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 Prompt: "And if I thought it would help I would carve your name into my heart"



Elsword sta raccontando qualcosa, il tono alto di chi ha l’entusiasmo sotto la pelle e l’ottimismo nel sangue; Aisha scuote la testa ma ha un sorriso leggero sulle labbra, Elesis posa una mano sul capo del fratello, Ara si copre la bocca con una mano mentre si fa sfuggire una risata leggera. Eve e Rena sono una di fianco all’altra, Raven è poco più distante e ha gli occhi su Elsword, Lu rifugge al controllo di Ciel solo perché quest’ultimo è impegnato a occuparsi di tutti loro in quei momenti in cui l’attenzione non è su di sé.

Chung abbandona il loro gruppo, dinamiche che gli sono familiari, e sposta lo sguardo sull’unica persona che non concede mai a se stessa di essere parte reale di quel party; Add se ne sta in disparte, poggiato con la schiena contro un albero, le braccia incrociate al petto che già da sole sembrano dire quanto consideri tutti loro sciocchi e non degni di attenzione, l’intero momento – e quello dopo, e quello dopo ancora – un’immensa perdita di tempo. Le dinamo gli ronzano intorno, e a lui non sembra servire altro rumore.

Viaggiando di continuo non possono sempre permettersi di dormire con un tetto sopra la testa, ma quando capita cercano di economizzare più possibile anche con le stanze; Chung sente il respiro pesante di Elsword e quello appena percettibile, se non fosse che il silenzio lo tradisce, di Raven. Non si stupisce davvero quando, mettendosi a sedere, scorge un letto vuoto né quando la voce di Raven lo raggiunge, sebbene lui gli dia ancora le spalle.
«Non allontanatevi da soli.» gli dice, e Chung capisce immediatamente che deve aver sentito uscire anche Add, prima di lui. Mormora un “non preoccuparti” giusto prima di richiudersi la porta alle spalle.


Add è ovviamente nel posto più isolato e da cui, al tempo stesso, si può vedere di più: il tetto della locanda dove alloggiano lo ospita, le dinamo silenziose. Si accorge subito di lui, e d’altronde Chung non cerca di celare la sua presenza; gli si siede accanto però, non così vicino da sfiorare la spalla con la sua, ma nemmeno così distante da dare l’idea di voler condividere uno spazio in cui Add è presente solo per caso.
Lo vede guardarlo di sottecchi solo perché lui è del tutto voltato in sua direzione, gli occhi azzurri sul suo viso; intravede una stizza che si esprime in uno schioccare della lingua contro il palato, ma senza che assuma la forma di parole precise.
Se deve essere onesto, Chung non si reputa migliore di nessuno del loro gruppo: sa bene che qualcuno di loro forse è di quell’idea – il ragazzino che da giovanissimo ha cominciato a viaggiare da solo, il figlio che ha dovuto colpire suo padre, il ragazzo che ha dovuto accettare la sorella di chi è stato causa del suo male – ma lui, quando ci pensa, si sente schiacciato dal quelle considerazioni. Mentre viaggiano, ogni giorno, guarda Add considerato la mina vagante e inaffidabile del gruppo, e pensa a come forse anche lui sia sicuro di non avere niente a che spartire con gente come Chung; per quanto ne sa Add potrebbe vederlo come il signorino che dalla vita ha avuto tutto, o come il santo che vuole salvare il mondo sacrificandosi per la giustizia. Ma a quello si contrappongono i sussurri, la fama che lo precede – un messaggero di morte, non una persona – e non vede come mai potrebbe essere tanto idealizzato uno come lui. Perché Add dovrebbe sentirsi così distante. Perché non possano, semplicemente, compensarsi tutti tra loro con le loro storie e le loro esperienze, oppure con gli sbagli che però li hanno resi migliori.
«Il tuo cervello è più rumoroso di una macchina progettata per fare casino ogni volta che si muove.» è l’inaspettata forma che i pensieri di Add prendono, voce chiara anche mentre gli occhi non lo degnano di attenzione, per quanto questa sia stata in qualche modo già tradita. Se lui fosse Elsword starebbe già sbraitando contro Add – ma se fosse Elsword, probabilmente, Add lo avrebbe insultato molto diversamente se non peggio –, ma il privilegio di essere stesso gli concede di guardarlo e limitarsi a un mezzo sorriso.
«Buon per me che i nostri nemici non ci sentano bene, oppure ogni attacco a sorpresa finirebbe male.»
Add non gli risponde, come se lo seccasse così tanto non aver sortito l’effetto sperato (essere lasciato solo), da dover ora riformulare una strategia migliore; potrebbe alzarsi, ma suppone sia una questione di principio, la sua. Il silenzio cade di nuovo fra loro, e Chung si concede di guardare davanti a sé, a un cielo stellato e senza nuvole a coprire la luna crescente. Non c’è odore di pioggia nell’aria, il che è un bene visto che dovranno muoversi di nuovo molto presto.
Chung non sa perché all’improvviso gli torna in mente un’usanza vecchia quanto Hamel stessa, insegnamenti ricevuti quando del mondo non sapeva ancora niente. Ma come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se lui e Add fossero sempre stati in quel tipo di rapporti, lui rilassa i muscoli di tutto il corpo e decide che sì, Add può perdere qualche minuto prezioso del suo tempo per lui, qui e ora.
«Se pensassi che potrebbe esserti di aiuto,» comincia, richiamando alla mente le parole esatte di quel giuramento che si faceva una volta, di cui suo padre stesso gli ha parlato in passato «inciderei il tuo nome sul cuore
Persino uno come Add si volta a guardarlo con un’espressione equivalente – perché Chung lo sa, l’altro non gli concederebbe mai un simile privilegio – allo sconcerto di una persona normale. E lui si trova a sbuffare divertito, un accenno di risata che rimane solo l’ombra di quello che potrebbe essere: come lui. Come Add.
«Era un giuramento antico tra i compagni di armi. Il cuore delle nostre armature, ma anche il cuore di una persona, sono la parte più importante. Giurare di avere un nome inciso su di esso per tutta la vita era il modo in cui, nella vecchia Hamel, si giurava la fedeltà, di difendere la persona che portava quel nome. Era un modo in cui si dava fiducia e si concedeva lealtà assoluta.» spiega, sicuro di essere ascoltato perché anche se guarda ancora avanti, con la coda dell’occhio ha notato che Add lo fissa ancora.
«Se sapessi che farlo ti basterebbe per fidarti» riprende «lo farei. Che sia un modo di dire, che sia scrivere non proprio sul cuore ma su qualcosa di affine che lo simboleggia… io lo farei.»
Si volta, gli occhi azzurri a cercare un contatto visivo; lo trova, forse, solo perché Add non è tipo da guardare via, da scappare così quando è convinto di aver ragione – e Chung crede, suppone, che Add sia convinto che niente gli farà mai pensare che le persone siano degne di fiducia. O che valgano qualcosa.
«Non perché tu possa fidarti di me. Quello non penso lo farai mai.» non glielo chiede, lo afferma; c’è una differenza enorme, e sa che Add la comprende pienamente, non si perde quella sfumatura, anzi. «Ma perché tu sappia che sono io, a fidarmi di te. Proteggerei la tua vita, perché mi è preziosa; ti affiderei la mia, perché se bastasse a salvare la tua o a percorrere fianco a fianco la strada con te… allora varrebbe la pena, di darti la mia lealtà.»
Non si aspetta una risposta, non lo guarda mentre si alza – una condivisione breve ma, d’altronde, oggi si concede il lusso di dire quello che vuole, senza preoccuparsi degli altri, di sentimenti che non siano i suoi.
«Add?»
Nessuna risposta. Ma tanto in quel silenzio è impossibile non essere sentiti, così come la quiete della sua stanza ha tradito il respiro di Raven poco prima. Non ha bisogno che Add dica qualcosa, per sapere che è ancora lì.
«Non ti allontanare da solo.»
Dalla locanda, da quel gruppo che – lo sa – per Add non significherebbe granché se non per Eve. Dire “da me”, ora come ora, non ha senso.
Il giuramento di Hamel basta anche se è una sola persona a pronunciarlo.

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 Mochi lo tocca così piano che Apostasia a tratti non è nemmeno sicuro lo stia facendo davvero. Sembra assorto in mille pensieri contemporaneamente, e la maggior parte di essi si riflette del tutto nel suo sguardo. D’altronde non dovrebbe stupirsene, pensa mentre resta immobile a guardarlo e lasciargli il tempo di tante considerazioni che lui non farebbe mai: Mochi è sempre stato il più umano tra loro tre, in un modo quasi incomprensibile tanto per Apostasia quanto per Arme. Al contrario di loro non è capace di distaccarsi dalle emozioni degli altri, tutt’altro; ha sempre bisogno di preservarle, di tenerle al sicuro con la stessa cura riservata alle cose importanti. Per Mochi ferire qualcuno è forse una delle cose più deplorevoli che si possano fare e, distrattamente, ad Apostasia viene quasi da ridere se pensa a quanto sia strana la vita, per avergli dato un fratello come lui che non si è mai preoccupato troppo di ferire gli altri come non si è preoccupato di ferire se stesso, o di accusare chi ci sia riuscito nel tempo – a sua discolpa, buona parte delle sofferenze emotive che gli sono state inferte sono state causate dal suo modo di portare avanti la propria esistenza, e sarebbe stato abbastanza ironico preoccuparsene a danno fatto. Quanto all’altra causa, che per quanto non sopporti ammetterlo risiede in Arme, è certo Mochi non reggerebbe l’idea di mettersi dalla parte di uno o dell’altro, ritrovandosi comunque a dover voltare le spalle a uno dei due fratelli.
Ogni tanto ci pensa: se Mochi non fosse stato suo fratello, o se la vita fosse stata così ironica da renderli compagni destinati nonostante la parentela, forse Apostasia avrebbe potuto accettare anche il peso di essere un Alfa o un Omega. Se fosse stato con Mochi, così attento persino all’idea di doverlo solo sfiorare, Apostasia crede sarebbe stato tutto sopportabile e ne ha una conferma quando finalmente la punta delle dita di suo fratello gli sfiora l’eccitazione, titubante e più delicato di quanto sarebbe necessario. Ci vuole qualche tocco incerto perché Mochi inizi a masturbarlo, così Apostasia allunga le braccia e gli cinge il collo, avvicinandolo a sé per sopperire con un gesto a frasi che una persona più eloquente di lui pronuncerebbe senza sforzo.
Mochi lo guarda stupito per un attimo, e gli sorride impacciato quello dopo, come un ragazzino colto in flagrante mentre ruba qualcosa dalla dispensa; muove ancora la mano, su e giù, e Apostasia affonda il viso contro il suo collo, alla ricerca di un odore che non può sentire, perché nessuno di loro ha quel qualcosa di particolare che fa impazzire il mondo e suggerisce alle persone con chi dovrebbero passare il resto delle proprie vite.
Sente il respiro di Mochi farsi più veloce, insieme alla sua mano; lo sente poggiare le labbra contro il proprio collo, lasciando baci leggeri, succhiando appena la pelle per lasciare un segno, ma niente di doloroso – nulla di permanente. Si scosta da lui, e Mochi lo guarda cercando un errore, qualcosa di sbagliato, ma Apostasia si limita ad appropriarsi delle sue labbra, a baciarlo come si deve, senza “sei mio fratello” o “e se ci scoprono” a frapporsi tra di loro. Sente Mochi lasciarsi scappare un gemito direttamente nella sua bocca e lui muove il bacino per andargli incontro, per avere ancora più frizione tra i loro sessi.
«Mordimi.» è un imperativo pronunciato a mezza bocca, coi respiri che si mescolano, e significa una cosa precisa, impossibile da fraintendere; capisce dallo sguardo di Mochi che ha compreso – la richiesta, non il motivo, ma va bene comunque.
L’altro lo lascia andare per il tempo sufficiente a farlo voltare, la mano che gli scosta i capelli lunghi per liberare quella porzione di collo che non significherà mai davvero qualcosa per nessuno di loro due, non influenzerà irrimediabilmente le loro vite. Ma Mochi ha capito molto più di quanto un semplice ordine abbia voluto dirgli: gli bacia la pelle, la lecca, la bacia di nuovo – e poi morde, un punto preciso che rende Apostasia di qualcuno per la prima volta.
Lui che, dopotutto, non è sicuro nemmeno di essere mai appartenuto a se stesso.
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La società ha inculcato in tutti loro una stratificazione così forte, tra Alfa, Beta e Omega, che sapere di non essere parte di nessuno dei due estremi aveva reso l’infanzia di Apostasia migliore di quanto sarebbe mai potuta essere altrimenti. Alfa lo avrebbe obbligato a eccellere, affossandolo ancora di più nel senso di inadeguatezza che già lo caratterizzava abbastanza – quando si è il più piccolo di tre fratelli, un Alfa perfetto sotto ogni aspetto e un Beta capace di piacere a tutti comunque, si era per forza destinati a questo: l’inadeguatezza come presenza costante nella propria vita.
Omega avrebbe comportato una sottomissione che lui non sarebbe mai stato in grado di sopportare, fosse stata anche solo concettuale e guidata dal pregiudizio. Perciò nel momento in cui era stato classificato come Beta, Apostasia aveva sospirato di sollievo. Anche perché nessuno si aspettava niente, dai Beta.


Arme lo guarda con quell’espressione che non tradisce mai – quasi mai – le sue emozioni, quella che Apostasia ha sempre temuto da bambino e detestato crescendo; avere di fronte un foglio bianco implica lo sforzo di capire come riempirlo, quale connotazione dargli, e farlo con suo fratello maggiore è sempre stato odioso. Arme non tradisce emozioni, se le prova non le lascia alla mercé di nessuno, come se chiunque fosse un suo nemico. Apostasia si è sentito questo fin da bambino: un nemico della concezione del mondo che Arme ha, un nemico della famiglia per la sua inadeguatezza, per il suo non eccellere, per essere sempre stato quello che preferiva chiudersi nella propria stanza e non esprimersi rispetto al mettersi nel mezzo di una competizione che non avrebbe mai vinto comunque.
Guarda Arme e si immagina di leggere nel suo sguardo il disgusto, perché ha imparato negli anni che se si aspetta il peggio e il peggio avviene, allora si è meno feriti perché lo si era messo in conto. Così è più facile infilare le dita tra i suoi capelli e tirare, anziché carezzare, così come è molto più semplice mordere piuttosto che baciare con la dolcezza dell’amante che non è, del compagno per la vita che non sarà mai.
Ha sentito spesso di persone che si sentono riconosciute con il sesso, perché è un ruolo come un altro, si è indispensabili anche se per un periodo di tempo limitato al raggiungimento dell’orgasmo. Ad Apostasia non pesa il pensiero di essere questo: una parentesi fisica di cui ci si può dimenticare facilmente poco dopo e di cui si perde ogni traccia senza nemmeno doversi impegnare. Sentirsi niente, e tornare a essere niente dopo un assaggio di qualcosa. A volte pensa che una cosa come quella, la storia delle anime gemelle, di un compagno unico per tutta la vita deciso da un morso siano concetti così stupidi da doverci ridere sopra.
Arme lo morde forte, tanto che lui per ripicca gli affonda le unghie in una spalla, eppure nessuno di quei segni significa nulla; Arme non è gentile nel modo in cui affonda le dita dentro di lui, ma considerato che potrebbe anche saltare quei preamboli tutto sommato c’è da sentirsi fortunati. Apostasia suppone che Mochi direbbe che è una premura, il modo di Arme di dimostrare che conta qualcosa, che è e sarà sempre suo fratello perché – se davvero non gli importasse nulla – non si curerebbe di ferirlo nel fisico e nella mente, se fosse altrimenti.
Apostasia non è certo di voler pensare di contare qualcosa. Gli sembra una sfera troppo complicata da gestire, quando a lui basta sentire Arme dentro di sé e poco importa che non ci sia la premura per un amante o la delicatezza di una prima volta insieme, l’attenzione per rendere il ricordo una cosa bella a cui pensare con affetto. C’è solo eccitazione, quella senza troppe implicazioni emotive che tanto nessuno dei due saprebbe gestire.
Arme non chiama il suo nome. Lui non chiama quello di Arme. Lo sente solo mormorare qualcosa, mentre viene, e lui lo stringe senza l’affetto o l’amore di una coppia, solo per un riflesso del proprio corpo.
Forse, se si fossero parlati, le cose sarebbero state diverse.
Arme apre la bocca per dire qualcosa, almeno quel suo modo di fare un istante prima di parlare Apostasia ha imparato a riconoscerlo; d’istinto gli copre la bocca con la mano, forse anche un po’ troppo bruscamente, per impedire anche solo a un fiato di uscire.
«No.»
Una sillaba che si è sempre, sempre sentito rivolgere – nella sua testa, soprattutto – dall’uomo che ha di fronte. Non aggiunge niente, ma Arme (no, l’Alfa, non c’è parentela tra loro in questo istante) lo guarda in silenzio e nel suo sguardo, per la prima volta, Apostasia riconosce ogni singolo pensiero.
Si volta di lato. Non sa se quello che sente è colpa della nausea, o di ciò che per tutta l’infanzia avrebbe voluto saper fare e ora, proprio ora che non la vorrebbe, se la ritrova fra le mani: la capacità di capire e il privilegio essere capito.

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