobbalza appena a quel “il nostro Re” - è passato così tanto tempo da quando ha avuto l’ultima occasione di chiamare Leo “Leader” o di rivolgersi a lui con l’appellativo di “Re”. E’ familiare, nostalgico e gli fa venire voglia di piangere.
«Naturalmente non l’ho letta, ma se è più o meno come la mia, allora è probabile che ce ne sia una per ognuno di noi. Non so se abbia lo stesso contenuto, quindi su questo non posso aiutarti. Dovrai leggerla.» suona come un altro consiglio, ma Tsukasa sente che c’è qualcosa di più nelle sue parole; sa che Arashi è troppo gentile per dirgli apertamente “leggila”, perché non farlo sarebbe irrispettoso. Eppure è spaventato -  dal dolore, ma anche perché è ovvio che qualcosa non andasse e che nessuno di loro lo abbia capito o sia stato in grado di aiutare Leo… era arrabbiato con loro per questo? La lettera è per accusarli, per maledirli?
«Perché Izumi-senpai e Ritsu-senpai non ci sono?» gli scappa detto, ignorando la lettera ancora tra le mani di Arashi. L’altro lo guarda, sorpreso: forse non se lo aspettava, o forse pensava che Tsukasa sarebbe stato del tutto distratto dalla lettera e dal suo contenuto. Eppure, negli occhi di Arashi c’è anche un qualcosa che gli fa pensare lui si aspettasse quella domanda, presto o tardi. Si tratta di qualcosa che non si può dire? Un sorriso di scuse incurva le labbra di Arashi e Tsukasa capisce immediatamente che non arriverà nessuna risposta; o, peggio ancora, che la risposta non gli piacerà.
«Ci sono tante cose che non ti abbiamo mai detto, Tsukasa-chan.» inizia a dire Arashi, guardandolo come un bambino conscio dei propri sbagli ma che ormai non può più rimediare a nessuno di essi. «Non perché non ci fidassimo di te o qualcosa del genere… credo volessimo solo proteggerti. Perché c’erano cose accadute in passato, prima che ti unissi alla band. E non volevamo mostrarti qualcosa di così sgradevole.» conclude, muovendo appena la mano per incalzare Tsukasa a prendere la lettera.
C’è solo confusione nella sua mente, ma il suo corpo si muove quasi da solo per afferrare la busta e mettere la lettera in tasca.


Wahahah!

Ho pensato a lungo su come iniziare una lettera simile, sapete? Perché essere un genio quando si tratta di musica non significa nulla, a dire il vero. Allora? Sena ha aggrottato le sopracciglia quando ha letto la prima parola? Me lo immagino, mentre Suou sospira rassegnato, e magari Naru sta ridacchiando, vero? Rittsu probabilmente sta dormendo da qualche parte, sì. Scusami, Rittsu! Svegliati, è importante!
Ho provato a scrivere musica. Ho pensato che avrei potuto fare del mio meglio ancora una volta, una sola, e comporre. La musica, sapete, è l’unica cosa che riesco a fare bene. Quello e scappare. Ma quando ho preso la penna e ho guardato lo spartito… è stato davvero difficile.
“Aaah” ho pensato “è terribile! E’ orrendo! Non posso, proprio non posso farcela” e ho buttato tutto via. Non solo perché… beh, ho gettato via più o meno tutto quello che c’era nella mia vita, no? Dovrei esserci abituato.
La verità è che volevo fare qualcosa di giusto. Almeno per una volta…
Mi spiace, Naru. So che quel giorno ho fatto qualcosa che un amico non avrebbe mai fatto. Ti sei sempre preso cura di me e lo sapevo che stavi male, ma ero troppo infantile e tu non ci dicevi mai cos’avevi per la testa… vorrei poter dire che l’ho fatto per ottenere una reazione da te, ma so di aver causato molto più di quello. Mi ricordo così bene le tue parole, Naru… ti sei arrabbiato pensando agli altri, come sempre. Perché è questo il tipo di persona che sei, Naru. Lo so meglio di chiunque altro. Vorrei avertelo detto allora, ma… almeno stavolta voglio che tu lo sappia, Naru, di essere una persona meravigliosa. Meriti tutta, tutta la felicità che si possa avere. Però lascia che chi ti ama ti possa aiutare.
Io me ne sono accorto troppo tardi, ma tu sei sempre stato migliore di me, giusto?


A proposito di Naru… il prossimo sei tu, Suou.
Penso tu ci abbia davvero salvati, Suou. Sei arrivato quando probabilmente eravamo già troppo stanchi - senza di te la nostra band non si sarebbe mai riformata. Ma eri così entusiasta riguardo ciò che facevamo, riguardo l’unirti a noi… penso che tutti abbiano visto la speranza, in te. Guardandoti abbiamo pensato che avremmo potuto farcela. Sono sicuro che tu sia piaciuto subito a ognuno di noi; ci avevi idealizzati quando non credevamo più in noi stessi. Ci hai dato così tanto, senza nemmeno accorgertene e io mi sono approfittato della tua gentilezza, ho ignorato i tuoi sentimenti e fatto finta di non capirli. Sapevo che eri serio, nei miei riguardi… come sarebbe potuto essere altrimenti, dal momento che eri serio riguardo qualsiasi cosa?
Lo sapevo, ma avevo bisogno di credere che ci stessimo divertendo entrambi, senza troppi pensieri.
Mi dispiace. Non mi sono potuto scusare prima, ma spero non sia troppo tardi, ora. Penso che troverai qualcuno che ti amerà sinceramente. Ma se un uomo inutile come il sottoscritto può azzardare e darti un consiglio… devi proteggere te stesso di più, Suou.
Devi capire che, in questo mondo, le cause perse esistono.


Chissà se nel frattempo saranno riusciti a svegliarti, Rittsu? Sacrificherai un po’ del tuo sonno per leggere le parole di questo sciocco Re?
So che c’è un’alta probabilità che tu non solo sia ancora arrabbiato con me, ma che tu sia anche una delle due persone che ho ferito di più. Sebbene io abbia fatto del male a Naru e Suou volontariamente, perché sono stato egoista ed egocentrico, ciò per cui voglio scusarmi con te Rittsu non è quello che ha causato la tua reazione. In un certo senso, non penso di aver avuto del tutto torto. O forse ero solo troppo debole. Ma volevo capissi che non volevo lasciarti o abbandonarti… ero stanco della mia vita. Ed è solo successo che voi foste parte di quella vita. Ah, a dirlo così però non suona bene. O meglio, suona come se volessi attaccare briga vero? Anni fa per me era impossibile spiegarti… ma ancora adesso è difficile. Di sicuro fallirò. Comunque, tornando a quello che stavo cercando di dire… c’è qualcosa per cui vorrei scusarmi: mi dispiace non aver capito quanto le mie azioni ti facessero stare male. Però, anche se ormai potrebbe essere troppo tardi, voglio dirti che volevo davvero riuscire a capirti e a farmi capire. Quando eravamo nella stessa stanza, come band… forse avremmo dovuto urlare di più. Non lo abbiamo fatto, forse perché volevate proteggere Suou… forse perché volevate risparmiargli quello che voi avevate provato. Avrei dovuto fare lo stesso. Ero il leader, e il vostro Re, perciò avrei dovuto proteggere il mio popolo.
Tu eri parte del mio mondo, Rittsu, lo sarai sempre. Ma alcune persone non sono forte come te, e sfortunatamente i più forti finiscono sempre con avere il ruolo di uno scudo per gli altri. Sono sicuro che tu sia ancora più forte, ora. I deboli come me ti guardano e ti invidiano, e sperano di avere una persona come te nella loro vita per sempre.
Sarebbe bello se, ora, le mie parole riuscissero a raggiungerti.


Sena… chissà se sapevi che saresti stato l’ultimo in questa lettera.
Lo sai, vero? Se dovessi scusarmi per ogni errore fatto o per ogni cosa che rimpiango di non averti detto in passato, dovrei scrivere una lettera solo per te e non penso di farcela. Quando penso a un modo di dire tutto ciò che vorrei… quel che mi viene in mente sono solo due parole. Te le ho dette in passato, ma ho la sensazione di non averle dette abbastanza. Ti hanno raggiunto? Ci hai creduto? Hai mai pensato che saresti stato più felice se non le avessi sentite, se io non ci fossi stato? Hai amato me o la mia musica? Questa è la domanda che mi spaventava di più.
Sena, tu hai visto il peggio di me. Non so come facessi a restare al mio fianco, perché persino io mi stanco di me stesso. Ho provato a pensare cosa avrei potuto dirti, come sembrare un eroe che - giusto prima di morire - dà un ottimo consiglio con le sue ultime parole e il suo ultimo respiro.
Però io non sono un eroe.
E le mie parole preferite quando si tratta di te sono ancora le stesse: ti amo.


Mi dispiace per questa lettera. Mi sono scusato un sacco, eh? Ho pensato di dover provare a mettere a posto le cose almeno una volta. Non credo di dover spiegare tutto quello che penso sia stato ingiusto nella mia vita… penso che invece sia meglio concentrarmi su quello che non mi meritavo ma che ho comunque avuto e in questo caso si tratta - senza alcun dubbio - di voi.
I re fanno del loro meglio, e la maggior parte delle volte governano i loro regni con saggezza.
Penso che a volte un re saggio debba capire quando il suo tempo sta finendo. Che sia perché è troppo vecchio per governare o perché non è più la persona giusta per farlo. Sento che questa vita, dove non sono stato capace di fare quello che mi rendeva meritevole dell’affetto degli altri, sia come una vecchia armatura che ero abituato a indossare per sopravvivere durante una lunga, lunga guerra.
Sono stanco. E voglio essere un re saggio almeno per una volta.


«Signore, temo che dovremo cambiare strada.» pronuncia l’autista, interrompendolo mentre legge. Gli occhi di Tsukasa sono umidi, ma riesce a non piangere e ad alzare la testa, incontrando lo sguardo dell’uomo grazie allo specchietto retrovisore: «La pioggia è troppo fitta e sembra che la strada principale sarà bloccata dal traffico a lungo.»
«Va bene.» replica in poco più di un soffio. Ci sono ancora alcune righe da leggere, quindi si limita a quella risposta veloce prima di portare di nuovo gli occhi sui fogli tra le sue mani--
Rumori assordanti. Un improvviso movimento brusco dell’auto. Le urla dell’autista.
Dolore in tutto il corpo.
Si prova questo, quando si muore?


*

Le prime due cose che nota sono la stoffa sotto le proprie mani e un buon odore nell’aria, per quanto leggero. Intorno a lui ci sono suoni che non hanno niente a che fare con una strada piena di macchine o con la pioggia battente, e non riesce a riconoscerli; oltre a quelli, voci che invece conosce anche troppo bene, impossibili da confondere con altre a prescindere dal tempo passato dall’ultima volta. Sta sognando?
Apre gli occhi, guarda il soffitto e poi, all’improvviso, il volto di Leo è davanti al suo: un Leo sorridente, divertito e dai lineamenti infantili. Occhi verdi che brillano e quella risata che Tsukasa ha sempre trovato incredibilmente irritante. Ma prima di rendersene conto si sta già mettendo a sedere, ed è un miracolo che mantenga un briciolo di lucidità sufficiente a non abbracciare di slancio Leo.
Grazie al cielo, visto che non è affatto un sogno né una visione quella che ha davanti.
«Woah, non svegliarti così all’improvviso!»
«Non dire idiozie, stupido re.» è la frase che spinge Tsukasa ad allontanare lo sguardo da Leo, gli occhi a vagare sulla sinistra finché non nota Izumi pochi passi più in là rispetto al letto su cui si trova lui. Occhi azzurri su Leo e braccia incrociate al petto, Sena non sembra curarsi granché della persona che si è appena svegliata. Arashi, però, ha questo sorriso ampio diretto proprio verso di lui: così quando i loro occhi si incontrano Tsukasa non è davvero sorpreso dall’avvicinarsi improvviso dell’altro né dalla sua espressione piena di entusiasmo mentre dice: «Ara, è un primino così carino!»
...primino. Tsukasa ricorda anche troppo bene il suo primo, imbarazzante incontro con il gruppo di Leo. La loro band si stava esibendo nella loro scuola per il festival culturale e Tsukasa aveva sentito parlare di loro ben prima di quell’occasione: i Knights non si erano esibiti per un po’ a causa dell’assenza del loro leader. Tsukasa era stato curioso, specie dopo che uno dei suoi compagni di classe gli aveva mostrato un video di una performance di qualche tempo prima e a cui aveva assistito in prima persona con il fratello maggiore. Perciò quando aveva sentito che sarebbero tornati sul palco aveva voluto provare ad andare a vedere… ma, poco abituato alla folla che aveva invece ritrovato nella palestra della scuola, corpi pressati gli uni contro gli altri con un caldo asfissiante a fare da cornice, si era sentito male. Ma a parte quello… i suoi giorni di liceale risalivano a diversi anni prima, e l’ultima cosa che lui ricorda è un forte rumore, il dolore e la consapevolezza di un incidente d’auto.
Perché ha davanti agli occhi i membri dei Knights adolescenti? Che razza di scherzo è?
«Ohi, ha battuto la testa?»
«Izumi-chan non essere scortese! Non è adorabile, un fan così appassionato da svenire durante un live?»
Tsukasa sa di avere un’espressione buffa in viso ora come ora, eppure non riesce davvero a focalizzare l’attenzione su qualcosa in particolare. Sa (purtroppo) di cosa Arashi stia parlando: qualcosa che, per Tsukasa, è parte del passato. L’andare al loro primo live, svenire per il caldo e le persone, essere aiutato da chissà chi, essere portato in infermeria e poi incontrare Arashi. Quando era successo si era sentito imbarazzato, ma grazie a quell’episodio aveva conosciuto meglio i membri di quella band e, alla fine, si era unito a loro. Ma il problema è un altro: quello che ha davanti agli occhi non è un ricordo, lui non sta sognando. Se lo stesse facendo, il piccolo bernoccolo sulla sua testa non farebbe male. Nulla lo fa, nei sogni.
Se questa è la realtà… i suoi amici sono un po’ troppo giovani rispetto a essa. Rispetto a lui.
«Forse ha battuto la testa più forte del previsto.» è il suggerimento di Izumi; a dispetto del tono di voce, però, Tsukasa riesce a riconoscere quei piccoli dettagli quasi invisibili che tradiscono, nell’espressione di Izumi, la sua preoccupazione. E’ qualcosa che gli provoca nostalgia, in un certo senso: leggere le sue espressioni è qualcosa che Tsukasa ha imparato dopo diversi anni. Essere in grado di farlo ora, di fronte a quell’Izumi così giovane…
«Sto bene.» mormora, sentendo la propria voce e trovandola più infantile di come dovrebbe essere. Il viso di Arashi si illumina - Izumi dice qualcosa che suona simile a un «Wow, allora sa parlare.» - e Leo è già vicino a Ritsu, intento a cercare di svegliarlo. O di dargli fastidio.
«Allora? Qual è il tuo nome?» è la domanda di Arashi, un sorriso amichevole sulle labbra. Tsukasa non è certo di cosa fare: assecondarlo? D’altronde non ha davvero idea di cosa stia succedendo, ma solo del panico che inizia stringergli lo stomaco; è sicuro che se inizia a pensare gli verrà qualcosa in mente, capirà quel qualcosa che gli sta sfuggendo, e il suo istinto di contro gli sta urlando addosso - sembra quasi dirgli di “non farlo ora, non di fronte a loro”.
«Suou Tsukasa.» replica «Sono… svenuto?»
«In maniera spettacolare.»
«Ignoralo. Hai la nausea?»
«Cosa siamo, i suoi genitori?»
«Sto bene.» ripete «Grazie per aver aspettato che riprendessi conoscenza.»
«Awww» Arashi era davvero pieno di energie, al liceo… «è così educato, mi piace.» e fin troppo amichevole. Come sempre. «Io sono Narukami Arashi. Piacere di conoscerti, Tsukasa-chan. Vuoi che facciamo chiamare i tuoi genitori?
Sì. Ma qual era il numero dei suoi genitori? Sarà ancora nei suoi contatti telefonici?
Non è sicuro di voler guardare.    



Tsukasa si sente grato del fatto che la propria famiglia rimanga sempre un punto fermo della propria esistenza, nel bene e nel male, e che il modo di rapportarsi ad essa non venga mai davvero rimosso. In cuor suo, nonostante viva da solo ormai da diversi anni nel suo tempo, non ha mai dimenticato nemmeno una delle regole di casa Suou e ne è felice, perché al momento l’etichetta è l’unica cosa che riesce davvero a farlo sentire a proprio agio. Sebbene in un corpo molto più giovane di quello a cui è abituato, con tutto ciò che questo comporta, la sfera famigliare con le attenzioni pacate di sua madre e quelle austere ma giuste di suo padre gli hanno permesso di calmarsi abbastanza da riflettere su cosa fare o su quale sia la situazione, al sicuro tra le mura della casa in cui è cresciuto, lontano dagli sguardi di compagni troppo giovani.
Nell’intimità della sua stanza, sdraiato sul letto e con lo sguardo verso il soffitto, sta cercando di fare il punto della situazione mentre sente il proprio corpo rilassato dal bagno caldo fatto appena dieci minuti prima. Le opzioni non sono molte ma, in compenso, sono una meno credibile dell’altra. Prima possibilità: ha sognato una vita intera, un gap di dieci anni nel proprio futuro, e la sua realtà è invece quella di uno studente al primo anno di liceo. Sarebbe credibile se non ci fossero troppi particolari per un sogno simile, se non ricordasse alla perfezione interi periodi della sua vita adulta. Seconda possibilità: è morto e per un qualche scherzo del destino, dopo la morte si rivive il periodo di maggiore spensieratezza che nel suo caso dovrebbe essere questo. Considerato che l’ultima cosa che ricorda da adulto è la presa di coscienza di un incidente stradale, non sente di poterlo escludere a prescindere… anche se pensare all’eventualità gli fa salire al tempo stesso la nausea e il bisogno viscerale di mangiare un’intera confezione di dolci per scaricare lo stress. Terza possibilità: i paradossi temporali esistono e lui, non si sa come, è appena finito invischiato in uno di essi contro la propria volontà.
Nessuna opzione è particolarmente rosea e per assurdo forse l’ultima è quella da augurarsi. Ha provato a cercare in lungo e in largo - nelle tasche della divisa scolastica, nella borsa, ovunque - la lettera di Leo che ricorda di aver letto quasi per intero prima di risvegliarsi in quell’assurda situazione, ma senza risultato. Sperava di avere una prova tangibile di non essere uscito di senno e, al tempo stesso, qualcosa che somigliasse a un indizio, ma…
«Tsukasa-sama» la voce di uno dei domestici lo chiama subito dopo due colpi leggeri contro la porta chiusa della sua stanza. Si mette a sedere, pronunciando un «Avanti.» fin troppo istintivo, riconoscendo subito Takafumi, l’uomo che forse lo ha cresciuto se non più di suo padre, al pari di quest’ultimo; incurva le labbra in un sorriso che gli viene naturale, mentre l’altro avanza nella sua stanza fermandosi pochi passi oltre la soglia.
«Vostra madre chiede se vi sentite meglio tanto da unirvi alla cena che sarà servita tra mezz’ora al piano inferiore.» pronuncia con tono affabile, osservandolo. Non è che Tsukasa non si senta bene abbastanza da mangiare con i propri genitori, ma si chiede piuttosto se dovrebbe farlo. Per quanto ricordi abbastanza chiaramente gli episodi principali della sua adolescenza, i dettagli di poca importanza sono confusi nella sua testa e l’idea di creare danni irreparabili  cambiando qualcosa non lo rende meno inquieto di quanto già non sia. Aveva partecipato a quella cena? Era successo qualcosa di importante che non dovrebbe essere cambiato?
«Tsukasa-sama?»
«Oh» non può credere di non averci pensato fino a questo momento «Sì, mi sento bene. Può dire a mia madre che ci sarò per la cena, scendo tra poco.»
Takafumi annuisce, fa un lieve cenno del capo per congedarsi ed esce dalla stanza lasciandolo solo; Tsukasa si alza, raggiunge in poche falcate la scrivania e si siede, aprendo uno dei cassetti ed estraendone l’occorrente per scrivere. Si rigira la penna tra le mani, cercando di fare mente locale e di richiamare più dettagli possibili della lettera di Leo. Quali erano le cose che il loro leader sembrava rimpiangere di più?
Arashi si era arrabbiato con Leo per qualcosa che doveva aver colpito qualcuno che non era lui. Ritsu-senpai si era sentito… tradito? Abbandonato? La parte su Izumi non era stata molto chiara, non sui torti subiti e quanto a lui, Tsukasa aveva più o meno capito che Leo non era mai stato davvero intenzionato ad avere una relazione seria e duratura con lui.
Appunta tutto, poi tira una linea, fa qualche collegamento con frecce un poco storte di cui non si cura troppo; quando arriva a individuare un possibile punto comune, qualcosa gli si stringe nel petto, e capisce al tempo stesso il primo grande cambiamento che può causare nella speranza si ripercuota - insieme a tutto ciò che potrebbe conseguirne - nel suo futuro: non unirsi ai Knights e far sì che continuino a suonare, ma senza di lui.
Se è lui la causa scatenante, lui deve rimediare.
Tsukinaga Leo non deve, per nessuna ragione, morire di nuovo.


Tsukasa non ricorda con precisione quanti giorni siano passati, all’epoca, tra il suo epico svenimento al live e la sua effettiva entrata nella band; ha in mente però come sia avvenuta, ma non si azzarda a evitare troppo il gruppo per paura di influire negativamente sul cambiamento al punto da far sciogliere la band e peggiorare la situazione. Giocare con gli eventi del passato è una cosa sconsigliata anche nei libri per ragazzini in cui i viaggi nel tempo assumono i connotati fiabeschi di chi otterrà a priori il lieto fine, una cosa di cui Tsukasa invece non è affatto sicuro e non si può permettere il lusso di ottenere un futuro ancora più distruttivo. Così a scuola non cambia strada se intravede qualcuno di loro per i corridoi, e lascia che Arashi lo approcci in più di un’occasione - nota con molta più attenzione di quanta ne abbia avuta in passato che Narukami è quasi sempre in compagnia di Izumi, quando non è con tutti i membri della band.
Amministrare il resto, modellarsi sul ricordo di com’era per non creare discrepanze indesiderate è la cosa più difficile di tutte: le discussioni con Himemiya Tori, che in adolescenza erano facili da far nascere alla minima provocazione, adesso si perdono spesso nell’indifferenza di un adulto che è rinchiuso nel corpo di un adolescente, e Tsukasa deve quasi obbligarsi a raccogliere quelle frecciatine che ormai con l’età ha imparato a gestire. Sorprendentemente però è proprio Himemiya a dargli l’idea perfetta per ovviare alla sua entrata nella band.
Metterla in pratica si rivela un po’ più difficile del previsto, però.
«Suou Tsukasa-kun.» il Presidente del Consiglio Studentesco pronuncia il suo nome senza alcuna inflessione interrogativa nel tono, segno che non gli sta chiedendo conferma della sua identità, come se sbagliare il nome di uno dei tanti studenti dell’accademia privata Yumenosaki non fosse nemmeno un’opzione contemplabile. Tenshouin ha un sorriso cordiale a piegargli le labbra, gli occhi azzurri sulla sua persona e Tsukasa un po’ si sente tornato il ragazzino che era a sedici anni; non ha mai avuto molto a che fare con il Presidente, nella sua adolescenza, quindi il quadretto non gli è esattamente famigliare.
«Quindi vorresti unirti al Consiglio Studentesco.» ripete in due parole quello che Tsukasa ha spiegato con molte di più, mentre lo guarda lanciare un’occhiata ai membri che già ne fanno parte; non si sofferma in particolare su nessuno di loro - né Keito, il vice-presidente, né Isara Mao che Tsukasa ha avuto modo di conoscere all’epoca per lo più per bocca di Ritsu-senpai, né Himemiya che lo guarda con astio come se Tsukasa fosse lì per derubare la sua intera famiglia di ogni prestigio per il puro gusto della crudeltà. Accanto a lui Fushimi Yuzuru, una di quelle persone con cui Tsukasa ha condiviso un club sportivo e l’angoscia di avere a che fare con Himemiya, non subisce un trattamento poi diverso: Eichi sembra interrogare ognuno di loro, ma per nulla più di qualche istante e senza davvero aspettare una risposta.
«Non ho nulla in contrario. Keito parla di te riguardo il club di tiro con l’arco, e ho sentito che sei diligente. Non abbiamo ruoli scoperti, ma un aiuto in più è sempre bene accetto.» comunica, consentendo a Tsukasa di rilassare le spalle e annuire. Non fatica a credere, viste le dimensioni dell’accademia, che il Consiglio Studentesco abbia bisogno di aiuto; lui spera che procurarglielo significhi anche aiutare la propria causa, che quello diventi un impegno sufficiente a essere una scusa plausibile per non unirsi al gruppo di Leo senza dover per forza chiudere ogni possibile contatto con loro. Gli viene mal di testa se cerca di pensare a come mantenere i rapporti senza vanificare la prima mossa, il primo passo appena compiuto. Cos’ha condiviso con loro oltre la musica? C’era qualcosa a unirli, qualcosa in particolare al di fuori di quella sfera di cui Leo è sempre stato il punto cardine, in fondo?
Il club di tiro con l’arco, sì. Ma Leo non ci andava mai con costanza, Tsukasa ricorda le osservazioni di Keito in merito per tutto il tempo in cui è stato Capitano del club e i due si sono diplomati lo stesso anno, perciò non può davvero dire di poter sfruttare quel punto in comune. Più piccolo di tutti i membri della band, di sicuro non può appellarsi alle lezioni. Se riuscisse a instaurare un ponte con Leo è abbastanza sicuro che di riflesso anche Izumi-senpai sarebbe più avvicinabile… o forse dovrebbe cercare di approcciare prima Arashi? Forse--
«Non preoccuparti, Suou.» pronuncia Mao, una pacca amichevole sulla spalla e lo sguardo di chi vorrebbe essere d’incoraggiamento «Alcune mansioni possono sembrare complicate, ma ti abituerai di sicuro. Se hai bisogno, non ti fare problemi.»
Tsukasa gli è grato, ma l’unica cosa per cui avrebbe davvero bisogno di aiuto è l’unica sulla quale non può chiedere consiglio a nessuno.


Con sua grande sorpresa - ma soprattutto con suo immenso sollievo - non è lui a cercare un approccio per primo; Arashi lo batte sul tempo, andando a cercarlo in classe una settimana dopo il festival culturale, per invitarlo a pranzare insieme. Tsukasa accetta, non potendosi permettere di fare altro, ma quando è lì a cercare di ricordare se sia stato effettivamente Arashi il primo ad avvicinarsi a lui (e se quindi il passato, e di conseguenza il futuro, stia cambiando o meno) la risposta gli arriva senza che debba nemmeno chiedere. La cosa è positiva, considerando come gli sembrasse impossibile domandare senza suonare fuori di senno o insospettire il più grande o - peggio ancora - fare un danno irreparabile.
«Il Consiglio Studentesco ci ha battuto sul tempo, mh?»
«Cosa?»
«Ritsu-chan ci ha detto che ti sei unito al Consiglio Studentesco.» chiarisce Arashi, e Tsukasa non ha bisogno di chiedere come Ritsu sia venuto a saperlo: di certo è stato tramite Mao. Si limita ad annuire quindi, mentre scorge l’espressione di Arashi farsi sconsolata in maniera anche un po’ teatrale, una mano portata vicino al viso e un lungo sospiro ad abbandonargli le labbra.
«Al Re questo non farà piacere.» ammette, raggiungendo finalmente un lato un poco più isolato del cortile dove potersi sedere e mangiare con calma. Quasi subito, però, gli rivolge un sorrisetto divertito: «Speriamo almeno che continui a essere un nostro fan, Tsukasa-chan!»
Mentre lo guarda, Tsukasa registra come in effetti sia stato proprio Leo il primo a dargli il tormento - non per reclutarlo - e come sia stato quello a dare inizio a una serie di eventi concatenati che hanno poi portato al suo unirsi ai Knights; aver scelto di impegnarsi in qualcosa come il Consiglio Studentesco e il fare parte già di un club sportivo doveva aver in qualche modo fatto venire meno le premesse necessarie a un approccio di Leo. Anche se non capisce bene come.
«Sì» replica, riprendendosi in corner quando nota che Arashi lo sta guardando con una punta di preoccupazione nel vederlo così silenzioso «mi piacerebbe venire a vedere il prossimo live.» ammette, e su questo non ha bisogno di mentire.
Arashi per un momento si illumina, felice di un apprezzamento sincero al gruppo di cui fa parte; poco dopo, tuttavia, sposta l’attenzione sul suo pranzo per una manciata di secondi.
«Mh… a dire il vero non so bene quando ne faremo un altro.» ammette e Tsukasa non può che pendere dalle sue labbra, mentre sente il cervello andare a una velocità pazzesca per cercare di mettere insieme i pezzi meglio che gli riesce e più in fretta che può: perché i Knights, all’epoca, rischiavano di sciogliersi? Un litigio? E se era stato per quello, era direttamente collegato alla morte di Leo o si trattava di qualcosa che non doveva per forza cambiare? Cerca di riflettere, di convincersi che forse è proprio quello che deve succedere: lui unendosi al gruppo ha impedito che si sciogliesse, ed è andata a finire così, quindi forse se si sciolgono le cose cambieranno radicalmente. Ma Leo si è sentito solo. Per quanto ne può sapere, c’è stato un momento nella sua vita in cui ha sentito di non avere più possibilità, in cui si è sentito stanco al punto da decidere che di sforzarsi non valeva più la pena e quando era successo nessuno di loro era con lui. Quindi far sciogliere la band, l’unico motivo per cui il loro rapporto potrebbe esserci ancora in futuro, è la scelta giusta?
«Non vi state sciogliendo, vero?» gli scappa detto, troppo in fretta perché possa controllarlo. Arashi lo guarda con lo stupore sul viso, e anche se Tsukasa sa che la sua può suonare come la domanda casuale di un fan qualunque, abbassa lo sguardo e si morde l’interno della guancia.
«Stiamo facendo del nostro meglio.» è la replica diplomatica di Arashi, in cui Tsukasa riconosce quella pessima abitudine - “e tu non ci dicevi mai che cosa avevi per la testa” - di tenersi tutto dentro, fino anche a non poterne più «Ci siamo fermati per qualche tempo.» ammette, e quello Tsukasa se lo ricorda, ma non lo interrompe «Ma forse questo già lo sapevi.» conclude abbozzando un sorriso.
«Perché il leader--» si morde la lingua, correggendosi anche se ormai è tardi, sperando che Arashi lo interpreti nel modo in cui un fan si abitua a chiamare in quel modo un membro di una band per abitudine e non per altri motivi «voglio dire, Tsukinaga-senpai è stato assente per un po’, giusto?»
Arashi ride. Non conferma né nega quelle sue parole, ma ride per la sua correzione, apostrofandolo come fan adorabile, perdendosi in chiacchiere su come Leo sarebbe assolutamente estasiato nel sentirsi chiamare “leader” da qualcuno anche di esterno al gruppo.
Tsukasa lo lascia fare, mangia il suo pranzo, ma c’è un nodo in gola insopportabile mentre lo fa: come ha fatto a non accorgersi mai di come Arashi sapesse sempre tutto, eppure lo tenesse per sé, al pari di un martire il cui unico scopo è catalizzare su di sé le sofferenze di un mondo intero perché quello possa saggiare anche solo una punta di felicità? Come ha fatto a non capirlo, che qualcosa non andava già da allora?


E’ un sogno strano quello che fa la notte dopo. Uno di quelli in cui, per un motivo incomprensibile, si ha piena coscienza di stare sognando ma non si riesce comunque a uscire dalla dimensione onirica nonostante tutto.
Si tratta di un sogno come gli è capitato altre volte di fare, almeno in parte, sebbene non sia ricorrente: lui si trova in un luogo a metà, uno che in teoria non dovrebbe avere certi dettagli appartenenti a un altro posto ma che, per motivi impossibili da definire, invece li ha. Così lui riconosce una delle aule studio dell’università che ha frequentato, una in cui di solito preferiva non andare se aveva davvero bisogno di studiare ma dove invece si dirigeva sapendo di trovarci il vecchio gruppo. L’interno dell’aula è come se la ricorda solo in parte: ampia, con entrambe le porte dove sono sempre state - a ridosso del punto in cui di norma è sistemata la cattedra e in corrispondenza dell’ultima fila di posti -, le grandi finestre sulla parete opposta all’ingresso. Non ci sono banchi però, né sedie; sembra arredata come potrebbe esserlo una stanza privata, una camera da letto, ma al tempo stesso è come se avessero preso il mobilio destinato a una casa con sale più piccole e lo avessero sparpagliato in uno spazio troppo grande. Il disordine che regna sovrano non riesce a sembrare così tanto come invece è solo perché l’ambiente è troppo spazioso e sminuisce il tutto.
Per lo più, Tsukasa nota, ci sono dei fogli sparpagliati, inchiostro che macchia qua e là il pavimento e le pareti; contro un muro c’è una pianola, ma una delle gambe che la teneva su ha ceduto e ora sta sbilenca e abbandonata al suo destino.
Con la coda dell’occhio, Tsukasa cattura per caso una macchia di colore in una stanza altrimenti solo bianca e nera, e quando si volta vede che Leo - un Leo adulto, come dovrebbe essere nel suo tempo - se ne sta seduto per terra, sotto una delle grandi finestre. Ha l’aria trasandata, il codino basso in cui ha sempre legato i capelli fa scivolare fuori dalla sua presa anche le ciocche di solito tiene in ordine; gli abiti che indossa hanno qualche macchia qua e là, soprattutto d’inchiostro, ma quello non è così strano. Leo fissa di fronte a sé e quando Tsukasa si muove, una stretta allo stomaco arriva così potente e improvvisa che se non apre la bocca per urlare sarà per vomitare, ne è sicuro.
Leo sta seduto in una pozza di sangue che si allarga sotto di lui come una macchia d’olio. Tsukasa in un attimo gli è vicino, si china su di lui, non sa se toccarlo e come, se spostarlo e dove, se chiamare qualcuno che in realtà lì non c’è; Leo ha gli occhi aperti, li sposta su di lui, con l’aria stanca di chi non ce la fa davvero più. Gli rivolge l’abbozzo di un sorriso che è la ridicola ombra di quello irritante e pieno di vita con cui Tsukasa l’ha conosciuto, ammirato, detestato, amato e forse un po’ anche rimpianto. Quello che non ha mai salutato.
Leo gli parla ma lui non sente, prova a urlare ma non sente nemmeno la propria voce. Nella sua testa invece gli risuona quella di Leo, che pronuncia parole che in realtà Tsukasa ha solo letto su quella lettera che vorrebbe non aver ricevuto mai.
Io non sono un eroe.
Il suo corpo non ha ferite, non ha tagli, lui non capisce da dove esca fuori tutto quel sangue ma continua, continua e alla fine Leo dice qualcosa, Tsukasa non sa cos’è ma sembra una presa in giro, come se si burlasse del suo patetico e inutile tentativo di piegare il passato e il futuro al suo volere, come se fosse possibile.
Leo gli muore tra le braccia.
Quando si sveglia, la gola gli brucia per le urla e sua madre e suo padre torreggiano su di lui, spaventati. Sente il viso bagnato, il corpo sudato che trema e un vuoto dentro che gli fa sembrare impossibile respirare.

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Shu guarda l’oggetto tra le proprie mani con una certa apprensione. Non è quello di per sé a scatenargli un moto di ansia, quanto tutto ciò che si cela dietro di esso: avvolto in una carta rossa non si può dire che il risultato finale sia preciso o degno di un’esposizione in un negozio, cosa a cui Shu non può non fare caso, essendo particolarmente attento ai dettagli. Ma può supporre ci sia una sorta di… impegno molto personale dietro, visto che di fronte ad alcuni punti molto imprecisi sembra che ci sia stato almeno un tentativo di farlo notare meno possibile (non che sia servito, ma in ogni caso non può negare ciò che vede). Il pacchetto di per sé ha una forma regolare, dunque immagina il regalo sia contenuto in una scatola, il che aumenta le probabilità che - incarto a parte - venga da un negozio e che non sia stato manomesso in alcun modo, compresa l’aggiunta di qualche strana sostanza.
Perché un regalo di una fan sarebbe arrivato nella solita maniera, insieme a tutti gli altri, dopo attenti controlli che l’organico della Yumenosaki si assicura di fare prima di far arrivare i doni a questa o quella unit.
Un regalo nell’armadietto significa una sola cosa: viene dall’interno. Potrebbe essere di una qualsiasi delle persone che incrocia ogni giorno - una prospettiva terrificante.
Inspira, rigirandosi con attenzione il tutto tra le mani, assicurandosi di mantenersi impassibile pur gettando un’occhiata di sbieco verso la propria sinistra, dove Aoba siede e si dedica al suo lavoro per le attività del club; o almeno immagina si tratti di quello. In ogni caso rimpiange di aver sostato anche troppo con l’attenzione su di lui quando i loro sguardi si incrociano.
«Shu-kun, è un regalo di San Valentino, quello?»
Riesce a immaginare solo tre cose peggiori di questa domanda: qualcuno che macchi l’innocenza di Nito rendendolo diverso dalla perfezione che rappresenta, Tsukinaga nella stessa stanza e Tenshouin nel suo futuro.

«Aoba.» si limita a dire, una sola parola - un nome, a dire il vero - che racchiude in sé un più articolato “Aoba, per cortesia, non dire scempiaggini”. Tsumugi sorride, lasciandosi scappare una risata leggera e divertita, mentre alza ciò che ha in mano per mostrarlo a Shu: un pupazzo di piccole dimensioni, chiaramente ciò a cui sta lavorando, e Shu non ha bisogno di osservarlo a lungo per riconoscere immediatamente che le fattezze sono quelle di Natsume. Aoba deve star dando gli ultimi ritocchi, che in questo caso specifico immagina sia il nastrino rosso che forma un piccolo fiocco al collo del pupazzo del leader degli Switch. Inarca un sopracciglio, alternando lo sguardo tra l’oggetto e Aoba: non capirà mai come quel ragazzo possa avere così tanta… discutibile abnegazione.
«Mika-kun deve essersi impegnato tanto.»
Tsumugi lo dice con pacatezza, ma è come se avesse sganciato una bomba. Shu guarda il regalo e sbatte le palpebre una, due, tre volte; solo poi riporta l’attenzione su di lui. Deve avere un’espressione perplessa, visto che Tsumugi gli rivolge un’occhiata confusa, articolando un: «Non è di Mika-kun?» come se fosse ovvio, e non esistesse una versione alternativa.
Shu tace.


Quando varca la soglia di casa sente al tempo stesso i muscoli sciogliersi una volta che si trova in un ambiente intimo e privato, e il proprio non riuscire a rilassarsi del tutto mentre Kagehira lo anticipa nel liberarsi delle scarpe e nel guadagnare l’entrata effettiva dell’abitazione. Gli sta dicendo qualcosa ma, Shu deve essere sincero almeno con se stesso, ha perso il filo del discorso poco prima di raggiungere casa. Le parole di Aoba gli risuonano ancora nella testa mentre guarda di sottecchi Mika che si sta voltando verso di lui, il sorriso a incurvargli le labbra; Kagehira ha sempre avuto questa cosa di guardarlo come se lui fosse il punto di luce maggiore, la Stella Polare. Shu ci si è abituato, per cui non crede la cosa possa essere indicativa di un regalo di San Valentino, senza contare che Kagehira non aveva alcun motivo di darglielo anonimo e in segreto quando poteva avere tutto il tempo e la discrezione del mondo lì a casa.
«Oshi-san?»
«Dimmi, Kagehira.»
«Uh… oggi ho dato dei cioccolati a Nazu-nii e a Naru-chan, per San Valentino.» glielo dice con un sorriso semplice, uno a cui Shu non trova alcuna implicazione particolare e che riflette appieno l’altro: tipico di Kagehira distribuire cioccolatini agli amici stretti, alle persone a cui si sente legato. Ma poi Kagehira lo guarda, indugia torturandosi le mani, e infine ne allunga una verso di lui per andare a prendergli la manica con due dita. E’ appena uno sfiorarsi, ma basta a farlo irrigidire per un istante: se c’è un momento per andare nel panico, Shu è convinto che sia questo.
«Oshi-san…?»
La voce di Mika è preoccupata, lo sente chiaramente; la conosce in ogni sfumatura e in ogni nota, sarebbe impossibile per lui non coglierne anche la minima inflessione. Sono i sentimenti dietro a essere sempre stati un problema - non li ha mai davvero capiti, li ha ignorati, li ha calpestati persino. Come potrebbe comprenderli ora, e saperli accettare, incastrarli al meglio con i propri?
E’ impossibile, specie non sapendo quali siano, i propri.
«Kagehira» pronuncia, la gola secca come se avesse fatto una cosa poco elegante come correre dall’accademia a casa «il pacco nell’armadietto» inizia, ma Mika lo interrompe: la sua mano non lo sfiora più, ma prende direttamente la sua, con l’innocenza tipica di un ragazzo semplice che non ha mai nascosto la sua adorazione per lui.
«Li hai trovati, Oshi-san? Ti sono piaciuti?» ci sono l’entusiasmo e l’aspettativa nei suoi occhi, così come anche il genuino desiderio di sapere, di avere una risposta. La mente di Shu va alla sua borsa, nella mano che non è in quella di Kagehira, dove il pacchetto è ancora integro e incartato così come lo ha ricevuto.
Guarda il ragazzo di fronte a sé, e non è pronto a conoscere i sentimenti dietro quel regalo: potrebbe essere gli stessi che Kagehira ha sempre avuto nei suoi confronti ma potrebbero anche non esserlo, essere cambiati e potrebbero essere qualcosa di troppo grande che lui non sarebbe in grado di gestire. Indugia, per un momento, le labbra socchiuse senza sapere cosa dire.
«Kagehira.» pronuncia infine «Non sapevo fossero tuoi… non li ho ancora mangiati.» ammette.
Mika lo guarda sorpreso, inclinando appena la testa di lato: «Uh? Non c’era un biglietto? Tsukinaga-senpai mi ha anche aiutato!»
Ah. Tsukinaga.
Naturalmente.
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Tomoya ama il suo lavoro: ha studiato con entusiasmo per arrivare a poterlo fare, con i colleghi di lavoro si trova bene - Kiryu-senpai pur essendo burbero di primo impatto ha un modo tutto suo, e per lo più efficace, di rapportarsi ai bambini della loro classe. Hajime, che conosce dal liceo, è una persona che Tomoya non saprebbe immaginare a fare un mestiere diverso da quello. Certo, forse alla sua prima assunzione non si aspettava già di essere assegnato a una classe “problematica”, per così dire, ma non c’è niente di davvero impossibile da gestire.
A parte un bambino.
«Tomoya-kun?» la voce di Hajime, colma di preoccupazione e del tentativo di fargli forza, lo richiama alla realtà; se non fosse che l’amico ha già troppe cose per le mani di cui occuparsi, Tomoya quasi prenderebbe in considerazione di fingersi svenuto perché non è sicuro di avere la forza di seguire e stare al gioco del bambino che gli si è appena attaccato a una gamba.
«Ce la fai da solo?» domanda, abbozzando un sorriso che un po’ è di scuse e un po’ è una muta richiesta di aiuto inconscia; Hajime annuisce più volte, ma non ha il tempo di parlare perché una voce infantile lo fa al posto suo. Tomoya sposta lo sguardo, inquadrando Itsuki Shu davanti al collega, seduto composto, intento a versare del tè invisibile in tazzine riempite con una fantasia invidiabile.
«Mashiro-sensei» lo chiama come un adulto richiamerebbe all’ordine un figlio o un proprio pari particolarmente fastidioso «Io e Shino-sensei stiamo prendendo il tè. Non è educato stare lì in piedi mentre facciamo le cose importanti.» decreta, tutto d’un pezzo nella serietà buffa di un bambino che si atteggia a persona grande, ma Tomoya non ha nessuna intenzione di ridere. L’ultima volta che non ha preso sul serio Itsuki le urla si sono sentite letteralmente fino alla classe che si trova all’inizio del corridoio.

Si limita ad annuire, cercando di sembrare più solenne possibile mentre Hajime assicura a Shu che tornerà subito a concentrarsi sul loro tè, deve solo finire di dire una cosa; nel mentre, lo sguardo di Tomoya scivola dal lato opposto a dove si trova Shu, ossia dietro la schiena di Hajime: un silenzioso Natsume - un bambino che, davvero, alterna momenti di pura follia infantile ad altri di calma totale. Tomoya ancora non dimentica il momento in cui Sakasaki ha promesso di esaudire un desiderio di Hajime se l’altro fosse diventato una ragazza magica. Non ha voluto insistere su quali programmi quel bambino non dovrebbe assolutamente guardare in televisione e, per adesso, si accontenta di vederlo tutto concentrato sulle ciocche di capelli di Hajime, lunghi anche se tenuti legati in un’ordinata coda bassa. Natsume sembra star cercando il modo migliore di replicare una complessa treccia che avrà visto chissà dove, le piccole mani che si passano le ciocche tra di loro senza risolvere granché, per ora.
«Davvero, Tomoya-kun, qui ce la faccio da solo. Shu-kun e Natsume-kun mi stanno tenendo compagnia.» assicura, con quel modo gentile che ha di gratificare i bambini sempre e comunque. Tomoya annuisce, abbassando lo sguardo sulla piccola piovra che continua a tirargli la gamba e cerca di muoversi con delicatezza, senza che camminare risulti in un far male al bambino.
Pochi passi e a raggiungerlo è proprio la voce di Kiryu-senpai, appena rientrato nella stanza: basta guardarlo per vedere che deve star facendo una certa fatica. Una mano è stretta in quella piccola di Shinkai, un bambino sempre sorridente e abbastanza tranquillo se non fosse che tende a scappare e sparire con il solo scopo di buttarsi in acqua in qualsiasi situazione e a prescindere dalla stagione in corso. Tomoya non ha bisogno di chiedere per sapere che, probabilmente, Kiryu-senpai deve averlo recuperato in qualche bagno e vicino a un lavandino a giudicare da quanto Kanata sia fradicio. Almeno uno dei due ha l’aria divertita.
«Kiryu-senpai»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun,»
«posso aiutarti a cambiare Shinkai-kun prima di-»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun, Tomoya-kun»

«prima di» perde il filo per un momento «di uscire per...»
«Tomoya-kun!»
«Non preoccuparti Mashiro. Ce la faccio.» Kuro deve aver appena avuto pietà di lui, il che è tutto dire se si considera che deve aver recuperato Shinkai con in braccio Sakuma, il bambino che è ancora appiccicato a lui, tenuto su da un braccio, e ancora intento a mordicchiare la guancia di Kiryu. Tomoya lo ammira per come riesce a restare impassibile, anche quando sente Sakuma dire «Kiryu-sensei adesso sei un vampiro anche tu!», perché lui da parte sua è sicuro che se sente di nuovo chiamare il suo nome impazzirà e basta.

Fa un respiro profondo, prima di abbassare lo sguardo sul suo aguzzino: Hibiki Wataru è un bambino fin troppo energico che, a guardarlo, sembra un angelo. Se stesse fermo continuerebbe a sembrarlo, invece purtroppo non solo è sempre in movimento, ma pare avere una fissazione palese per lui. Il modo in cui continua a tirarlo verso la porta finestra che collega un lato della loro aula al giardino è solo uno, dei tanti modi, in cui cerca di dimostrarlo. Tomoya inspira, per poi allungarsi a recuperare il necessario per coprirlo bene; si piega sulle ginocchia, così da essere grosso modo alla sua stessa altezza e vede negli occhi di Wataru la meraviglia di chi ha appena saputo che Babbo Natale passerà per ben due volte dalla sua casa.
«Possiamo andare fuori, ma solo se ti copri per bene, Wataru-kun.» pronuncia, vedendolo mettersi ben dritto, impettito in un modo che ricorda vagamente Shu, le braccia tese pronto a farsi vestire. Tomoya sospira - un po’ è rassegnato, un po’ è sollevato - mentre gli infila il cappotto una manica alla volta, si assicura di avvolgergli bene la sciarpa intorno al collo e di fargli indossare i guanti di lana. Lo guarda, incerto se provare a mettergli almeno un paraorecchie, ma Wataru non sembra in grado di contenere tutta l’energia che ha in corpo ancora per molto, così Tomoya si veste a propria volta e finalmente lo guida fino alla finestra, aprendola il necessario a uscire e richiudendola una volta che sono fuori, così da non far entrare l’aria gelida all’interno della classe. Il giardino è del tutto coperto di neve e c’è un silenzio innaturale che Wataru spezza in un secondo con un «Uaaaaah» a pieni polmoni mentre già corre e zompetta in maniera goffa nella neve. Tomoya rabbrividisce, ma mai tanto quanto fa nel vederlo buttarsi di schiena sulla neve e cominciare a fare l’angelo, muovendo le braccia e le gambe. Non vuole rovinargli il divertimento, ma non vuole nemmeno che prenda un raffreddore, così un attimo dopo è lì che lo tira su diventando il peggior cattivo delle storie per bambini. Wataru ha un broncio ad arricciargli le labbra, gonfia le guance mentre Tomoya gli toglie la neve dalla schiena e dai capelli.
«Tomoya-kun sei noioso.»
«Tomoya-sensei» lo corregge, pur sapendo di star dando aria alla bocca. Dal suo primo giorno in quell’asilo Hibiki non lo ha mai chiamato con il giusto suffisso se non forse in un saluto corale offerto dall’intera classe.
«Facciamo qualcosa insieme! La lotta con la neve! Corriamo e scivoliamo fino all’albero!» propone, mentre nella mente di Tomoya si forma l’orrenda immagine di loro due che vengono fermati dall’albero. Non è sicuro di voler spiegare perché un bambino sia finito a sbattere contro un tronco.
«Wataru-kun… perché non mi insegni a fare un pupazzo di neve?»
E’ un pretesto come un altro quello di fingere di non essere in grado di farcela da solo, ma il modo in cui gli occhi gli si illuminano lo sorprende; non ci aveva creduto nemmeno per un istante che una cosa così semplice lo avrebbe distratto dai suoi propositi un po’ suicidi, invece anche Hibiki alla fine si dimostra per quello che è: solo un bambino. Chiude la mano in un piccolo pugno e la batte contro il petto, come a suggerire di lasciar fare a lui prima di trotterellare poco distante da lì a prendere un bastoncino.
«Tomoya-kun tu puoi prendere le cose che servono per fare le braccia, il naso, gli occhi e la bocca del pupazzo di neve!» decreta pieno di entusiasmo e Tomoya decide di assecondare tutta quella voglia di fare. Si piega di nuovo sulle ginocchia, un gomito poggiato su una di esse e la mano a sorreggere il viso: «E cosa si cerca per fare queste cose?» domanda cercando di fingersi del tutto ignorante in materia.
«Per le braccia possiamo usare i bastoncini! E anche per il naso! Gli occhi...» sembra dubbioso mentre si guarda intorno e d’altra parte la neve ha ricoperto tutto il terreno, perciò ogni possibile suggerimento è nascosto sotto di essa.
Tomoya si porta le mani nelle tasche, alla ricerca di qualcosa di utile: ci trova due caramelle e le porge a Wataru, ancora incartate. La sua idea in realtà è offrirgliele per mangiarle, ma il più piccolo ha ben altri progetti.
«Sì sì sì» ripete come una cantilena, mentre le posa per terra insieme al rametto che ha trovato; poco dopo Tomoya viene tirato per la manica in giro per il giardino, finché tutto l’occorrente non è finalmente radunato - con qualche buca qua e là nella neve e un povero cespuglio sacrificato per un bene superiore.
Wataru non perde tempo, si mette subito all’opera: comincia a spiegare ma si distrae subito, troppo concentrato nel fare la sua palla di neve gigante perché il pupazzo abbia un corpo solido; ha affidato a Tomoya l’importantissimo compito di creare la testa e lui si adegua, facendo tutto con più lentezza del dovuto, per dargli modo di essere il primo a terminare. Non lo disturba nemmeno, stupendosi come sempre di quanto quel bambino sappia essere incredibilmente silenzioso, quando vuole.
Ci mettono fin troppo tempo a finire, ma quando riescono Wataru brilla di luce propria di fronte a un pupazzo di neve forse un pochino storto e non proprio proporzionato al massimo, ma che almeno si regge e ha tutto al posto giusto. Wataru ha il naso e le guance arrossate dal freddo, e Tomoya era deciso a rientrare già prima di sentire un paio di fiocchi bagnargli la punta del naso; alzando lo sguardo vede che la neve ha ripreso a cadere, e non è davvero il caso di restare fuori oltre.
Sperando che Wataru non cominci a correre ovunque facendo i capricci.
«Wataru-kun, torniamo dentro.» propone con cautela, ben conscio di come imporre qualcosa a quel bambino significhi ottenere esattamente l’opposto - e non per cattiveria, no, a Hibiki sembra sempre tutto un gioco, Tomoya questo lo ha capito quasi subito. Wataru lo guarda, come se stesse soppesando cosa sia più importante tra la neve e Tomoya, e alla fine (dovrebbe sentirsi lusingato da questa cosa…?) sceglie lui e si avvicina, tutto sommato docile.
Lo guarda per un momento, prima di chinarsi di nuovo perché tra loro non ci sia troppa differenza. Si toglie i guanti, più freddi di quanto lo siano le mani che hanno riparato dal contatto diretto con la neve, e posa queste ultime sulle guance del bambino. Le mani di Tomoya sono tiepide, il viso di Wataru è freddo, il che dovrebbe rendere il contatto piacevole e a giudicare da come - dopo un momento di iniziale e genuina sorpresa - Wataru socchiude gli occhi e sorride beato, deve essere così.
Tomoya si lascia scappare uno sbuffo divertito; un’ultima occhiata al loro pupazzo che Wataru già sciorina mille idee per nomi improbabili.

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