Burn it all (COWT14, week 6, M5)
Apr. 18th, 2025 09:55 pmPrompt: bad ending
Missione: M5 (week 6)
Parole: 10101
Rating: mature
Fandom: original
Warnings: scene violente, accenno alla tortura, graphic violence, menzioni di suicidio
Tatsuya ricorda perfettamente la prima volta in cui ha provato il suo potere, scoprendo un'abilità che nessuno prima di lui aveva mai avuto in famiglia: ricorda la meraviglia, lo stupore, la curiosità. Ricorda come il primo pensiero sia stato che così sarebbe potuto essere un supereroe anche se forse questo non sarebbe piaciuto a suo padre - difficile esserlo quando si è destinati a prendere le redini di un gruppo della yakuza.
Sua madre aveva accolto la sua capacità molto meglio di come lo avesse fatto suo padre, forse aiutata dal fatto di essere di indole molto più accogliente e basta, o forse perché per lei suo figlio era tutto. Tatsuya non si sentiva in difetto con lei e a volte, quando era sicuro di non rischiare di essere visto da suo padre, faceva qualche piccolo gioco con il suo potere per farla ridere. Quando ci riusciva pensava che qualunque cosa pensasse suo padre, non poteva esserci nulla di male nell'avere un'abilità speciale, specie se riusciva a mettere sua madre di buon umore. Poco importava, nel tempo, aver compreso che sarebbe stato qualcosa a cui si sarebbe dovuto abituare da solo e che nessuno sarebbe stato in grado di insegnargli. A Tatsuya andava bene doversela cavare da solo perché almeno, forse per la prima volta, aveva qualcosa di unicamente suo.
Non era mai stato un peso, una vergogna, ma nemmeno qualcosa per cui sentirsi troppo speciali. Era solo stato parte di sé.
Nessuno si aspetta che una parte di sé finisca per trascinarlo all'inferno.
*
C'era chi diceva il Miyuki-gumi avesse cambiato leader troppo presto, non tanto per piangerne il vecchio quanto più per preoccupazione verso il suo successore. Tatsuya non se ne era mai curato davvero, nonostante alcuni soprattutto tra i membri più vicini alla sua età - pochi - o quelli che lo avevano letteralmente visto crescere non apprezzassero particolarmente quelle voci mai dette davvero in faccia. La verità era che giovane in fondo lo era sul serio e di sicuro nei piani di suo padre non c'era mai stato di vederlo a capo del gruppo a soli diciotto anni, poco importava che il suo destino fosse comunque arrivare a esserlo.
Tatsuya avrebbe mentito se avesse detto di aver iniziato sapendo cosa andasse fatto, perché tutta la preparazione del mondo e i meeting a cui assistere accompagnando suo padre in via ufficiale non avrebbero mai potuto prepararlo davvero al cento per cento. Eppure era certo di aver a suo modo imparato da sé, proprio come era riuscito a fare con la sua abilità, la stessa che nel suo gruppo era stata rivelata solo ai membri più anziani e più leali. Non perché Tatsuya non si fidasse degli altri, quanto più perché non avrebbe mai voluto che diventasse la risoluzione di qualunque problematica. Manipolare il Tempo non era uno scherzo e lo aveva capito molto presto; sfruttarlo per cose di poco conto e con scarsa attenzione, invece, sarebbe stato un disastro anche solo in generale senza nemmeno iniziare a considerare i problemi di "contraccolpo" che ne sarebbero derivati. Lo scenario peggiore era che non riuscisse più a controllarlo, diventando un buco nero ambulante.
L'unico con cui si concedeva il lusso della totale sincerità era la persona che suo padre avrebbe approvato meno in assoluto: Moriguchi Jin, futuro leader del clan Moriguchi. Per quanto ci fosse una chiara alleanza tra i due gruppi, si parlava pur sempre di qualcosa di intangibile che dipendeva molto dalla guida degli stessi. In generale rivelare il proprio più grande segreto proprio a un altro leader non sarebbe stata considerata una buona idea, ma Tatsuya aveva passato il liceo con lui - tampinato, da lui - e pensava di essere piuttosto bravo a giudicare le persone. D'altronde, Jin aveva ricambiato rivelandogli la propria abilità oltre che di possederne una a sua volta. A Tatsuya questo bastava.
Jin aveva impiegato molto a entrare nelle sue grazie, a entrarci davvero, in quel modo che nel linguaggio personale di Tatsuya significava due cose: avrebbe dato un arto per lui senza battere ciglio e, allo stesso modo, gliene avrebbe tranciato di netto uno se solo Jin lo avesse tradito.
Era piuttosto sicuro che l'altro lo avesse capito quasi subito e da allora era stato un amico leale. Per questo, quando erano insieme, Tatsuya permetteva a se stesso di non essere un leader e di non essere nemmeno un ability user. Era solo Tatsuya.
Sul tetto della scuola, durante la pausa pranzo, quando leader non lo era ancora nessuno dei due ogni tanto ne avevano parlato come si faceva delle cose che si reputano ancora troppo distanti nel tempo - anche se non lo diceva, per evitare che nel suo caso sembrasse una freddura di pessimo gusto - per doversene preoccupare davvero. Non lo facevano mai in modo troppo romanzato, almeno la maggior parte delle volte; altre invece lo rendevano volutamente simile ai terribili film che si facevano sull'argomento. C'era stata, nello specifico, un'occasione in cui avevano parlato di alleanze e temibili vendette per le cose più stupide come "se dovessero rubarti l'ultima onigiri li posso uccidere" e simili, senza immaginare che un giorno la vendetta avrebbe portato uno di loro oltre il punto di non ritorno.
Erano solo ragazzini, dopotutto. Perché mai avrebbero dovuto immaginare un futuro simile, nonostante il mondo a cui appartenevano?
*
Ha sentito spesso nelle serie tv frasi su come nel momento subito prima della morte la vita passi davanti ai tuoi occhi, come in un riassunto veloce; c’è anche chi dice che, invece, siano i momenti più significativi a rimanere impressi, quasi dovesse essere un qualche tipo di consolazione. Tatsuya sente di avere le gambe e le braccia intorpidite, si sente presente ma assente al tempo stesso. Guarda a ciò che lo circonda come uno spettatore passivo che non ha mai davvero avuto intenzione di assistere allo spettacolo noioso che è l’immobilità del Tempo.
E’ come vivere due esistenze contemporaneamente senza, però, viverne davvero nessuna. I suoi occhi vedono le persone andare e venire in quella stanza di ospedale e in una certa misura registra anche il modo in cui interagiscono con lui: i medici, attenti e scrupolosi e metodici; le infermiere, silenziose e piene di compassione, a volte si perdono in qualche commento passeggero e di forma tra loro come «Così giovane…» oppure «Non si arrenda, Miyuki-san.»
Ogni tanto arriva il secondo in comando dei Moriguchi, un uomo che ha visto Jin crescere e che a un certo punto è diventato familiare anche per lui. Si fa portavoce di un gruppo il cui leader non può chiaramente girare a piede libero come se nulla fosse, dopo quanto successo, almeno per la sua incolumità. Tatsuya li vede andare e venire, fermarsi qualche minuto o qualche ora, anche se raramente. Vede nei loro occhi che non si aspettano reagisca, parli, dia un segno di esserci ancora mente e corpo. Vorrebbe dire loro che c’è, li vede, li sente ma è così stanco, gli sembrano così lontani e la sua coscienza è come liquido che continua a fluire e passare da una parte all’altra senza lui possa intrappolarlo in alcun modo.
D’altra parte, ci sono momenti del giorno - non sempre gli stessi, non sempre della stessa durata - in cui le immagini che vede con i suoi occhi sono lontane, percepite come un ricordo più che come qualcosa su cui stia davvero posando gli occhi. Tutto intorno a sé ha la stessa percezione di quando usa la sua abilità: il Tempo gli scorre vicino, dentro, è un luogo buio fatto di luci piccolissime che Tatsuya non saprebbe dire se siano solo gli eventi o le infinite possibilità esistenti. Sa solo che ogni tanto gli vorticano intorno e non importa quale aspetto o disposizione assumano dopo averlo fatto: concepisce distrattamente l’idea di essere in un flusso del Tempo stesso, ma avverte la certezza assoluta che non ne uscirà mai.
Deve essere l’unica cosa da cui, anni prima, lo hanno messo in guardia: se ti perdi nelle pieghe del Tempo a forza di manipolarlo, ti perderai.
*
Si dice che sia molto più facile dimenticare le cose felici che quelle tristi. Sembra che tutto ciò che causa dolore o sentimenti negativi finisca sempre per attecchire di più, per segnare più in profondità. E’ una delle tante dietrologie dietro i discorsi motivazionali che si fanno per insegnare a qualcuno come gestire i commenti negativi, le critiche distruttive.
Tatsuya non sa se sia vero e non si è mai interessato più del dovuto alla psicologia, ma di sicuro il suo cervello deve aver scelto per lui e continua a riproporgli il momento peggiore della sua vita - anni fa aveva pensato che nulla avrebbe superato il dolore di perdere sua madre e in un certo senso era ancora di quell’avviso. Il rapporto con sua madre è sempre stato talmente forte che quando l’ha persa, troppo giovane lei e decisamente troppo giovane lui, ha pensato che niente gli avrebbe restituito quel pezzo di sé che se ne stava andando con lei. Così era stato, anche se qualche ricordo gli aveva permesso almeno di rendere tutto meno acuto, con il passare del tempo.
Poi, in un giorno come tanti, ricorda la figura di uno dei suoi ragazzi: il volto terrorizzato è qualcosa che non dimenticherà mai ma, ancora di più, la voce straziata con cui gli ha detto «Moriranno tutti.»
*
In quel labirinto nel Tempo da cui non sta neanche davvero provando a uscire, una delle immagini più vivide è quella di un palazzo in fiamme. Uno di quelli che si amalgamano con facilità nell’urbanistica di una metropoli media giapponese, uno che dall’esterno può passare inosservato come tanti altri. Tranne quando è in fiamme.
Tatsuya si osserva come se guardasse la vita di un altro, come se ripercorrere la propria ancora e ancora - di nuovo? - fosse la punizione di chi ha osato troppo pur sapendo di non poterselo permettere.
Arriva trafelato, con un completo che lo fa sembrare più grande e più serio di qualche anno, in apparenza disarmato. E’ una delle cose di cui è sempre andato fiero, oltre che uno dei suoi più grandi punti di forza: agli occhi di chiunque è sempre apparso come una minaccia solo nel nome che rappresenta, mai come persona in sé. Poco incline a portarsi dietro un’arma a causa della mente tradizionalista di suo padre e di una propensione quasi imbarazzante per le armi da taglio, non c’è mai stato un secondo della sua vita in cui si sia sentito davvero in pericolo o minacciato da quando ha imparato a erigere quella “barriera temporale” attorno a sé. Tatsuya lo vede negli occhi del se stesso che osserva: non ha mai pensato di poter essere colpito. Non ha mai pensato a questo.
Scoprire il colpevole in questo momento è impossibile, le priorità sono altre: prendono la forma di ingressi bloccati, di urla straziate provenire dall’interno di quell’edificio. Si concretizzano nell’immagine di un’esplosione di vetri e di un corpo in fiamme che si lancia da una finestra. Tatsuya - da lontano, ma anche da vicino in quel ricordo - lo guardano atterrare scomposto, morto sul colpo per la caduta; un atto di pietà della natura, per evitargli di bruciare fino alle ossa. Non riesce nemmeno a riconoscerlo. Non si dà modo, non rimane fermo.
Il Tatsuya di quel passato per nulla lontano si avvicina incurante di chi lo richiama, ignorando chi cerca di fermarlo - si volta a guardare il povero compagno con nello sguardo la violenza di chi potrebbe uccidere chiunque si metta sul suo cammino senza nemmeno pensarci su un secondo, alleato o nemico ha già perso d’importanza. Il suo potere è come una seconda pelle, ferma il tempo di quelle fiamme fino a toccare la superficie dell’edificio senza bruciarsi o sentire alcun calore; non esita un solo istante a fare ciò che con il Tempo non si dovrebbe fare mai: lo riavvolge fino a vedere le fiamme ritrarsi, fino a quando non spariscono. Vede i volti di chi blocca le entrate, di chi appicca il fuoco.
Quando toglie la mano, il mondo riprende a muoversi nella sua naturale velocità e direzione.
Quello che il Tatsuya del passato ancora non sa è che se si prova a ingannare il Tempo, quello finirà per ingannare te.
*
Guardarlo di nuovo deve essere la punizione per chi ha osato troppo, è la spiegazione che Tatsuya si dà. Si chiede, per un istante, immobile in un letto di cui ha coscienza ma dal quale non sa se riuscirà mai ad alzarsi, se sia la sua legge del contrappasso: imparare da un errore commesso senza potervi porre rimedio mai, lui che ha cercato di forzare l’impossibile.
Il Tatsuya che può osservare senza essere visto, nitido nei suoi ricordi fin troppo freschi, si affanna su per le scale del primo, del secondo piano e cerca disperatamente di incrociare qualcuno da strappare a sorti che non si merita e di cui lui sente l’irrazionale responsabilità. Finalmente riesce a trovare uno dei suoi compagni ed è questione di un secondo, forse due prima che i loro sguardi si incrocino e subito dopo parte del soffitto crolli su di loro: il suo compagno si spinge in avanti, si slancia per allontanarlo dal pericolo e Tatsuya è salvo, ma lui no. Il sangue sgorga copioso, gli macchia le mani e i vestiti e tutto ciò che vorrebbe fare è urlare anche mentre cerca di allontanare il corpo ormai senza vita dalle macerie, perché non rimanga schiacciato come un topo in trappola.
Al piano di sopra cominciano a sentirsi urla, voci che avvisano «Al fuoco!» e «La porta non si apre!» e il Tatsuya del passato - lo vede, lo riconosce perché sono la stessa cosa e lo ha provato ed è stato terribile - realizza che è già troppo tardi. Non è andato abbastanza indietro. Perciò la mano cerca spasmodicamente una parete mentre il resto del soffitto sembra cedere.
Le macerie non lo raggiungono mai, il cemento non lo schiaccia; si ferma a mezz’aria e inverte la sua rotta e Tatsuya lo guarda (si guarda) mentre un cuore torna a battere e un corpo schiacciato è di nuovo sano, un uomo è in piedi sulle scale, l’edificio è ancora sano. Va indietro, indietro, indietro. Vede compagni fare su e giù per l’edificio, ignari, poi quando gli sembra sia abbastanza ferma il flusso del proprio potere.
E’ stanco, perché riavvolgere il Tempo non è uno scherzo ed è forse il peggiore sforzo a cui un Cronocineta possa sottoporre il proprio corpo. Eppure non è importante, mentre cerca di respirare e di focalizzare lo sguardo, perché ha bisogno di essere attento, non può permettersi di perdere alcun dettaglio di vitale importanza.
Se non vede ogni cosa, non può prevenirla.
Non sa ancora che manipolare il Tempo, anche con le più nobili intenzioni del mondo, non lo rende Dio.
*
Ci vogliono tentativi su tentativi, per capire la dura verità, quella che non si riesce ad accettare neanche quando viene sbattuta in faccia con una violenza inaudita. Ogni volta riesce a salvare qualcuno, a evitare la morte di un compagno, ma il Tempo sembra esigere un numero di vittime specifico e non voler fare sconti di alcun tipo: per ogni persona che strappa alla morte, una finisce per essere sacrificata comunque.
Tatsuya osserva il suo passato, lo guarda come un monito e al tempo stesso cerca di distogliere lo sguardo come se fosse una tortura, obbligato immobile a guardare.
La consapevolezza di non poter fare nulla è qualcosa che arriva lenta, leggera al punto da non accorgersi che c'è fin quando ormai non ricopre tutto; ha la viscosità di una melma che immobilizza, piano e gradualmente, come un veleno che entra in circolo e quando i primi sintomi lo rendono ovvio è già troppo tardi per assumere un antidoto. Il Tatsuya di un passato che l'aver abusato della sua abilità forse gli mostrerà fino alla morte continua a salvare, poi a vedere morire, poi a riavvolgere il tempo.
Ogni volta va sempre peggio, Tatsuya sa riconoscere i segni che sul momento la disperazione ha nascosto con meticolosa attenzione: si muove sempre peggio fino a deambulare; respira affannato, come se ogni utilizzo del suo potere minacciasse di rallentargli il cuore fino a fermarlo; non riesce a mettere a fuoco, si nota da alcuni suoi movimenti, ma l'unica cosa che cresce è la schiacciante, tremenda consapevolezza di non poterli salvare.
Il Tatsuya del passato vede l'edificio prendere fuoco di nuovo, prima che lui riesca a fare nulla per evitare che uno dei suoi uomini lo spinga via, sacrificandosi per salvarlo. Si piega sulle ginocchia, tossisce fino a quando lo sforzo non gli stringe lo stomaco al punto da fargli vomitare la bile. A terra, lì a toccare il suo personale punto di non ritorno, stringe una mano a pugno e colpisce il duro pavimento mentre un urlo di frustrazione, disperazione e tristezza gli graffia la gola e non serve comunque a niente più che sfogare la propria impotenza per qualche secondo. Anche se ora, con il volto che non si vede, Tatsuya non riesce a distinguere la sua espressione sa che si sta concedendo l'ultimo pianto prima di una decisione definitiva. Un atto di debolezza, prima di uno di forza - o di incoscienza.
La mano si allunga di nuovo, rimane lì col palmo aperto ad aderire al pavimento e Tatsuya sa che il se stesso del passato sta per riavvolgere il Tempo un'ultima volta, quella che lo condannerà al fallimento, alla perdita e a vagare con la coscienza in quello stesso Tempo che da bambino pensava sarebbe stato il suo modo di essere un super eroe.
*
Non sa quanto duri. Forse settimane, forse mesi. Le visite dei medici si fanno meno frequenti, quelle delle infermiere gli sembrano rimanere sempre identiche invece. Il braccio destro dei Moriguchi torna di rado, ma una volta lo fa con Jin - Tatsuya vorrebbe almeno muovere le dita della mano, dargli un segno che in un certo senso è lì anche se non c'è davvero. A un certo punto smette di rivedere sempre le stesse scene, anche se sono lì in agguato e quando meno se lo aspetta è come viverle di nuovo, e di nuovo, e di nuovo.
Altre volte sono flash brevi dell'infanzia, sono le chiacchierate con Jin sulla terrazza della scuola, sono cose stupide fatte da ragazzo. Sono la famiglia che non esiste più da nessuna parte, i legami spezzati per sempre. Ogni tanto a Tatsuya sembra di dimenticare la propria identità. In altri momenti che quasi somigliano a quelli di lucidità, invece, si sente più presente di quanto non sia mai stato e ha il sentore di poter quantificare da quanto tempo sia lì oppure quanto riesca in effetti a muoversi. O quanto potrebbe farlo, se la sua coscienza tornasse ad allinearsi con il suo corpo anziché perdersi in uno spazio che non è da nessuna parte se non nella sua testa e nella sua essenza di ability user.
Se glielo avessero chiesto in passato non avrebbe mai creduto alla possibilità di divenire un giorno prigioniero dello stesso potere che lo aveva sempre fatto sentire libero.
Poi è successo senza che ci sperasse nemmeno più - perché in fondo, anche riprendendosi e tornando a vivere, il Miyuki-gumi non esiste più e la sua famiglia lo stesso. Non fa in tempo a chiedersi se almeno Jin sia ancora in quella città che non potrà mai fare altro che ricordargli quello che ha perso, da ritrovarsi ad accorgersi vagamente della presenza di Jin lì nella stanza. Deve aspettare sia l'altro a entrare nel suo campo visivo, data la posizione in cui lo sistemano le infermiere ogni giorno, ma alla fine riesce.
Non è così diverso da come lo ricorda, perciò forse non sono passati anni e anni. E' solo, se non con un membro che non riconosce e che quindi suppone sia nuovo: è un ragazzo giovane, dall'aspetto peculiare e non per la cicatrice da ustione che gli copre una porzione di viso. Rimane fermo in piedi dietro Jin e Tatsuya, nella vaghezza di pensieri che non sono più abituati a essere formulati in ordine, riconosce in quella sua postura il ruolo di una guardia del corpo.
«Tsuya» pronuncia Jin, senza parole di conforto inutili, specie se non è nemmeno sicuro di essere sentito «li abbiamo trovati. Manca poco, solo essere sicuri che siano i diretti responsabili.»
Per chiunque, sarebbero una condanna a morire di nuovo nella consapevolezza di essere inchiodato al letto di un ospedale; per lui è lo strappo violento che la realtà attua su di lui: è come una mano che lo strattona con violenza e una manciata di secondi dopo lui sente la gravità tornare ad avere presa su di lui. Cade a terra dal letto, forse per un movimento troppo brusco, forse per uno spasmo muscolare per quel poco di muscoli rimasti dopo tanta immobilità. Non incontra il freddo pavimento solo perché Jin è veloce ad evitarglielo, anche nel pieno stupore di fronte a quello che chiunque considererebbe un miracolo.
Sente parole da parte sua ma fatica a distinguerle; nella nebbia della sua testa rimbomba solo una frase a cui le corde vocali, dopo tanto riposo forzato, faticano a dare voce.
Punta gli occhi ambrati in quelli di Jin e sa che, in una manciata di secondi, lui capisce comunque.
Sono miei. Lasciali a me. A costo di farmi ammazzare.
*
Si rivela tutto molto più difficile e di sicuro meno immediato di quanto il suo desiderio di vendetta vorrebbe per lui. Mesi di totale immobilità richiedono non solo una serie di accertamenti medici prima che venga autorizzato anche solo a essere accompagnato fuori nel giardino dell’ospedale in sedia a rotelle - e il medico in ogni caso non ne sembra particolarmente entusiasta se non con il controllo costante di un infermiere - ma richiedono una riabilitazione che presto si trasforma nel più grande e frustrante degli ostacoli.
La fortuna nella sfortuna è che non si tratta di una riabilitazione dovuta a condizioni pesanti come gli capita di vederne quando va per i suoi appuntamenti nell’area dedicata dell’edificio: ci sono persone sottoposte a operazioni importanti o altre che devono imparare a vivere di nuovo da zero senza un arto. Tatsuya, a confronto, sente di potercela fare molto più velocemente ma forse una vita intera passata a non doversi preoccupare di quanta energia e forza nelle gambe ci volesse per fare quindici passi rende complesso accettare di non riuscire in tutto subito.
Alla frustrazione di una ripresa troppo lenta, mentre come unico obiettivo non riesce a pensare ad altro che alla vendetta, si aggiunge quello che si rivela essere il vero problema della sua ripresa completa. Contro ogni aspettativa, sono gli incubi a sfinirlo: più di una volta apre gli occhi, con la sensazione di star soffocando e dopo aver mandato per terra qualche oggetto del comodino senza volerlo. Di solito ci sono due infermiere del turno di notte e dopo tre episodi consecutivi, ormai hanno il loro modo di svegliarlo e gestirlo prima che si faccia male per errore.
E’ qualcosa su cui non ha il minimo controllo e che non si era nemmeno aspettato: mesi con la coscienza intrappolata nella propria stessa abilità a rivivere il ricordo del suo fallimento a ripetizione l’avevano illuso di potersi dire ormai insensibile abbastanza perché non fosse un impedimento. Invece, dopo due settimane in cui gli incubi continuano a interrompere bruscamente quel riposo di cui avrebbe tanto bisogno, Tatsuya ha un’epifania: da quando ha riaperto gli occhi, non ha mai fatto uso del suo potere.
Per la prima volta in vita sua, tutto ciò che è sempre stato parte di lui è diventato il suo peggior nemico.
*
Quando finalmente il medico annuncia di poterlo dimettere, Tatsuya si aspetta un problema che viene risolto ancora prima che possa porsi: la soluzione assume l’aspetto di Moriguchi Jin e della sua guardia del corpo che si presentano all’ingresso dell’ospedale come se lui non fosse il nuovo leader di un gruppo della yakuza e come se il mondo non se ne accorgesse già solo guardandolo. Eppure Jin si comporta come se stesse entrando dentro casa propria - un modo di fare che gli è sempre appartenuto - e lo saluta gioviale nemmeno fosse suo cugino venuto a prenderlo per andare a fare un picnic.
Tatsuya non ha nemmeno il tempo di chiedergli nulla: Jin fa un mezzo gesto con la mano ed è costretto a interromperlo neanche a metà perché la sua guardia del corpo sta già togliendo dalle mani di Tatsuya il borsone mezzo vuoto che ha. Prova a protestare ma Jin scuote la testa, quasi a volergli suggerire che sarebbe solo un enorme spreco di fiato.
«Lascia la borsa a Isen, su.» lo vezzeggia come se Tatsuya fosse un bambino «Hai bisogno di un posto dove riprendere ad allenarti in pace, giusto?» la butta lì come se lui fosse un grande sportivo che deve riprendere l’attività dopo un periodo di fermo a causa di un imprevedibile incidente. Nelle sue parole c’è la promessa di un luogo dove possa riprendere a utilizzare la propria abilità ma, soprattutto, la spada. La promessa di un posto dove chi vi transita non si farebbe domande, non le farebbe a lui e forse si presterebbe anche a quegli allenamenti se solo Tatsuya dovesse decidere di chiedere aiuto.
Non ci vuole molto per capire che il posto di cui parla è il territorio dei Moriguchi stessi.
«No.»
«Non te lo stavo chiedendo e soprattutto non te lo chiederebbe mio nonno, per cui comunque sei un nipote più apprezzabile del sottoscritto!» ribatte Jin, accompagnandovi quella mezza risata da iena che si ritrova. Tatsuya sa che Moriguchi Kazuma è un uomo complesso, di altri tempi e che avere la sua stima è qualcosa che risale ad anni prima. Per quanto quella dell’essere il nipote preferito sia una inside joke da tempo e Jin non sia certo detestato da suo nonno, Tatsuya comprende il peso dietro quelle parole in apparenza solo giocose.
Per quanto il pensiero di essere cercato da chi ha annientato il suo gruppo e di rischiare così di essere la causa dello stesso destino anche per i Moriguchi gli faccia venire da vomitare, non è così stupido da credere che Jin gli stia lasciando davvero scelta. O di averne una alternativa.
Così accetta e passa i mesi successivi ad allenarsi fino a non sentire più le gambe e le braccia, fino a ritrovare lo smalto che gli è sempre stato proprio.
*
Quando è troppo stanco per muovere anche solo un muscolo, si stende sul pavimento in legno e respira fino a regolarizzare l'alzarsi e l'abbassarsi del suo petto, tenendo lo sguardo sul soffitto senza che ci sia nulla di particolare da vedere. L'assenza di dettagli lo aiuta a fermare la mente, a darsi tregua. Lo fa infinite volte, ogni tanto si distrae qualche secondo soppesando l'idea di ricominciare ad allenare anche il potere - o meglio, di vedere se quello arrivi come la seconda natura che è sempre stato oppure se debba scendere a patti con l'idea di aver bisogno di ancora più tempo prima di poter andare a compiere la propria vendetta.
Jin gli ha detto di aver mobilitato solo uomini di fiducia per assicurarsi informazioni esatte che gli permettano di andare a colpo sicuro senza sorprese, ma Tatsuya ormai sospetta che le abbia da molto e stia semplicemente aspettando di vederlo pronto come una volta. Quello che invece è inaspettato è sentire la porta aprirsi e, nel voltarsi verso di essa, vedere la guardia del corpo di Jin entrare.
Isenlen è una creatura particolare, Tatsuya ha impiegato poco a notarlo: silenzioso, peculiare anche per una guardia del corpo. In genere quelle si riconoscono abbastanza facilmente dal modo in cui si rapportano con il proprio boss, ma Isen è diverso in un certo senso. Rimane accanto a Jin quando c'è bisogno - principalmente quando si tratta di affari all'esterno, da quanto Tatsuya ha avuto modo di osservare - ma non ha quel senso di protezione quasi ossessivo che in genere le figure come la sua hanno. Lo stesso Jin un po' lo punzecchia per farlo ammattire come ha sempre fatto con tutti quelli che hanno ricoperto quel ruolo, un po' Tatsuya ha notato lo sguardo che Jin rivolge al ragazzo e che con i ruoli ha davvero poco da spartire.
Il punto è che sentire la voce di Isen è quasi un miracolo, al di fuori delle interazioni con lo stesso Jin, così come la guardia del corpo è introversa abbastanza da non farsi trovare quasi mai al centro degli spazi comuni o nei gruppi più o meno numerosi formati dagli altri membri. Il fatto che sia venuto lì ma, soprattutto, che nel vederlo sembri aver trovato proprio chi stava cercando non può che lasciare Tatsuya perplesso. Non lo caccia di certo, comunque. Per quanto ospitali siano i Moriguchi, Isen ha più diritto di lui a muoversi ovunque voglia in quell'edificio.
Il ragazzo lo raggiunge, fino a sedersi vicino abbastanza da lasciar intendere di voler avere una conversazione con lui ma non tanto da invadere il suo spazio vitale. Tatsuya lo apprezza, non perché ne abbia bisogno ma perché quel tipo di attenzione è una qualità rara. Isen tace, lo fa così a lungo che Tatsuya inizia a dubitare delle sue intenzioni, o almeno che tra quelle non ci sia il parlare. Proprio quando sta per rinunciare e prendendo in considerazione l'idea di alzarsi e riprendere l'allenamento, la voce bassa di Isen lo raggiunge: «Jin dice che forse posso aiutarti con il potere, Tatsuya-san.»
Lo dice in un modo così diretto che a Tatsuya scappa da ridere. Non è una risata sentita, non è l'espressione di una gioia che non pensa sarà più in grado di provare, ma si porta dietro uno strascico di divertimento. Quelli come Isen, così diretti e sinceri al punto da poterlo quasi considerare un difetto, sono rari - e Tatsuya non osa neanche pensare a quanto uno così possa far penare Jin. Seppure inconsciamente, sospetta.
«Jin dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che il mio potere è raro anche per un ability user e che funziona in modo anche troppo specifico. Apprezzo l'interessamento, però.»
«No, non per il tipo di potere» chiarisce Isen corrugando appena la fronte, come se nemmeno lui riuscisse a capire come si suppone debba portare avanti la conversazione «ma perché forse ne sei spaventato, ora.»
Tatsuya lo capisce subito, perché tutto del linguaggio del corpo di Isen lo dice: non lo ha pronunciato con cattiveria né come una provocazione, ma come una semplice e obiettiva verità. Allo stesso tempo è chiaro che Jin non debba avergli spiegato nel dettaglio cosa lo abbia condotto in ospedale; dovesse tirare a indovinare, Tatsuya azzarderebbe a dire che forse Jin deve aver parlato di un utilizzo eccessivo del potere o poco più. Isen, per il tipo che sembra, non deve nemmeno aver fatto domande. Potrebbe tirarsi su a sedere, ma dubita l'altro si faccia troppi problemi sulla posizione dalla quale decide di rispondergli.
«Tu sei spaventato dal tuo potere?»
«Ora non più.»
«Manipolazione del fuoco, giusto?» domanda Tatsuya, avendone avuto solo un minimo assaggio e così veloce che per quanto gli sembri quello il caso, potrebbe comunque essere qualcosa di leggermente diverso. L'annuire di Isen toglie però ogni dubbio e permette a Tatsuya di dare voce a un «E' perché ti sei procurato quella?» indicando con un gesto vago la cicatrice sul viso altrui.
Con sua sorpresa, però, Isen scuote la testa.
«No, è per quello che ho fatto agli altri.»
Tatsuya non ha bisogno di chiedere altro perché a quel punto immaginare l'episodio è molto semplice: il problema delle abilità elementali è spesso quello, non importa quale sia l'elemento interessato. Quando si scopre come controllarlo è già troppo tardi.
«Ti fa paura il tuo potere?» chiede Isen, gli occhi puntati sul viso di Tatsuya senza alcun imbarazzo. Il suo accetto è leggermente più duro, si indovina facilmente che non sia cresciuto in Giappone anche se non tradisce la sua provenienza. Tatsuya ha notato quasi subito la sua eterocromia - un occhio grigio e uno azzurro, entrambi fissi sulla sua persona come se si aspettassero di leggergli tutto in faccia. Eppure l'aspetto curioso e divertente di quel ragazzo è che quando non trova ciò che cercava, semplicemente lo chiede laddove altri cercherebbero di scrutare ancora e ancora. Forse è anche per questo che decide di premiarlo con la sincerità, o almeno ciò che più ci si avvicina.
«Non lo so, ma nel complesso credo di no.» confessa, gli occhi ambrati di nuovo a puntare il soffitto «Ormai ho visto il peggio che può farmi e il limite oltre il quale non può andare. Credo che dobbiamo solo tornare ad andare d'accordo.»
Isen annuisce e basta, come se gli bastasse questo e il suo compito fosse concluso. Tatsuya decide che non c'è ragione di dirgli che il motivo per cui non ha paura è che non conta di tornare vivo, una volta che avrà lasciato l'edificio dei Moriguchi per andare a vendicare i suoi compagni.
*
Mentre aspetta il momento giusto per colpire, Tatsuya si ritrova a pensare a quando suo cugino Chihiro gli ha detto di essere un ability user a sua volta. Avevano undici o dodici anni, Tatsuya aveva già un buon controllo del proprio potere tutto sommato e le vacanze a Kyoto stavano andando bene come ogni volta. Si ricorda di un pomeriggio come tanti, di come Chihiro che in fondo è sempre stato un bambino e un ragazzo abbastanza strano a modo suo e nel suo essere silenzioso gli si sia seduto vicino. Senza una parola, per un tempo piuttosto lungo. Tatsuya non gli aveva detto niente, perché non si trattava di un atteggiamento fuori dalla norma, anzi era qualcosa a cui si era abituato da che aveva memoria.
Chihiro gli piaceva - come gli piace tuttora - e per quanto sia sempre stato un po' una oddball anche tra le persone dotate di poteri, Tatsuya non riesce a non pensarlo sempre con affetto, non importa di quale ricordo si tratti. Questo in particolare, tuttavia, gli causa un moto di tenerezza e ora che sono adulti entrambi, anche uno di dispiacere.
Gli torna alla mente, vivida come non mai, l'immagine di quel bambino di appena un anno più piccolo di lui con i piedi dondolanti e una mano aveva finito col cercare la sua, fermandosi invece alla manica come faceva spesso: «Tsuya-nii» lo aveva chiamato, senza però ricambiare il suo sguardo «sai che se ti fai male io posso farti sparire tutto?» aveva detto con una vocina bassa, decidendosi finalmente a guardarlo «Quindi se un giorno qualcuno ti dà fastidio tu me lo dici e ci penso io.» aveva concluso speranzoso. Tatsuya non aveva capito subito la portata di quanto gli era stato rivelato, ma quando tornando a casa lo aveva detto a sua madre, lo sguardo rattristato di lei gli aveva fatto intendere ci fosse più di quello che la sua mente aveva registrato.
Quando, qualche anno dopo, Chihiro non era stato mandato in vacanza da loro come era successo in altre occasioni, Tatsuya non aveva avuto bisogno di chiedere perché o di sbattere i piedi per capriccio. Aveva capito che quello di cui parlava Chihiro era un potere in apparenza molto utile ma che poteva avere delle implicazioni tremende: se un manipolatore del tempo e uno della soglia del dolore avessero potuto agire insieme, in un territorio sotto il controllo di diversi gruppi della yakuza, cosa mai ne sarebbe potuto uscire? Torture infinite su torture infinite. Al mondo non sarebbe bastata la parola d'onore di un ragazzino che assicurava quanto buono di indole fosse suo cugino: se la voce si fosse sparsa, agli occhi di tutti sarebbero stati solo il duo più letale della città e nessuno degli altri gruppi - specie quelli non alleati o con un patto di non aggressione con i Miyuki - avrebbe aspettato di scoprire se un futuro leader yakuza mentiva.
Tatsuya aveva capito che lo avrebbero ucciso senza pensarci due volte. Così non aveva più invitato Chihiro e, nel tempo, aveva smesso di recarsi spesso a Kyoto. I diversi ritmi di vita avevano fatto il resto.
Appostato in attesa di una vendetta che forse lo ucciderà, non può fare altro che ringraziare di aver preso quella decisione; eppure al tempo stesso si sentiva incredibilmente solo. Sarebbe stato di conforto girarsi e trovare al proprio fianco l'unico membro della famiglia ancora vivo, con la certezza che l'altro gli avrebbe guardato le spalle senza neanche bisogno di chiederlo. Per la prima volta da quando si è svegliato, vorrebbe potersi alzare per andare via, senza sentire alcun obbligo e convincersi che sarebbe comunque in grado di vivere una vita dignitosa oppure di rifarsene una da qualche parte. Oppure vorrebbe alzarsi, entrare nell'edificio che ospita tutti i responsabili - diretti o meno - dello sterminio del suo gruppo e avere la certezza che quando ne sarà fuori quelli avranno subito le pene dell'inferno.
Chihiro però, per fortuna, è lontano chilometri e chilometri.
Così Tatsuya sospira, si alza in piedi dopo che l'ultimo uomo è entrato nel palazzo richiudendosi la porta alle spalle. Ricaccia indietro il ricordo di suo cugino, di un passato in cui non c'era da preoccuparsi di nulla e i poteri più letali sembravano solo quelli adatti a prendersi cura delle persone care.
Muove diversi passi con circospezione, si accosta alla porta che ha visto chiudere poco prima, assicurandosi di non aver erroneamente ignorato qualcuno in borghese o con un profilo basso ma appartenente al gruppo. Nessuno gli va incontro né lancia qualche tipo di segnale, quindi suppone di no. La katana è ancora nel suo fodero, fissato contro la schiena e lui, semplicemente, bussa.
Non si stupisce di vedere la porta aprirsi, nessuno si aspetterebbe un vendicatore che bussa con educazione e chiede magari anche "permesso". L'uomo che si ritrova di fronte non lo riconosce subito o forse non lo fa affatto, ma poco importa in realtà; in ogni caso se anche riesce lo fa troppo tardi, mentre la lama di un pugnale nascosto che non ha nemmeno visto tirare fuori gli affonda nello stomaco mozzandogli il respiro, mentre un dolore acuto deve colpirlo. Tatsuya lo guarda con la stessa empatia e la stessa carica emotiva che potrebbe rivolgere a un ciottolo per la strada, qualcosa di così poco rilevante e così semplice da ignorare che spesso nemmeno si nota davvero.
Quello prova a dire qualcosa, forse urlare; Tatsuya si assicura di girare la lama nelle sue viscere e quello fa per urlare di dolore. Per quanto conti di generare il caos a breve, nemmeno per lui è comodo che questo avvenga non appena varcata la soglia, perciò ferma il suo tempo. Dapprima abbastanza per chiudersi la porta alle spalle e poi lo osserva, pondera, cercando di decidere il da farsi.
Alla fine il tempo di quell'uomo di cui neanche conosce il nome, riprendere a scorrere mentre Tatsuya inizia a salire le scale. E' comunque troppo tardi perché il cuore riprenda a battere.
*
Potrebbe rendere tutto molto più semplice di così, lo sa bene. Se in ogni caso non si preoccupa di cosa gli accadrà alla fine, se non è importante sopravvivere, Tatsuya sa che potrebbe semplicemente scaricare tutto il suo potere su un intero edificio per la seconda volta e aspettare abbastanza tempo per replicare su larga scala quanto fatto con l'uomo che ha avuto la sventura di aprirgli la porta. Invece ha deciso di fare alla vecchia maniera, di ucciderli uno per uno, specie quando dopo il quarto uomo incontrato qualcuno ha finalmente lanciato l'allarme.
I motivi sono semplici: in primis, perché potrebbe avere un contraccolpo prima di compiere la sua vendetta o non avere reale certezza di averli uccisi tutti prima di soccombere a sua volta. Secondo, non sa chi sia stato ad aver materialmente appiccato il fuoco o se l'abbia fatto con un potere; non sa nemmeno se sia la stessa persona ad aver prima bloccato la maggior parte delle vie di fuga, lasciando solo quelle particolarmente in alto, con la crudeltà della consapevolezza che fuggire da lì avrebbe comunque comportato la morte di chi avesse tentato. La realtà però è che non gli interessa neanche più saperlo, non è importante. A questo punto sono tutti ugualmente colpevoli: carnefici diretti o indiretti è diventato un dettaglio estremamente trascurabile per lui. L'unico aspetto di reale interesse è vederli morire, lasciandoli soffrire più possibile e ha tutta l'intenzione di guardarli negli occhi mentre lo fa. Certo, non è come avere la possibilità di ferirli continuamente e assicurandosi che avvertano il quadruplo del dolore che dovrebbero provare di solito, come avrebbe potuto fare se avesse coinvolto Chihiro o qualcuno con il suo stesso potere... ma Tatsuya può accontentarsi. Può farsi bastare una soglia del dolore normale, senza modifiche da parte di nessuna capacità speciale.
Quello a cui non può davvero rinunciare è guardarli negli occhi, cercare la paura e il momento esatto in cui la presa di coscienza assume la tinta precisa di chi sa di non avere più scampo. Di chi guarda la morte in faccia e comprende che nessuno lo potrà salvare.
Tatsuya, katana impugnata, affonda la lama nella schiena dell'ultimo uomo del piano su cui si trova e lo vede crollare a terra mentre il sangue inizia a uscire copiosamente. Quello si tampona in modo spasmodico la ferita, nella sciocca e disperata convinzione che possa bastare a garantirgli la sopravvivenza. Quando Tatsuya torreggia su di lui, quella speranza vaga sparisce del tutto e nei suoi occhi rimane solamente la paura. Si aspetta un colpo di grazia che non arriva e non certo perché lui voglia risparmiarlo.
«Per quanto meriteresti di rimanere steso a terra a dissanguarti, non posso permettermi il lusso che tu sopravviva. Per quanto vaga sia la possibilità che succeda.» gli fa presente, il tono placido, senza fretta: «Ma quello che voglio sapere è: chi ha appiccato il fuoco all'edificio del Miyuki-gumi sei mesi fa?»
Negli occhi dell'uomo vede il lampo della comprensione e questo lascia supporre a Tatsuya che sia un membro di quel gruppo da abbastanza per sapere di quale "incidente" si parli, ma non di alto grado tanto da conoscere la risposta. Fa l'errore, forse, di credere che fingendo di tacere perché vuole Tatsuya gli risparmierà la vita pur di avere l'informazione che vuole; non sa che in un modo o nell'altro la otterrà comunque e quindi, quando intuisce che la cosa potrebbe inutilmente andare per le lunghe, l'ex leader del Miyuki-gumi si limita a far calare la katana su di lui con fare quasi disinteressato.
Passa oltre, niente di più.
*
Sono dentro quella stanza da quasi un'ora. Tatsuya, lo deve ammettere a se stesso, mai una volta in vita sua ha preso in considerazione la tortura. Va contro tutto ciò che gli è stato insegnato da suo padre: l'onore, il rispetto, anche - soprattutto? - per colui con cui si incrocia l'arma, specialmente la spada. Va contro ogni cosa che sua madre ha sempre rappresentato e sperato lui rappresentasse a sua volta: la gentilezza anche quando rivolgerla a qualcuno sembra impossibile, la correttezza anche quando gli altri non lo sono. Infine, è certo che se potesse vederlo ora, non potrebbe mai approvare il modo in cui la vendetta lo ha mangiato vivo.
Eppure, nonostante tutto questo rappresenti ciò che è sempre stato, al momento ignora tutto. Il responsabile della caduta del suo gruppo, delle persone che hanno rappresentato la sua famiglia anche quando entrambi i suoi genitori sono morti chi prima e chi dopo, è lì. Troppo ferito per tentare la fuga, troppo provato dal dolore per ragionare lucidamente, senza voce per le troppe urla per poter sprecare fiato in suppliche che ormai avrà capito essere inutili. Tatsuya lo osserva forse prendendosi per la prima volta il tempo di farlo: è un uomo più giovane di come sarebbe suo padre se fosse ancora vivo. Uno che deve aver fatto abbastanza esperienza da poter ricoprire il ruolo di leader del suo gruppo, uno minore che forse in un'altra situazione Tatsuya avrebbe del tutto ignorato.
E' così patetico, in balia di un potere troppo grande che Tatsuya ha persino usato il minimo sindacale. Nei suoi occhi, deve dargliene atto, non c'è la paura - non più di tanto. C'è la rassegnazione alla morte però, quello sì.
«Sarebbe più facile per te se mi dicessi il motivo dell'attacco.» la butta lì, con il disinteresse di chi ha tutta la giornata, ma forse anche tutta la vita. Di sicuro ha tutto il tempo del mondo.
L'uomo sbuffa, o forse lo farebbe in condizioni normali, ma in quelle in cui versa sembra più il tossire per sputare sangue che continua a perdere anche dalle ferite sebbene lentamente. E' come guardare una morte compiersi inesorabile senza impegnarsi a fermarla né a velocizzarla.
«Saresti... così misericor... dioso?» ansima quello, cercando di piazzarsi sulle labbra un sorriso arrogante. Tocca a Tatsuya, ridere, ma è una risata vuota che sbatte contro le pareti di quella stanza creando un suono quasi distorto.
Si sposta dalla parete contro cui si è poggiato poco prima e si avvicina a lui, guardandolo persino annoiato: «Non ho intenzione di darti nulla che non ti meriti. La misericordia non è tra questi. La tua dov'era?» lo interroga, in un chiaro riferimento all'annientamento del proprio gruppo. L'uomo tossisce di nuovo, scuotendo appena il capo in uno spreco di energie che Tatsuya non si spiega ma nemmeno si impegna chissà quanto a comprendere. Lo vede sforzarsi di alzare lo sguardo e di assumere un'espressione dignitosa e per com'è messo, specie fisicamente, deve dargli atto di riuscirci almeno vagamente.
«I tuoi... uomini» inizia a fatica, ottenendo in un istante la sua attenzione «non erano... forti abbastanza.» commenta. In quell'affermazione, Tatsuya comprende che non si stia parlando solo di forza fisica e all'improvviso una consapevolezza gli gela il sangue nelle vene: cercavano un ability user. Cercavano lui.
Il dolore che pensava non avrebbe provato mai più, dopo i tentativi di salvataggio e gli incubi e i mesi passati a rivivere tutto come una punizione si riaffaccia ora. E' acuto, è pungente e sembra volerlo soffocare per una manciata di secondi. Poi arriva come un'ondata inarrestabile: la rabbia cieca di chi ottiene una risposta e prevedibilmente quella riesce a essere sia quella che si voleva, sia quella che non si sarebbe mai voluto conoscere.
Tatsuya abbassa lo sguardo, senza un reale bisogno, sui propri vestiti: la camicia bianca ormai non solo non è più indossata con ordine, ma è quasi più macchiata di sangue che del suo colore originario. La giacca l'ha abbandonata due piani sotto, i pantaloni sono un disastro. Sposta gli occhi ambrati su quell'uomo e quella rabbia che lo scalda come lava, all'improvviso è come se si azzerasse. Come se all'improvviso dentro avesse solo il ghiaccio. Sente una lucidità che non pensava più di avere o che di certo non si sarebbe riaffacciata qui e ora; scorge nello sguardo dell'uomo che nessuna di queste reazioni è quella che si aspettava.
«Io non andavo particolarmente d'accordo con mio padre.» comincia a dire Tatsuya, le dita a sfiorare la lama anche se non necessariamente per ripulirla del sangue della scia di morti che si è lasciato alle spalle. Deve sembrare del tutto fuori di testa come discorso, eppure lui non si ne preoccupa e continua: «Sapeva cosa voleva che diventassi, ma detestava che mia madre mi rendesse più debole. Io non mi sono mai davvero opposto a fargli da successero, ma non era un uomo votato al dialogo con suo figlio. Rimane il fatto» continua, senza guardarlo «che come leader ho ereditato tutto da lui: il gruppo, le persone che ne erano parte, l'arte della spada nonostante ormai non la utilizzi praticamente nessuno nel nostro ambiente.» prosegue con quell'elenco che l'uomo ormai non riesce neanche a seguire, forse.
«Inutile dire che ho ereditato anche il suo codice: onora l'avversario, me lo avrà ripetuto un milione di volte.» ammette, il tono atono di chi non si sta certo perdendo nel prezioso ricordo d'infanzia in cui crogiolarsi «Sai cosa fa la yakuza a chi fa una cosa come quella che voi avete fatto al Miyuki-gumi?» domanda, osservandolo. Quello, com'è prevedibile, cerca di raddrizzarsi più possibile. Tatsuya in quel semplice movimento riconosce un uomo che a prescindere dalle sua azioni, almeno nella sua testa si pregia di essere un esponente di quella stessa yakuza di cui lui sta parlando. Ed è tutto ciò che Tatsuya ha bisogno di sapere.
La mano si muove veloce, afferrandogli bruscamente un ciuffo di capelli per tirare e fargli piegare la testa all'indietro con forza. Un verso di dolore, di certo per le ferite all'addome e non solo per la tirata di capelli, lascia le labbra dell'uomo e un colpo di tosse gli fa sputare del sangue. Tatsuya se ne frega, si china su di lui fino a quando i loro visi sono vicinissimi e si assicura di piantare il proprio sguardo nel suo.
«Dimenticalo.» qualsiasi cosa faccia la yakuza di fronte a un torto come quello subito da lui «Perché io non ti darò nessuna di quelle possibilità. Non onorerò il mio avversario come tu non hai onorato il mio gruppo. E mentre il resto dei tuoi uomini sono solo cadaveri a fare da tappezzeria ai piani inferiori, ti darò la morte meno onorevole possibile.» sibila con una crudeltà che non gli è mai appartenuta ma che, in fondo, perché mai non dovrebbe riservargli. Non ha nulla da perdere, perché ha già perso tutto.
La katana viene alzata e portata al collo altrui. Un lampo di terrore nei suoi occhi rivela a Tatsuya come l'altro abbia finalmente capito e non può - né vuole, in fondo - impedire alle sue labbra di incurvarsi nel sorriso cattivo di chi gode del terrore di un altro.
«Ti taglierò la gola e ti guarderò dissanguarti per i pochi secondi che ci vogliono e li renderò così lenti che ti sembrerà stiano passando ore. Ma il dolore non sparirà e tu sentirai di star morendo e sarà la cosa peggiore che avrai mai provato. L'ultima cosa che vedrai sarò io e, te lo assicuro, mi implorerai di farti morire più in fretta.»
L'uomo lo guarda, apre la bocca per dire qualcosa, forse una supplica. Forse un insulto.
Tatsuya non glielo permette, lo anticipa: la lama si porta in un movimento fulmineo alla sua gola, ne lacera le carni; il sangue a stento riesce a iniziare a sgorgare che la sua manipolazione del Tempo è già attiva, capace di rendere una morte quasi istantanea la più lenta delle agonie.
Il suo potere non lo tradisce: funziona come ha sempre fatto, rispondendo a qualcosa che in lui è naturale come respirare. In un certo senso è un ritrovare se stessi. Come una eco lontana, la voce di Isen gli risuona in un angolo di mente: hai paura del tuo potere?
Tatsuya guarda la vita scivolargli tra le mani al tempo deciso da lui, semplicemente perché può farlo. Lì, a vendicare uomini morti per lui, dando alla propria sopravvivenza l'unico senso possibile. La paura del proprio potere non ha mai davvero significato nulla.
A fargli paura dovrebbe essere se stesso, quello che guarda un uomo morire e non riesce a sentire più nulla.
*
Quando, per mesi, Tatsuya ha pensato solo alla vendetta non si è mai chiesto cosa avrebbe fatto dopo. Nel suo immaginario, uscire vivo da un edificio in cui aveva tutte le intenzioni di infilarsi da solo aveva assunto le tinte della pura utopia e quindi fare dei piani per il futuro non è mai stato contemplato.
In quel momento, quando ha ucciso il leader dei responsabili, il silenzio è stato assordante ma ha anche portato con sé un senso di liberazione; poi, come se quello avesse finalmente tolto il tappo a tutto il resto, gli si era rovesciato addosso il dolore della solitudine e della perdita che pensava di aver elaborato e in qualche modo esorcizzato. La consapevolezza - magra consolazione - di aver raggiunto l’obiettivo e di averli vendicati tutti. Poi, la presa di coscienza: non avere più niente nel senso più ampio del termine. Non avere una famiglia; non avere uno scopo.
Sa e ha sempre saputo che se solo volesse, avrebbe un posto tra i Moriguchi. Lo ha reso chiaro Kazuma in passato, non ne ha di certo mai fatto mistero Jin. Anche quando è uscito da quell’edificio lasciandosi dietro una scia di morte, non lo ha stupito trovare proprio Jin lì fuori ad attenderlo. Tatsuya non esclude che in realtà sia arrivato ben prima che lui finisse il lavoro e che debba aver tenuto d’occhio in qualche modo la situazione, pronto a intervenire se la sua vita fosse stata in pericolo. Per quanto gli sia profondamente grato di non aver messo bocca sulla questione, di non aver neanche provato a convincerlo a desistere dal suo proposito di vendetta e per non essere intervenuto… Tatsuya non potrebbe mai accettare di unirsi al suo gruppo. Non quando l’ombra del suo ancora gli pesa sulle spalle, non mentre le urla dei suoi compagni ancora gli risuonano nelle orecchie.
Jin lo ha portato semplicemente a casa sua, distaccata dal resto del ritrovo dei Moriguchi; un luogo più tranquillo, appartato e di cui solo i membri più degni di fiducia sono a conoscenza. Non lo ha stupito quindi vederci dentro Isen, come anche Eishi o Tooru. Distrattamente, Tatsuya ha soppesato quanto dica di Jin il fatto che alcune delle sue persone più fidate siano anche i membri più giovani del gruppo, quelli che lo hanno conosciuto prima che fosse leader a eccezione forse di Isen. Nessuno dei ragazzi gli ha chiesto nulla, seppure per motivi diversi. Solo Isen ha provato ad allungare una mano, il palmo verso l’alto, in un tacito invito a lasciare che portasse lui la spada; Jin gli ha poggiato una mano sull’avambraccio, facendo una pressione levissima per farglielo abbassare, senza dire nulla oltre un semplice ed essenziale: «Non c’è bisogno.»
Tatsuya ha stretto la presa sulla katana, perché se avesse lasciato andare anche quella forse la sua coscienza sarebbe di nuovo scivolata chissà dove, circondata da soli incubi. Lui è troppo stanco per sopportarli.
*
Quando passa più di una settimana, non lo stupisce che Jin non lo abbia ancora approcciato per parlare anche se intuisce che buona parte dei membri dei Moriguchi se lo aspetta. Jin lo conosce troppo bene e da troppi anni per credere che basti una chiacchierata cuore a cuore per risolvere l'irrisolvibile e ha ragione. Salvare un uomo non è facile, ma non sempre è così difficile: se si hanno i mezzi e i giusti elementi, oltre a un po' di fortuna in qualche caso, Tatsuya lo ha anche visto succedere. Ci sono salvezze fisiche e salvezze emotive, ma non è necessario essere dei laureati in psicologia per sapere che quasi sempre le seconde sono le più complesse.
Alcuni potrebbero leggere la distanza che Jin lascia tra loro come disinteresse, quasi menefreghismo; Tatsuya invece è del tutto consapevole che sia perché nessuno lo capisce meglio di Jin, non solo per la conoscenza e l'amicizia che li lega, ma anche per il ruolo. Jin è un ability user ed è un leader. Risponde della condizione di tutti gli uomini sotto di lui, ne è rappresentanza e protettore insieme. Non esiste, nell'esperienza di Tatsuya, un uomo che abbia coperto la loro stessa posizione senza immaginare almeno una volta lo scenario peggiore: l'annientamento del proprio gruppo e il sopravvivergli come unico superstite. Perciò anche Jin deve averlo fatto e vederlo succedere così vicino a sé deve aver acuito la consapevolezza per cui Tatsuya ormai può considerarsi un uomo morto. Nessuna offerta di unirsi a un altro gruppo potrà mai superare quello che ha dentro e che gli scava il petto con una violenza inaudita, ogni giorno. Forse gli incubi a un certo punto finiranno, anche se non presto; forse cambierà vita e si allontanerà dall'ambiente in cui è cresciuto e nel quale pensava sarebbe morto.
Ma Tatsuya non ne ha la forza. Mentre siede lì sul cornicione del tetto, l'edificio dei Moriguchi di poco più alto di quelli adiacenti, guarda dritto davanti a sé: un palazzo alto almeno il doppio di quello dove si trova lui si staglia nemmeno troppo in lontananza, come un faro nella notte per chi cerca salvezza e come la condanna che incombe su di lui che la salvezza non la desidera più.
Glielo hanno presentato come un'organizzazione estremamente diversa dal gruppo di cui è stato il leader e per il quale si è sporcato le mani. Nelle strade del suo (ex?) ambiente, ora, circola voce di una strage compiuta da un solo uomo: molti la considerano già una leggenda metropolitana perché dopotutto, chi mai potrebbe credere al quel si dice un solo uomo li abbia uccisi tutti e trentatré che serpeggia nelle vie, anche in quelle abbandonate? Ma in fondo a lui sta bene che rimanga solo una leggenda metropolitana - dopotutto di encomiabile c'è davvero poco. Di certo non abbastanza da convincere un'organizzazione che collabora con il governo a prenderlo con sé.
«Ci stai pensando, Tatsuya-san?» una voce lo coglie relativamente di sorpresa. Aveva percepito già l'arrivo e l'avvicinarsi di qualcuno, senza preoccuparsene troppo. A stupirlo vagamente è che si tratti di Eishi. E' uno dei più giovani del gruppo Moriguchi, raccattato Jin solo sa dove. All'epoca gli è stato presentato come qualcuno di spaventosamente intelligente e deve ammettere di aver avuto lo stesso sentore in un paio di occasioni in cui ha potuto in effetti parlare con lui più a lungo di un semplice scambio di convenevoli. Proprio per questo non si aspetta di vederlo lì - lo reputa, per l'appunto, troppo intelligente per pensare sia venuto a cercare di convincerlo - ma al tempo stesso forse se qualcuno doveva presentarsi, Tatsuya avrebbe dovuto intuire che sarebbe stato lui.
Tatsuya torna a guardare di fronte a sé, verso l'alto edificio.
«No.» ammette «Ma immagino Jin preferirebbe una risposta diversa.»
«Tutti si aspettano da te risposte diverse, Tatsuya-san» pronuncia Eishi come se fosse un'ovvietà, accompagnando la frase con un'alzata di spalle «Tooru si aspetta che lotti, ma Tooru è stupido come un comodino ed empatico come un frigo, quindi possiamo ignorare le sue opinioni come sempre.» elenca velocemente, lasciando intendere come consideri il coetaneo degno di attenzione quanto una formica per strada. Tatsuya si limita a guardarlo di sbieco, senza proferire parola.
«Isen forse pensa che non accetterai l'idea. Dico forse perché tirargli fuori cinque parole è un'impresa su cui sto ancora lavorando.» ammette, sebbene sembri intenzionato a prenderla con tutta calma: «Il Boss credo non dica cosa vorrebbe tu scegliessi solo per rispetto. Ma direi che la risposta che vorrebbe sia ovvia per tutti quelli con un cervello funzionante. Quindi tutti tranne Tooru.» rimarca la sua antipatia, ma non la rende la protagonista del discorso.
«Tu invece su quale risposta scommetti?» non può che domandargli Tatsuya, con un pizzico di curiosità. Eishi fa vagare lo sguardo, a un certo punto anche verso l'edificio in questione, ma senza soffermarsi troppo. Appare molto più interessato a Tatsuya e i suoi eventuali cambi di espressione. Cerca di leggerlo, questo è evidente e porta persino Tatsuya a incurvare le labbra nel sorrisetto stronzo di chi ora ha tutte le intenzioni di mettersi d'impegno per rendere il lavoro dell'altro molto più difficile.
«Io sto decidendo se scommettere sulla tua intelligenza o sulla tua voglia di morire, Tatsuya-san.»
Eccola, la totale mancanza di tatto di Eishi, quella di cui Jin gli ha parlato quasi subito, definendolo un ragazzo intelligente ma quasi incapace di provare empatia. Solo uno del genere potrebbe andare da qualcuno seduto su un cornicione, con tutte le carte in regola per lasciar vincere dei pensieri suicidi e dirgli che la sua voglia di farla finita sta combattendo con l'intelligenza di chi sa bene non otterrebbe granché.
Tatsuya guarda l'edificio, abitato da un'organizzazione che lo porterebbe a interagire di nuovo con un gruppo e - nella peggiore delle ipotesi - a guidare alcuni dei suoi membri. Un'organizzazione che potrebbe accoglierlo senza riserve, almeno in parte, e cercare di farlo sentire di nuovo a casa, di nuovo non solo. Quell'edificio sa di promessa, di vita ricostruita, di legami e fiducia e spirito di sacrificio per le persone con cui si vive sotto lo stesso tetto.
Al solo pensiero, a Tatsuya viene da vomitare.
Si alza dal cornicione, con attenzione; muove un passo indietro, palese scelta silenziosa verso la vita. Un gruppo simile gli ricorderà costantemente ciò che ha perso e non è stato in grado di proteggere. L'eterna maledizione di chi l'eternità, forse, potrebbe viverla sul serio grazie al suo potere.
Questa, si dice, è la morte che merito.