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La società ha inculcato in tutti loro una stratificazione così forte, tra Alfa, Beta e Omega, che sapere di non essere parte di nessuno dei due estremi aveva reso l’infanzia di Apostasia migliore di quanto sarebbe mai potuta essere altrimenti. Alfa lo avrebbe obbligato a eccellere, affossandolo ancora di più nel senso di inadeguatezza che già lo caratterizzava abbastanza – quando si è il più piccolo di tre fratelli, un Alfa perfetto sotto ogni aspetto e un Beta capace di piacere a tutti comunque, si era per forza destinati a questo: l’inadeguatezza come presenza costante nella propria vita.
Omega avrebbe comportato una sottomissione che lui non sarebbe mai stato in grado di sopportare, fosse stata anche solo concettuale e guidata dal pregiudizio. Perciò nel momento in cui era stato classificato come Beta, Apostasia aveva sospirato di sollievo. Anche perché nessuno si aspettava niente, dai Beta.


Arme lo guarda con quell’espressione che non tradisce mai – quasi mai – le sue emozioni, quella che Apostasia ha sempre temuto da bambino e detestato crescendo; avere di fronte un foglio bianco implica lo sforzo di capire come riempirlo, quale connotazione dargli, e farlo con suo fratello maggiore è sempre stato odioso. Arme non tradisce emozioni, se le prova non le lascia alla mercé di nessuno, come se chiunque fosse un suo nemico. Apostasia si è sentito questo fin da bambino: un nemico della concezione del mondo che Arme ha, un nemico della famiglia per la sua inadeguatezza, per il suo non eccellere, per essere sempre stato quello che preferiva chiudersi nella propria stanza e non esprimersi rispetto al mettersi nel mezzo di una competizione che non avrebbe mai vinto comunque.
Guarda Arme e si immagina di leggere nel suo sguardo il disgusto, perché ha imparato negli anni che se si aspetta il peggio e il peggio avviene, allora si è meno feriti perché lo si era messo in conto. Così è più facile infilare le dita tra i suoi capelli e tirare, anziché carezzare, così come è molto più semplice mordere piuttosto che baciare con la dolcezza dell’amante che non è, del compagno per la vita che non sarà mai.
Ha sentito spesso di persone che si sentono riconosciute con il sesso, perché è un ruolo come un altro, si è indispensabili anche se per un periodo di tempo limitato al raggiungimento dell’orgasmo. Ad Apostasia non pesa il pensiero di essere questo: una parentesi fisica di cui ci si può dimenticare facilmente poco dopo e di cui si perde ogni traccia senza nemmeno doversi impegnare. Sentirsi niente, e tornare a essere niente dopo un assaggio di qualcosa. A volte pensa che una cosa come quella, la storia delle anime gemelle, di un compagno unico per tutta la vita deciso da un morso siano concetti così stupidi da doverci ridere sopra.
Arme lo morde forte, tanto che lui per ripicca gli affonda le unghie in una spalla, eppure nessuno di quei segni significa nulla; Arme non è gentile nel modo in cui affonda le dita dentro di lui, ma considerato che potrebbe anche saltare quei preamboli tutto sommato c’è da sentirsi fortunati. Apostasia suppone che Mochi direbbe che è una premura, il modo di Arme di dimostrare che conta qualcosa, che è e sarà sempre suo fratello perché – se davvero non gli importasse nulla – non si curerebbe di ferirlo nel fisico e nella mente, se fosse altrimenti.
Apostasia non è certo di voler pensare di contare qualcosa. Gli sembra una sfera troppo complicata da gestire, quando a lui basta sentire Arme dentro di sé e poco importa che non ci sia la premura per un amante o la delicatezza di una prima volta insieme, l’attenzione per rendere il ricordo una cosa bella a cui pensare con affetto. C’è solo eccitazione, quella senza troppe implicazioni emotive che tanto nessuno dei due saprebbe gestire.
Arme non chiama il suo nome. Lui non chiama quello di Arme. Lo sente solo mormorare qualcosa, mentre viene, e lui lo stringe senza l’affetto o l’amore di una coppia, solo per un riflesso del proprio corpo.
Forse, se si fossero parlati, le cose sarebbero state diverse.
Arme apre la bocca per dire qualcosa, almeno quel suo modo di fare un istante prima di parlare Apostasia ha imparato a riconoscerlo; d’istinto gli copre la bocca con la mano, forse anche un po’ troppo bruscamente, per impedire anche solo a un fiato di uscire.
«No.»
Una sillaba che si è sempre, sempre sentito rivolgere – nella sua testa, soprattutto – dall’uomo che ha di fronte. Non aggiunge niente, ma Arme (no, l’Alfa, non c’è parentela tra loro in questo istante) lo guarda in silenzio e nel suo sguardo, per la prima volta, Apostasia riconosce ogni singolo pensiero.
Si volta di lato. Non sa se quello che sente è colpa della nausea, o di ciò che per tutta l’infanzia avrebbe voluto saper fare e ora, proprio ora che non la vorrebbe, se la ritrova fra le mani: la capacità di capire e il privilegio essere capito.
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