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Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: //


Dazai non crede alle favole, alle cose poco concrete, alle fantasie. Non importa che viva in un mondo in cui esistono persone capaci delle cose più incredibili - controllare la gravità, vedere pochi secondi nel futuro o far galleggiare una balena nel cielo.


Eppure si è concesso un istante di debolezza, con un corpo ancora caldo tra le braccia e il desiderio infantile di una macchina del tempo che potesse permettergli di riavvolgere lo scorrere dei minuti, delle ore, degli anni abbastanza da salvare l'unica persona di cui il mondo (lui) non può fare a meno.


Ancora non se lo perdona.


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Prompt: La mano tesa

Missione: M2 (week 4)
Parole: 5210
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

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Di norma Dazai non avrebbe sprecato le proprie energie solo per una sensazione o un gioco di luci, ma in questo caso sarebbe stato quasi scortese ignorare un gatto con il quale si erano condivise interminabili ore. Evidentemente il felino gli aveva portato fortuna: era bastato seguirlo rimanendo a pochi passi di distanza per uscire finalmente da quel vicolo. Dopodiché l’animale se ne era andato per la sua strada. Piuttosto anticlimatico, dopo ore di prigionia.


Le vie di Yokohama erano sempre state capaci di trasmettere un conforto distorto, come l’illusione di una coperta scura sotto la quale nascondersi, finendo col rendersi conto troppo tardi che era quella stessa coperta a soffocarti. Prendere le misure era stata la prima cosa che Dazai aveva fatto - e poi l’aveva applicato a tutto il resto, Port Mafia compresa. Per questo l’accoglienza fatta di pistole puntate alla sua testa lo stupì poco e nulla, se non per lo sciocco atto di coraggio di subordinati a cui di solito non sarebbe mai venuto in mente di puntargli contro un’arma, se non su esplicito ordine del boss.


Dazai li osservò uno per uno, tenendo a mente quali e quanti volti non fossero per lui del tutto estranei; si soffermò su uno in particolare solo quando vi riconobbe incredulità e confusione. Non perché non fossero ben celate - se non si fosse trattato di Dazai, l’uomo avrebbe fatto uno splendido lavoro nel mascherare le emozioni -, ma perché si trattava di Hirotsu. Un mafioso con la sua esperienza era difficile da stupire e, ancor di più, da smuovere come se avesse appena visto uno di quei fantasmi del passato dai quali molti uomini vengono perseguitati.


Non era mai stato amante delle situazioni di stallo, se non erano espressamente volute e create da lui, per un semplice motivo: significava che erano molto più complicate di come apparivano. Le guardie della Port Mafia, senza contare Hirotsu, non avrebbero mai indugiato nel puntare la pistola contro qualcuno che avrebbero dovuto riconoscere. Nella migliore delle ipotesi, un avvertimento era tutto ciò che si poteva ottenere da loro prima che sparassero. Nella peggiore, non c’era bisogno di confermare l’identità di nessuno. Hirotsu, Dazai poteva vederlo nel suo sguardo, stava cercando di capire se lui fosse un motivo sufficiente per chiedere ordini a Mori Ougai.


«Hirotsu-san,» chiamò uno degli altri mafiosi alla sinistra di Dazai in un’esortazione ad avere ordini, la presa troppo stretta sulla pistola - sembrò più desideroso di lui di tirarsi fuori da quella situazione. Forse sperava di incalzare la decisione di Hirotsu, mancando di riconoscere il motivo di quella pausa forzata. Se Dazai avesse dovuto scommettere riguardo chi potesse interrompere il momento prima del previsto, lo avrebbe fatto sul mafioso che aveva parlato e senza nemmeno pensarci due volte. Azzardando poi la causa scatenante dell’interruzione, un colpo di pistola partito per errore. Qualche possibile variabile, certo, tranne tutti i presenti cadere a terra privi di conoscenza come fantocci.


«Giusto un paio, come no. Me lo sentivo che finiva così.» sentì sbottare alla propria destra, senza che la padrona della voce facesse molto per non farsi notare. Dazai si ritrovò quasi subito a incrociare un paio di occhi azzurri da cui dedusse quanto poco l’altra persona volesse trattenersi lì. Non lo stupì, quindi, vederla rivolgersi sbrigativamente al ragazzo pochi passi dietro di lei con un: «Ripuliamo e andiamocene, Jun.»


Lui non se lo fece ripetere, limitandosi a lanciare uno sguardo furtivo in direzione di Dazai prima di chinarsi sul mafioso più vicino. Dazai avrebbe volentieri osservato in che modo ci si aspettava “ripulisse” la scena, ma la ragazza che gli aveva impartito l’ordine si parò davanti a lui, bloccandogli buona parte della visuale. La cosa più curiosa era che, a giudicare dal linguaggio del corpo, quel movimento sembrava più dettato dall’indole che non dall’intenzione di nascondere qualunque cosa l’altro stesse facendo.


«Dazai, giusto?» lo incalzò lei, le mani nelle tasche del cappotto verde scuro. Dazai non poteva vedere se nascondesse qualcosa sotto, ma intuì dall’abbigliamento comodo di lei che doveva essere più da prima linea che da retrovie. Gli ricordò fastidiosamente Nakahara; anche nella scarsa pazienza di fronte a una mancata risposta.


«Va bene, non importa.» tagliò corto, occhieggiando il ragazzo alle sue spalle da sopra la propria spalle. Quello, per tutta risposta, annuì. Difficile dire se fosse per confermare l’identità di Dazai o di aver fatto la sua parte, ma a quella ragazza sembrò bastare il cenno che vide per tornare a guardare lui: «Una persona ti vuole vedere. Suona come un cattivo poco credibile di un libro scritto male, ma è un lavoro e lo dobbiamo fare. Dice che farai una resistenza irritante,» lo anticipò senza neanche impegnarsi a far sembrare quelle parole frutto di una sua ricerca o un suo ragionamento «e che posso risparmiare tempo se ti dico di tirare fuori il cellulare e ti mostro questo.» pronunciò, portando una mano nella tasca del giacchetto. Ne estrasse un foglio di giornale ripiegato con cura; a Dazai bastò un’occhiata per capire che non si trattava di un vecchio quotidiano e che fare domande a chi era stato scelto come niente più di un messaggero sarebbe stato inutile. 


Se anche la ragazza di fronte a lui non gli avesse suggerito «Guarda la data.» Dazai lo avrebbe notato comunque: secondo quel foglio di giornale, rispetto alla schermata del suo telefono, c’era una differenza di cinque anni.


***


In genere Dazai avrebbe sfruttato il tragitto per parlare fino a sfinire il suo interlocutore, estrapolando le informazioni anche da risposte stizzite apparentemente inutili. Aveva intenzione di farlo, ma ben prima che fossero a metà strada capì che sarebbe stato inutile: non solo perché il ragazzo chiamato Jun non aveva detto una sola parola - nemmeno alla sua compagna -, ma anche perché la ragazza lo liquidò con un brusco: «Inutile che mi riempi di domande, io so soltanto dove ti devo portare.»


Il resto del tragitto era stato fatto, prevedibilmente, in silenzio. Questo, però, non significava non aver avuto informazioni sulle sue due improvvisate guardie del corpo - o i suoi rapitori. Dal punto di vista organizzativo di un team, Dazai aveva compreso subito che erano un buon assortimento con un potenziale non indifferente per essere perfetti. Era chiaro come il sole che fosse lei in prima linea e lui nelle retrovie e tutto della loro postura sembrava voler essere uno specchio della loro indole. La ragazza, il cui nome a quanto pareva era Jane, era più facile da inquadrare essendo quella che camminava davanti a lui: schiena dritta e mento alto nell’atteggiamento di chi non si piegava per principio; passo veloce di chi era incline agli approcci razionali e pragmatici, pur nell’impulsività generale e - sospettava Dazai - preponderante. Camminava poggiando il peso sul tallone, senza compiere con tutta la pianta del piede il movimento e gli diede l’impressione di chi non aveva tempo di soffermarsi inutilmente sulle cose - o di chi stava scappando.


Jun non era stato altrettanto semplice da osservare, camminando dietro di loro, almeno fin quando non avevano raggiunto un quartiere poco abitato per gli standard di Yokohama, anche se non per questo poco trafficato. Dava l’idea di un quartiere fantasma solo perché chi si muoveva tra i suoi vicoli era bravo a sembrare invisibile, Dazai lo sapeva. Fu solo quando Jane si fermò davanti all’ingresso di un edificio tenendo la porta aperta perché entrassero per primi che, finalmente, Jun rientrò del tutto nel campo visivo di Dazai e ci rimase per tutte le rampe di scale che salirono. Per quale motivo sembrassero voler evitare l’ascensore più che funzionante decise di lasciarlo da parte.


Inquadrò quasi subito Jun come un insicuro: spalle curve, tendenza ad accostarsi alle pareti, quasi totale mancanza di contatto visivo persino con quella che si supponeva fosse la sua compagna. Mentre si fermavano davanti a una porta - nonostante le scale salissero almeno per un altro piano -, Dazai realizzò con certezza che quei due probabilmente non avevano mai lavorato insieme prima di quel giorno.


Jane lo superò per aprire, senza bussare, entrando per prima e voltandosi a guardarli entrambi. Dazai la imitò, contro ogni buon senso agli occhi di una persona normale. Ad accoglierlo fu una stanza che, in modo del tutto anticlimatico, gli ricordò un noioso ufficio con qualche sporadico impiegato. L’illuminazione, per lo più artificiale, era data da un paio di lampade e dagli schermi di un computer. Notò subito che la schermata riportava dati numerici e, sebbene a una sola occhiata fosse difficile indovinarne la corretta lettura, Dazai comprese che dovevano comunque essere dati abbastanza sensibili. La vera domanda, quindi, era: perché nessuno nella stanza si preoccupava che lui potesse vederli?


«Finalmente!» sentì esclamare in tono gioviale alla propria sinistra. Portò lo sguardo lì, inquadrando la figura di un uomo sui cinquant’anni; del tutto a suo agio come solo un padrone di casa che si muoveva con naturalezza nei propri spazi poteva essere, lo vide fermarsi a quella che sembrava una distanza calcolata. Jane e Jun, ora in disparte, si erano addossati a una scrivania vuota. Lui seduto e lei in piedi, poggiata contro il bordo del tavolo, le braccia incrociate al petto. Nessuno dei due gli sembrò entusiasta.


«Dazai-kun, è un piacere averti qui. Spero che i miei ragazzi ti abbiano fatto sentire il benvenuto e che tu non sia troppo stanco per una breve spiegazione del perché siamo qui.» pronunciò l’uomo, mascherando con l’affabilità il fatto di non sembrare per nulla intenzionato a ritardare la spiegazione se anche Dazai si fosse detto sfinito. Non rispose, dunque - doveva raccogliere più informazioni di quante fosse riuscito a dedurne dalla passeggiata di piacere nel quasi completo mutismo. L’uomo parve apprezzare il silenzio. 


«Sono certo che la situazione in cui Jane e Jun ti hanno trovato debba essere stata molto traumatica: colleghi e sottoposti che improvvisamente ti puntano contro la pistola…» commentò, con un’empatia così forzata che a Dazai venne quasi da sorridere «solo pensare a questa nostra piccola famiglia nella stessa situazione… non ho potuto ignorare la cosa, sono certo tu lo capisca.» continuò, muovendosi per sedersi ad un’altra scrivania vuota. Dazai capì che quell’uomo aveva la totale certezza di non doversi preoccupare di essere aggredito, data la rilassatezza della sua postura. Questo non rendeva le cose facili, ma Dazai era anche certo dell’assenza di aggressività in lui; se c’era una cosa fra tutte che sarebbe stato capace di riconoscere anche a occhi chiusi, dopotutto, era l’istinto omicida di qualcuno.


«Vedi, qui accogliamo le persone rimaste sole. Chi non sa a chi appoggiarsi.» proseguì, neanche fossero in un centro di riabilitazione e l’uomo incarnasse la figura del povero, magnanimo volontario «Chi ha perso qualcosa e vuole cercare di… come potremmo dire?» l’interrogativo non aveva niente di sincero, non c’era alcuna ricerca di un suggerimento. Dazai lo vide spostare l’attenzione su Jane e Jun. Quel breve scambio di sguardi gli disse molto più di quanto fosse riuscito a cogliere fino ad allora: sul viso dell’uomo c’era un sorriso sgradevole, un affetto marcio e falso, lo stesso che per circostanza si sarebbe potuto rivolgere a qualcosa che invece generava ribrezzo. Jun aveva abbassato il proprio quasi subito, sottraendosi a quello scambio, ma la ragazza - Jane - aveva gli occhi di chi avrebbe potuto uccidere a mani nude se solo gliene avessero dato l’occasione.


Dazai vide l’uomo tornare a focalizzarsi su di lui: «Rimediare.» lo sentì infine completare la frase, senza che nessuno dei presenti aggiungesse nulla o desse l’idea di volerlo fare. Questo diceva a Dazai fin troppe cose, ma la domanda più pressante era: sceglievano di non esprimersi al riguardo o erano impossibilitati a farlo?


*


Rispetto a quanto si sarebbe aspettato, Dazai dovette ammettere che Deus aveva offerto molte meno informazioni di quanto credeva avrebbe fatto. Specie alla luce di come fosse evidente anche senza essere particolarmente bravi a osservare gli altri - e lui lo era - che il livello di narcisismo in quell’uomo era fin troppo alto. Era stata sufficiente la sua spiegazione su come il loro piccolo gruppo fosse affiatato e pronto a sposare la grande causa dell’aiutare chi era in difficoltà per capire non solo quanto non ci fosse una sola verità nelle sue parole, ma anche come non ci fosse nulla di disinteressato. Quell’aiuto, quella mano tesa che Deus sembrava voler rivolgere a tutti loro… Dazai dubitava fortemente fosse soltanto questo. 


Il punto era che Deus, a parte quelle generiche informazioni da propaganda per una grande causa, non aveva davvero dato altre informazioni utili, assicurandogli che avrebbe saputo tutto a tempo debito e che per il resto Jane e Jun sarebbero stati perfettamente in grado di aiutarlo ad ambientarsi. Dazai non avrebbe saputo dire quale dei due fosse meno propenso a fargli da guida: dal momento in cui Deus aveva detto di dover parlare con gli altri presenti nella stanza rendendo ben chiaro come loro tre non fossero invitati, Jane si era distaccata dalla scrivania cui era stata appoggiata per tutto il tempo ed era uscita senza tante cerimonie, sbattendo la porta. Jun si era alzato più lentamente e, se non altro, aveva fatto un piccolissimo cenno a Dazai aspettando che uscisse per primo così da chiudersi poi lui la porta alle spalle. Una volta fuori lo aveva anticipato per le scale, facendogli cenno di scendere con lui; due piani sotto rispetto all’ufficio di Deus, Jun aveva aperto una porta che dava su un corridoio decisamente meno spoglio in termini di arredamento. Nulla di troppo elaborato, considerato come Deus avesse dato a Dazai l’idea - come ogni buon narcisista, almeno per la sua esperienza - di poter dare il peggio del proprio discutibile estro nell'arredare qualcosa. Almeno, però, non sembrava un condominio che aveva visto tempi migliori.


Dazai aveva continuato a seguire Jun, lasciando a lui l’incombenza di guidarlo fino a una delle diverse porte che si affacciavano sul corridoio così da potersi guardare intorno e memorizzare quanto più possibile, almeno tra quello che poteva rivelarsi utile. Dovette interrompersi quando un rumore improvviso li raggiunse, proveniente da qualche porta più indietro rispetto a dove erano. Il fatto che Jun non ne fosse per nulla sconvolto gli fece intuire che fosse qualcosa di non così inusuale - e avrebbe scommesso si trattasse di Jane. L’altro giapponese, nel richiamare la sua attenzione con un colpetto di tosse imbarazzato, era chiaro non avesse alcuna intenzione di soffermarsi su quel dettaglio. Gli indicò, invece, una porta che aveva solo socchiuso.


«Puoi stare qui,» pronunciò, il tono non troppo alto ma udibile «è una delle poche stanze libere a essere stata sistemata.» aggiunse. Dazai gli lanciò un’occhiata valutativa, prima di avanzare e aprire la porta del tutto così da poter guardare all’interno prima di varcare la soglia. Aveva l’aspetto di una stanza degli ospiti, accogliente ma più neutrale possibile, con il chiaro intento di essere adatta a chiunque e a nessuno al tempo stesso. Di dimensioni modeste, ospitava un letto, un armadio, una scrivania vicino a una finestra e poco altro. Dazai notò subito che le vie di fuga non erano bloccate in nessun modo, il che dimostrava per l’ennesima volta da quando era entrato in quell’edificio che Deus avesse - o fosse certo di avere - un controllo totale sulla situazione. Dava per scontato che nessuno sarebbe scappato da lì neppure avendone l’occasione. Questo era un aspetto che non gli piaceva particolarmente perché significava che lì dentro chi non si era unito per scelta lo aveva fatto per disperazione e la disperazione non era un sentimento che Dazai apprezzasse particolarmente. Era un motore irrazionale che creava solo problemi nell’imprevedibilità delle sue espressioni. Una persona disperata avrebbe fatto di tutto, anche quello che normalmente sarebbe stato impensabile.


Dazai decise di lasciare da parte la questione, almeno per il momento: aveva tutto il tempo di cercare altri dettagli in quello che lo circondava, ma tirarne fuori ai due con cui sembrava dovesse fare squadra gli appariva ben più difficile. Richiedeva capacità umane che non erano il suo punto di forza in termini strettamente empatici - ma, dopotutto, bastava non trattarli come persone. Se Dazai li avesse resi niente più di utili sostegni per arrivare dove voleva arrivare, sarebbero diventati di certo più semplici da gestire. Tanto valeva iniziare dal più debole del duo.


«Quindi cos’è questo, un dormitorio? Faremo un interessante saggio scolastico alla fine?» domandò con un sorrisetto, poggiandosi allo stipite della porta e dopo aver incrociato le braccia al petto. Jun distolse lo sguardo quasi subito, ma non sembrò troppo in difficoltà sulla domanda, quanto più rispetto all’atteggiamento di chi aveva di fronte. Dazai lo notò sfregare appena le mani contro i pantaloni, prima che la sua voce rompesse il silenzio: «E’ un alloggio che Deus ci mette a disposizione.» replicò soltanto con una leggera alzata di spalle. 


Deus, si ripeté mentalmente Dazai: era interessante che Jun non avesse usato un onorifico accanto al nome di una persona più grande. Specialmente se, come il suo nome suggeriva, le origini nipponiche avrebbero dovuto renderlo quasi scontato in aggiunta a un’indole sottomessa evidente. 


«Certo» replicò Dazai con scarso interesse «per il suo buon cuore, mi è parso evidente dal discorso motivazionale con cui mi ha dato il benvenuto. Anche se la tua compagna» disse, con un cenno della testa in direzione della stanza da cui avevano sentito arrivare rumori poco prima e da cui adesso giungeva solo silenzio «non sembrava proprio entusiasta.» insinuò, lasciando a Jun la scelta se interpretarlo in riferimento a qualsiasi grande disegno avesse Deus o alla sua aggiunta al duo. Jun spostò per la prima volta lo sguardo da un qualsiasi punto randomico intorno a lui, portandolo non solo su Dazai ma sul suo viso. Un contatto visivo che sorprese piacevolmente Dazai e sul quale non avrebbe scommesso; bisognava solo capire quale fosse stato il tasto che doveva aver appena premuto senza neanche provarci.


«Jane non è la mia compagna.» pronunciò - di nuovo, nessun onorifico - come se fosse l’unico dettaglio importante. Dazai lo soppesò qualche istante, per decidere cosa farsene. 


«A cosa ti riferisci con questa negazione? Non è una tua compagna qui o non è una tua compagna nella vita, Jun-kun?» 


Così come era arrivato, il contatto visivo fu interrotto bruscamente e Jun tornò a posare le iridi ovunque tranne che su Dazai, se non in sguardi veloci e fugaci come quelli che gli aveva rivolto finora. Qualunque fosse l’insinuazione che lo aveva fatto regredire, era chiaro a Dazai che per il momento non avrebbe ricavato altra informazione. Era evidente che Jun andasse maneggiato con una certa attenzione se si sperava fosse utile a qualcosa, almeno per lui. Fece per oltrepassare la soglia della camera, deciso per il momento a lasciarsi l’altro ragazzo alle spalle e a darsi il tempo di riordinare quanto scoperto finora, quando il rumore di una porta che si apriva con poca grazia attirò l’attenzione di entrambi nella direzione da cui erano venuti. Una mano sulla maniglia e l’altra poggiata contro lo stipite, la figura di Jane apparve confusa per un istante fin quando nel voltare la testa non li inquadrò entrambi. 


«Voi due, venite dentro.» li chiamò entrambi in quello che, con toni diversi, sarebbe suonato come un invito più che come un consiglio dato in maniera sbrigativa. Con la coda dell’occhio Dazai notò Jun muoversi quasi fosse cosa dovuta, ma Jane non sembrava intenzionata a dargli tempo per chissà quale psicanalisi: «Cos’è, ti devo fare un invito scritto? Forza.» lo incalzò, guadagnandosi un’occhiata più penetrante che non sembrò né stupirla né preoccuparla. Il massimo che Dazai ottenne fu di vederla guardarsi intorno quasi si aspettasse telecamere o occhi indiscreti, per poi fare un cenno con la testa verso l’interno della propria stanza.


«Non abbiamo tutto il giorno per parlare, prima che Deus decida di fare una cena di famiglia e ci mandi a chiamare.»


*


La stanza di Jane non era affatto diversa dalla propria, se non per qualche piccolo dettaglio più vissuto. Non doveva comunque essere lì da molto, oppure non utilizzava la stanza se non per dormire, perché Dazai notò che non c’era un grande numero di vestiti di ricambio né valigie o altro che potesse lasciar intendere ci fosse stato uno spostamento voluto e pianificato. L’unico dettaglio ad aver davvero attirato la sua attenzione appena entrati, era stato che se il resto della stanza presentava cose rovesciate a terra - a cui Dazai associò senza difficoltà il rumore sentito prima dal corridoio - la scrivania era non solo intonsa, ma con l’aria di essere stata usata e messa poi meticolosamente in ordine. 


A Dazai ricordò un altare per defunti.


Una volta chiusa la porta, Jane aveva fatto loro cenno di sedersi indicando il letto, mentre lei si era mossa senza esitazione proprio verso la scrivania per appropriarsi dell’unica sedia presente. Dazai non aveva fatto troppi complimenti, prendendosi il bordo ai piedi del letto, ma Jun sembrava deciso a rimanere in piedi a pochi passi da Jane e appena appoggiato alla scrivania stessa. Il fatto che lei non glielo avesse impedito, considerato come teneva quella parte di stanza rispetto al resto, aveva instillato una serie di considerazioni in lui che decise però di rimandare a un secondo  momento. Ora come ora erano in una fase in cui Dazai suppose che gli altri due stessero valutando se e quanto fidarsi di lui, mossi quasi solo dal fatto di non avere delle alternative più allettanti. O così l’aveva letta lui.


«Quanto sei stato bloccato?» chiese Jane a bruciapelo, guardandolo dritto negli occhi. Dazai capì subito a cosa si riferiva e comprese anche di non essere stato l’unico ad aver subito la cosa - di qualunque fenomeno si trattasse.


«Ore, tra le dieci e le dodici.» decise di dargli quell’informazione perché non era davvero nulla che valesse la pena nascondere. L’assenza di sorpresa sul viso di Jane parlava già da sola, così come l’occhiata in tralice che lanciò a Jun: «Hai qualche teoria?»


«Questo dovreste dirlo voi a me, non credi?»
«Perché mai?»
«Perché siete qui da più tempo di me, anche se non da molto.» replicò Dazai quasi annoiato «Perché non ti fidi di Deus, il che mi fa pensare non siate qui per scelta e se non lo siete ma avete accettato di venirmi a prendere significa che vi servo più di quanto serviate voi a me, almeno per adesso.»


Vide Jane accigliarsi, ma non se ne stupì. Quando aveva avuto la sensazione a pelle che in qualche modo la ragazza gli ricordasse Nakahara, non era stato solo a livello superficiale. Era chiaro che possedesse tutte le qualità che rendevano il suo ex partner in crime estremamente umano e per questo fallibile: prima tra tutte, non era in grado di trattenere le sue emozioni né di mascherarle. Il che la rendeva la persona nella stanza che lo avrebbe detestato di più, senza alcun dubbio. 


«La mia teoria è che c’è una sola cosa ovvia: anche se non lo ammette e non lo ammetterà mai, forse, qualsiasi stranezza sia successa è colpa sua.» commentò aspra la ragazza, senza mascherare affatto il suo disprezzo per l’uomo che tanto ci aveva tenuto a sembrare un perfetto e misericordioso padrone di casa. Dazai dovette riconoscerle che se non altro non la si sarebbe mai potuta considerare una codarda, se quel modo di porsi era la sua norma; se fosse abbastanza furba da non dire sempre quello che pensava anche quando sarebbe stato meglio e più conveniente non farlo, non era una certezza invece. Non la interruppe comunque, rimanendo semplicemente in attesa di un resto che gli sembrava abbastanza ovvio ci fosse.


Jane lo squadrò per qualche attimo, poi proseguì: «Non abbiamo ancora un’idea precisa di quale sia il suo piano» ammise e si sentiva nel suo tono di voce quanto questo le pesasse «ma siamo abbastanza sicuri che ci sia un motivo per cui non ci abbia ancora rivelato granché. Quel motivo pensiamo fosse che mancava ancora qualcuno» proseguì, facendo un cenno del mento proprio verso di lui «ossia tu.»


Dazai ponderò la questione per qualche secondo, senza dare conferma - non che avrebbe potuto, se non a livello puramente teorico. 


«Questo» riprese lei «perché non ci ha mai fatto uscire fin quando non si è trattato di venire a recuperarti prima che quelli ti facessero diventare il nuovo tiro al bersaglio.»
«Jane…» pronunciò piano Jun, senza sciogliere l’incrocio delle braccia al petto in cui sembrava essersi rifugiato finora, ma limitandosi a guardarla. Non era il tono di un rimprovero, né quello di un ammonimento; non aveva in sé né la sicurezza di chi ha le redini di un rapporto - ma questo Dazai lo aveva già capito - né l’incertezza di qualcuno che ignorava una gerarchia. Era difficile capire se fossero davvero sullo stesso piano e se quindi la loro apparente dipendenza fosse solo una questione di indole, o se ci fosse qualche dettaglio di cui non era a conoscenza e che gli avrebbe permesso di avere un quadro completo e di conseguenza una strategia su come trattarli. 


Per ora, tuttavia, la domanda a cui trovare risposta era quella riguardante Deus: aveva aspettato a farli muovere perché lui, Dazai, era la chiave o perché insieme agli altri due lo sarebbe stato?


Vedendo che Jane non aggiungeva altro, Dazai accavallò le gambe come se fossero tutti lì insieme per prendere un caffè e parlare delle ultime novità delle rispettive vite, incalzandola con un: «Perciò qual è il tuo piano?» dando per scontato ce ne fosse uno. O, se non altro, che ci fosse l’idea di pensarne uno.


«Il piano è capire perché ti vuole e perché abbia voluto noi.» replicò Jane, più decisa «Non so se io e Jun siamo stati solo un mezzo per te, anche se credo di no.» ammise, seppure con una sfumatura di dubbio nella voce nel pronunciarlo. Dazai spostò lo sguardo sul ragazzo vicino a lei ma, ancora una volta, non sembrava intenzionato ad assumersi il ruolo del protagonista. Eppure un ruolo doveva pur averlo, sia a giudicare dalle parole di Jane e sia perché - almeno dalle informazioni raccolte finora - Deus non sembrava incline a circondarsi di persone che non avessero uno scopo. Seppur piccolo, Jun doveva essere un anello di congiunzione tra cosa Deus voleva ottenere e il riuscire a farlo. Dazai doveva solo capire quale nello specifico.


Jane gli sventolò la mano davanti al viso, seppur a distanza da dove sedeva: «Mi ascolti, sì?» lo richiamò, senza aspettare la risposta «Dicevo, la cosa che so per certo è che Deus ci ha promesso una ricompensa. Sono sicura che la prometterà anche a te.» pronunciò e per la prima volta Dazai non vide in lei la corazza dura o un certo disprezzo per la situazione e le persone coinvolte, com’era stato nell’ufficio, ma il pizzico di preoccupazione di chi forse non era davvero capace di distaccarsi dalla sorte del suo prossimo se ritenuta ingiusta.


Empatia, pensò Dazai. Non poteva quasi andare peggio di così e, al tempo stesso, forse si sarebbe rivelata almeno una carta da giocare prima o poi. 


«Non so nemmeno tu da dove venga di preciso o cosa facessi prima, però…» riprese Jane, indugiando per qualche istante. Attimi in cui cercò lo sguardo di Jun, vedendolo scuotere la testa. Dazai la sentì sospirare di nuovo, più rassegnata, oltre a notare come stesse iniziando a picchiettare con l’indice contro la scrivania. Capì che se le avesse messo fretta ora forse l’avrebbe indispettita abbastanza da farle scegliere di non essere sincera - ma in questo momento aveva bisogno, invece, proprio che lei lo fosse. 


Jane impiegò solo qualche altro secondo a smettere con quei colpetti sul legno e ad alzare gli occhi azzurri di nuovo su Dazai, più decisa: «Però» riprese da dove si era interrotta «quello che ti prometterà sarà qualcosa a cui non potrai rinunciare. Perché è quello che ha fatto con noi: ci ha messo di fronte a una scelta che non era davvero una scelta.» pronunciò, con la rabbia malcelata di chi forse non avrebbe voluto essere così debole da cedere ma al tempo stesso anche con l’aria di una che sfidava chiunque a dirle di aver sbagliato a piegarsi. Era la sicurezza che soltanto qualcuno con un “bene superiore” - in qualunque modo si declinasse questo bene - poteva avere pur quando consapevole di fare qualcosa che agli occhi di chiunque altro sarebbe stata sbagliata.


Dazai non reputò utile farle presente adesso che dubitava fortemente Deus potesse offrirgli qualcosa di così allettante da farne il suo ennesimo burattino. D’altronde, non c’era alcun presupposto per cui Dazai dovesse raccontare loro qualcosa della propria vita. 


«Questo non è il momento in cui mi dici di venire a raccontarvi di cosa si tratti quando lo farà, immagino.» pronunciò invece all’indirizzo di entrambi. Gli sembravano così riluttanti anche solo a pensare di condividerlo, da farlo quasi ridere nel pronunciare quelle parole; quel che gli interessava davvero erano le reazioni all’idea di doverlo rivelare a degli sconosciuti con cui erano chiamati a collaborare. Jun si irrigidì subito, tanto da far pensare a Dazai “troppo facile”. Jane, al contrario, sembrò studiarlo con maggiore attenzione e Dazai la lasciò fare; non era facile da leggere neanche per chi lo conosceva da anni, non si preoccupava all’idea che potesse farlo chi lo conosceva da due ore. 


«No,» dichiarò infine la ragazza «nemmeno io e Jun ce lo siamo detti. Io non avrei grandi problemi, ma rispetto il fatto che lui voglia tenerlo per sé.» chiarì subito, con un sottotesto che sembrava suggerire che avrebbe fatto bene a rispettarlo anche lui: «Voglio però proporti un’alleanza.»


Questo era interessante, oltre che inaspettato, considerata l’idea che si era fatto di Jane almeno per quanto era stato possibile cogliere fino a ora. Si aspettava una collaborazione, certo, ma non la proposta di un’alleanza; una parola dal sapore del tutto diverso, oltre che dalle implicazioni differenti. Le rivolse un sorriso e un gesto della mano, invitandola a continuare.


«E’ chiaro che l’obiettivo di Deus sia uno e che gli serviamo per arrivarci. Quindi penso che la ricompensa sia rispetto alla stessa richiesta uguale per tutti.» analizzò, dimostrandosi un po’ più acuta di quanto Dazai credesse, a essere sincero «Perciò a noi non cambia molto collaborare, non rischiamo che i compiti singoli si mettano i bastoni tra le ruote tra loro. Perciò se lavoriamo insieme abbiamo tutto da guadagnarci, no?» chiese, aspettandosi una risposta da Dazai, un’opinione. Lui si limitò ad annuire, senza darle la propria visione delle cose, preferendo aspettare di capire dove stesse andando a parare con quel discorso.


Si sarebbe aspettato diverse cose, ma non di vederla alzarsi per pararsi di fronte a lui né - tantomeno - di ritrovarsi la sua mano tesa in avanti, offerta.


«Ti guarderemo le spalle, se tu guarderai le nostre.» 


Dazai avrebbe voluto ridere. Invece, per il puro divertimento nell’osservare quanto autodistruttive potessero essere a volte le scelte delle persone, tese la mano a sua volta e strinse quella della ragazza.

 

Jun, ancora fermo vicino alla scrivania, incrociò il suo sguardo ma non disse nulla.

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Prompt: Singolarità

Missione: M2 (week 3)
Parole: 7677
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: spoiler Stormbringer!




Il vago rumore di dita a picchiettare sulla tastiera del computer era l'unico a riempire effettivamente la stanza, se si escludeva il canticchiare distratto e a mezza bocca che di tanto in tanto scivolava tra le labbra di uno dei fratelli su cui quell'organizzazione sembrava basare buona parte del suo lavoro o quantomeno dei suoi obiettivi. Dazai non era particolarmente amante del restare in quella stanza se non per il tempo necessario a raccogliere, silente, le informazioni di cui aveva bisogno. A quanto sembrava, tuttavia, quella era una delle diverse e bizzarre regole sotto cui bisognava sottostare per scelta di Deus ed era probabile che se a Jane fosse toccato un altro turno ferma nella stanza non sarebbe stato particolarmente costruttivo. Persino Jun era sembrato preoccupato abbastanza da decidere di seguire la ragazza quando quella aveva sbraitato di non avere intenzione di stare lì al posto di altri, per poi uscire sbattendo la porta.


Dazai non lo reputava così drammatico; tediante, forse, ma non drammatico, specie nella misura in cui per scelta non avrebbe condiviso lo spazio con nessuna delle persone con cui aveva finito con il ritrovarsi in quella convivenza forzata. Se poi avesse dovuto indicare un buon motivo per accettare di restare oggi, più che in altre occasioni, sarebbe stata la presenza dell'unica vera incognita in quel gruppo. A sentire Jane, diversi di loro lo erano, ma Dazai era di un'opinione ben diversa. Tra tutti quelli che aveva avuto modo di osservare finora, c'erano solo diversi livelli di mistero tra loro ma non avrebbe mai potuto dire credendoci che fossero addirittura delle incognite.


Per cominciare, Jun era in realtà piuttosto semplice da inquadrare e - per quanto a lei di certo non sarebbe piaciuto sentirselo dire - lo era anche Jane: entrambi avevano qualcosa che volevano a tutti i costi recuperare e questo li rendeva prede estremamente semplici e alla mercé di Deus, il cui mezzo di coercizione era il ricatto. Quanto più le persone mostravano cosa desideravano in maniera aperta e autentica o erano solo incapaci di nasconderlo abbastanza bene, tanto più per quell'uomo le cose si facevano a dir poco semplici. Cosa desiderassero, poi, per Dazai non era un mistero rilevante fin dall'inizio: non gli importava e ora come ora non gli serviva nemmeno a qualcosa conoscerlo.


I fratelli erano una curiosità, più che una vera incognita: non ci era voluto un genio a coglierne la co-dipendenza e quello aveva reso tutto abbastanza semplice. C'erano solo due possibilità, dopotutto, entrambe piuttosto banali dal suo punto di vista e da tenere in considerazione solo perché come tutte le situazioni in cui due persone legate erano nella stessa missione quello poteva sovvertirne le sorti da un momento all'altro a seconda di cosa potesse succedere all'uno o all'altro. Ma che si trattasse del desiderio di entrambi di riavere indietro qualcosa di importante per tutti e due o che fosse solo ottenere qualcosa per il bene di uno dei due, il risultato finale non cambiava poi di molto.


L'uomo seduto a un angolo della stanza, ecco, quella era l'incognita la cui osservazione da parte di Dazai non aveva ancora dato i frutti che sperava desse o che erano stati anche troppo semplici da raccogliere con gli altri. A vederlo era senza alcun dubbio il più grande di loro, sui quaranta, forse quasi cinquant'anni. Dazai non riusciva a dargli una collocazione anagrafica precisa perché quell'uomo si trascinava addosso senza alcun dubbio la stanchezza di chi ha vissuto una vita troppo lunga al punto da portare a chiedersi se fosse davvero giovane come i lineamenti suggerivano o se ci si dovesse invece basare sul carico emotivo che sembrava portarsi dietro. L'altro aspetto curioso era proprio che quel carico emotivo non veniva mai trasmesso dalle espressioni facciali ed era stata questa la prima cosa a interessare Dazai. Nell'ambito della Port Mafia non era così strano trovare persone capaci di mascherare le proprie emozioni al punto tale da sembrare incapaci di provarne: in alcuni casi era una scelta fatta per proteggersi, per mettere un muro tra la propria sensibilità e quello che il mondo racchiuso nel lato oscuro di Yokohama portava a fare. In altri, c'era un pizzico di follia - a volte, Dazai doveva ammetterlo, anche di psicopatia - nelle persone che si incontravano in quello stesso mondo e dunque non stupiva troppo che il loro modo di provare e mostrare qualcosa fosse piuttosto singolare. Quell'uomo, invece, sembrava solo un guscio vuoto e stanco a cui era stata tolta persino la personalità, almeno in apparenza. Ed era questo a incuriosire Dazai: perché l'istinto e la capacità di osservazione gli suggerivano con insistenza che non fosse una mancanza di personalità reale ma che servisse solo scavare.


Un verso a mezza bocca lo distrasse dalla figura dell'uomo per portarla su Wilhelm, intento a stiracchiarsi con le braccia verso l'alto e a brontolare qualcosa su quanto fosse tediante continuare a monitorare durante i momenti fermi come quello. Dazai lo vide alzarsi, dare un colpetto a suo fratello per svegliarlo e - una volta ottenuta la sua attenzione - proporgli di andare a mangiare qualcosa perché a stomaco vuoto era impossibile continuare a fare qualcosa di utile.


«Tanto finché Deus non ci porta altro materiale da J, c'è poco che possiamo fare.» borbottò Wilhelm infastidito, facendo schioccare la lingua contro il palato e lanciando un'occhiata proprio a Dazai quasi stesse vagliando se minacciarlo di non osare toccare il suo computer o evitare per questa volta. Alla fine, come era già capitato in un'altra occasione, fu il fratello Jacob a mediare dando un colpetto sulla spalla del fratello e indirizzandolo verso la porta. Dazai lo sentì persino rivolgergli un: «Vi portiamo da mangiare?» ignorando i borbottii del fratello che, Dazai poteva scommetterci, gli avrebbe portato volentieri qualcosa con almeno del lassativo dentro. Anche per questo si esibì nel proprio miglior sorriso da schiaffi, prima di replicare con un: «No, non vorrei mai che poi il povero Wilhelm rimanesse con il cibo sullo stomaco per avermi fatto una gentilezza.» tanto per versare benzina sul fuoco e irritarlo per il semplice gusto di farlo. Chi l'avrebbe mai detto che si sarebbe ritrovato con la probabile versione venticinquenne - o poco più - di Nakahara e che sarebbe stato comunque così divertente e fastidioso al tempo stesso.


Un cenno di Jacob fu tutto ciò che ottenne prima che l'attenzione si spostasse brevemente sull'altro uomo, di cui dopo giorni Dazai sapeva ancora solo il nome - Antonio - e, una volta che i fratelli furono usciti, anche che forse non si fidava nemmeno lui a farsi portare del cibo non controllato da lui stesso. Oppure non era abbastanza affamato, ancora.


Rimasti soli, Dazai non perse particolare tempo a osservarlo più che in altre occasioni, se non in modo sommario e quasi annoiato: Antonio era un uomo dal modo di vestire piuttosto distinto, mai visto fino a ora senza giacca e cravatta, un modo di vestire che gli aveva ricordato vagamente quello di Mori per un'associazione mentale immediata e forse viziata dall'ambiente in cui si era sempre mosso. I capelli raccolti in una crocchia il cui senso estetico non era particolarmente spiccato - e, Dazai sospettava, non fosse in cima alle priorità dell'uomo - era la carnagione un poco più scura degli altri ad attirare forse di più l'attenzione in un luogo come il Giappone dove la diversità razziale non era esattamente all'ordine del giorno.


Dazai aveva notato, piuttosto, che i movimenti di Antonio erano sempre essenziali e tradivano, in alcuni aspetti, un'educazione di un certo tipo e adatta all'alta società o ad ambienti che dovevano esservi quantomeno collegati. Il modo in cui sedeva, per esempio, mostrava una compostezza particolare che sarebbe dovuta essere associabile alla rigidità e invece risultava fin troppo naturale nel linguaggio del corpo dell'uomo. Oppure anche quando era capitato di mangiare insieme nello stesso spazio, per quanto non necessariamente allo stesso tavolo, Dazai si era accorto di come i movimenti delle mani fossero sempre minimi, necessari e mai tanto per fare: anche una cosa semplice come tagliare della carne se il cibo era più occidentale o il modo di tenere le bacchette quando quanto offerto era tipicamente nipponico, avevano un'eleganza semplice.


Si era chiesto, Dazai, se quelle fossero le mani di un assassino esperto contro ogni possibile sospetto o se invece si trattasse di una natura diversa. Quello di cui era sicuro, invece, era che non gli fosse ancora chiaro al cento per cento quale fosse il ruolo di un uomo che non sembrava desiderare nulla e quindi non sarebbe dovuto essere particolarmente ricattabile.


«Cos'ha Deus su di te?» chiese quindi, perché tanto valeva capire quanto potesse spingere prima di rischiare di superare un limite pericoloso. Vide Antonio alzare lo sguardo su di lui, con la lentezza di una preda inconsapevole - o di un predatore pigro. Occhi dalla sfumatura carminia che, ancora una volta, sembravano incapaci di focalizzarsi davvero su ciò che vedevano e le labbra piegate in una linea di indifferenza. Dazai sapeva distinguere il disinteresse dall'insensibilità, di norma, ma con Antonio il confine sembrava talmente labile che l'ex - ex? - membro della Port Mafia non avrebbe saputo dire con esattezza da quale lato pendesse in quel momento e questo gli causò un vago moto di fastidio. Lo stesso che avrebbe provato nel cercare di trattenere la sabbia in un pungo e sentirsela comunque scivolare tra le dita, granello dopo granello.


«Nulla.» replicò l'altro, in modo piuttosto prevedibile. Dopotutto, Dazai non aveva mai pensato che avrebbe potuto avere da lui una risposta precisa solo per aver chiesto in modo educato in un momento in cui ingannare il tempo nell'assenza degli altri due. Inoltre, Antonio gli aveva dato la sensazione di una persona intelligente abbastanza da capire da solo che non fosse certo un caso che la domanda fosse stata posta solo quando si erano ritrovati da soli. Dazai gli dava almeno atto di sembrare parecchio più sveglio della media e se avesse dovuto scommettere su chi tra gli altri oltre lui avrebbe potuto cercare di mettere i bastoni tra le ruote a Deus... quello sarebbe stato Antonio, con molta probabilità.


«Apprezzo il tentativo» pronunciò Dazai, sistemandosi meglio sulla sedia, il gomito sul tavolo e il volto poggiato alla propria mano così da poterlo continuare a osservare in tutta comodità «ma spero non mi consideri il tipo di ingenuo capace di crederci.» insinuò senza farsi poi tanti problemi. Non era mai stato famoso nel suo ambito per rendersi amabile nemmeno alle persone a cui teneva - ed erano così poche da far sì che in un conteggio sulle dita di una mano ne avanzassero diverse -, perciò era pressoché impossibile si facesse remore in un contesto simile e con degli sconosciuti che era quasi scontato sarebbero stati nemici il giorno dopo. O che lo fossero già adesso.


Vide Antonio dedicargli un'occhiata più lunga, attenta. Nonostante la provocazione fosse lì alla luce del sole - o delle fastidiose lampade di quel posto - Dazai capì di non aver nemmeno scalfito la corazza in superficie. Il che lo rendeva particolarmente interessante e, al tempo stesso, fastidioso.


«Tu daresti a me la stessa informazione?» sentì domandare all'uomo, il tono profondo di qualcuno dava la buffa idea di aver parlato a bassa voce per tutta la sua vita, senza sentire il bisogno di farsi notare o forse avvertendo quello opposto: passare inosservato, lasciare che il mondo si dimenticasse di poterlo vedere. La mente di Dazai correva veloce, assimilando tutte le informazioni che gli arrivavano ora dalle risposte verbali di quel mistero chiamato Antonio e associandole a quanto aveva solo avuto modo di osservare.


Sorrise, seppure non con il fare allegro di un ragazzino di sedici anni incuriosito da qualche strano meccanismo incomprensibile. Era il sorriso di chi aveva davanti un enigma e aveva tutte le intenzioni di risolverlo, senza che farlo implicasse necessariamente delle soluzioni "pulite". O moralmente accettabili: «Oh-oh, touché.» commentò, alzando solo la mano libera in falso segno di resa senza scomodare l'altra, rimanendo quindi nella nella stessa posizione di osservazione. Un'ennesima provocazione, forse. Quello sarebbe dipeso dalla percezione dell'uomo ma in ogni caso Dazai avrebbe avuto - da quella stessa reazione - una risposta in più su di lui.


«Ah, forse dovremmo cominciare dalle presentazioni per bene?» pronunciò con un pizzico di falsa innocenza, quasi ci avesse pensato solo ora e avesse collegato in automatico la reticenza altrui alla mancanza di un dettaglio inutile come nome e cognome: «Dazai Osamu.» aggiunge, facendo un gesto verso di lui per invitarlo a condividere a propria volta. L'iniziale silenzio gli fece ipotizzare che forse non avrebbe avuto alcuna risposta neanche a questo, ma alla fine lo vide sospirare leggermente e poi tornare ad abbassare lo sguardo sul blocco che aveva avuto davanti agli occhi da quando Dazai era entrato nella stanza.


«Antonio Salieri.»


Salieri, si ripeté mentalmente Dazai, assaporando quel cognome quasi già così potesse ricavarne qualcosa. Europeo, senza dubbio. Del tutto sconosciuto nell'ambito della mafia e questo da un lato allargava il campo - perché se fosse stato un nome conosciuto nel suo ambiente Dazai era certo che non sarebbe stato possibile non risultasse in nemmeno un file della Port Mafia - ma dall'altra lo rendeva ancora più caotico. Insensato, quasi. Era evidente che Deus si fosse circondato di persone con abilità speciali di soli due tipi: quelli facili da controllare per qualcosa di cui avevano bisogno, come Jane e Jun, oltre presumibilmente a Dazai stesso; oppure quelli che al di là di cosa desideravano, erano anche persone dalla morale dubbia. Capaci di cose che altri avrebbero considerato terribili pur di raggiungere il loro scopo e il cui peso delle proprie azioni non era grande abbastanza - né lo sarebbe stato - tanto da distoglierli dall'obiettivo. Se Antonio Salieri non rientrava in questa casistica e non aveva nemmeno qualcosa con cui Deus poteva ricattarlo... per quale motivo era lì?


Dazai si alzò, muovendosi senza troppe cerimonie per avvicinarsi al tavolo su cui si trovava seduto l'altro, una delle scrivanie vuote di quell'ufficio che sembrava più il quartier generale e operativo di un'organizzazione improvvisata come in fondo era quella di Deus. Non ebbe il dubbio neanche per un attimo, sul fatto che Antonio avesse subito inquadrato il suo movimento con la coda dell'occhio, ma il fatto che non si stesse spostando o che il suo linguaggio del corpo non comunicasse alcun intento di impedirgli di avvicinarsi incuriosì Dazai ancora di più. Lo rese anche attento abbastanza da decidere, tacitamente, di non osare più del necessario e di considerare la persona davanti a sé come avrebbe considerato una bestia ferita nell'infilarsi in una gabbia dello zoo. Nessuno poteva dire quale gesto lo avrebbe fatto sentire minacciato, scatenando una reazione inaspettata.


Una volta accanto a lui, posando lo sguardo su quel blocco, Dazai dovette ammettere di essere stupito: aveva ipotizzato diverse possibilità, alcune meno fattibili di altro o che quantomeno gli sarebbero suonate molto strane. A cominciare dalle probabilità che si trattasse di un documento ufficiale lasciato da Deus per qualche incarico, non così strano di per sé ma di certo poco intelligente da tenere dove chiunque avrebbe potuto spiare anche solo qualche parola. Poteva essere un documento personale, ma dato quanto riservato sembrasse essere quell'uomo, Dazai aveva escluso la questione quasi subito dopo averla presa in considerazione. Qualcosa per passare il tempo era sembrata quella più esatta, per il semplice fatto che fino a quel momento non aveva mai visto Antonio Salieri muoversi senza che Deus gli desse un preciso ordine o lasciasse intendere che ce ne fosse stato uno dato in privato.


Per essere "personale", quel blocco doveva esserlo, solo non nel modo scontato che chiunque - compreso lui - si sarebbe aspettato: benché i fogli non fossero pentagrammati, Antonio aveva disegnato il pentagramma da solo e lo stava riempiendo di note. Non c'era alcun titolo e Dazai non avrebbe saputo leggerlo correttamente, quindi non aveva idea se si trattasse di un brano già esistente o di qualcosa che l'altro stesse componendo in quel momento a tempo perso. Di sicuro era peculiare pensare che un potenziale assassino, o qualunque cosa facesse per conto di Deus quando spariva, avesse anche la sensibilità artistica di un compositore.


Dazai aveva appena deciso di non punzecchiarlo sulla cosa, o almeno di non farlo per il momento, quando fu proprio Antonio ad alzare lo sguardo e puntarlo su di lui pronunciando un: «Quale risposta ti sei dato, Dazai?» sottintendendo, forse provocatoriamente per la prima volta, di aspettarsi ci fosse stata una domanda alla base di quello sguardo prolungato al foglio e alle note musicali che ospitava. Nonostante il tono fosse privo di inflessioni particolari, Dazai era certo che in quella richiesta ci fossero così tanti sottotesti che sarebbe stato divertente segnarli tutti proprio su un foglio come se fosse un compito in classe e chiedere poi al diretto interessato di controllare di averli azzeccati tutti. Invece Dazai si limitò a sostenere il suo sguardo, rivolgendogli un sorriso sbieco, tra il divertito e l'infastidito - piuttosto consapevole di saper rendere la prima emozione preponderante al punto da nascondere molto bene la seconda.


«Nessuna interessante, per il momento.» replicò, spostando la sedia opposta a quella di Antonio senza chiedere il permesso e prendendovi posto, facendo aderire la schiena alla seduta e incrociando mollemente le braccia al petto. L'occhio non coperto dalla benda non avrebbe abbandonato la figura di Salieri, ora come ora, nemmeno se glielo avessero imposto con una pistola puntata alla tempia - non che sarebbe stata la prima volta che qualcuno lo minacciava con un'arma, in ogni caso.


Salieri sostenne il suo sguardo per un po' e poi, decidendo che non ne sarebbe venuto fuori nulla fin quando Dazai non si fosse deciso a parlare di nuovo, lo portò ancora una volta sul blocco; Dazai lo vide impugnare la penna - il che gli suggerì, vista anche l'assenza di cancellature sul foglio, che l'altro si sentisse sicuro abbastanza delle sue conoscenze musicali da non temere di sbagliare e dover correggere - e riprendere a scrivere.


Una, due, tre note. O almeno gli sembravano tre, ma il punto ora non era imparare a leggere un pentagramma: era imparare a leggere Antonio Salieri.


«E' un peccato che Deus non ci abbia lasciato almeno un mazzo di carte: sono curioso di vedere come giochi, Salieri-san.» buttò lì, osservando l'uomo tenere lo sguardo basso per finire la sequenza che stava scrivendo. Dazai non era certo se fosse più corretto considerare quel tipo di atteggiamento come il disinteresse che in parte gli aveva già associato oppure se fosse un aspetto ancora più contorto nella sua semplicità: il non sentirsi affatto minacciato né fisicamente, né psicologicamente. Per l'esperienza di Dazai, se quell'ultima opzione fosse stata il caso di Salieri, avrebbe significato che la persona di fronte a lui era così al di sopra delle capacità di chiunque nella stanza - non solo ora che erano soltanto in due, ma anche quando erano tutti lì insieme - da non essere facile per lui considerare degno di attenzione chiunque altro.


Proprio mentre questo pensiero affondava le radici nella sua mente, Dazai lo vide alzare lo sguardo e puntare gli occhi su di lui: «Mi aspettavo più che proponessi gli scacchi, Dazai-kun.» pronunciò Salieri e per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Dazai poté osservare le labbra dell'uomo incurvarsi nell'accenno di un sorrisetto. Notò subito che non si estendeva affatto agli occhi, risultando l'espressione di un divertimento vuoto, quasi di riflesso. Quasi non fosse in grado di provarlo davvero.


Sentì un brivido percorrergli la schiena, in maniera non così diversa da quando - raramente - trovava di fronte a sé qualcuno di abbastanza interessante o che potesse essere un degno avversario. Aveva la sensazione di aver provato la medesima sensazione in un momento specifico e in una situazione particolare, eppure ancora non riusciva a mettere insieme tutti i pezzi al punto da capire con precisione chi gli ricordasse quell'uomo. Aveva però tutto il tempo per capirlo, se necessario.


«Perché no?» lo incalzò, osservandolo con tutta l'intenzione di lanciargli una sfida.


Se Antonio Salieri voleva una partita a scacchi per passare il tempo, chi era lui per non concedergliela?


*


Trovare una scacchiera non era stato difficile né lo aveva sorpreso scoprire che fosse il tipo di oggetto che fosse quasi scontato trovare in un luogo voluto e arredato da un uomo come Deus. Salieri, nel vederlo tornare con quella tra le mani, aveva sospirato piano spostando di lato il blocco e chiudendolo, così da non lasciare più alla mercé di chiunque quelle note musicali annotate lì sopra fino a poco prima. Dazai gli aveva lasciato scegliere se muovere i bianchi o i neri e Antonio non aveva fatto altro che rispondere con totale disinteresse che non gli importava; così Dazai gli aveva lasciato i bianchi, perché potesse muovere per primo e per vedere in che modo un uomo simile dava inizio a una partita.


Non c'era stata la fretta delle partite professionistiche, né Dazai aveva cercato qualcosa che potesse sostituire l'orologio utilizzato nei tornei ufficiali. Avevano continuato a fare le mosse con i propri tempi, a volte dilatati da qualche chiacchiera, perché per lui gli scacchi erano come bere qualcosa con qualcuno: c'erano infiniti dettagli che si potevano cogliere e lui non aveva intenzione di farsene sfuggire nemmeno uno. Sebbene, doveva ammetterlo, Salieri era un uomo complesso da inquadrare. Talmente silenzioso da rendere un'impresa titanica più il tirargli fuori le parole che interpretarle o leggervi davvero qualcosa più del semplice significato linguistico.


«Tutti sembrano essere arrivati qui in coppia, a parte il famigerato J.» pronunciò Dazai dopo aver mosso un pedone sulla parte laterale della scacchiera, in un gesto di poche pretese «Jane e Jun. I due fratelli. Tutti tranne te.» sottolineò.


«E te.» fu la replica di Salieri, mentre gli occhi si spostavano pigramente sulla scacchiera per decidere la propria mossa successiva. Dazai sbuffò appena: «Forse questo ci accomuna, ma non credo ci renda uguali.» sottolineò, osservandolo muovere un pedone dalla parte opposta rispetto a quello della propria ultima mossa. Di nuovo, Salieri non alzò subito lo sguardo ma rimase in silenzio per qualche istante prima di restituire il contatto visivo a Dazai.


«Non lo siamo, infatti. Sarebbe strano se un adolescente fosse sullo stesso piano di uno come me.» osservò l'aspetto più scontato, eppure l'executive della Port Mafia capì che non era casuale o tanto per porre l'attenzione sulla differenza di età. Comprese che nelle parole altrui non ci fosse un significato superficiale dal modo in cui Salieri lo guardò. Per questo attese qualche istante a rispondergli, soppesando la cosa: «Su quale piano è uno come te, quindi?»


Salieri sbuffò piano, di nuovo un'espressione che non si estese allo sguardo. Dazai trovava quel particolare interessante e più degno di attenzione di quanto forse lo avrebbero considerato altri. Il fatto che qualche emozione ogni tanto stesse iniziando a riflettersi almeno nel modo di parlare, significava che l'altro non era una persona anaffettiva o incapace di provare le cose; il modo in cui però non si appropriasse neanche una volta di tutto il viso, invece, dava a Dazai segnali contrastanti. Era abbastanza sicuro che non fossero emozioni simulate, quindi doveva esserci qualcosa di più profondo. Cosa o se fosse un aspetto che sarebbe riuscito a svelare con un'unica partita a scacchi, questo Dazai non avrebbe ancora saputo dirlo.


«Pensavo ti piacessero gli enigmi, Dazai-kun. E' l'idea che mi hai dato finora.»

«Dipende, alcuni sono tremendamente noiosi e io mi annoio molto facilmente.» rimbeccò, consapevole di suonare arrogante e non che gli interessasse nemmeno troppo l'opinione di gente che sembrava essere stata messa insieme solo perché erano un gruppo di disadattati - lui compreso, a seconda dei punti di vista. Era ancora piuttosto convinto che Deus avesse preso un grosso abbaglio con lui, sebbene si fosse ben guardato dal farglielo notare visto che era tutto a proprio vantaggio, ma almeno a uno sguardo superficiale non aveva alcun dubbio su come quel gruppo costruito dal nulla e senza quasi nessuna base solida potesse apparire.


Comprendendo che non avrebbe avuto subito una replica, Dazai si concentrò sulla mossa da fare. Un'occhiata alla scacchiera gli suggerì che per quanto avessero già fatto più di qualche azione a testa, non ci fosse ancora troppo per evincere della personalità di Salieri. Era come se in fondo si stessero studiando alla lontana, per decidere come colpire più forte possibile. Con un sorrisetto, decise di muovere il cavallo portandolo leggermente verso il centro della scacchiera rispetto alla posizione di partenza.


L'uomo sembrò in qualche modo colpito dalla cosa, per quanto fosse una reazione più tiepida di quella che avrebbe avuto una persona normale. Lo vide soppesare la cosa, con un pizzico di interesse in più rispetto a quanto mostrato finora; Dazai stesso riportò lo sguardo sul gioco, chiedendosi quale filo di pensieri potesse star seguendo l'altro per aver trovato proprio quella mossa - e nessuna delle altre precedenti - degna di qualcosa di più di un volto impassibile. Forse l'aggressività? Eppure Dazai era ben consapevole di essersi trattenuto.


«Dobbiamo davvero farci domande da chiacchiere in un bar?» lo punzecchiò, attirando la sua attenzione e vedendolo distoglierla dal gioco. Capì quasi subito che stavolta non lo stava studiando come si sarebbe potuto fare con un avversario, né lo stava studiando in generale - non come stava facendo Dazai, di sicuro. Era più come se Salieri avesse davanti un bambino in cui vedeva qualcosa, ma non una minaccia, né un mistero da svelare, solo una giovane mente che per ovvie ragioni poteva solo approcciare e pensare in modo del tutto diverso dalla sua. Per quanto Dazai non amasse particolarmente l'idea di essere sottovalutato per l'età, dal momento che era abituato proprio al contrario, si astenne da commenti di sorta per non troncare a metà una eventuale risposta dall'altro. Una che impiegò un po' ad arrivare, ma senza diventare assente ingiustificata in una conversazione che per quanto fosse bravo non poteva continuare a portare avanti da solo.


«Qual è il tuo più grande talento, Dazai?» chiese Salieri, non senza colpirlo un poco. Non aveva chiesto "pensi di avere un grande talento" o "quale credi possa essere un tuo talento". Aveva posto quella domanda dando per scontato che dovesse per forza essercene uno e Dazai sospettava non fosse solo una questione di associazione al suo essere stato scelto da Deus. In una certa misura era ovvio che ognuno di loro fosse utile alla causa di quell'uomo, ma quello era da ricercarsi nelle loro abilità speciali. Non era un caso, dopotutto, che ne avessero tutti una. Salieri tuttavia l'aveva posta in un modo che a Dazai era suonato leggermente diverso, uno che esulava da quel tipo di capacità. Lo portò a chiedersi, forse per la prima volta, se avesse il tipo di talento che Salieri andava cercando in lui in questo momento tanto da sembrare dimentico di dover fare la propria mossa. O forse l'aveva appena fatta con quella domanda.


«Nessuno degno di una persona decente.» replicò «Tutti piuttosto affini a chi ha fatto scelte che molti non farebbero.» aggiunse, osservandolo. Salieri non sembrava colpito: la totale assenza di rifiuto per qualcosa che andava contro la morale diceva già tutto. Era una persona che, come avrebbero amato dire i più romantici, aveva guardato l'Abisso in fondo abbastanza da aver rischiato di perdersi dentro di esso e di non poter raccontare di essere stato fissato di rimando.


Salieri si limitò a un «Mh.» iniziale, decidendosi finalmente a fare la propria mossa - un ulteriore avanzare di uno dei pedoni, mangiandone uno dei suoi - per poi riportare lo sguardo sulla figura di Dazai: «Quindi non hai nessun interesse oltre quello che fai per sopravvivere.» decretò, ma non c'era giudizio nel suo tono di voce. Suonava solo come un'osservazione, una deduzione logica da quanto ascoltato fino a quel momento e Dazai non sentiva di potergliene fare un torto. Se l'uomo davanti a lui sembrava più che capace di celare le emozioni, Dazai era sicuro di essere bravo quanto lui a lasciare nascosto ciò che voleva restasse celato. Perciò non avendo fatto altro che dirgli e mostrargli solo ciò che sarebbe stato deducibile per chiunque, non era una sorpresa che fosse giunto a quella conclusione - non era nemmeno sbagliata, oltretutto.


«Immagino tu intenda cose come la musica» pronunciò Dazai con un cenno del capo verso il blocco spostato di lato in precedenza, fissando Salieri con l'insistenza di chi non aveva alcuna intenzione di perdersi una reazione, soprattutto quando era certo ne avrebbe avuta una «quindi no, non ne ho.» aggiunse più blandamente, come se fosse un in più poco importante rispetto al resto. Salieri non sobbalzò di sorpresa, non si mise sulla difensiva, non lo guardò con l'astio di qualcuno colto in flagrante e in fondo non aveva fatto nulla per nascondere quel blocco pentagrammato a mano fin dall'inizio. Eppure quel che Dazai vide formarsi sul viso dell'uomo lo lasciò più confuso di quanto avrebbe fatto qualsiasi di quelle altre reazioni prevedibili. Per la prima volta e proprio quando non pensava nemmeno di essersi sforzato particolarmente per ottenerlo, Salieri mostrò un vero cambio di espressione: i suoi lineamenti adulti si piegarono fino a mostrare un'espressione sulla quale Dazai non avrebbe mai scommesso.


Quella era un'espressione di pura adorazione. Dazai non avrebbe saputo se accostarla più alla devozione di un fedele per il suo Dio o a quella di un uomo per l'unica persona che reputi degna tra tutte quelle di cui ha incrociato il cammino. In entrambi i casi, comprese che Salieri era più pericoloso di quanto chiunque potesse aver pensato e forse anche più di quanto lo stesso Deus avesse immaginato: perché un uomo con quella devozione avrebbe fatto qualsiasi cosa per l'oggetto della sua adorazione. Anche tradire chi gli aveva promesso ciò che desiderava di più, salvo che quel desiderio non fosse la persona stessa.


Perché di quello Dazai era certo al cento per cento, ora: non poteva essere solo la musica. Doveva essere un mezzo, un tramite, qualcosa che gli ricordasse la persona in questione o la rappresentasse in un modo che Dazai avrebbe potuto solo cercare di indovinare - ma le possibilità erano molte più di quanto potesse sembrare a una prima analisi.


Non poté fare a meno di offrire un piccolo vantaggio su di sé anche lui, mostrando a Salieri un'espressione molto meno pura: quella di una persona che aveva appena visto qualcosa di estremamente sgradevole ma anche esilarante. Dopodiché, senza apparente senso, scoppiò a ridere.


Anche Salieri dovette esserne sorpreso, perché la sua espressione tornò più simile a quella di sempre - una da cui non si tirava fuori un solo pensiero dell'uomo - ma con una vaga sfumatura di confusione o curiosità. Era difficile distinguerli.


«Non è la risata di una persona sinceramente divertita.» gli sentì sottolineare, seppur senza astio o accusa di alcun tipo. Dazai, che si era portato una mano al viso per celare un poco la risata pur senza preoccuparsi di farlo completamente, abbassò la mano per avere di nuovo completa visione dell'uomo: «Oh, ma io sono divertito!» assicurò «E' solo così inaspettato che proprio tu abbia una cosa del genere!»


Salieri fece un'altra cosa che non aveva mai fatto prima: sospirò, ma con al rassegnazione più sostenuta di un adulto con un bambino, consapevole di non poter pretendere un atteggiamento diverso da quello a cui sta assistendo ma senza davvero condannarlo. Diede a Dazai l'idea che fosse abituato a essere con persone più giovani o che forse lo fosse stato fino a prima di unirsi al gruppo di Deus: «Tocca a te.» pronunciò invece, accennando alla scacchiera.


Dazai, senza nemmeno degnare più di qualche secondo di attenzione l'oggetto, allungò una mano spostando un alfiere in una mossa ancora più aggressiva della precedente senza che questa decretasse ancora alcuno scacco. La partita non poteva né doveva essere così corta, dopotutto.


«Non mi domandi cosa intendo?»

«So bene cosa intendi.» replicò Salieri senza farlo attendere, benché gli occhi stessero analizzando come procedere dopo quell'attacco da parte dell'alfiere «Aspetto solo che tu pronunci un'affermazione diretta. Supponendo tu ne sia più che capace, quando la persona davanti a te non ti sta privando delle risposte, il che significa non avere alcun bisogno di indagare come fai con tutti gli altri.» chiarì l'uomo e Dazai non poté che inclinare le labbra in un sorriso ferino. Quindi il signor Salieri non era così disattento, proprio come aveva supposto dall'inizio. Se si sentisse a suo agio con uno come Dazai perché abituato o perché si sentisse al di sopra non gli era ancora del tutto chiaro ma, mentre la sensazione di aver già avuto a che fare con qualcuno del genere si faceva ancora più pressante, aveva intenzione di scoprirlo entro la fine di quella partita.


Fischiò con ammirazione, quasi a complimentarsi per averlo notato: «E pensare che cercavo di essere sensibile e avere tatto» mentì, senza alcuna pretesa di essere creduto visto quanto poco si stesse impegnando a risultare credibile «mi domando come mai nessuno lo apprezzi mai, considerando quanto sia raro io lo faccia.» commentò, senza che fosse davvero importante e Salieri sembrò non farsi distrarre da quel breve, inutile sproloquio.


Dazai puntò l'unico occhio non coperto dalla benda in quelli dell'uomo, sorridendogli di un'affabilità piuttosto falsa; era più la voracità di chi aveva davanti la preda perfetta e l'unico motivo per cui non la divorava era che fosse fin troppo divertente continuare a giocarci per privarsene così in fretta: «Quale persona si merita la devozione di un uomo che non mostra la minima emozione di fronte a nulla? Non di fronte a ragazzini che sono stati portati qui contro la propria volontà» iniziò a elencare, facendo un cenno vago verso la scrivania più vicina alla porta d'ingresso, quella dove in genere si fermavano Jane e Jun durante i loro "turni" «non di fronte a due fratelli con evidenti problemi di connessione con la realtà che di sicuro non fanno nulla di sano tra il sonno di uno e la veglia dell'altro» continuò, con un cenno stavolta verso i computer dai quali si erano allontanati Wilhelm e Jacob «senza menzionare il misterioso J, a cui basta passare vicino una volta per sentire quanto puzzi di cadaveri.» concluse, osservandolo e sicuro del fatto che Salieri non avrebbe frainteso la frase sui cadaveri come una semplice offesa per il cattivo odore di qualcuno, ma come la precisa indicazione di come Dazai stesso sapesse che qualunque cosa facesse quel dottore non era su persone vive. O che sarebbero rimaste vive alla fine del trattamento.


Salieri lo osservava, forse aspettandosi qualcosa; Dazai lo apprezzò, perché non aveva finito: «Ma soprattutto perché la persona a cui sei devoto non è abbastanza da evitarti di sottostare a qualsiasi cosa Deus abbia in mente, va oltre la mia comprensione per il momento.» una specifica necessaria, anche solo per principio «Sono indeciso: ti ha promesso di fartela incontrare di nuovo e per questo gli fai da cagnolino, oppure ti ha minacciato di farle qualcosa se tu non avessi fatto da cagnolino? Illuminami, Salieri-san. Spero la risposta mi intrattenga più della partita a scacchi che stiamo facendo.» concluse, lasciando la mossa a lui proprio come nella partita che dubitava avrebbero finito.


L'uomo non aveva ancora battuto ciglio da quando Dazai aveva cominciato a parlare con affermazioni ben più decise e pressanti di prima. Eppure, si concesse uno sbuffo divertito e uno scuotere lieve della testa - ma quel divertimento non era dato dall'ilarità. Era il divertimento arido di un disperato.


«Nessuna delle due cose, Dazai.» replicò in un primo momento «Non ho nulla da guadagnare, come non ho nulla da perdere. Nulla che abbia a che fare con la mia devozione, come la definisci tu.» precisò, abbassando gli occhi sulla scacchiera e muovendo la torre. Dazai occhieggiò la mossa con interesse, perché era come aver appena visto un coniglio togliersi di dosso il costume e rivelarsi una volpe. Non mosse a propria volta, preferendo tornare a scrutare il volto di Salieri.


«Quelli come me, dopotutto, sono raramente fortunati abbastanza da avere quello che tu definisci "una possibilità". Poco importa questa sia di rivedere qualcuno di perduto o di evitare di perderlo in prima battuta.» disse Salieri, spostando gli occhi cremisi verso il blocco pentagrammato.


Dazai tacque. Sapeva riconoscere un indizio quando gliene presentavano uno e sapeva anche che poteva essere la chiave di svolta per individuare quella fastidiosa sensazione di avere di fronte qualcuno di già visto, già conosciuto. Continuava a sfuggirgli in modo a dir poco irritante, perciò se Salieri gli stava offrendo una soluzione più o meno su un piatto d'argento, Dazai non aveva intenzione di farsela sfuggire.


Passò mentalmente in rassegna le persone con cui aveva avuto modo di interagire, escludendo da principio chiunque avesse incrociato il suo cammino prima della Port Mafia e, subito dopo, tutti quelli che non avevano lasciato questa grande impressione al punto da ricordarne almeno il nome senza uno sforzo di memoria. A rimanere erano ben pochi individui e di sicuro sentì di poter tenere fuori anche i pochi che aveva conosciuto al di fuori del proprio ambiente, certo che la "fortuna" di cui l'altro parlava non sorridesse a chi faceva scelte di vita capaci di portare qualcuno ben lontano da un cammino "nella luce" anziché nell'ombra.


Il suo primo pensiero andò a Mori Ougai. Un uomo che aveva mostrato un cinismo che si discostava poco dalla follia eppure rimaneva appigliato alla genialità senza mai sfociare in modo definitivo nell'alternativa. Salieri però non aveva granché di ciò che distingueva Mori, a cominciare dal fatto che la sua devozione aveva una connotazione incredibilmente pura di cui dubitava il suo ex boss sarebbe mai stato capace. Subito dopo, ebbe una veloce immagine di Nakahara e per quanto ci fosse qualcosa che glielo ricordava molto vagamente, era come il sentore che Salieri potesse essere stato simile a lui in qualcosa... ma almeno vent'anni, forse trent'anni prima addirittura. Era l'ombra di una gioventù che non c'era più, di una inconscienza tipica di una persona senza esperienza e senza granché da perdere - per quanto lo stesso Salieri si fosse definito come qualcuno a cui Deus non poteva togliere chissà cosa, Dazai aveva il sentore che non fosse proprio la stessa cosa. Nakahara era il più grande concentrato di rabbia e istinto che avesse avuto la sventura di incontrare sul proprio cammino, mentre Salieri sembrava tutto tranne che in grado di lasciarsi andare alle proprie emozioni o di sicuro non con quella frequenza e facilità. Sembrava anzi estremamente equilibrato, persino più di un normale adulto.


Dazai, osservandolo, aveva avuto in un paio di occasioni la percezione che l'equilibrio raggiunto da Salieri fosse uno artificiale, ossia uno guadagnato con le esperienze e piegando un carattere altrimenti diverso. E per quanto spesso si preferisse pensare il contrario, Dazai era piuttosto certo ci fossero poche esperienze davvero capaci di piegare un'indole al punto da renderla quasi l'opposto di ciò che era in principio: qualcosa di così totalizzante da rendere inermi, quasi paralizzati. La perdita, aveva imparato guardando morire più persone di quante potesse ricordarne, era l'emozione che insieme al terrore aveva reso più immobili i suoi avversari e i nemici della Port Mafia. Non importava quante cose si fossero fatte, quanti combattimenti o scontri si fossero affrontati, qualsiasi uomo di fronte alla giusta perdita o al giusto moto di paura diventava semplice da uccidere come un bambino. Quel tipo di emozione divorava qualsiasi altra cosa - il coraggio, la forza, persino la crudeltà.


Salieri doveva aver subito qualcosa del genere. Anni prima, molti anni prima, perché sembrava al tempo stesso ammantato della rassegnazione che solo chi ha già fatto tutto quanto in suo potere senza ottenere risultati poteva accogliere senza opporsi alla ricerca di un'ultima, vana speranza.


Se solo Dazai avesse avuto un ultimo indizio, quell'ultimo ma imprescindibile pezzo di puzzle...


«Dazai» lo richiamò Salieri, nonostante non fosse davvero necessario visto che non aveva mai smesso di guardarlo dalla sua frase precedente. Fu certo, già solo guardandolo, che non fosse un richiamare la sua attenzione come se avesse il dubbio di averlo perso tra mille ragionamenti. Salieri lo esortava a osare, a pronunciare un verdetto che Dazai sentiva di avere ma non nella sua totalità «eppure tu, più di tutti, non sei stato altro che circondato da quelli come me nell'ultimo anno. Così diceva Deus.»


Qualcosa lo gelò, per quanto non lo diede a vedere, imponendosi di mostrare solo uno sguardo indagatore. Non il fatto che Deus potesse avere informazioni su di lui al punto da dire a qualcuno con chi avesse avuto a che fare, perché era una cosa piuttosto scontata: nessuno avrebbe riunito persone che non si conoscevano tra loro e che non avevano una storia comune, per renderli parte del proprio grande piano, senza prima conoscerli nella misura necessaria a controllarli o almeno a farlo più possibile. Se poi Deus si fidava di Salieri al punto da rivelare alcuni dettagli, la cosa rientrava ancora nella misura di ciò che Dazai aveva se non dato per assodato, almeno previsto o ipotizzato. No, il gelo di Dazai in quel momento fu dovuto alla comprensione. A quel tipo di illuminazione che i saggi dicono di raggiungere a un certo punto della loro vita, quella capace di cambiare intere esistenze come un'apparizione.


L'ultimo anno, era un'indicazione temporale incredibilmente specifica e purtroppo per lui non lasciava spazio a molti dubbi. Nell'istante in cui se ne rese conto, fu come se uno specchio buttato a terra con rabbia e spaccato in miliardi di schegge di vetro impossibile da rimettere insieme si fosse appena riformato sotto i suoi occhi come per magia, rimandandogli indietro un'immagine perfetta con la propria superficie riflettente. Purtroppo l'immagine che gli rimandava indietro non era la propria e meno ancora quella di qualcuno di gradito - non era nemmeno quella di qualcuno, ma di qualcosa. Una creatura che chiunque avrebbe definito mostro anche solo guardandola, una potenza al pari di un cataclisma naturale che era quasi impensabile fosse racchiusa anche solo per un secondo nel corpo di un unico uomo.


Dazai non poté ricacciare indietro abbastanza veloce le parole che aveva sentito pronunciare una volta come se venissero pronunciate dalle viscere della terra stessa - lascia che mostri loro l'odio di una creatura non umana, il vuoto di un essere nato senza la benedizione di Dio. Gli mostrerò l'inferno assopito nel profondo del mio vero essere, nella mia stessa essenza-- e nel profondo della mia anima.


Lunghi capelli biondi in una treccia a poggiare morbida sulla spalla, occhi chiari come il cielo e un fetore putrido al proprio interno, ormai rinchiuso in un luogo simile alle segrete di un castello e che altro non era che la prigione autoimposta di un sotterraneo.


«Paul Verlaine.» pronunciò Dazai, fissandolo. Salieri non sorrise soddisfatto, non storse il naso, non mostrò il piacere di sentir pronunciare un nome che per forza di cose doveva essergli almeno un minimo familiare. Eppure quel silenzio fu comunque una conferma.


Dazai capì che la sensazione avuta fino a quel momento era quel brivido vago di chi si rende conto a livello inconscio di avere vicino una bomba pronta a esplodere, l'esperimento proibito che nessuno dovrebbe mai compiere e che a quanto sembrava non era stato portato avanti una volta, non due, ma ben tre.


Di fronte a lui, c'era la terza Singolarità che il mondo non sapeva nemmeno cosa fosse e che se anche lo avesse saputo, non avrebbe potuto contrastare in alcun modo. E lui, Dazai, non poteva far altro che chiedersi quanto folle e studiato fosse il piano di Deus o il suo obiettivo se teneva un uomo che da solo avrebbe potuto distruggere il mondo intero anche solo per capriccio come se fosse un innocua compagnia per i momenti di noia.


«E' uno dei nomi con cui so essere stato conosciuto uno come me.» confermò Salieri, facendo grattare la sedia indietro e alzandosi. Dazai non degnò di uno sguardo la scacchiera, comprendendo che la partita non era mai stata destinata a essere conclusa fin dall'inizio e che forse era stato oggetto di studio più di quanto pensasse quando si era seduto per propria scelta di fronte all'uomo. Lo vide recuperare il blocco e la penna, capendo che cercare di trattenerlo al momento sarebbe stato inutile e forse andava bene così: aveva bisogno di raccogliere le informazioni, per capire cosa farne e soprattutto come considerarle singolarmente e nella loro interezza.


Lo osservò allontanarsi, senza alcuna parola di congedo.


Proprio quando pensava che avrebbe semplicemente sentito la porta aprirsi e richiudersi, Salieri lo richiamò con un ennesimo «Dazai?» che gli fece alzare lo sguardo. Finì per incontrare quello duro di chi avrebbe potuto distruggere chiunque e qualunque cosa sul suo cammino in quel preciso istante e comprese che l'unica cosa a muovere quell'entità che gli stava di fronte era una disperazione così cupa da aver fatto più che logorarlo.


Aveva divorato qualsiasi briciola di umanità una cosiddetta Singolarità potesse avere.


«Il cammino che percorri ha solo una fine. Da quella non si torna indietro e tutti quelli come me l'hanno già percorso.» fu l'unica cosa che Salieri pronunciò prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle lasciandolo solo. Del vociare all'esterno gli suggerì che i fratelli stessero tornando.


Abbassò lo sguardo sulla scacchiera e pensandoci, Dazai comprese che c'era molto di più del piano di Deus.


Se la distruzione indiscriminata avesse avuto un volto, quello sarebbe stato senza dubbio il volto di una Singolarità e il suo nome sarebbe stato Antonio Salieri.

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Prompt: lettera/diario personale

Missione: M1 (week 1)
Parole: 1760
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: accenni più o meno velato al tema della morte, del suicidio e alla violenza in generale





Le lettere sono una cosa sciocca, Odasaku. Le persone suppongono di poterne scrivere per mantenere un legame con chi è lontano fisicamente e si illudono possa essere il sostituto di una quotidianità che per un motivo o per un altro non avranno mai più. Non la trovo una cosa intelligente.


Sembra che queste persone, che io definisco disperate ma tu etichetteresti come speranzose, ci credano davvero. C'è chi scrive persino ai morti e non so come si possa ascoltare qualcuno dirlo credendoci e non ridergli in faccia, ma immagino tu ci riusciresti. Se hai raccattato uno mezzo morto dalle scale di casa tua, quando il pensiero più comune e scontato sarebbe stato quello di non immischiarsi negli affari di qualcuno che non avrebbe portato a nulla di buono, perché non dovresti legittimare qualcosa di sciocco solo perché dà conforto a qualcuno?


Scriverti non ha niente di terapeutico, comunque. Non ho nemmeno molto da dirti, poi. Mi è solo venuto in mente di averne parlato una volta con quello che teniamo alla Port Mafia come le famiglie normali e - presumo - funzionali tengono gli scatoloni con le cose passate nello scantinato. Lettere, su lettere, su lettere. Ne ha scritte così tante da riempirci scatoloni che tiene impilati con lo stesso maniacale ordine con cui gli assassini tengono le loro armi - pulite, come se poi fossero il vestito buono da cerimonia. Non l'ho mai capito questo attaccamento alle armi se non per il fatto che debbano funzionare quando servono e per il resto tenere in mano la pistola di un sottoposto o quella di Hirotsu-san non è mai stato poi così diverso per me. Forse è perché alla Port Mafia ero circondato di persone che hanno sempre visto qualcosa di onorevole e romantico nella nostra missione: c'era davvero, Odasaku? Qualcosa di romantico e onorevole che solo io non sono mai stato in grado di trovare e che tu forse hai intravisto dalla prima volta? Ancora oggi c'è una cosa che, in effetti, vorrei chiederti: cosa vedono vedevano gli occhi di uno come te? Chissà cosa hanno visto, soprattutto, quando ero mezzo morto sulle scale che portavano a quell'appartamento discutibile che ti ritrovavi.


Cosa vuoi che ti dica, Odasaku? E' un giorno come un altro. Le lettere devono raccontare cosa c'è di nuovo? Non c'è niente di nuovo. E visto che tanto non c'è nemmeno nulla da spedire, né una risposta da aspettare, più che una lettera sentita questa può solo diventare un foglio di carta dove scrivere qualcosa che mi viene in mente.


Pensavo: se scrivo una volta ogni tanto, può paragonarsi al compito che mi darebbe uno di quegli illustri medici pieni di empatia che pensano di poter migliorare la tua vita quando ti mettono a posto la testa o ti danno uno strumento per lasciare fuori i pensieri intrusivi?

Pensa se ci provassero col sottoscritto. Saresti il primo a dire che poi avrebbero bisogno anche loro di qualcuno con cui parlare.


Fai del bene, mi hai detto. Impara a stare nella luce.

E a te dove ha portato, la luce, Odasaku? Oltre che tre metri sotto terra.


Mi è capitato per caso di intravedere Akutagawa con Hirotsu per le strade di Yokohama. Akutagawa ha ancora il difetto fatale di sembrare un cucciolo randagio che ha bisogno di un padrone a tirargli il guinzaglio. Ho pensato, in fondo non è più un mio problema. La Port Mafia non lo è più. Lo sarà quando Chuuya proverà a farmi fuori - e non sarei nemmeno contrario al concetto di per sé, non fosse che non ci tengo a una morte lenta e dolorosa. Nemmeno a una gloriosa, per la verità, perché sa di qualcosa per cui ci si deve impegnare e non c'è molto nella vita che mi faccia ancora venire voglia di impegnarmi, Odasaku. Ma questo non è cambiato rispetto a quando c'eri ancora.


Questo è il terzo foglio di una lettera senza un destinatario fisico. Ho iniziato cinque mesi fa a scriverla quindi suppongo sia evidente che non sono mai stato io, quello adatto alle parole su carta. Sono passato dalla tua tomba e c'erano un paio di ragazzini, mai visti prima, forse lì ad accompagnare i genitori. E' stato strano vedere dei mocciosi proprio vicini alla tua lapide, perché sa di cosa che in fondo bisognerebbe aspettarsi, da uno come te. Persino da morto. Così mi sono ricordato casualmente di avere la lettera chiusa nel cassetto.

E' molto facile scordarsi di te, Odasaku. Anche raccontarsi di saperlo fare lo è.


Guardando negli occhi un uomo come Fukuzawa Yukichi ci si possono chiedere solo due cose: se esista qualcuno capace di mentirgli bene abbastanza da ingannarlo e impedirgli di guardarti dentro come se fosse la cosa più semplice del mondo è la prima. La seconda è se uno a cui Mori Ougai ha detto “mi ricordi me” sia adatto a parlarci. Ti viene da chiederti chi la spunterebbe dai due e ti dirò, Odasaku, trovo divertente non avere una risposta certa e almeno dieci possibili modi in cui la conversazione potrebbe andare lì a girarmi per la testa. Fukuzawa ti guarda in un modo che apprezzeresti: diretto. Io lo detesto. Sa di un uomo di ideali, poco importa che sia evidente come sia passato dall’Inferno - e allora, mi chiedo, come si esce dall’Inferno credendo ancora di avere qualcosa per cui vivere?
Quando l’ho guardato ho anche pensato: Odasaku lo avrebbe seguito. Lo avresti fatto in modo diverso da come hai fatto con me, da come hai fatto con Mori-san. Lo avresti seguito nel modo in cui fa un uomo per bene e, ne sono sicuro, staresti ancora a calpestare questa terra.


Si potrebbe dire tu abbia fatto scelte sbagliate a seguito di incontri sbagliati, Odasaku?

Si potrebbe dire che la tua incapacità di lasciare soli i casi disperati ti abbia portato alla rovina?

Si potrebbe dire, per essere più filosofici, che hai guardato l’Abisso troppo in fondo e quello anziché guardarti indietro ti abbia ingoiato tutto intero come la più semplice delle prede?

Potevi risparmiartelo.

Potevi scegliere altro.

Dovevi andartene dovevi salvarti dovevi morire morire morire morire

Fa ridere come le tragedie teatrali scritte da autori da quattro soldi, lo sai vero?


Edogawa Ranpo è un genio racchiuso nel corpo di un giovane uomo e intrappolato nel comportamento di un ragazzino di quattordici anni. Lo avresti adorato.

Lo detesto.


Sai cosa non capisco, Odasaku?

Come può uno che vede il futuro morire come il più inutile degli esseri umani.


Avevo deciso di saltare la visita alla tua tomba, poi Kunikida ha sentito il bisogno di farmi la morale sull’importanza di ricordare i morti. Ho deciso che sarò il suo incubo in terra così, magari, troverò qualcosa di abbastanza divertente da fare per una settimana.


Te lo immagini, Odasaku? Ango si fa ancora vedere al bar Lupin, ogni tanto. Così mi hanno detto. Farebbe quasi ridere, se tu potessi vederlo coi tuoi occhi.


So che c’è una quantità di alcolici sufficiente a farti andare in coma etilico e, se poi sei particolarmente sfortunato, a farti anche morire. Il mio problema è quanto poco apprezzo la perdita di controllo, oltre a trovarla poco intelligente. E’ proprio vero quando dicono che l’ignoranza e la stupidità sono una benedizione; a quelli come me rimane solo di essere del tutto consapevoli che non importa quanto alcol beva, mi fermerò sempre prima di perdere lucidità e questo non sarà mai abbastanza a scordarmi che Oda Sakunosuke ha camminato su questa terra. Ci crederesti? Potrei fare pena persino a Mori-san, se leggesse queste parole su una carta che le vedove macchierebbero di lacrime e che io invece ho solo accartocciato troppe volte perché sia comodo scriverci ancora su.


Vorrei


L’Agenzia è quel posto che per chi è stato abituato a


Cosa mi risponderebbe Mori-san se gli chiedessi di nuovo


Odasaku, quando mi hai detto non sarei stato in grado di colmare quel vuoto era un consiglio o era una vendetta? A volte credo tu mi abbia maledetto per il resto dei miei giorni A volte penso di sapere la risposta, altre no.


Arriverà un momento in cui butterò questo foglio.
Un attimo in cui vincerò ogni pensiero logico nella mia testa ma, soprattutto, ogni fastidiosa e superflua emozione che dovrebbe rendermi umano, quello che non sono mai stato ma tu hai insistito col farmi diventare. In giorni come questo, Odasaku, quelli senza rilevanza particolare se non di essermi svegliato e aver avuto la sfortuna di un pensiero fisso scatenato dalle più insulse piccolezze della quotidianità, penso a quando possa essere successo. Poi lo realizzo: è stato lento, inesorabile, un veleno iniettato con noncuranza e che non ha fatto altro che farmi marcire dentro e costringermi a diventare qualcosa di diverso. E’ una seconda pelle in cui mi hai imposto silenziosamente di entrare, costringendomi a una muta che non avevo preventivato. E’ un’eredità non richiesta che non sono in grado di gestire e che tu mi hai messo tra le mani, impedendomi di rifiutarla.
Non c’è niente di peggio di un lavoro lasciato a metà, Odasaku. Pensavo che uno sopravvissuto tra i ranghi della Port Mafia lo sapesse.


Quanta ironia c’è in me che raccatto sulla riva del fiume - se volessimo metterla nel modo romantico che tanto avresti saputo apprezzare tra le pagine di un libro - un orfano? Questa sarebbe stata una cosa da te.
Atsushi-kun sarebbe stato una cosa te.
Sareste stato il duo più stupido di tutta l’Agenzia e quello che alla fine, rischiando anche troppo per persone di cui non sappiamo quasi nulla se non le tragedie, avrebbe salvato la situazione. E le persone. 

O sareste morti come i due troppo umani che siete.


Sono mesi che non riprendo questa lettera che ormai non ha nemmeno molto senso scrivere, visto che quel che c’è da dire, tendo ormai a raccontartelo quando vengo a trovarti.
Ma mi è tornata in mente mentre Kunikida-kun continua a chiamarmi al telefono per urlare di essere qui sotto ad aspettarmi– come se non lo sapessi. E’ solo divertente farlo arrabbiare, cosa posso farci?
Mi ha fatto pensare a come, più passano gli anni, più credo che questo posto sia come qualcosa che tengo da parte per te, per un giorno in cui verrai a riprenderti qualcosa che mi hai solo lasciato temporaneamente perché la curassi al posto tuo. Lasciami dire, Odasaku, che la tua fiducia non è esattamente ben riposta.

Dopo anni, però, credo di essere un passo più vicino a quello che hai visto e che io ancora non riesco a inquadrare del tutto.


Sai cosa penso, Odasaku? A come, ora, so che potrò finalmente in–


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Prompt: punto di non ritorno
Missione: M1 (week 2)
Parole: 2171
Rating: gen
Warnings: spoiler manga (personaggi), confession







Se anni fa gli avessero chiesto se pensava avrebbe frequentato l’università, Sigma avrebbe risposto che era stato già abbastanza fortunato da avere un tetto sopra la testa per poter pretendere una cosa simile. D’altra parte è sempre stato abbastanza convinto che sarebbe potuta andare molto peggio a qualcuno che, come lui, è stato figlio di nessuno da quando ha memoria. Poi, come se un orfanotrofio con una direttrice pronta a tutto per i suoi ragazzi non fosse stato abbastanza, Sigma ha esaurito tutta la sua fortuna - o almeno lui crede - quando Atsushi è entrato nella sua vita. 


Si ricorda bene quando Atsushi è arrivato, un corpo minuto di neanche nove anni che si portava dentro più terrore di quanto avrebbe dovuto. Sarebbe dovuto essere difficile per entrambi fidarsi a sufficienza da potersi avvicinare, senza passato uno, con anni di abusi alle spalle l’altro - invece si sono ritrovati con una naturalezza inaspettata a condividere un letto prima, una stanza poi e ogni più piccolo segreto senza accorgersi di quel miracolo.


Sigma ha impiegato cinque anni a capire di provare un sentimento romantico per lui. A Gogol sono bastati cinque minuti. A volte è grato di averlo conosciuto non appena iniziata l’università; altre pensa sia un tentativo dell’universo di ricalibrare il suo flusso karmico. 


«Ah, Sigma, Sigma. Mio adorabile amico.» pronuncia Gogol scuotendo la testa nell’apprendere che no, Sigma non si è dichiarato. Non ancora. Ma se è per quello Sigma crede di non aver nemmeno deciso se voglia davvero farlo.


Gogol gli ha dato appuntamento alla caffetteria meno affollata delle tre che gravitano intorno all’università. E’ un posto carino e accogliente, luminoso e ben arredato, un locale in cui persone come Gogol sembrano essere sempre e immancabilmente a loro agio, come se fossero nate per stare in una sala a sorseggiare tè. La treccia gli scivola morbida sulla spalla sinistra e l’abbigliamento è impeccabile. Irradia una sicurezza nei suoi mezzi che per uno come Sigma è impensabile. 


Da quando Gogol lo ha avvicinato senza che Sigma potesse davvero impedirglielo hanno avuto diverso tempo per conoscersi e, arrivati a questo punto. Sigma crede di essere quantomeno riuscito a individuare delle implicite regole di sopravvivenza fondamentali. 


Primo: è del tutto normale, a volte, avere la sensazione che Gogol voglia ucciderti nel sonno. A dispetto di ciò, non si sporcherebbe mai i vestiti e, se volesse commettere un crimine, forse cercherebbe di nasconderlo. Spera. In questo caso restare in posti mediamente affolati dovrebbe essere sufficiente.


Secondo: Gogol si infastidisce e irrita facilmente. Un momento prima sembra entusiasta di qualcosa che, l’attimo dopo, lo ha già annoiato ed è una ragione di irritazione. In quelle fasi Sigma ha imparato a modellarsi sull’umore di Gogol perché stare dal suo lato buono è decisamente meglio che stare da quello cattivo. La vendetta di una persona può avere conseguenze negative, ma quella di Gogol teme potrebbe essere terrificante. 


Terzo: a discapito del punto due, Gogol ha fissazioni che possono durare mesi interi. Ad esempio, il suo interesse per la presunta situazione romantica di Sigma. Da quando se ne è accorto non c’è stato un giorno in cui non si sia informato riguardo quella dichiarazione che Gogol pensa essere imminente e che, invece, Sigma vorrebbe avere la forza di dirgli che non avverrà mai.


«Allora?» lo incalza Gogol dopo aver abbassato la tazza di tè da cui ha sorseggiato la bevanda calda fino a ora «Quali novità hai da raccontarmi?»


Lo guarda con il malcelato entusiasmo di chi sta evitando di tempestarlo di domande solo per fingere di avere una decenza. Sigma vorrebbe poter evaporare sul posto, ignorando l’imbarazzo che prova e il profondo disagio di fronte al pensiero che Gogol sia il suo… confidente sentimentale. Abbassa lo sguardo sul piattino con la fetta di torta ordinata poco prima, la forchettina nella sua mano che pungola la punta sporcandosi di crema di cioccolato. 


«Non molto…» mormora, percependo lo sguardo di Gogol su di lui tanto quanto il suo giudizio. Il sospiro che sente uscire dalle labbra del suo interlocutore preannuncia già qualcosa di molto specifico, ossia lo scatenare quella parte di Gogol che a volte fa venire voglia a Sigma di nascondersi. La sua unica certezza è che alla fine della giornata gli saranno stati dati almeno dieci consigli e lui non avrà la forza di seguirne neanche uno.


«Lascia che ti spieghi come uscire da questo fastidioso impasse, Sigma.»


*


Non vuole credere di aver ceduto ed essersi lanciato in questa situazione senza un paracadute che lo salvaguardi un minimo dal fallimento totale a cui è destinato. Lui e Atsushi hanno l’abitudine di vedersi quando gli orari glielo concedono, ossia principalmente quando Sigma non ha lezioni e Atsushi è libero dal lavoro che ha scelto di fare al posto dell’università. Ne hanno parlato tanto, mentre Sigma intimamente sperava di poter condividere anche quello con Atsushi, come una piccola scialuppa di salvataggio da avere sempre al proprio fianco - ma ha capito, alla fine, che non sarebbe stato il percorso giusto per Atsushi e che era stato fortunato a trovare qualcosa di interessante e stimolante da fare, oltre a un datore di lavoro corretto e onesto come Fukuzawa. 


Sigma ha anche pensato che, dopotutto, lo strappo sentito al pensiero di non percorrere lo stesso percorso di Atsushi sebbene solo in parte potrebbe essere stato solo suo. Un malessere emotivo non condiviso, perché in fondo Atsushi non ha bisogno di lui quanto è invece vero il contrario.


Si vedono spesso, quando possono, e forse per questo Sigma ha quasi l’assoluta certezza che se non dirà niente questa potrà passare come un’uscita tra le tante, un incontro non così diverso da qualsiasi altro. Atsushi lo raggiunge con qualche minuto di ritardo e a Sigma non potrebbe importare meno, quando il nodo del nervosismo si scioglie con una facilità imbarazzante al vedere l’altro. Atsushi lo fa sentire a suo agio, lo fa sentire giusto, un pezzo perfetto che non è mai stato. E’ come avere un posto assicurato, un’origine a cui appartenere e non c’è cosa più difficile da trovare per chi è senza radici e senza nessun ricordo ad aiutare a cercarne da qualche parte, fosse anche per tutta la vita.


Lui e Atsushi hanno superato da diversi anni lo scoglio di un contatto fisico più presente di quanto di norma potrebbe esserlo tra due amici. Forse perché il loro avvicinamento è avvenuto da giovani, è risultato naturale e ora non c’è nessuna forma di fastidio o di disagio nel toccarsi in modo casuale, nel far sentire all’altro la propria presenza non solo con le parole. Sarebbe perfetto se Sigma non avesse una piccola voce nella testa che urla e si agita ogni volta che la mano di Atsushi sfiora la sua mentre camminano fianco a fianco, come ora. Gogol dice che è bastato vederli insieme una volta per capire subito di non star guardando due amici d’infanzia. Il pensiero di essere così facile da capire, di lasciare i propri sentimenti così privati e preziosi alla mercé di chiunque è qualcosa che invece spaventa Sigma da morire.


La mano di Atsushi si posa sul suo avambraccio mentre i suoi piedi si fermano e una leggera pressione lo obbliga a fare lo stesso. Quando alza lo sguardo su di lui, confuso e sorpreso, Sigma trova la traccia evidente della preoccupazione e il senso di colpa gli serpeggia in corpo da subito, da prima ancora che Atsushi pronunci quel «Cosa c’è che non va?» di chi non deve chiedere se c’è qualcosa, perché sono oltre la fase in cui hanno bisogno di parlare per capirsi. Gli fa venire in mente quando i primi anni insieme in orfanotrofio hanno imparato a fidarsi l’uno dell’altro, ciecamente, tanto da potersi promettere di esserci sempre. Di voler far parte della vita altrui, non importa in quale forma. Se Sigma fosse più coraggioso si aggrapperebbe a queste parole e le renderebbe la propria armatura, indossandola così da poter dire ad Atsushi la verità senza paura di oltrepassare un limite, di raggiungere un punto di non ritorno oltre il quale esiste solo il rischio di perdere la persona più importante di tutte.


Lo sa bene di essere un codardo, Gogol glielo ha detto senza mezzi termini e senza alcun riguardo per il tatto: preferisce trincerarsi dietro l’amicizia di una vita pur di non rischiare il tutto per tutto e provare a ottenere quello che in cuor suo non ha smesso di desiderare da anni. Ma la figura di Atsushi è qualcosa a cui non sa se sarebbe mai in grado di rinunciare senza perdersi completamente, senza tornare a quando era una presenza casuale a cui nessuno sapeva spiegare perché fosse lì.


Sigma non è abituato a essere voluto, desiderato. E questo gli impedisce di capire come potrebbe essere mai possibile che qualcuno - che Atsushi - possa avere per lui sentimenti del genere.


«Gogol dice–» prova a cominciare, sorprendendo se stesso e non perdendosi l’espressione infastidita, anche se fugace, che si forma sul volto di Atsushi. Non vanno molto d’accordo lui e Gogol, sebbene si siano incontrati non più di una manciata scarsa di volte. Sigma non ha mai indagato e Atsushi non gli ha mai detto nulla, perciò ha sempre considerato potesse essere qualcosa di impatto, senza una spiegazione logica. Ora come ora vorrebbe poter ingoiare quel nome appena pronunciato e tornare sui suoi passi.


«Mh, insomma» tenta di nuovo, portando entrambe le mani a lisciarsi il cappotto addosso, lungo i fianchi, senza che ce ne sia davvero bisogno. Un gesto di nervosismo che spera Atsushi non noterà e, al tempo stesso, è consapevole sia impossibile da non notare quando tra loro non ci sono nemmeno tre passi di distanza «questa cosa è così stupida…» mugugna infine, decidendo di ritirarsi ancora prima di aver perso la battaglia o di aver scorto sul viso dell’altro un singolo segno di fastidio, di rifiuto. Però Atsushi è un animo troppo buono, sensibile alla sofferenza degli altri più di quanto lo sia verso la propria, per lasciarlo lì ad affogare nei suoi pensieri bui.


Le sue mani raggiungono quelle di Sigma, per fermarle in quel vagare frenetico e solitario sulla stoffa del cappotto; lo fa con un gesto gentile, quasi conciliante, come quando erano ragazzini e non facevano altro che cercare di raccogliere i cocci delle proprie esistenze perché l’altro non ne perdesse neanche uno e, volta dopo volta (delusione dopo delusione), riuscisse a rimetterli insieme e perdersi sempre un po’ meno. Sigma ricorda vagamente - perché proprio adesso non lo saprebbe spiegare - di quando di notte faticavano a prendere sonno, e si raccontavano piccoli dettagli a vicenda. Sigma aveva insistito per cominciare e quando Atsushi gli aveva chiesto perché, aveva risposto l’unica verità che conosceva: “la direttrice dice che anche se non so da dove vengo e non ricordo chi sono, se qualcuno lo fa al posto mio non dovrò mai avere paura di perdermi ancora. E io non voglio che ti perda, Atsushi.


«Non c’è niente di stupido nei tuoi pensieri o nei tuoi sentimenti, Sigma.» gli dice Atsushi, perché lo salva continuamente, più di quanto Sigma pensi di meritare «Qualunque cosa sia, me la puoi dire.» aggiunge, incoraggiante, offrendogli un sorriso che conosce a memoria e di cui saprebbe tracciare i contorni anche a occhi chiusi. Gli è così caro da volerglielo dire con tutte le parole del mondo. Eppure è ancora la sua paura più grande, dire quella parola di troppo.


«Sarebbe… così brutto se uno come me, che non ha niente, volesse» volesse, che parola sbagliata. Può sperare, forse, chiedere ma non volere «sperasse di poter almeno… se io potessi almeno avere per te qualcosa che– sei ancora la persona più importante che ho, solo non…» 


E’ così difficile. E’ il limitare di un burrone dove non c’è risalita né modo di salvarsi una volta caduti. Ammettere di avere un sentimento potenzialmente sgradito per qualcuno - per Atsushi - è terribile.


«Solo non come un amico. Non come un fratello.» mormora nella vergogna, nel disprezzo per aver appena preso una cosa delicata, fragile e preziosa e averla calpestata con tutta la forza di cui è capace un corpo. Lo fa sentire fisicamente la persona peggiore della terra. In un istante è di nuovo un nessuno che non è stato voluto mai, forse.


Però la mano di Atsushi è ancora lì. E’ ancora sulla sua, gliela stringe piano, la prende meglio e un dito ne accarezza il dorso. Non sono più amici, non sono più fratelli, Sigma quasi lo percepisce nell’aria - ma non sa cosa sono, per scoprirlo dovrebbe alzare lo sguardo, capire se questo punto oltre il quale si è spinto contro ogni sua stessa previsione o precauzione presa anno dopo anno abbia fatto un danno irreparabile o meno.


Atsushi non lo lascia andare. Nel silenzio di un’assenza di risposta Sigma alza lo sguardo, incapace di sopportare oltre la pressione, quasi sentendo la voce di Gogol rimproverarlo nelle orecchie perché sarebbe dovuto essere diverso - conta l’atmosfera, e lo stile, dovresti scegliere un posto speciale e a quel punto…!


Incontra lo sguardo di Atsushi e, timidamente, gli stringe la mano anche lui. 

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Punto di non ritorno
Missione: M1 (week 2)
Parole: 7618
Rating: Mature
Warnings: tematiche delicate, accenni al suicidio, accenni all’uso di droghe, violenza domestica, psycho-pass!au







Ci sono pochi ricordi che Dazai ha della sua infanzia, ma sono tutti estremamente vividi. Nella maggior parte di questi la protagonista è sua madre, nell’assenza totale di un padre di cui invece non conosce nemmeno il viso. Non ha nemmeno bisogno di concentrarsi troppo, per esempio, per ricordarsi di quando aveva otto anni e sua madre lo stava portando al parco, una cosa degna solo delle occasioni speciali come un ottavo compleanno. 


Il caldo di Giugno ha costretto sua madre a indossare un vestito come non gliene vedeva da un sacco di tempo e a tirare su i capelli, anche se in casa li tiene solo sciolti; gli tiene la mano, una cosa molto materna che ultimamente fa poco, e cammina con un passo né troppo frettoloso, né troppo lento. Mentre aspettano al marciapiede che il semaforo pedonale diventi verde Dazai si guarda intorno, curioso come la maggior parte dei bambini. Uno degli edifici più grandi che si affaccia sull’incrocio ha uno schermo gigante che manda in onda le ultime notizie e un uomo in giacca e cravatta sta spiegando che un economista famoso ha appena pubblicato qualcosa di importante. 


Quando alza lo sguardo verso sua madre, Dazai la vede fissare lo schermo senza accorgersi che il semaforo a breve diventerà verde. Non la richiama per non disturbarla, e osserva il suo sguardo muoversi dallo schermo alle telecamere che si trovano proprio accanto alla luce verde ancora spenta che tiene i pedoni ordinatamente in attesa di poter attraversare. La vede modersi il labbro inferiore e assottigliare gli occhi in un modo che lui ha imparato ad associare all’irritazione, anche quando nessun’altra parte del suo corpo la tradisce nello stesso modo.


«Osamu,» lo chiama sua madre ma lui le sta già rivolgendo tutta l’attenzione di cui è capace «vedi quella cosa vicina al semaforo? Quella che sembra una telecamera?» gli domanda e Dazai lo sa, perché lo ha studiato a scuola quando fanno educazione civica. Annuisce, quindi, e le dice che serve per misurare una cosa chiamata “coefficiente di criminalità” così da sapere se qualcuno ha troppa paura e sta per fare una sciocchezza. Dazai lo sa, lo ha imparato da un libro letto di nascosto e su cui non avrebbe dovuto posare le mani prima di altri otto anni che non si tratta di paura e di sciocchezze, ma di stress e crudeltà e cose considerate crimini contro la legge. Alcuni troppo gravi per essere recuperabili.


Sua madre abbassa lo sguardo su di lui e incurva le labbra in quello che a lui sembra un sorriso, adesso, ma presto capirà essere uno stirato tentativo di trattenere una risata isterica.


«Sì, i maiali del governo lo chiamano coefficiente di criminalità,» dice sprezzante, dando un vago strattone alla sua mano quando il semaforo diventa verde e loro cominciano ad attraversare «ma è solo una trappola. Un punto di non ritorno. Tuo padre lo ha superato e ci ha abbandonati. Tu non lo devi superare mai, Osamu, hai capito? Tu non mi devi lasciare come ha fatto tuo padre.»


Forse il motivo per cui è facile per lui ricordare quel compleanno è che, dopo di quello, non ce ne sono stati altri senza quella che il Sybil System etichetta come “violenza domestica”.


*


Non vanta di essere un esperto quando si tratta di certi protocolli, ma Dazai è abbastanza sicuro sia piuttosto raro che un Ispettore decida di prendersi la briga di parlare con qualcuno per motivi diversi dal volergli estorcere informazioni. Qualcosa di cui lui è sprovvisto, non essendo stato parte di un grande piano andato male né di qualche associazione a delinquere che vuole cambiare il mondo o almeno quella piccola e ristretta sfera di esistenza che è il Giappone così come lo conoscono.


Eppure davanti a lui c’è un Ispettore. E’ giovane, sì e no di una manciata di anni più di lui, uno che non sembra granché abituato a quel lavoro ingrato per cui Dazai è convinto si causi la calvizia precoce alle persone. Ha un nome - quello con cui si è presentato, Oda Sakunosuke - che non gli dice nulla, e questo lascia intendere non si tratti di qualcuno con un record di catture né protagonista di gesta eroiche. Conosce qualche nome di Ispettori, gente di cui si è preso gioco come Kunikida Doppo e altri famosi in cui preferirebbe non imbattersi affatto, come Fukuzawa Yukichi. Oda Sakunosuke, però, no.


Gli sta seduto davanti a fissarlo e Dazai comincia a chiedersi quanto tempo ancora passeranno in silenzio a guardarsi, con un tavolo a dividerli e una sedia piuttosto scomoda per chi come lui ha addosso una veste offerta gentilmente dalla clinica di recupero in cui lo hanno rinchiuso.


Oda picchietta un paio di volte sul suo orologio perché lo schermo olografico gli mostri quelli che, con ogni probabilità, sono i dati personali di Dazai accompagnati da qualche riassunto molto schematico del perché si trova lì. Potrebbe quasi recitarlo a memoria, quel report elettronico - e non solo perché lo ha fatto effettivamente hackerare una volta, sia chiaro - ma decide di attendere ancora. Dopotutto, al contrario di Oda e dei suoi casi di certo noiosi ma necessari alla gavetta, Dazai non ha molto di meglio da fare che tornare alla seduta con uno psicologo a cui nessuno ha spiegato che non per tutte le follie esiste rimedio.


Quando finalmente l’Ispettore instaura di nuovo un contatto visivo con lui la prima domanda che gli fa è: «Perché uno della tua età e con un punteggio così alto nella graduatoria del Sybil System arriva a un passo dall’essere un criminale latente da esecuzione?»


Dazai gli scoppia a ridere in faccia.


*


Una teoria interessante che non si sa quanto sia farina di uno studioso e quanto, invece, un passaparola su internet divenuto nozione sostiene che ogni persona passa tre fasi nei suoi rapporti con i genitori. Durante l’infanzia li considera eroi con tutte le risposte, nell’adolescenza l’istinto di ribellione vince sul buon senso e trasforma i genitori in persone che non capiranno mai e infine, da adulti, si rimpiange di non aver ascoltato di più i loro consigli o di non essrsi messi di più nei loro panni.


Si imbatte in questa teoria per puro caso, leggendola in un blog online quando l’estate con le sue giornate più lunghe sta prendendo piede e mancano una manciata di ore alla fine del suo quattordicesimo compleanno. Il posto non è il locale migliore in cui uno della sua età possa andare - ha capito quasi subito di non poter cercare la pulizia nei bassifondi della città più di quanto possa cercarci la legalità.


Per la media il bar Lupin è una reggia. Ci si è infilato per caso ma ci è tornato per scelta; il padrone è un uomo, Hirotsu, che sembra aver vissuto già troppe vite per farsi fregare da questa. Finché Dazai non gli crea problemi non ha ragione di mandarlo via - ogni tanto prova a chiedergli quando studia, se passa lì la maggior parte del suo tempo quando non può neanche fare nessuna delle attività principali del locale: bere alcolici, rimorchiare qualcuno da portare sul retro o fare affati che vanno dallo scambio di informazioni a quello di cose molto meno legali. Così Dazai ha cominciato a portarsi dietro qualcosa da leggere, sempre.


Il giorno in cui trova questa teoria il bar Lupin è semivuoto, perché di recente il bureau con i suoi Ispettori e i loro cani da guardia si è fatto vedere nei paraggi, e in casi come questo sono pochi a voler scherzare col fuoco facendo affari illegali nel posto sbagliato. La luce soffusa e il legno scuro, anche se rovinato, fanno sembrare l’ambiente più caldo di quanto sia in realtà. Una volta, tanto per riempire il silenzio, Hirotsu gli ha detto che se il locale fosse stato dalla “parte giusta”, di certo avrebbe messo uno dei giradischi che andavano una volta e che ora sono pezzi di antiquariato per chi ha troppi soldi e pochi modi di spenderli.


Nel locale, però, risuona la musica di un lettore elettronico che di romantico ha ben poco.


Ci sono poche persone oltre lui e Hirotsu: un ragazzo giovane, anche se più grande di lui, con un taglio di capelli discutibile e degli occhiali da sole con cui Dazai non ha idea di come si possa vedere in un posto poco illuminato come quello. Se ne sta al bancone a blaterare fin troppo, se con Hirotsu o da solo non ne è sicuro. In un angolo della piccola sala c’è un uomo che Dazai vede spesso, capelli lunghi e lineamenti non del tutto giapponesi, perennemente vestito come se fuori facessero cinque gradi anche in piena estate. E’ un eccentrico con cui ha scambiato un paio di sguardi prima di decidere di tenersene alla larga. L’unica di cui si sia sforzato di ricordare il nome è la ragazza che sta uscendo, capelli rossi raccolti e abiti tradizionali che stonerebbero persino in città nei quartieri ricchi, figurarsi lì nella bassa periferia. Ozaki Kouyou. La prima volta che si sono incontrati gli ha rivolto un sorriso al saccarosio che non le ha mai raggiunto lo sguardo.


Dazai tende a non fidarsi di chi riesce a tenere lo sguardo gelido mentre sorride, specialmente se sono donne. Lo fa anche sua madre, prima di avere una crisi.


«Ragazzino!» lo chiama il tizio con gli occhiali tremendi dal bancone, mentre in poco più di un soffio Hirotsu lo ammonisce di lasciarlo leggere in pace. Quello sventola una mano, pronunciando una frase sulla linea di “e non lo mangio mica, Hirotsu-san!” prima di rivolgersi di nuovo a lui e fargli cenno di avvicinarsi. Dazai soppesa l’idea e decide di scuotere la testa. Soddisfatto, Hirotsu gli fa un cenno con il capo prima di dirgli: «Aspetta lì, ti porto qualcosa.»


Il rumore del minifrigo che Dazai sa essere subito sotto il bancone, leggermente sulla destra, è coperto quasi del tutto da quello della porta e dal lieve scampanellio che dà l’illusione di star entrando in un localino quasi di classe, frequentato da gente per bene. Dazai sposta lo sguardo dal blog che stava leggendo per vedere un uomo che così, d’impatto, gli ricorda suo padre per come lo ha conosciuto dai racconti. Uno di quelli da cui sua madre lo ha messo in guardia decine, centinaia di volte: quelli che a un certo punto impazziscono, ed è meglio lo facciano, perché quando non succede allora ti ammazzano nel sonno come tuo padre ha fatto con la puttana che si portava al letto.


Hirotsu gli si rivolge chiamandolo “Mori-san” ma, per quanto ne sa Dazai, potrebbe anche essere un nome falso. Ha un sorriso affabile sulle labbra come potrebbe averlo il tuo medico di fiducia, mentre passa accanto al tavolo dove se ne sta Dazai e gli lancia niente più di uno sguardo; si ferma solo perché Occhiali Brutti lo richiama di nuovo con un «Ragazzino scorbutico!» e Dazai aggrotta la fronte, fa schioccare la lingua contro il palato con fare seccato e porta lo sguardo su di lui solo per dirgli «Lasciami stare, Scodella.» 


Essere saccenti non è furbo. Questo Dazai non lo ha ancora imparato perché con sua madre non c’è ancora furbizia che renda le cose migliori se non aspettare si sia sfogata e si sia fatta passare la crisi di nervi. O che abbia preso le pasticche con cui, onestamente, Dazai non sa se finirà con il guarire o con il farsi uccidere visto che non ha idea di dove le prenda né da chi. Se siano una medicina o qualcosa di cui non conosce ancora il nome, nonostante la sua non sia l’infanzia di un ragazzino a cui è permesso conoscere un mondo pulito.


Prima che se ne accorga ha una pistola sotto il mento e, con la stessa velocità, Occhiali Brutti se ne ritrova una puntata alla testa da dietro il bancone. Hirotsu gli intima di non fare casini nel suo locale e Dazai per un momento pensa che se la farà sotto perché un conto è abituarsi a incassare cinghiate, un’altra è avere una pistola quasi infilata in bocca a quattordici anni. L’uomo chiamato Mori osserva la scena con l’interesse di un bambino allo zoo per la prima volta.


Il ragazzo degli occhiali gli dice «Ringrazia che Hirotsu-san ti ha preso in simpatia.» e qualcosa dentro Dazai si smuove, quasi all’improvviso avesse una bestia che può solo o divorare lui, o divorare gli altri. Non c’è niente di logico o di lucido nel modo in cui gli prende il polso e lo stringe per portarlo a tenere la pistola puntata dov’è, mentre ha la gola secca ma sente i muscoli del viso tendersi in un sorriso che è una smorfia grottesca e niente di più. Dazai avrà pure quattordici anni, che è una vita schifosamente breve, ma nessun adulto si è preso la briga di fare un cazzo per lui fino a ora e non ha bisogno di Hirotsu come eccezione alla regola.


«Sparami,» lo sfida, arrogante e saccente perché di infanzia bruciata non ce n’è mai abbastanza a quell’età e di incoscienza si è pieni «sparami un colpo in fronte, così almeno mi ammazzi di sicuro.» 


Nessuno spara, quel giorno, e Dazai impara la falla nella teoria degli adulti perché è come per le piante: se non le annaffi, non faranno fiori. Se gli adulti non arrivano mai nemmeno a essere eroi con tutte le risposte, non può esserci nessuna seconda fase né una terza.


*


L’Ispettore Oda si presenta più di una volta e in ogni occasione tenta un approccio con la conversazione. Dazai deve riconoscere una certa dedizione, qualcosa che lo rende interessante ai suoi occhi, anche se non abbastanza da dosare quell’arroganza appresa fin troppo presto ma che ha imparato almeno a rendere più sibillina in base a chi si trova di fronte. 


All’inizio Oda si presenta una volta a settimana, in genere il mercoledì. Le domande passano dall’essere di routine per un qualsiasi poliziotto nel mezzo di un’indagine a qualcosa a metà tra il personale e il professionale. Va dato atto a quest’uomo che gli siede di fronte, settimana dopo settimana e poi ogni tre giorni, che la sua pazienza sembra senza limiti. Ogni tanto Dazai ha la sensazione di essere trattato come un bambino, ma ci sono anche visite durante le quali Oda passa la maggior parte del tempo in silenzio o a fare domande degne di una riflessione filosofica sulla vita. 


«Quanti Enforcer si porta dietro, Ispettore?» Dazai gli chiede la terza settimana di visite, mentre sono lì a chiacchierare di niente di davvero utile. Oda lo occhieggia, neanche volesse indovinare il perché della domanda solo guardandolo, ma poi con tutta la tranquillità del mondo risponde: «Dipende dal lavoro.» «E oggi quanti ne hai dietro?»


Oda ci pensa un attimo, forse perché non si fida o forse perché deve decidere quanto danno può arrecare quell’informazione. Alla fin fine, però, Dazai è chiuso dentro una clinica dalla quale al momento sarebbe ben difficile uscire, non senza un più che discreto dispendio di energie. E per quanto lo riguarda, non c’è niente di troppo entusiasmante ad aspettarlo fuori - niente di tanto interessante come quello che c’è dentro.


«Uno solo, in macchina.»


Dazai lo guarda e potrebbe scoppiare di nuovo a ridergli in faccia, oppure potrebbe dire all’Ispettore di non sottovalutarlo, visto che è quasi un criminale latente senza speranza di cui il mondo cerca di occuparsi senza sapere se avrà successo o meno. Però non lo fa.


«Com’è che ti chiami di nome, Ispettore?»
«Sakunosuke.»
«Oda Sakunosuke.» ripete Dazai, occhieggiandolo mentre si poggia contro lo schienale della sedia e incrocia le braccia dietro la testa, come un ragazzino distratto che a scuola vuole dondolarsi avanti e indietro per far passare più in fretta il tempo di una noiosa lezione: «Da quanto fai l’Ispettore? Un mese? Un anno?» lo provoca, perché nella sua esperienza non ce ne sono di così pronti a fidarsi del prossimo o a prendersi a cuore casi disperati.


«Due anni e mezzo.» replica. Giovane, pensa Dazai, considerando che a occhio e croce non pensa abbiano questa grande differenza di età. Non ha grande importanza, ma è abbastanza interessante da farlo tornare a sedersi composto. Poggia le braccia sul tavolo freddo e il mento sopra di esse, l’occhio non coperto dalla benda a scrutare l’uomo davanti a lui.


«E come mai sei diventato Ispettore? Per sconfiggere il crimine? Salvare le persone? O perché il Sybil System ti ha detto che dovevi fare questo lavoro?»


Oda Sakunosuke non cade mai in nessuna trappola. Ogni goccia di arroganza e provocazione che Dazai versa per lui non viene mai bevuta e la risposta è sempre di una calma quasi innaturale. Un occhio poco attento, un suo qualsiasi coetaneo ad esempio, potrebbe persino pensare che l’Ispettore non sia troppo sveglio ma Dazai è sopravvissuto a Mori Ougai. Non ha bisogno di vedere in un uomo il fuoco della violenza per sapere che non è un imbecille.


«Per salvare le persone,» replica Oda, in un’inaspettata sincerità, tutto considerato «e il Sybil System aveva registrato un punteggio alto abbastanza. Non quanto il tuo, comunque.»


Ah, gli si forma subito un pensiero in testa e un mezzo sogghigno sulle labbra, allora risponde alle provocazioni, se vuole.


«Il Sybil System dice tante cose, Ispettore. Dice anche che devo stare in una clinica a parlare con uno psicologo che probabilmente farò impazzire entro un mese, perché così potrò stare bene ed essere reintegrato nella società. Ma lo sappiamo tutti come finisce, giusto? Quante persone ha visto entrare in un posto come questo e uscirne? E se sono usciti, quanti sono diventati un apporto alla società?» lo interroga, a ruoli invertiti in un gioco mentale che non è ancora sicuro l’Ispettore abbia deciso di accettare per quello che è. Per Dazai, è un modo interessante di passare il tempo. Non è sicuro per Oda possa essere più di uno spreco di tempo.


L’uomo di fronte a lui resta in silenzio, lo scruta prima di cominciare a sbottonare i polsini della camicia e ad arrotolare le maniche, scoprendo gli avambracci.


«Una buona percentuale.»
«Oh, una buona percentuale. Va bene, allora diciamo la metà? Un cinquanta per cento. Sei bravo in matematica, Ispettore?»
«Andavo meglio nelle materie umanistiche.» è la risposta schietta di Oda, con la faccia di chi ha tacitamente detestato i numeri per molto tempo. A Dazai scappa d’istinto uno sbuffo divertito, un accenno di risata quasi sincera. 


«Va bene, io non sono ancora diplomato, possiamo fare il conto insieme.» dice, con una mezza scrollata di spalle per quanto la posizione permetta: «Prendiamo questa metà. Togli tutti quelli che sono usciti e ci sono ricaduti. Forse ne rimane un numero abbastanza alto, dicono che qui la riabilitazione funziona bene. Da questo numero ancora alto togli quelli che non sono riusciti a fare un lavoro non da casa. O quelli che, se escono, non possono fare più di un chilometro di strada.» specifica, tirandosi leggermente su con la testa e puntellando un gomito, così da potersi sorreggere il volto con la mano. Oda lo guarda ma non proferisce parola, e Dazai se lo aspettava che l’Ispettore volesse prima vedere dove stesse andando a parare.


«Adesso sta rimanendo una percentuale più bassa di quella da cui abbiamo iniziato. Di queste persone che dovrebbero essere tornate perfettamente nella società, come dici tu, togli tutte le categorie che adesso ti elenco, va bene?» propone, ma non aspetta alcuna risposta per cominciare a sciorinare casistiche: «Persone che non hanno avuto figli per scelta. Persone che prendono psicofarmaci. Persone che non hanno ancora concluso il percorso con uno specialista. Persone che fanno un lavoro dietro le quinte. Persone che non hanno una relazione stabile. Poi escludi anche tutte quelle che sono diventate vittime di abusi di qualche tipo, soprattutto domestico, o che in generale tendono a essere soggette a pressione psicologica da un superiore o a ricoprire posizioni di poco conto nel loro lavoro. Togli tutte quelle che non hanno un animale domestico. Approssimativamente.»


Tocca a lui studiare Oda e lo fa per un minuto intero in cui nessuno dei due dice nulla. L’uomo forse aspetta la conclusione di quello che somiglia più a un monologo o a un ragionamento ad alta voce in cui non è davvero richiesto il suo contributo; Dazai aspetta di vedere sul suo viso il segno di chi, anche solo per riflesso, ha appena fatto mentalmente il calcolo che gli è stato richiesto. Quando scorge quel piccolo segno, facile da scambiare per una ruga di espressione, cambia di nuovo posizione: la schiena contro la sedia, un braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro poggiato sul tavolo.


«Il numero rimasto sarebbero le persone “reintegrate nella società”.» dice, mimando le virgolette con una sola mano «Pensa di essere sopra o sotto il 5%, Ispettore?»


Il silenzio di Oda è una risposta: sotto.


«Bene, siamo d’accordo!» esclama con falsa allegria, senza la minima traccia di entusiasmo genuino nello sguardo «Il Sybil System la riempie di stronzate. Ma gioisca! Ci riempie di stronzate tutti quanti.»


*


Il giorno in cui sua madre perde definitivamente il controllo per la prima volta è lo stesso in cui Mori lo avvicina con più di uno sguardo buttato lì mentre entra al bar Lupin. E’ una giornata invernale dei suoi sedici anni e sono già cambiate tante cose: all’interno del locale è almeno un anno che il tizio sempre vestito pesante anche in estate - Rimbaud - non si vede più. Dazai non lo sa per certo, ma non fatica a immaginare sia morto in qualche vicolo. Occhiali Brutti, che in un momento imprecisato ha cominciato a chiamare col suo nome (Kajii), va e viene ma molto più raramente di prima. Qualche nuova faccia si vede arrivare e andare nel retro del locale sempre in buona compagnia, donne o uomini. Qualcuno prova a portare della porcheria da svendere, ma Hirotsu è stato chiaro: non saranno nella parte rispettabile della città, ma droga nel suo locale non la vuole, poco importa di quale qualità sia.


Mori gli ha rivolto poche parole e molti sguardi, non troppo lunghi, ma Dazai sopravvive da tre anni nei vicoli fatti di malavita e disperazione, di avanzi di galera non degni nemmeno di avere gli occhi del Sybil System su di loro. Dazai non è mai stato portato sul retro da nessuno, anche se qualcuno ci ha provato; a un certo punto Hirotsu ha deciso che poteva lasciarlo a cavarsela da solo, ma sospetta l’uomo tenga la pistola a portata di mano lo stesso e che gli anni possono passare ma né la sua velocità né la sua mira ne soffriranno mai granché.


Poi un giorno Dazai entra dalla porta principale come sempre e trova Mori al bancone, una cosa che accade spesso. Tutto il resto però è una prima volta: il modo in cui Hirotsu sgrana gli occhi quando lo vede e impreca sotto voce, aggirando velocemente il bancone; come chiama a gran voce “Chuuya”, con sommo fastidio di Dazai - davvero, non ha voglia di sentirsi urlare nelle orecchie dalla persona con cui è meno compatibile sulla faccia della terra. E poi Hirotsu lo sta sostenendo, braccia sotto le ascelle e Mori appare dal nulla alle sue spalle. 


«Hirotsu-san, sul divanetto.» dà precise istruzioni, come il medico che si suppone sia. Dazai non ha mai capito se si tratti di qualcuno che è stato un dottore e poi è passato dal lato sbagliato, se sia sempre stato medico di chi i dottori d’élite non può permetterseli o se sia un ciarlatano con qualche nozione di primo soccorso. Poco importa a lui nello specifico, visto che non ha ferite mortali a discapito di quanto appaia malmenato.


Sputa fuori una mezza risata strozzata quando Hirotsu lo fa sedere e quello gli causa una fitta al fianco: «Hirotsu-san, avevi detto di essere un gentiluomo.» «Non è il momento, Dazai-kun.» lo rimprovera l’altro, ma il suo tocco si fa più gentile. Non dura molto, comunque, perché Mori prende in mano la situazione e Dazai deve ammettere che si aspettava un modo di fare molto più rude. Mori invece si lega con gesti veloci i capelli in un codino e poi lo spoglia senza troppi preamboli della maglietta che ha addosso, dando a Hirotsu ordini precisi su cosa portargli - acqua calda, asciugamani puliti e qualcosa che Dazai si perde nel rumore fastidioso che sente nelle orecchie. Il mobile del soggiorno non deve essere stato molto gentile con lui quando ci è finito contro.


Ci vogliono venti minuti perché il taglio sulla testa smetta di sanguinare e venga medicato per bene, perché Mori riconosca una costola incrinata e se ne occupi con una medicazione perfetta quanto quelle di un qualsiasi ospedale riconosciuto dal governo. Dazai porta una mano al viso, incontrando il bendaggio che gli copre un occhio e mettendo più o meno a fuoco quello delle braccia. Non azzarda a muovere troppo il busto, immaginandosi la fitta di dolore che potrebbe sentire.


Tossicchia, piano, ed è già sufficiente così.


«E dire che odio il dolore…» borbotta, convinto di essere stato lasciato a riposare ma sentendosi rispondere invece: «Interessante affermazione, Dazai-kun.»


Alza di poco la testa dal divanetto dove Hirotsu lo ha sistemato e riesce a inquadrare la figura di Mori, occupato a sistemare i suoi strumenti da lavoro nella borsa da medico che si porta sempre dietro. Ha ancora i capelli legati in un codino e il solito camice addosso. Lo sguardo che gli rivolge a Dazai non piace per niente: sembra quello di chi potrebbe ucciderlo in un secondo con un bisturi.


«Dico sempre cose interessanti, Mori-san.»
«Di certo non si incontra tutti i giorni un quattordicenne che sfida qualcuno che gli sta puntando una pistola contro. Né uno pronto a chiedere di essere ucciso.» fa notare Mori, divertito come un bambino di fronte a un’intera busta di caramelle tra cui ha solo l’imbarazzo della scelta. Dazai lo scruta, cercando di capire quanto sia consigliato interagire a lungo con un uomo così. Perché a un medico basta uno sguardo per capire la natura di alcuni segni su un corpo, e un medico abituato a destreggiarsi tra pazienti senza speranza o che assumono sostanze peggiori della droga per sopperire all’impossibilità di farsi curare legalmente è ancora più acuto.


«Kajii non avrebbe mai sparato davvero.» dissimula con un sorrisetto e un tentativo di scrollare le spalle «Mi ha illuso e abbandonato, Hirotsu-san dovrebbe smettere di farlo entrare qui.» si lamenta per una morte richiesta e mai concessa, quasi parlasse di una merenda saltata. Mori non dice nulla, finendo di pulire l’ultimo strumento prima di riporlo nella propria borsa e quando lo guarda, c’è un vivo interesse nel suo sguardo.


«Mi incuriosisce tutto questo tuo desiderio di morire, Dazai-kun. Forse non avrei dovuto curarti?» chiede con sincero interesse, una bestemmia sulle labbra di chi giura di fare il possibile e l’impossibile per salvare la vita chiunque vada da lui in cerca di aiuto.


Non sa perché, ma quello è il momento in cui ha la sensazione che Mori sappia più di quanto dovrebbe, più di Hirotsu, più di quanto Dazai possa accettare da chiunque - gli occhi di Mori vedono i suoi bendaggi e non vedono una rissa, né le conseguenze di azioni illegali di un ragazzino che gioca a fare l’adulto. 


Mori vede ogni singolo colpo di sua madre, vede la vergogna, vede un mondo incrinato e vede la trasformazione di una donna anche se indirettamente.


«Quando morirò, sarà qualcosa di veloce e indolore, sensei. Questo era solo un passo verso un punto.»


Dazai ha pochi ricordi della sua infanzia, ma tutti vividi: lui e sua madre chiusi nel loro piccolo appartamento nell’inverno di cinque anni fa e lei che ride e piange, piange e ride, poi gli dice non devi mai superare il punto di non ritorno, Osamu. Non devi abbandonarmi. Se mi lasci come tuo padre, ti ammazzo.


*


Non ci vuole un esperto del comportamento per sapere che il suo modo di portare Oda a presentarsi alla clinica è subdolo: sgattaiolare come avrebbe potuto fare altre mille volte, eludere la sorveglianza e gli infermieri, arrivare fino al tetto e mettersi dall’altra parte del parapetto minacciando di buttarsi di sotto se non potrà vedere l’Ispettore Oda è veramente da bastardi. Un vero peccato che Dazai non abbia scrupoli da offrire a chi lo etichetta come tale.


Immancabile come un cavaliere senza macchia e senza paura, Oda si presenta in poco tempo considerata l’assenza di preavviso di un matto che chiede di lui un attimo prima di lanciarsi dal decimo piano. Una morte veloce ma con alto rischio di non morire affatto e di distruggersi quasi tutte le ossa del corpo, con un po’ di fortuna - o sfortuna, dipende dai punti di vista. 


Dazai si sente chiamare mentre ha lo sguardo rivolto al tramonto e riconosce la voce senza difficoltà, dopo così tante ore a parlare di fin troppi argomenti rispetto a quanti di norma siano concessi a un Ispettore e un criminale latente. Volta la testa, cerca la figura di Oda da sopra la spalla.


«Ispettore!» lo saluta cantilenando «Non ti fidare di quello che dicono, non mi sarei davvero buttato. Ma sai come sono qui, con questa fissazione di dovermi per forza curare e salvare e bla bla bla.» commenta annoiato, oscillando avanti e indietro con solo le mani a tenerlo ancorato al parapetto. Gli unici due infermieri presenti fanno un sobbalzo, non sapendo se avanzare per afferrarlo o stare fermi per non rischiare che si butti sul serio. Oda rimane immobile, forse soppesando se Dazai voglia davvero lanciarsi o se sia solo un bluff. La difficoltà purtroppo deve stare nel fatto che, senza dubbio, nel file che lo riguarda deve esserci scritto delle sue tendenze suicide. Anche se quasi nessuna di questa è supportata da prove.


«Pensavo volessi parlarmi?»
«Pin pon! Esatto!» replica Dazai soddisfatto, occhieggiando gli infermieri «Ma è una chiacchierata privata, Ispettore.» aggiunge, in un invito a liberarsi degli altri due. Non c’è niente che non possa dire anche davanti a loro, a dire il vero, ma non sa mai se l’operatore sanitario davanti a lui può essere una conoscenza di Mori o meno e non vuole davvero prendersi il rischio ora e in una clinica dove potrebbero persino drogarlo. Oda capisce senza bisogno di ulteriori parole e fa un cenno agli infermieri di lasciarli da soli; Dazai rimane comunque dal suo lato del tetto, quasi a stabilire bene i confini e il suo posto sicuro su un cornicione.


Quando gli infermieri sono via, Oda lo osserva senza muoversi. Si deve aspettare qualcosa, un’epifania sul perché Dazai lo abbia fatto chiamare con questo stratagemma di cattivo gusto. Però Dazai non ha nulla di così sensazionale da offrire.


«Ispettore, i tuoi superiori ti permettono di perdere ancora tempo con me, quindi mi chiedevo: perché continui a venire quasi tutti i giorni? Non sono parte di un’indagine, non ci sono accuse di crimini a mie spese, solo un coefficiente troppo alto per una persona normale ma non abbastanza alto da farmi esplodere in mezzo alla strada, giusto?» chiede, non tanto per provocare stavolta, ma perché anche i giochi più divertenti alla lunga stancano e annoiano. Si vedono da più di due mesi ormai, settimane dopo settimane e giorni dopo giorni senza che ci sia una svolta di nessun tipo né nelle domande di Oda, né nel coefficiente di Dazai. Lo psicologo continua a cercare di tirargli fuori storie di traumi che lo facciano finalmente sfogare in un pianto liberatorio che non arriverà mai e Dazai ormai è stufo di continuare a prendersi gioco di quel povero uomo. Glielo rende troppo facile.


«Non ci sarà alcun bisogno di farti esplodere,» pronuncia Oda e la cosa grave è che ci crede sul serio «è per questo che ti hanno portato qui. Perché è una situazione recuperabile.» 


Se fossero solo parole per dargli speranza, Dazai in un certo senso la prenderebbe con filosofia. Davanti a lui c’è un impiegato del bureau, a cui hanno affibbiato un incarico tedioso che di sicuro nessun superiore voleva gestire, e cos’altro ci si può aspettare che dica se non le frasi fatte da copertina di giornale? Non ci sarebbe niente di inaspettato, un dialogo da manuale del buon poliziotto. Invece Oda Sakunosuke crede fermamente in quello che dice, come la peggior specie di Ispettore di cui si può incrociare la strada - quelli che pensano di star facendo del bene, di agire per il meglio, di poter salvare tutti o almeno la maggior parte delle persone. Quelli con abbastanza fortuna da restare vivi perché il Dominator gli permette di polverizzare un’altra persona in un secondo netto, quello necessario a premere il grilletto, se hanno abbastanza fegato per ignorare di star uccidendo qualcuno. Se sono abbastanza bravi da raccontarsi la favola che è necessario.


Se Dazai non avesse l’assoluta certezza del fatto che Oda deve aver letto il suo fascicolo almeno dieci volte, in tutte quelle settimane di dialoghi, se ne farebbe una ragione in una manciata di secondi. Farebbe spallucce, direbbe due bugie e una mezza verità per farlo contento, poi lo lascerebbe andarsene a casa sua tranquillo di aver fatto anche per oggi la sua parte. Ma Dazai sa che Oda conosce la sua situazione meglio di come potrebbe conoscere il libro preferito, letto così tante volte da aver consumato i bordi delle pagine. 


Abbassa lo sguardo verso il suolo, troppi piani più in basso rispetto al cornicione dove se ne sta meglio di un funambolo in attesa che lo spettacolo inizi; vede una macchina scura e due uomini in completo nero che non fatica a riconoscere come Enforcer. Uno dei due gli sta puntando contro un Dominator, ma Dazai non ha bisogno di fare domande per sapere che al momento se anche gli sparassero non esploderebbe in mille pezzetti di carne. 


Perciò Dazai ride: una risata contenuta, perché non vuole sembrare il cattivo di un film d’epoca, con l’ilarità malvagia e megalomane a uscirgli di bocca. Ma se la fa sfuggire tra le labbra, la lascia risuonare nell’aria così che attiri l’attenzione di Oda e lo faccia dubitare di aver appena fatto l’errore più grande di tutti.


«Andiamo, Ispettore Oda,» pronuncia dopo essersi girato abbastanza da poterlo guardare meglio di quanto farebbe da sopra la propria spalla ma senza dare la falsa speranza di voler tornare al sicuro sul tetto della clinica «lo sappiamo tutti e due che hai il mio fascicolo in quell’orologio di ultima generazione dove voi del bureau vi passate tutte le informazioni necessarie. Devo davvero dirti io perché sei qui?» lo interroga con fare scettico, e Oda lo guarda come Hirotsu lo ha guardato la prima volta che Dazai è entrato nel suo locale pieno di lividi, o come lo ha accolto la sua insegnante quando ancora si prendeva la briga di recarsi a scuola. Come lo ha guardato sua madre prima di impazzire dicendogli che è la copia sputata di suo padre. 


«Il Sybil System dice che sono adatto a fare l’Ispettore, vero? Il punteggio più alto tra i miei coetanei degli ultimi, non so, diciamo cinque anni. Però purtroppo per il Sybil sono come una mina vagante che sarebbe ideale esplodesse nel momento e nel posto giusto. E quindi serve qualcuno a controllarmi. Perciò sono qui dentro a cercare di abbassare un coefficiente di criminalità che non si abbasserà mai e lo sappiamo tutti: io e voi.» mette in chiaro, abbandonando i sottintesi e le strategie. Sono divertenti con persone come Nakahara, pronto a sbraitare e saltarti al collo appena dici qualcosa che lo infastidisce - e nel caso di Dazai, davvero, basta così poco - ma non con gente come Oda.


«Ci sono Ispettori messi di fronte a scene del crimine che farebbero alzare il coefficiente di chiunque, anche se ci fanno lavorare con gli Enforcer nella speranza di preservarci meglio.» Oda dice a chiare lettere ciò che diversi del bureau non direbbero mai. Gli fa onore, ma Dazai dell’onore di un uomo non se ne fa niente. 


«Non devi per forza diventare quel tipo di criminale latente che non ha più modo di tornare indietro.»


Ah, che fastidio, è il primo pensiero che si forma nella sua mente. Sa bene che secondo il termine specifico lui è già un criminale latente, ma capisce a cosa Oda si sta riferendo: un conto è essere ancora entro la soglia recuperabile, quella in cui si trova adesso, un altro è superarla e avere a quel punto la certezza di non poterci più fare nulla se non sperare di non essere sotto il mirino di un Dominator. Gli si smuove qualcosa dentro proprio come quando aveva quattordici anni e Kajii gli stava puntando una pistola contro.


«Avevo otto anni quando mia madre mi ha detto di non andare oltre quello che chiamava il punto di non ritorno.» comincia a raccontarglielo neanche fosse una favoletta senza troppa importanza «Quella che per voi è una soglia numerica oltre la quale merito di essere giustiziato per mia madre era un istante non meglio identificato in cui mio padre ha scelto la droga al posto di sua moglie e se ne è andato a morire in un vicolo come i topi. E così per il mio ottavo compleanno mi ha portato al parco e mi ha detto: non azzardarti a diventare come lui e a lasciarmi sola. Sembrava tenero, finché non è diventato una crisi isterica e violenta. Ma sono sicuro che lo sai, perché il governo conosce tutto di tutti, vuoi non abbia le mie cartelle cliniche? Non tutte, comunque. Posso elencarti quello che manca.» assicura, spostandosi di qualche passo verso destra e verso sinistra. Come previsto, l’orologio di Oda suona e lui apre la comunicazione.


La voce di un uomo, abbastanza giovane suppone Dazai, chiede se tutto è regolare con il soggetto che fa avanti e indietro. Gli dice “il Dominator è in modalità Paralyzer” e “lo stordiamo prima che faccia una cazzata?” ma Oda dice di no, che non c’è bisogno. Ha la faccia calma e pacata di chi sta prendendo un tè in terrazza e Dazai si chiede, in un istante di viscerale curiosità, se sappia solo bluffare molto bene o se sia proprio per questo che è un Ispettore con un punteggio alto in graduatoria. 


«Fratture, costole incrinate, devi solo domandare. Ho perso il conto delle volte in cui hai continuato a guardare la benda sull’occhio e so per certo che devi esserti chiesto, Ispettore, se fosse per mia madre o per qualcuno dei bassifondi. Ma non preoccuparti, non sono uno di quei figli tristi per essere stati picchiati, terrorizzati e poi abbandonati. Mia madre non era così forte da scegliere volutamente di restare da sola. Si è fatta una dose in vena di troppo e tanti saluti. Però non è meraviglioso? Ha delirato come se io fossi mio padre, provato anche a chiamare i numeri di emergenza. Sono arrivati, non fraintendermi. Nel nostro mondo perfetto nessuno potrebbe abbandonare una persona, nemmeno se è un rifiuto della società. Poi il Sybil System li giudicherebbe. Ma quando è morta un medico mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto “figliolo, è una tragica perdita ma la tua vita può ricominciare”. Quale compassione!» esclama, tenendosi con entrambe le mani alla ringhiera e sporgendosi indietro. Basterebbe lasciar andare per un secondo per fare un volo di dieci piani verso il suolo.


Oda fa un passo in avanti, d’istinto, e Dazai sa per certo di averlo completamente catturato. La storia del ragazzino picchiato dalla madre funziona sempre con i poliziotti, con i medici, con il mondo: diventa ai loro occhi la creatura sfortunata per cui ci vorrà un miracolo per essere reintegrata dopo una cosa simile. 


«Dire tra le righe a un figlio appena rimasto orfano “gioisci! Quel peso morto di tua madre ora non c’è più!”, non è meraviglioso? Tutti pensano che il mio coefficiente sia peggiorato a causa di mia madre, del contatto con le droghe e con la sua morte. Ma anche tu hai visto la morte, vero Ispettore? Eppure non sei a un passo dal non ritorno.» gli fa notare, allungando una mano e facendogli cenno di avvicinarsi. Ignora il vociare sotto di lui, dovuto di sicuro agli Enforcer che lo tengono sotto tiro.


Oda si avvicina, anche se lentamente. Dazai fa un piccolo gesto con la mano, lo invita in silenzio ad afferrarla. Così quando Oda è abbastanza vicino da farlo, quando le loro dita si sfiorano lui fa uno scatto veloce e stringe le proprie intorno al polso dell’altro e lo tira, con più forza di quanto chiunque si aspetterebbe forse. Se lo tira addosso approfittando dell’essere sbilanciato dell’Ispettore, lo sente sbattere contro la ringhiera che c’è tra loro.


Dazai è cresciuto più con Mori Ougai che con sua madre, da un certo punto in poi. Sa riconoscere le battaglie vinte e quelle perse. Il pareggio non esiste, per quelli come lui.


«Puntami il Dominator in fronte, Ispettore, e dimmi che numero vedi.»


Oda fa per muoversi, per allontanarsi probabilmente, ma sanno bene entrambi che se dovesse strattonare troppo potrebbe fargli perdere l’equilibrio e avere un civile sulla coscienza. Purtroppo per Oda, la sua coscienza sarà la sua rovina prima o poi e Dazai se ne è accorto dal primo momento in cui lo ha visto. Per questo dopo un tempo più breve del previsto il freddo metallo del Dominator è contro la sua fronte e Dazai sogghigna, perché sa bene cosa Oda sta per vedere.


Il coefficiente di criminalità è 298.2, risuona nelle orecchie di Oda, ma sono così vicini che lo può sentire anche lui. Solo lo 0.9 lo separa dalla soglia oltre la quale un Dominator decreta la modalità esecuzione. Così poco a lasciarlo in bilico, sospeso con un piede già oltre il punto di non ritorno verso cui sua madre lo ha sempre messo in guardia. Vede Oda assottigliare lo sguardo, la mano ferma e la luce azzurra del Dominator riflessa nei suoi occhi.


Dazai lo fissa e ride.


«Il tuo Sybil System non può salvare tutti, Ispettore.» mormora, mentre la forma del Dominator cambia contro la sua fronte mentre una voce metallica - la voce di un operatore? Quella del Sybil System? Quella di Dio? - offre un’analisi diversa: il coefficiente di criminalità è di 301.2.


Da qui non si può più tornare indietro. Così Dazai ride, lo lascia andare, si spinge indietro e cade prima che Oda possa fare l’eroe. Lo guarda, mentre la gravità lo tira giù verso l’inferno e sillaba una sola parola come ultimo messaggio verso il mondo.


Bang.


*  


Oda corre, il criminale in vista cinque metri più avanti rispetto a lui. Lo vede girare l’angolo e prima di arrivarci vicino sente un rumore sordo e poi urla di dolore. Aumenta il passo, la mente più veloce delle sue gambe mentre viene attraversata dal almeno tre protocolli contemporaneamente nel caso si ritrovasse con un ostaggio non previsto - la zona è abbastanza deserta, ma i vicoli della periferia nascondono molto più di quanto chiunque creda dalla posizione privilegiata di una vita lontana da qualsiasi fonte di stress e paura.


Quando volta l’angolo, l’immagine che gli si para davanti lo fa sospirare sollevato e rassegnato insieme: il fuggitivo è a terra, faccia contro l’asfalto, il braccio piegato in modo innaturale dietro la schiena e un Dominator puntato alla testa. 


A Oda non è mai piaciuta troppo l’idea di lavorare con gli Enforcer per come è concepita dal governo, ossia come un padrone che rilascia i cani da caccia sfruttandoli solo finché non catturano la preda, per poi rinchiuderli con la museruola stretta. A volte, però, capisce anche il motivo per cui molti dei suoi colleghi non riescono a gestire alcuni degli Enforcer messi a disposizione dal Sistema.


L’ultima aggiunta al suo team è imprevedibile, ingestibile e - parola di Kunikida - un ammasso di guai su due gambe che ha dalla sua solo una buona percentuale di criminali catturati. Questo non lo rende diverso da chi cattura, gli ha detto Kunikida la prima volta che hanno lavorato insieme. Oda è abbastanza sicuro che, potendo scegliere, per l’altro Ispettore quella sarebbe stata volentieri anche l’ultima. 


«Odasaku!» saluta entusiasta Dazai, come se non fosse seduto su un essere umano a cui sta promettendo una metaforica pallottola in testa, facendolo tremare di paura «Non crederai mai quanto facile sia far alzare il coefficiente! Guarda! Duecentoseeeei, duecentoseeeette…»


Oda lo guarda come ha fatto altre volte. C’è chi dice che funzionano insieme perché ha la pazienza di non cacciarlo dalla propria squadra, c’è chi sostiene sia troppo permissivo con lui solo perché è sentimentalmente coinvolto dal non essere riuscito a fare altro che salvarlo da uno schianto dal decimo piano, senza però fare niente per il suo coefficiente. Qualcuno nei corridoi mormora che sarebbe stato un grande Ispettore. Qualcuno che sarebbe stato pessimo. Qualcuno che sarebbe stato troppo crudele, esattamente com’è ora, quindi forse era irrecuperabile fin dall’inizio.


«Dazai.» lo richiama e lo vede sbuffare, alzare il Dominator e cominciare a lamentarsi di quanto Odasaku sia troppo buono


«Qualche giorno un criminale ti ucciderà, Odasaku. Bang! E io dovrò cercare di salvarti, perché sono stato cresciuto a pane e compassione, come potrei mai abbandonarti?» Dazai parla, parla, parla così tanto da mascherare verità in un’infinità di bugie. Però Odasaku se lo ricorda lo sguardo di un anno fa, mentre Dazai si lasciava cadere nel vuoto e pronunciava quella stessa parola, lentamente, con il chiaro intento di farsi vedere. Di farsi comprendere, forse.


Ancora oggi Odasaku, come Dazai ha preso a chiamarlo dal suo risveglio in ospedale, non sa se quella fosse una disperata, finale richiesta di aiuto a cui non ha saputo dare ascolto. Se Dazai gli abbia chiesto di farlo morire, piuttosto che lasciargli superare quel punto di non ritorno da cui sua madre voleva restasse lontano.


Se lo porterà dietro nella tomba.


Bang.

hakurenshi: (Default)
 

Fandom: Bungou Stray Dogs
Prompt: // (M7 parte 2)
Parole: 6928
Rating: verde
Pairing: Oda/Dazai (implicito e onesided)
Warnings: small mafia stuff.



Two of his subordinates enter turn at the corner and only then Dazai moves and sneaks off until he reaches the door. Once he is finally outside, he makes sure nobody saw him or is following him and keeps walking.

He left his phone inside his room, on the small table next to his bed, in order to not be bothered by anyone; he has no intention to talk to people, for today, not if he can avoid it. Mori-san too, if he has a new mission for him, he will have to wait or to send someone to look for him and pick him up.

The alleys around the Port Mafia base are so familiar that Dazai barely looks at where he is going, turning to the left or to the right when needed, the path towards his destination clear in his mind. For once, he doesn’t want to be interrupted by incompetent subordinates nor by Mori-san. 

The moment he takes a shortcut, he bumps into someone else and when he lowers his gaze he notices a small girl. It’s curious how a child about four or five years old is alone in such a place - at the same time, well, Dazai can’t really say this is the first time he sees an abandoned boy or girl alone in the streets. A lot of people in the Port Mafia were like her, after all.

She looks at him, curious but sceptical, unable to choose if she wants to get close or not; Dazai doesn’t move much, since he’s not really interested, but just when he is about to keep walking a small detail catches his attention. The young girl is now looking on the side, as if she noticed something in particular. What can be so interesting for a kid in a street like that? Dazai follows her gaze with his own, almost sure to find a stray cat or dog, but then there is nothing but a simple wall. He frowns and checks on the girl once again, then goes back to the wall because she is really looking at it, not casually studying her surroundings.

In the end, Dazai is about to let it go when she speaks for the first time since they saw each other: «Aren’t you curious?» she asks, as if they both know what she’s talking about. Dazai frowns, because that’s starting to sound suspicious but before he can actually say something or step back just to be prudent, the view of the street is suddenly blurry and he feels like his consciousness is leaving him. The girl calls for him, maybe. Dazai doesn’t know.


*


He hears confusing sounds around him and it takes him a few seconds to realise they are voices and more than that to get what they are talking about. 

«His body is perfectly fine» it’s what a woman is saying, without touching him; probably she examined him while he was sleeping «and judging from what Atsushi-kun told us, it’s probably the effect of that ability user. If this is only about the physical change or something different, I won’t know it until he wakes up.» she adds, pragmatic and clear. Dazai doesn’t know who this is, but it would be easy to work with her. Unfortunately, she could be related to the girl in the street, despite her words.

Dazai tries to slightly move his arms and doesn’t feel anything like a restriction; what kind of idiot takes a mafioso with them and doesn’t even tied him up? 

«Yosano-san» a different voice speaks, a worried shade easy to notice «is Dazai-san going to be alright? I mean, if it’s more than just a physical change...»
«I don’t think you need to worry, Atsushi-kun. You managed to bring him here the moment this whole mess happened. We have to wait to talk to him, but it’s not like Dazai ever died easily whenever he tried to.» she comforts him, a small chuckle that is probably half to reassure the “Atsushi” guy and half for his own amusement. 

«Call me when he wakes up.» she says and Dazai can hear a few steps and the sound of the door opening and then closing; immediately after, something like a chair being moved suggests him that Atsushi must have taken a seat not too far from him. Dazai opens the only eye that is not covered by the bandages and sneaks a peek on his right: the Atsushi guy is there, as expected, and since he’s looking at him he notices almost immediately Dazai waking up. The surprised expression makes him look quite stupid, if Dazai can say this, but the moment he gets that Atsushi is going to call for the woman who just left, Dazai moves quickly and accordingly; he stops him before Atsushi can even stand up, going behind him and immobilizing him, an arm under his chin, a slight pressure against Atsushi’s neck.

Atsushi stays still, but Dazai can feel his body freeze: «Dazai-san…?»
«Who are you.» Dazai has no time to play games with the boy, he just needs to know why he’s there, what happened and for what reason Atsushi seems to be so shocked by his behaviour. After all, if he calls him like that without a proper introduction, he must have done his research. Being so close to each other, Dazai can easily notice the tension in Atsushi’s body but, being used to a certain environment and everything related - plus, having Nakahara Chuuya as his partner, unfortunately - he also feels that the tension is not the kind of one scared people have, but the one physically strong people try to suppress. It’s the pure, basic instinct that drives people in fights and animals in nature, the one they follow to survive. It’s like Atsushi could free himself hitting Dazai, yet he’s trying his best to not do it.

«I’m Nakajima Atsushi.» he finally introduces himself, but apart for his surname it’s not like this gives Dazai many informations.

«Where is this?»
«Dazai-san, do you really not remember-»

Dazai tightens his hold on him and feels Atsushi instinctively putting his hands on the arm against his neck, trying to move it away a little; he also seems to get that it’s not the time for asking questions, only to answer them.
«Where is this?»
«This is the Armed Detective Agency.»
«What is it?»
«...»
«Nakajima-kun, maybe you don’t really understand the situation.» Dazai almost makes fun of him because, really, how can someone in an “armed” organization be so silly to not get that Dazai wouldn’t hesitate to kill in that position, if needed?

Yet, inexplicably, Atsushi’s body feels less tense than before, as if he finally managed to calm down and analyse the situation rationally, but also as if he noticed he has some chances - which, to be honest, Dazai doesn’t think he has. When Atsushi speaks again, though, his choice of words is curious.

«Do you really not know what the Armed Detective Agency is, Dazai-san?»

It’s not the question per se, that itself is a bit dumb, because of course if he knew it, Dazai wouldn’t have asked; what surprises him a bit is that Atsushi feels betrayed, like this whole situation is unimaginable, an awful joke that went too far. It sounds as if Dazai is someone important that just hurt him, and how is that possible if Dazai doesn’t know a single thing about that boy?
Then, suddenly, Dazai notices Atsushi’s body relax completely.

«That» Atsushi says «you should ask it to Kunikida-san.»


*


In the end, Dazai let Atsushi go. After all not only he felt that Atsushi wasn’t in the right mood to speak - and, Dazai has to admit, not even scared enough to answer… such a masochistic boy - but somehow he had the impression that this Kunikida guy would know more. So he let go of Atsushi, not worried about him leaving the room to call for the woman who sounded like a doctor or for someone else. They didn’t really seem dangerous, leaving him untied and all, so Dazai didn’t worry at all. 

The woman doctor enters first, a serious yet calm expression on her face. She is a person who is, for sure, considered a beauty but at the same time she gives off the feeling of someone who never really bothers about such trivial, idiotic things. He can appreciate this trait, at least it must be a good thing to have a colleague like this: no useless words nor fake compliments just to greet each other. Business and nothing else.

She looks at him, studies him; Dazai supposes she is trying to make sure he has no wounds, under those bandages and maybe she will ask him to make her check under them. Instead, she simply sits on a small stool close to the bed and stays quiet.

«Aren’t you going to check my wounds, doctor?» he hums, a fake smile on his lips. She smiles back, but it’s not a happy or comforting smile. More like, she’s challenging him: «I would, if you needed it, but you don’t. Also, believe me, you are to young for this. You don’t really want me to have to heal your wounds.» she assures, crossing her legs and waiting. For what, Dazai doesn’t know until the door opens again and a man enters, blonde hair and strict aura; he obviously isn’t going to take a seat, but he and the doctor share a brief look.

«You must be Kunikida.» Dazai says, no intentions of beating around the bush. The man is not surprised, that much is obvious; supposedly, Atsushi told him something about their conversation.

«The kid said you don’t know where you are.»
«Should I? Atsushi seemed shocked by me asking what the “Armed Detective Agency” is.»

Kunikida stays quiet for a few seconds, fixes his glasses on the nose in a gesture of what? Nervousness? Anxiety? No, Dazai thinks, this is what people with secrets they can’t tell do.

«How old are you?» Kunikida asks. Seriously? Of all the things he could - and, let’s be honest, should - ask him, it’s his age he’s concerned about? Nothing about the bandages? The mafioso clothes? The aura of a person who just can’t? No. His age.

Wow. Such detectives.

«Seventeen.» he says, bored and disappointed and irritated at the same time. If they are not going to keep him there as a hostage or a prisoner or whatever their idea is, he wants to leave. He lost interest already - until he notices that now even this Kunikida guy looks shocked. 

«Would you stop with that look? All of you keep asking weird stuff and then you have this idiotic look on your face, like I just told you that the Earth will explode in ten hours and you can’t do anything to avoid it or save yourselves.» Dazai accuses them, waiting for a reaction. Maybe the most surprising aspect is him being so involved by something said and done by people he doesn’t know nor care for. People that are not Odasaku, basically.

Kunikida and the doctor share another look and Dazai is already taking the first step to reach the door and leave, when Kunikida moves an arm to symbolically - and physically, if Dazai hadn’t immediately done it by himself - stop him. 

«The Armed Detective Agency» Kunikida starts explaining «is an organization that...» he stops, his free hand goes to massage his temple. Dazai doesn’t know what’s so hard to tell to the point that such a strict, serious man seems so bothered. Dazai has to admit that, if they were both in the Port Mafia, it would be hilarious to make fun of him.

«What Kunikida is trying to say» the doctor’s voice is unexpected «is that the only Dazai we know is a twenty-two years old man who just recently disappeared in front of the boy who was here before during a mission. You are a singularity or irregularity. Not even I can choose between the two, but what’s sure is that you shouldn’t be here.» 

As Dazai already thought: straight as an arrow, sharp as a sword. And yet, this doesn’t make sense at all and maybe she, somehow, gets that he’s  not convinced in the least. 

«Basically, we think you are in the wrong timeline, but we don’t know how it is possible.»


*


This is the most confusing situation he has ever been in. 

After that doctor’s revelation - Yosano Akiko, she introduced herself after that - Dazai really didn’t know what to think. Usually he doesn’t just believe whoever tells him something; it would one thing if Odasaku were there to explain the same thing to him, but he is not. And that is when Dazai realised that if he really is in the future and this Armed Detective Agency is still in the same city, he only needs to go back to the Port Mafia and meet Odasaku and hear him out. If it was about another person, Dazai would think about the chance of them not being friends anymore, or enemies instead - he bets Chuuya still wants him dead but well, there’s not much difference from his timeline - and of every possible deceit but it’s Odasaku, who trusts people once he is their friend, because he honors that friendship. Odasaku, despite being older than him, takes him seriously and never once Dazai felt like the other man was underestimating him or (instead) justify him and his way of doing things.

If he could speak to Odasaku…

Kunikida is still seated behind his desk. Dazai didn’t expect such a - normal? Boring? - sight once outside of the infirmary and taken to the main office. Apparently not all the members are there, which could be a fortunate event because Dazai has no will and no patience to deal with a lot of people sure about him being some sort of weird presence there. For now, Kunikida and Atsushi are there, Yosano left a few minutes ago, a crazy Edogawa something guy went inside, spoke loudly, pointed his finger at him, laughed, asked Kunikida if that was for real, then acted totally uninterested, took his candies from another desk and disappeared behind another door.

Even Kunikida, who Dazai is supposed should be used to that, seemed very tired.

«Why am I still waiting here?» he asks for the umpteenth time. Not that he couldn’t run away, in normal circumstances, but as they moved from the infirmary to that office Kunikida said “the President is the only one who can really answer to your questions” and despite the high chance that this is only a lie to gain some time, there is also a tiny chance that what he said is the truth.

«Because the President hasn’t come back yet.» Kunikida answers without even looking up from the screen of his laptop, as if he’s quite used to deal with annoying people trying to interrupt his work. 

Well, he barely blinked an eye when the Edogawa hurricane came, so maybe he simply is used to it. 

He is almost hypnotized by Kunikida working, since this is the most entertaining thing in the room at the moment, that he doesn’t notice Atsushi until the guy puts a cup of something under his nose; when Dazai studies the drink, a delicious scent of chocolate hits him. Did Atsushi just offered him hot chocolate? Like, seriously?

«...»
«It’s starting to get chilly.» he justifies himself, a clumsy yet undeniably kind smile on his lips «Ah, I didn’t poison this or anything!» he adds quickly, like there is a real chance that someone like this could poison anyone. By mistake, maybe. Dazai is not a big fan of chocolate, but well; he takes the cup, eyes lingering on Atsushi.

«I don’t think you can manage to poison someone, Atsushi-kun. Also, I tried it already and I don’t like it as a suicide option.»

At this point, they usually have this awkward feeling about someone considered way to young to mention suicide; Atsushi, though, does not look surprised at all. Not happy, of course - it would be a bit too weird - but not so shocked. Instead, there is somehow a sort of nostalgic feeling that shows through his expression.

«So you used to say it when you were younger too...» it escapes his lips, obviously something he didn’t want to say out loud.

For the first time since he opened his eyes, someone’s words struck him. Dazai has always been pretty proud of how good he is at reading people “despite his young age” as often told him; he can not only get their character before they even show it themselves, but he can anticipate most of their plans and that’s why he is the youngest Executive in the Port Mafia ever since. So he knows, just by looking at him, that Atsushi’s sentence and his expression reveal an obvious admiration, affection, attachment. How the hell did he manage, in five years, to have a kid who looks up to him like this? Apart from the obvious lack of judgement skills Atsushi proves to have by doing it, there is complete trust towards Dazai.

He’s about to ask, considering there is not much to keep him busy at the moment, when the main door of the office opens and the first man that enters must be the President and not only because that’s how Kunikida greets him as he stands from his chair; Dazai, though, can’t help but focus on the second man that is the last person he thought he would have met there and now.

«Ango?»

Sakaguchi Ango is in front of him, some years older but not so different. He’s the first familiar face Dazai manages to look at since he woke up and despite him not being a sentimental person, he has to admit that it’s a good thing. Ango has the same, almost inscrutable expression but Dazai knows better and can see, even if barely, that Ango is surprised of seeing him like this. Fortunately enough, Dazai doesn’t see some kind of rejection in him, which means that he must still be his friend. 

«He was downstairs when I arrived.» the President says, his eyes searching for Dazai and looking at him when he finds him; he is studying him but, more than anything, Dazai notices how the man doesn’t try to hide what he is doing. He doesn’t pretend to be polite enough to leave him some privacy, but he analyses him thoroughly; if this mess wasn’t, well, a mess but a friendlier situation, Dazai would ask him about it and curious to know what a man like this can see in him and, above all, if he is able to see through him. Unfortunately, this is a luxury Dazai doesn’t have right now.

Also, he really has no time to spare when this Agency guys keep trying to surprise him; Atsushi, specifically, moves some steps towards Ango and bows his head a little, as the polite kid Dazai is quite sure he really is, at this point.

«It was a good idea to call Sakaguchi-kun.» the President tells him, giving away the information about who Dazai should thank for Ango’s presence yet will not. The silence fills the room, quite uncomfortably, like they all have nothing to tell to the others. It’s not totally wrong, and the only two who should have a lot to share are not in the position to do it there, in front of everyone else; at least, Dazai doesn’t want to reveal more than necessary only to convince Ango to help him, especially because he needs to make sure that this Ango is an ally. Yet, something bothers Dazai. Ango has the troubled expression of someone that wants to talk but can’t, and Dazai’s guess could obviously be wrong but there is a high chance that the problem lies in one of the people in the office. If anything, Dazai could keep Atsushi out of this, but both Kunikida and the President might be the problem.

Until the President offers them to talk privately in his personal office. At this point Dazai doesn’t really know if he should laugh or scream in this situation.


*


No matter how absurd this can sound, the Armed Detective Agency guys really left him and Ango alone in the room; the President personally let them enter first and closed the door without joining them. He simply told them that, if they needed him, they could ask to Kunikida: «I will be in the office anyway.» he said and left, like that. No questions, no forcing them to let him stay, no guards. Dazai can't believe this, no matter how different this organization is from the Port Mafia, he got somehow that they are not a simple "detective agency" that accepts complex cases that the police can't manage. And it's not only about the "Armed" in the name, he felt that all the people part of it - at least those he met - must be special; and by "special" Dazai doesn't mean anything other than "ability users".

Ango sat first, Dazai followed, but neither of them chose to use the seat behind the desk that belongs to the President; Dazai is still convinced that the man is someone he should recognise, but at the same time something is sliping away from his grasp, as if he was trying to catch the air. Maybe he heard about him from someone? Maybe he will as soon as he comes back, maybe this Agency is not so far in the future for him too?

«Dazai-kun?» 

Ango's voice catches his attention and Dazai snaps out of it, his gaze now on the other man. Ango doesn't look as nervous as before, but he doesn't look completely at ease either so Dazai supposes the thing he has to tell him is not easy to say, being it there while they are alone or in the middle of a crowded street.

«I didn't know you were affiliated with a detective agency.» he jokes, crossing his legs and drumming his fingers on the desk.

«I am not.» Ango replies, quite relaxed about this matter, so Dazai can hypotise that this is not the real problem «But even if I was, you wouldn't know anyway.» he adds and, despite the soft voice, this is a bit harsh in his own way. Dazai gets what he is saying in that roundabout way that he is not sure if it's typical of Ango or not, and that is the whole point: he wouldn't know because this is not his timeline, this is not the Ango he meets at bar Lupin, this is not the organization where he knows exactly who he can trust and who he can't.

«Eh. Isn't it quite a cold thing to say, Ango-kun.» he replies, a bit of (fake) pout on his lips, pretending to be deeply offended and hurt. Ango stares at him, uncomfortable. Has their relationship changed so much, in five years?

«Isn't it true, though?» he replies as if it's nothing «When Nakajima-kun called me, I thought this was some sort of joke. What happened?»

«I saw a little girl.» Dazai answers and he knows it sounds absurd but that's the truth; strangely enough, all considered, Ango seems to believe him.

«An orphan?»

«Probably someone that lives in the street. She didn't look like a lost child and her clothes were not exactly first class.» he describes as much as he can, because if a she is around five or six years old in his timeline, she should be ten or eleven right now, so maybe she is still around or maybe she entered some kind of orphanage.

«I will search for the childcare programs around the area. In the meantime, I think you shouldn't go out if not strictly necessary.»

«Why can't I go back to the Port Mafia, instead of staying here?»

It could sound as a childish question, like a son asking why he can't play with his favourite toy; but both Dazai and Ango, as they look at each other, know that this is only Dazai pretending to ask casually. Ango sighs, his hand reaching for his glasses, taking them off for a few moments.

«For the same reasons why the Detective Agency members know who you are.» he explains, putting his glasses back on his nose «You should forget all your allies, Dazai, and you should not search for any of them. Anything you get to know here will greatly influence your timeline and every slight change you will do once you will go back will be a great disaster here.»

Dazai gets what he means. This is clearly an ability about some kind of time travel, and of course this is not something one should underestimate. Yet that weird feeling Dazai got from Ango still lingers there, between them, making Ango look like a culprit that wants to run away before the police gets him.

«Would it be so bad to change the things you wanted to be different?»

It's a provocative question, Dazai is sure Ango knows it; because, after all, Dazai has never truly appreciated his life but he never knew what he would have changed if he had had the chance to do it. If his ability wasn't the power to nullify the others, but the power to change the past or the future, he would hate it. The only people able to completely understand an ability like that must be those with strong desires and an unbelievable will to life, not just survive and even less the wish to die. Maybe someone like Mori-san could make use of this plently - but honestly, it would be terrifying in his hands - or maybe that kid Dazai met, with who know how many dreams despite her living like that, probably alone.

Ango should know he has nothing he really wants to change, yet his expression is different now, strict and... regretful. About what, Dazai doesn't know and should not ask; he is sure Ango wouldn't tell him anyway.

«It wouldn't.» Ango replies in the end, closing the distance between where they sat and the door step by step. Once he reaches it he raises his hand to open it, but seems to change his mind just before doing it. Still, he doesn't look at Dazai when he speaks. 

«No matter how many regrets one has, in the end changing the past would only make things worst.»

Dazai can't help but chuckle, especially if the thinks about going back to his timeline and tell "his" Ango that in a few years he will become even more serious and pessimistic. He can't really help but make fun of him a bit more - it's  not that he can't read the atmosphere, but despite Ango being one of his (very) few friends, Dazai is not such a sensitive person. Not even with those close to him.

«Isn't the whole "going back and change things" supposed to make them better?»

«Of course. But at what cost?» Ango says, almost a whisper, as if not sure about wanting to be heard or not. He finally opens the door, exits and just before closing he stops once again and turns to look at him.

For the first time, Dazai can't guess Ango's thoughts and can't decipher his expression. It's annoying.

«You don't want to know the price, Dazai-kun. Believe me.»

Dazai doesn't have the time to ask him "what if I'm not afraid of lose something, but I also don't have anything to offer?".

That question never had an answer anyway.


*


Ango went away almost immediately after their talk. He didn't say much to the President or to Kunikida, he didn't even metioned their small exchange about future and past and tragedies. Ango assured that he was going to look for the girl Dazai told him about and that he would eventually let them know once he will find her; after that a some brief sentences, he simply went away.

Dazai never expected to be called by Atsushi and asked if he wanted to go with him for some commissions for the Agency. A simple look to Kunikida was enough for Dazai to get that he wasn't sure about this being a good idea but that probably the President himself told him to let them go. Dazai accepted, of course. Who would be so stupid to refuse the only chance to go out and try to look for a way to come back by himself? After all, Atsushi wasn't going to knock at the door of the Port Mafia, thus no issues at all right?

They have just finished buying a lot of candies that, with the few informations Dazai has, he's starting to think that they also house some lost children at the Agency. Atsushi looks way more relaxed now, despite Dazai's presence; well, if they have some kind of relationship, Dazai supposes this is normal to the other guy. The only difference should be the age.

«How old are you?» he asks, out of pure curiosity. Atsushi looks surprised by the question, but not annoyed by it.

«Eighteen.»

«Wow. Even older than me, now.»

«It doesn't really feel like that, Dazai-san... but you are different in some ways.» he admits, probably convinced that whatever he can say about how the adult Dazai is, it won't affect the Dazai in front of him. Or maybe he's just very naive.

«Am I? How?»

«You are... I don't know how to explain this. You have a bit of a different aura, I think.» he admits, opening one of the small bags at the same time and handing it out to him. It's full of those candies Atsushi just bought: «You want one, Dazai-san?»

«Mmh, maybe.» Dazai accepts, takes only one and unwraps it; he puts it in the mouth and savours it: lime. 

They walk next to each other for a bit, silence between them. Dazai is mainly following Atsushi; he lets him lead the way so that he doesn't have to worry about checking the streets and can, instead, focus on the details. Who knows, he could see someone from the Port Mafia and make some kind of contact with them. It would be too much to be able to meet Odasaku by chance, but who knows.

«So, Ango said he is going to search for the girl I saw before losing consciousness. Orphanages, other childcare facilities in the area and in the streets.» he says, pretending to be casual about it «Did you ever notice her around here?»

«I don't. Also, I know only about a childcare facility and I hope the girl is not there.» Atsushi replies, more tensed now. This looks like nothing more than being uncomfortable about the subject at hand, to Dazai, but he can't suddenly be a good person and not ask only because of he noticed it. After all, it's not like he and Atsushi are friends: he has no obligations towards the guy.

«Were you in one on those?» he insists despite Atsushi biting his lower lip.

«I don't like to talk about it. It wasn't a good place, that's all.»

This is the first time Dazai hears him be so abrupt about something. He supposes that, in the end, every person has his own ghosts.

«Say, Atsushi-kun: do you know Odasaku?»

Atsushi looks at him, visibly more relaxed now that there's a different topic and slowly shakes his head «Not really. Is Odasaku a surname?»

«A nickname. His name is Oda Sakunosuke. He's a friend.» Dazai says - maybe this is the only absolute truth he's willing to share. And yet, this is also a lie. He still never mentioned it to Ango, let alone Odasaku, because both cases would be hilarious, but there is something similar to a break in the wall, when they are together and Dazai is starting to doubt it. He still would let Odasaku know his most important secret, and in front of the choice between living and dying, for Odasaku he would die. Probably. If there is not too much pain, he could. And of course, having to choose someone to watch his back, Odasaku would be the first and the only one - there is Chuuya, but Chuuya is the kind of "watch my back but then at the end of the fight I have to keep an eye on you and your kicks"; Odasaku, instead, is the "I don't need to ask you to do it, you would do it anyway". 

«Odasaku would have taken you and raised you, if he had met you.» Dazai keeps talking «He has this habits of taking care of people, kids specifically. I don't know why he does it exactly, but I suppose the world needs someone like him for this stuff too.» and he shakes his shoulders a little bit.

Atsushi is listening carefully to his words, curious about such a man maybe, or trying to figure out if they met but he simply doesn't remember him.

«So he is your friend.» he repeats with a smile «Does he work with you?»

«If you mean to ask if he's in the Port Mafia too, yes. But it doesn't suit him.» he clarifies, immediately, a slightly annoyed tone. He does respect Odasaku and his life choices, but Dazai will never stop telling him that if he really wants to do such a job without killing people, he'll better change. Dazai is almost thinking about threaten him with a "I won't take your kids if you die on me, Odasaku" or something along the line.

«I don't think it suits you either, Dazai-san.»

«Because you have almost inexistent judgment skills. Seriously, you are not that different from the kid we have in the Port Mafia, yet you are total opposites in this.» Dazai almost whines about it, still walking next to Atsushi. He recognises the area, more or less, and he knows that they are going back to the Detective Agency office. Still, not a single familiar face around.

«But would you really have a friend if you were such a horrible person, Dazai-san?»

«A friend in the Port Mafia doesn't count. It's supposed to be two bad people cooperating.» he corrects him, already tired of trying to convince that guy about his nature; Dazai is used to people not being able to understand him, not that he dislikes it or makes him sad - frankly speaking, he couldn't care less. If anything, being able to pretend, to lie and to deceive to a certain level is way more useful than a bunch of friends.

«But I have to admit» he adds while they turn on the left and the Detective Agency building becomes easy to spot «that Odasaku is some kind of exception. He probably thinks that I am not beyond hope and that, somewhere, I still can be a decent person. Very wrong impression, if you ask me.»

Atsushi, next to him, chuckles a little; it could be unheard if not for the fact that Dazai is used to catch even a tiny glimpse of everything.

«What is it?»

«You are more talkative than usual, in a way.»

Dazai smiles, and maybe on the outside they could even seem close friends of the same age: «That's because I'll be gone soon, Atsushi-kun.» he says «So it doesn't really matter if you listen to me or ignore me, if you will remember us talking like this or not. And I'm not exactly telling you secrets: that much, I'm sure my future self would never do it.»

Atsushi looks at him, but there is such a mix of expressions on his face and so many feeling in his eyes that Dazai chooses to not make eye contact with him this once.

«Anyway, I think you should search for Odasaku once I'm back. Or ask my future self to introduce you. Maybe he will adopt you.» he jokes - well, there is still a chance anyway.

Atsushi seems to accept the change of topic once again, even if less happily than before; he opens the door and lets Dazai enter first, if to check on him or out of kindness, Dazai is still not sure, and then closes the door behind himself. There is a staircase to reach the office where they were before, the dim light still enough to don't miss a step while going upstairs. Dazai just put his foot on the first one when Atsushi's voice reaches him and makes him turn towards him.

«Dazai-san, maybe I'm wrong» he begins, his features relaxed and a small smile on his lips «but I hope I will be able to meet Odasaku-san. He sounds like someone you love very...» he stops, the end of the sentences dies on his lips or maybe caught in his throat. Dazai has no time to ask him if everything okay because those words stirred something up inside him and so he begins to move, step by step, towards the office.

If only he turned again, he would see on Atsushi's face the realisation about who Oda Sakunosuke really is, and if he insisted enough after noticing, in the end he would probably discover that the reason for the change in Atsushi's expression is because of similar words the boy said to an older Dazai, close to a grave - but Dazai bits his lower lips and ignores Atsushi behind him, all the more when he hears his steps following him.

What does it mean that Odasaku is someone he loves?

«Dazai!»

Kunikida's voice is not what he expected as a welcome the moment he enters the door. Yet, what surprises him a little - and give him and headache, to be honest - is the Edogawa guy next to Kunikida's desk, looking at him.

He has a satisfied face while he eats some kind of sweet Dazai doesn't recognise, but the satisfaction clearly has nothing to do with the food.

«I found her.» he says, like it's nothing major to find not only the whereabouts of an unknown girl without a single distinguishing mark to make her easy to track down, but to also find her: «After all» Edogawa keeps saying «that's exactly what my ability is made for.»


*


Edogawa really found her but Dazai doesn’t get why even Ango has come like this is some sort of a farewell party. True, from what Yosano told him during the check-up she did before letting him go, he lost consciousness for three days before waking up - which is probably why all those people who somehow know him were so frantic about him - but really, is this necessary?

The girl, as he expected, is older than he thought; unlike her other self in Dazai’s timeline, she looks calm and composed, and apparently she isn’t even surprised to know that she is the one who sent him here with her ability. Ango is next to her the whole time, maybe to escort her later.
«Seems like she sent the adult Dazai in the past» Kunikida tells him, two fingers massaging his temple «so you basically switched places. At least you didn’t disappear in your timeline, so once you go back everything should be okay.» he explains briefly, the girl nodding a few steps behind him. Dazai would like to ask her a lot of questions, but it’s hard to do when everyone seems to be anxious of sending him back; not that he wants to stay, anyway.

She closes the distance between them, stops two or three feets from him. She has to look up in order to properly make eye contact with him and Dazai lets her do it - it could be necessary to send him back. He thinks he remembers about looking at her younger self face, at some point.

«You should stop the me in the past.» she says, a quiet but determined voice.

«I don’t think I want to mess with you a second time.» and it’s better if the Port Mafia doesn’t get her but maybe it would be better if she ended up with them than with someone else. There is no need to tell her, though.

«Nothing good comes from seeing the future or the past when you are not supposed to be able to change them.» she says, dead serious - too serious for a child.

«Dazai-san!» Atsushi’s voice surprises him and for a split second Dazai thinks about ignoring him, but that would mean too many things he doesn’t want to focus about right now.

«What is it? You already miss me, Atsushi-kun?» he means this as a joke, but Atsushi takes his hands into his own and why are they all so serious, really?

«Thank you, Dazai-san.» thank you for what? «And you should tell him.»
«Tell what? To whom?»
Atsushi closes the distance a bit more, in order to not be heard if not by the girl maybe. Dazai shakes his head, hearing his words, and interrupts the contact between them - physically and visually.

When he looks back at the girl, he feels his consciousness slowly slip away.


Tell Odasaku-san that he’s your precious friend at least once, Dazai-san!

hakurenshi: (Default)

Fandom: Bungou Stray Dogs
Prompt: // (m7 parte 1)
Parole: 9886
Rating: arancione
Pairing: Oda/Dazai (implicito e onesided)
Warnings: violenza esplicita (per quanto leggera), linguaggio colorito.




«Dazai-san» Atsushi’s voice sounds confused and Dazai surely can’t blame him for it. No matter how many years, there are people in their line of job that still can get surprised by some abilities they cross path with; considering how young Atsushi is, and who were the ability users he got to meet until now, there is no wondering that this is something he never expected or that could at least confuse him.

«How are we going to…?» he asks, eyes still on the person they managed to find. 

Dazai stares at their figure: young, maybe even younger than Kyoka. Medium length, black hair tied in a braid, dark brown eyes, short height. She doesn’t look like someone who has it hard on the streets, but doesn’t look like someone with a family and a home to go back to either. They have been searching for her for days, at this point, it’s no wonder Atsushi can’t believe they ended up finding her in such a street, where people simply pass by, minding their own business without knowing about special abilities and what danger potentially waits for them.

The girl doesn’t seem to have ill intentions, but Dazai - as a matter of fact - prefers to not believe than believe and then be sorry for it. 

«So, little girl» Dazai begins and focuses on her, Atsushi’s eyes now on him; yet what it’s truly unexpected is the change of expression on the girl’s face: she has been simply staring at them until now, but the eyes on Dazai are those of someone who finally recognises you. No matter how much he thinks about it, he is sure they never crossed paths before. «Were you looking for me?» he changes his question and waits.

She seems uncertain about the answer and in the end she shakes her head, slowly, and takes a step forward: «We met before» she says «and yet you don’t know me.»

It’s not a regretful sentence, she is not accusing him; in fact, it’s like she’s just stating the truth, something she can see clearly despite it being invisible to most of the people, Dazai included. For a moment, Dazai wonders if it’s something related to her ability - which is partly unknown, from the report he read at the Agency - and how to fight it if the situation arises.

She lets her gaze wander on her left, almost ignoring the two of them; when she looks back at him, as if she found something they couldn’t see, she says «I’m sorry» and «She doesn’t mean any harm.» and Dazai truly doesn’t know what to think of it. The only thing he hears is Atsushi calling him, a slight note of panic in his voice, and then all around him everything disappears.

It’s like floating into the void - how ironic, to think that this is what he would have wished for, in the past.


*


An unknown voice feels very close - too close - to him when his consciousness comes back. Dazai keeps his eyes closed, since it seems the people near him didn’t notice that he’s not asleep anymore.

«Are we sure it’s the same person?»
«Does it look to you like he’s someone else?» harsh reply, angry voice. Unfortunately, Dazai could recognise it everywhere and at this moment, it’s nothing to be happy about. An irritated “tch” is the only thing he hears before a simple «I’ll go and tell the boss. Keep him here.» and then a door is slammed and the silence is the only thing in the room. Yet Dazai knows there must be at least someone else to keep an eye on him. That voice, even though not unheard before, doesn’t ring a bell, which means it could be a nameless subordinate - but it doesn’t sound right: how could Chuuya think a simple guy can hold him hostage? Dazai can feel his wrists tied to the bed or whatever it is under him, but seriously? Too naive, even for Chuuya.

He decides to wait: the last thing he remembers is the small girl on the street, her enigmatic sentences, Atsushi’s voice calling him. Now he should be at the Port Mafia basement or something like that - there is not much humidity, so maybe the infirmary? - which brings up three basic questions.

First of all, was the girl related to the Port Mafia? If she was, it could be a trap set up by the organization, but it’s the less credible. The girl made quite a fuss in the city, enough for Ango to ask the Agency to take care of it, and the Port Mafia never liked those who disrupted the order in Yokohama and under their noses. No reason to make one of them do this. And this could lead to the question where is the girl? Who’s her boss? yet for now, Dazai decides to put them aside. 

Second, where is Atsushi? The possibilities are very few: the best case scenario, he ran away when he realised Dazai lost consciousness in order to ask for help back at the Agency. Unfortunately, Dazai knows all too well that Atsushi would never leave him alone, unless the Mafia had made him unconscious too. Worst case scenario, in fact, Atsushi is somewhere in the same place as Dazai but - obviously - in a separate room.

Third, why the Port Mafia? If the girl is working under someone, of course that someone should have either killed Dazai or took him away, making his being there illogical. Also, why would the Port Mafia take him if they simply found him laying on the street—

The door opens, steps come inside, then the door closes once again. The first to speak must be the subordinate and the few words he says are enough informations, more than Dazai would have hoped for seconds ago.

«Boss!»

«Mmh… I must say, this person undoubtedly looks like Dazai-kun.» Mori’s voice comments, an amused shade in his tone «So, Chuuya-kun, you said someone found him on the street?»
«Near here.» Chuuya comments, still irritated even if he’s trying to not show it to Mori. Something - Dazai doesn’t exactly know what - feels weird.

«Very well.» Mori comments «Why not ask him directly?»
«Do you want to wake him up, Boss?»
«Oh, there is no need.» Mori says, the same amusement Dazai heard before still there «He is awake, in fact. Aren’t you, Dazai-kun?»

In a different situation he would laugh at it, but for now the only thing to do is stop pretending; after all, the moment he realised Mori was the one who entered the room, Dazai never thought he would be able to pretend any longer. So, as he hears Chuuya’s voice making an «aaah?!» Dazai opens his eyes and slowly tries to sit. Not very easy, when you are partly tied up.

Open eyes, though, are enough to notice what was the weird feeling he had only a few moments ago: the Mori Ougai who is looking at him with a satisfied smile on his face is younger, around the same age he was when Dazai still was in the Port Mafia.

Dazai lets his gaze wander again, goes past the subordinate who is a stranger to him, and stops on a younger Chuuya.

There is no mistake: Dazai has no idea about how this was made possible or when or why, but this is the past.

«Dazai-kun, let’s call you like this for now,» Mori stops his thoughts, taking a seat next to his bed «this is quite confusing and interesting at the same time. You are, obviously, older than what you should be. Mind to explain why?»

Mori Ougai can ask politely, yet Dazai knows better than most of the Port Mafia that the more courteous he is, the more lethal he can be if the answer doesn’t satisfy or convince him.

«Does Mori-san really not know?» he replies - emotionless, he says to himself, because back then he was never the kind of guy to particularly enjoy most of the conversations with people - «Certainly, having a special ability as much as me and with a timed bomb next to him, Mori-san doesn’t expect me to believe you haven’t already figured this out. Do you?»
«Ohi, you piece of trash!» Chuuya barks at him, already one step closer, when Mori stops him. The smile on his face never faltered, but Dazai knows that if he wants to act from now on until he will find a way to go back - or, well, forward - he will have to make it flawless.

«A special ability then. Whose?»
«A girl in a street. Never seen her before.» he admits. Mori seems like he’s pondering over his words and this gives Dazai enough time to consider the most important part of his lie before the man even asks. What’s the best lie? Pretend to be someone coming from the future, never telling all the truths he needs to hide to prevent chaos, or pretend to be still a younger version of himself, only physically aged?

The moment he decides, Mori speaks again.

«And who are you?» Mori asks, a sugared voice and smile «The Dazai-kun I know?»
«The one you will know in the future.» he says, because no matter how good his memory is, it would be too easy to say something wrong about an age he should know perfectly because he’s supposed to live it. Choosing the truth can help him to build the best of lies: he can still say he can’t tell them about things that would change the future, he’s excused for not remembering details perfectly and he can lie easily. 

At least, this is the plan.


*


As expected, Mori-san probably didn’t believe him. Or, better said, he must think that half of what he said it’s true and half of it is not, which Dazai knows isn’t bad but can be problematic. Mori Ougai trusts people but never trusts them entirely - except for Elise, of course - and that’s why he succeeded to become the boss instead of many others who tried or who would have wanted it.

Anyway, for now Dazai can’t say this is going better than he thought it would: Mori-san gave him his old - actual - room, so he has a roof on his head, meals and doesn’t have to worry about going back and forth from the Port Mafia base. He can guess that what Mori-san has in mind, for now, is to observe him closely and what better chance than keep him there? 

It’s convenient for him too, in a way: he still has to make sure Atsushi-kun isn’t there in order to decide if he has to worry about finding him - and figure out how to come back or why he was sent here in the first place. Three days have passed and Dazai still hasn’t left his room if not for meals, quick and at unusual times of the day. 

There are a lot of things he needs to keep in mind, a lot of people he should avoid as much as he can, at least until he gathers more informations about the girl who sent him back. Fortunately one of the two people he has to avoid more is the one that is very happy to not have anything to do with him: Chuuya, for sure, will never ask to spend time together. What a fortunate event.

Yet, Dazai knows that this momentary peace will have to vanish soon: there is no chance Mori-san will leave him be, especially when he’s not convinced at all by what Dazai told him - not that Dazai can blame him. If a younger or older version of someone he knows came to him telling him “yes I’m from the future, don’t mind me, I will go back on my own sooner or later”, no matter how elaborate could the speech be, he would not be reassured at all.

When a knock interrupts his trail of thoughts, Dazai knows the peace ends here and now.

The door opens before he can say anything, Chuuya appearing at the doorstep, crossed arms against his body: «Ohi, you piece of trash.» he calls him, obviously not happy to be there «The boss wants to see both of us.»

That’s it, Dazai thinks. Mori-san is going to send them somewhere on a mission: the best way to make sure to a certain extent where Dazai’s loyalty is placed and how many lies he has told until now. 

«Don’t be so happy.» he replies, provocative, as he stands up and moves to join him. He may pretend to be a Dazai who will still be with the Port Mafia in the future, which is a pain, but fortunately his relationship with Nakahara Chuuya has never been made of sweet words and kind gestures.


*


Dazai keeps reading the small report Mori gave them, eyes glued to the paper sheets. Apparently, someone in Yokohama spread the rumor that on certain conditions whoever wishes for people to disappear can not only ask for it but can obtain it. And what made the Port Mafia give attention to something that sounds like the typical job the Detective Agency would take, is that a couple of their members are now miss in action. No matter how much Dazai tried to think about it, he’s pretty sure that this was never mentioned to him in the past, nor he did take part to said mission. It could be that back then, since Mori didn’t have any reason to distrust him or to make sure Dazai was really Dazai, the mission was given to someone else; hopefully this will be a minor change that won’t influence the future.

«Have you finished reading or do you plan on consuming paper by reading it over and over again?» Chuuya’s asks, a scornful look on his face. They are sitting across each other while the car takes them to the place Mori-san asked them to investigate first. Dazai would love to make fun of this younger Chuuya in the same way he does with his older self, yet he knows that right now Chuuya is nothing more than the watchdog Mori-san chose for him. The slightest doubt he raises in Nakahara, the closest he will be to a lot of problems he doesn’t need to add to those he already has.

In the end, this is like tuning himself on the same wavelength he had back when he was how old, seventeen? Eighteen?

«Let the adults do their work, Chuuya-kun. How old are you, now, thirteen?»

«YOU PIECE OF SHIT I’M SEVENTEEN.»
Thank you very much for being so quick-tempered and giving me informations without me asking directly, it’s the thought that crosses Dazai’s mind as he tries to remember everything useful about those years. 

«Anyway» Dazai says as if Chuuya isn’t boiling out of rage «who was in charge of gathering intel?»
«Ah? One of your subordinates? Ask the Boss if you want to- »
«Were my subordinates this sloppy? That’s troubling. At least we got better in the future.» he says, raising his gaze on Chuuya and doing his very best to be the intimidating, cold-blooded Executive he used to be. Chuuya must be sensing something is off, because he keeps quiet for a few seconds before speaking again.

«Not thanks to you, I’m sure. What’s bad about the informations, anyway?»
«I’ll read and summarize them for you.» Dazai replies as he lowers his gaze and goes back to the paper sheet in his hands «October 5th, the first person disappeared. Not related to the Port Mafia, yet the last place he was seen at is very close to us. October 9th, the second person - literally - “has vanished in front of their own brother”. Again, unrelated to the Port Mafia, different location, not too far but not too close either. The witness declared he didn’t see anyone else other than them. October 14th, the third case. This time it’s a member of our guerilla squad, someone known for their ability in the hand-to-hand combat and with some white weapons. No witnesses, he simply raised some doubts when he didn’t come back and, since nobody managed to get in touch with him, he is now considered the first of our victims. Another civilian on October 16th and the last one, the second missing member of the Port Mafia, on the 19th.» he finishes reading and finally looks at Chuuya who surprisingly kept silent until now, even if he is frowning and probably wants to say “so what?!”.

Dazai waits, but when it’s obvious that Chuuya is really trying his best to wait for the rest of his theory, he puts the paper sheets away, next to him. He would really appreciate Ranpo’s presence right now.

«There are two fatal flaws here.» he says and looks at Chuuya as if expecting him to explain those said flaws to him; Chuuya struggles and it’s obvious his patience is at its limits. Dazai knows that what they don’t need right now is Chuuya exploding.

«First of all, whoever it is who is causing this, they know the city and move pretty fast and undisturbed, which means that it must be someone who doesn’t stand out, someone who walks next you without you paying them any mind. The locations are not too far away in general, but if the culprit is close to all of them, maybe it should be someone who lives in the area. How come nobody tried to look for it after the second case?» it’s a rhetorical question, of course, but by the way Chuuya is tapping his foot on the ground Dazai knows that he should keep it shorter than this. Nakahara has never been a man of thought and, above all, when they were younger it was Dazai’s role to be the mind.

«Second» he mimics with his hand, two fingers raised «so many cases in less than a month, unrelated victims, how did you not find out before it got out of hand?»
«Will you stop to play the fucking detective or not?»
Geez, Dazai says to himself, this was close.

«Because of an ability. Something that doesn’t leave a trace, like yours does, and can’t be sensed by those who have the ability to do so. Now, Chuuya-kun, this adult will offer you a possible solution.»
«I swear to God, Dazai, the moment we are outside of this car I’ll-»
«Yes, yes. Keep your passionate approach for another time and, possibly, for another person.» he can sense Chuuya losing it and ready to use his ability even before he realises himself, so Dazai moves quickly and grabs his wrist, “No longer human” activated «As I was saying» he keeps talking as if nothing happened «it could be a psychic ability. There is a chance that this person asked or told the victims to go somewhere else.»

Chuuya, whose hand was trembling because of rage, looks at him and for the first time Dazai knows he is seriously thinking about what he just told him. 

«You mean they manipulated their minds?»
«It’s a possibility anyway. With such a report there is nothing more I can figure out anyway. That’s why I told you it was poorly done.» Dazai replies as he lets go of Chuuya and crosses his arms against his own body, looking outside. They should almost be at the last location, so he takes a few moments to rest; he feels Chuuya’s gaze on him but decides to ignore it.

Mori-san surely gave him an awful job to do while figuring out how to go back to his own time.


*


«And this is all.» Dazai finishes reporting to Mori as per his request, neutral tone and not much of an expression on his face. The smile on Mori’s lips is the one he is accustomed to, so the next thing that comes out of his mouth is not surprising.

«Well done.» he says first «Yet, is there something you are dissatisfied with, Dazai-kun?»

Dazai knows that the question is not casual at all. It wouldn’t even be shocking if Mori-san were about to say he gave him an awful report only to see if, as the “true Dazai”, he would notice and be irritated by it. For sure, back then, Dazai would have never accepted something like this and he would have disciplined the one who wrote said report.

«I have to admit it was surprising to see that a report like this is considered acceptable.» he chooses his words carefully, minds every gesture, makes sure to not show almost anything on his face if not a vague irritation «But you don’t need to concern yourself with it, Mori-san. I can manage this by myself once we finish talking.» he assures.

Mori looks pleased with his answer and nods slightly before giving a signal to his men; they disappear somewhere and after a few seconds, they come back with someone else. It’s a man Dazai doesn’t recognise, obviously a subordinate, a small fly who maybe was once under his command, Dazai can’t remember at all. Not a surprise, since he never really paid attention to those who gave him the impression of not being beneficial while he made the effort to remember those who were potentially useful. The man is not that old, maybe just a couple of years older than him now; yet the anxiousness and fear are both painfully written on his face. Dazai can guess that, even if he’s not his direct subordinate, he must know how usually Dazai deals with someone who doesn’t satisfy him. 

The man swallows and keeps quiet, doesn’t move more than necessary. Dazai gets what this is - another trial, another chance to fail with his supposed lie. In Mori-san’s mind, surely, if he still is the same Port Mafia member he used to be, then his methods must not differ very much. So what the boss is waiting for is to notice something in Dazai’s behaviour that can betray him.

Dazai doesn’t look at Mori, but focuses on the man instead.

«I took the liberty to call the man who was in charge of writing the report, Dazai-kun.» Mori tells him, almost casually. There is nothing casual about this.

Dazai nods, takes a few steps ahead; he focuses on the man, not much emotions on his face, almost none in fact: «Were you on every location on the report?»
«I was, sir.»
«Let me ask, then» Dazai doesn’t need to look at the papers to know what to question him about «did you notice, at some point, that the area of all those locations was the same no matter if they were all close or far from each other?»
«I did, sir, but-»
A kick hits him straight in the stomach. The man’s breath stops abruptly and he bends, arms covering where he got beat, face down to the floor. Dazai overtops him, quietly.

«And, of course, you didn’t think about sharing your doubts with others, you simply did your job as asked and now evidences we could have gathered are gone.»
«I… apologise—»
Another kick, on the side this time.

«I did not give you the permission to speak and little I do with your apology.» 

Dazai hears a small, soft chuckle coming from Mori, but he doesn’t look back at him; the man on the floor just coughed blood and is trying his best to raise his gaze, at least. Dazai sighs, annoyed: «Take him back.» he simply orders to the two who brought him inside the room and then stops paying them attention.

The moment they are outside, Mori speaks; when Dazai looks at him, he notices his satisfied yet challenging smile: «You never disappoint me, Dazai-kun.»

Dazai nods, again, and moves in order to reach the door and go back to his room. His hand his already on the door handle when Mori’s voice fills the room one last time.

«Dazai-kun?»
Dazai turns his head enough to look at him.

«I asked someone to leave a change of clothes in your room.» he says happily «Get rid of that coat, yeah? Light colors don’t suit a Port Mafia executive member.»

His eyes are not smiling at all.


*


What Dazai doesn’t expect at all is a phone ringing in his room, especially because it’s not his own - or better said, it was, he realises when he looks around and find the phone on the small table next to his bed; once he gets close enough he can easily see the screen: Ango is written on it.

Dazai takes the phone, waits for a second and then answers the call.

«I thought you disappeared.» it’s the first thing Ango’s voice says into his ear.

«I was busy.»
«I don’t want to know.» Ango cuts him, a sentence that used to mean “if I know then I will have to pretend I don’t”, which makes Dazai smile a little, even if not exactly out of pure joy «So, is this Thursday confirmed?»

Dazai has a moment of confusion: did they use to do something special on Thursdays? Was there something in particular they did on that Thursday? No matter how fast he tries to think, Dazai really has no idea about this. Should he admit or should he pretend and then try to figure out? Something tells him that if he does the wrong thing, Ango could be one of the few people able to figure out his lie or at least part of it.

Unexpectedly, Ango forestalls him «Don’t tell me is Odasaku-san the one who can’t come.»

Dazai keeps quiet for enough time that Ango, on the other side of the call, can’t help but speak again to ask if he’s still there.

«Yes, I am.» he replies at some point «I think Odasaku can. I’ll let you know later.» and without waiting for another word from Ango, Dazai closes the call. 

He doesn’t know why he didn’t immediately think about such an obvious problem once he got to know how old Chuuya was and, consequently, how far in the past he had been sent. A seventeen years old Chuuya means a seventeen years old Dazai and when his best friend - his only friend - died, Dazai was eighteen.

Odasaku is alive. He never thought he would be able to say that sentence, not even in his mind, ever again.

Dazai looks at the small calendar on the wall of the room: October 24th.

So that’s what Ango was referring too: in two days, it will be Odasaku’s birthday.


*


October 25th and Dazai has too many problems and very few solutions. The good thing is that he was able to make sure Atsushi is not there with him, which means that he could have told about his disappearance to the Agency and he’s sure Ranpo is already working on it.

The worst issues, though, are that Mori is still testing him and dropping questions here and there to get a glimpse of the future Dazai absolutely needs to hide and that Dazai still hasn’t made much progress with his own investigation about how to go back.

He looks at the phone on the small table, conscious about the fact that Ango is still waiting for him to confirm whatever plan they have for Odasaku’s birthday - truth to be told, Dazai is pretty sure this is all about going to the bar Lupin and spend time there as usual, because in his memories there is no trace of a great party. Yet the question is: should he make it happen? It’s not like the thought of wanting to change the things never crossed his mind (it did, oh if it did) but not like this, not without a plan and above all not when he doesn’t even know for how long he will be there.
With the very few things he knows, he could change the wrong event and make it worse, if possible.

So if he still goes at that birthday celebration, it means Odasaku will be there and no matter how much he knows about an adult Dazai being there - he supposes it still hasn’t reached his ear, because Odasaku would already be there to knock at his door, otherwise.

To lie to Mori’s is one thing; to Chuuya, he doesn’t even have to pretend to be someone else. 

But how do you lie to the person who was able to know how much darkness you had within you and still had hopes for you when nobody else did?

Dazai still does not have the answer when a knock on the door brings him back to reality; he looks in that direction, as if daring the door itself to betray him by opening by itself. Clearly illogical.

«Dazai? Are you in?»

Odasaku’s voice calls for him and Dazai hates the wave of happiness he feels, especially because the despair will only taunt him even more now. He wishes he wasn’t in that room, in that building, in that time.

Part of him wishes Odasaku wasn’t either.


*


They have been sitting on the bed, a few inches from each other, for ten minutes straight at this point and they haven’t spoken a word yet. Dazai can easily imagine what’s going on in Osadaku’s mind. Someone must have told him that Dazai came back but that he was not the Dazai he is used to and, of course, Odasaku had to check it with his own eyes.

Now there they are, close and yet far somehow. Dazai’s mind is going so fast he isn’t really sure which thought he should focus on first, but when Odasaku speaks suddenly his mind goes blank all together.

«Are you really the Dazai from the future?» he asks the most basic question, in the end; it almost makes Dazai laugh.

«I am.»
«Not our Dazai but just physically older?»
«No, I’m a different one.» 

It’s not a lie, after all. “Their” Dazai is who knows where - he could dare to bet on his time, because at this point it’s hard to think that two versions of the same person can exist in the same moment. Also, they would have crossed paths by now, instead they not only didn’t, but from what Dazai heard he simply was where the other Dazai was supposed to be.

«Do you think the Dazai of this time is okay?»

This is so Odasaku-like: be worried about others, especially those he considers friends, and not even suspecting the person in front of him could be lying only because it’s somehow the same friend he is concerned about.

«I suppose he is, otherwise I should not exist at all. Theoretically, at least.»

«Mh.»

How did he use to talk to Odasaku? Dazai never, never forgot anything about him but, despite this, the situation is so unnatural that it’s like he has never really talked to him before. Like a fuzzy memory that he can’t recall no matter how hard he tries to. After all, how can you pretend everything is okay and that you never changed when the reason of your change, the person whose life literally turned yours into something completely different, is in front of you? When they have been nothing but a ghost, a never ending regret, the thing you want to fix at all costs?

He is the person Dazai wishes to save more than anybody else, even more than himself, because he thought and still thinks that if the world deserves someone that someone has to be Odasaku, not him. Yet Odasaku died, and he survived, and Dazai knows - because it’s been years - that he was never able to express even half of the things he should have told him. This is a second chance he tried to grasp so many times and that was suddenly, brutally thrown at him and he doesn’t know how to hold it, or for how long he will be able to.

«Ango called me.» Odasaku changes the topic, as if there is nothing more he wants to ask about him. That is also like him, almost not a single feeling showing on his face when there is a storm inside him «He said you gave him an off feeling on the phone, yesterday.»

«I’m still not sure if Ango should see the me right now.»

That’s half true. Dazai still doesn’t know what’s the better answer to the question regarding how much the future should be changed - what could be more dangerous, Ango getting to know that in the future Dazai is still with the Port Mafia (no matter if it’s not true) or Odasaku being somewhere else when he should be at bar Lupin with them?

«Ango would keep the secret.» Odasaku tells him, looking at him as if he can’t completely grasp the reason why Dazai feels so conflicted about this when Ango is a friend who would do anything to honour their friendship.

That’s a laughable thought and Dazai allows himself that small fall of his façade; he chuckles, without making any eye contact.

«You are right, Odasaku. Ango would keep the secret, no matter what it is.»

It sounds way more salty and sarcastic than he intended it to be, so it wouldn’t be surprising if Odasaku noticed something is obviously off. But the older man simply looks at him without asking anything so, at some point, Dazai stands up and reaches for his phone - now that he thinks about it, why would his other self go out without the phone he uses for work?

He texts Ango about Thursday, a brief message just to confirm their plan for Odasaku’s birthday. Who knows if a year before Odasaku’s death Ango was already involved? That is something Dazai will probably understand if they meet. 

«Dazai» Odasaku is standing too, now, but doesn’t close the distance between them, which is something Dazai always appreciated. There was never a sense of unwanted closeness with him, because Odasaku was also the kind of man able to feel when other people felt uncomfortable and instead of asking them the reason why or impose his own view on them, Odasaku always managed to balance himself.

Yet Dazai knows that tone. This is not going to be funny at all.

«What is it, Odasaku?»
«Is there a reason why you locked up yourself in this room?»

Dazai could point out that he actually went outside for a mission and with Chuuya, nonetheless, or that he kicked someone he barely knew - which is something Odasaku never really could agree to - only to protect his real identity, but that would be pointless and it would also lead to a lot of questions Dazai can’t answer to.

So he turns enough to look at Odasaku and gives him a small smile that doesn’t say anything and, above all, doesn’t reach his eyes; it couldn’t be more fake and more similar to who Dazai used to be.

«Don’t be late for your birthday party tomorrow, Odasaku.»


*


The thing Dazai has always appreciated about meeting at bar Lupin is how he, the youngest executive of the Port Mafia, was able to meet with Odasaku and Ango with the certainty nobody would bother them or try to eavesdrop their conversations; not even the barman would particularly mind them, so Dazai feels like it’s safe enough to show himself there even when he is supposed to be five years younger. Hopefully, the barman will not notice.

Of course Ango almost drops his glass when, already seated at the counter, he sees both Dazai and Odasaku coming inside. It’s true that Dazai is not much different in terms of presence - after Mori-san politely advised him to change his clothes, Dazai knows he’s the spitting image of his past self, minus the bandage on one of his eyes - but he can get what must be Ango’s point right now.

No matter how similar, after all, Dazai being older than what Ango expected is a fact.

«...This is not what I expected.» he says, barely keeping the panic for himself probably. Now, it would be funny to ask if his worry is due to the situation per se or if his panicking is because who knows if a Dazai from the future distrusts him?

«I get that a lot.» Dazai replies, though, and sits down next to him; Odasaku takes the other seat and this moment is so familiar it’s almost comfortable. It’s like everything finally fell into place: the three of them, at their usual spot, drinking and chatting as if everything can be left outside. If things went differently, would this be his future too other than his past? Meeting when Ango is not overwhelmed by piles and piles of work, when Odasaku is not busy with his orphans; who knows, maybe one day they would have met to celebrate Odasaku becoming a writer.

«Dazai, aren't you ordering?» Odasaku's voice distracts him and Dazai goes back to reality.

He smiles, yet he knows that probably that can be nothing more than an enigmatic expression to the other two. Yet he raises his hand and speaks only to give the barman a brief order «Whiskey» he says and once the drink is in front of him he takes him, moves the glass slightly to make the ice inside hit the border. Then he turns to Ango first and Odasaku after, raises the drink enough to make a toast.

«So, Odasaku, happy birthday.» Dazai offers, waiting for the both of them to join him. He knows that none of them is convinced by his behaviour, yet they both raise their glasses and say «Cheers!»

The silence between them as they drink is not as comfortable as it used to be in Dazai's memory, but better than it could have been if all the three of them knew this was going to be the last birthday together. Dazai doesn't do anything to stop that fragile balance between them - he doesn't even ask Ango if he has informations about rare accidents or peculiar people or very young girls who are making him go through all this, and not only because somehow it's an unwritten rule, at least during the celebration of a friend, but also because even if he can accepts Ango knowing he switched places with his younger self, Dazai for sure doesn't want him to start asking about the future.

Too many dangers, too many chances to say the wrong thing and, above all, too many risks about losing it.

«So, you are older.» Ango says, as expected «You didn't mention it on the phone.» he adds, but towards Odasaku. The man doesn't look like he feels particularly guilty and, after one big gulp, he simply shakes his head a little bit: «I hadn't met him yet and wasn't sure. Also, I thought you would have seen it with your eyes anyway.» 

Dazai knows that it's mostly the truth, but Odasaku must have thought about him and his feelings too; even if an older Dazai was there, Odasaku didn't want to take for granted that their relationship would be the exact same and that the Dazai from the future was going to meet them and ask for their help.

It makes Dazai chuckles: after all, he wasn't the kind of person who would ask for help not even in the past, let alone now, especially coming from the future. Well, a part of him has somehow changed enough to not be stubborn and collaborate with others, thanks to the Agency.

He still thinks that Odasaku would have loved the Agency, as much as he's sure that if the Ango of the past - the one in front of him now - gets to know from him that there will be a day when Dazai will coexist with other people without being cruel towards them, he will never believe it and he would ask if it's some kind of silly joke instead.

«And do you know how long are you going to be here?» Ango is talking to him again, glass still in his hand and an inscrutable expression as he looks at him. Dazai doesn't make eye contact immediately, but takes his time, gazing at the drink inside his glass. He puts it on the counter, his index finger brushing against its edge.

«Who knows, it depends.» he admits, an amused voice that makes Ango frown. It must sound weird, to hear him being so uninterested about his own fate - and, at the same time, isn't this what Ango should be used to? A Dazai who doesn't care about his life at all?

Maybe that is exactly what Ango is thinking about: how can future be so similar to the past, if in some years Dazai will still be the same person who hopes to die and struggles to live? For sure, right now, in Ango's eyes Dazai must be the same seventeen years old he sees often at that bar, only a bit taller and with a few different details in his image. 

He almost wants to ask him what can you see, Ango? How much can you sense and how much I can still hide?, yet he doesn't.

He smiles, though, when he finally turns to look at him: «I'm working on it.» Dazai adds to his so-called explanation. 

It would be great if the future was not so different from the past, but...

«You know, Ango» Dazai speaks, attention shifted to his drink again «there were less luxuries allowed than I expected.»


*


What happens next is out of pure luck.

Dazai just bid farewell to Ango and is walking back to the Port Mafia base, Odasaku a couple of steps behind him, as if he wants the chance to observe him in order to understand what is wrong with him - because of course Odasaku doesn't believe that Dazai is simply being himself and has to spoil him by not asking directly.

The streets are still so familiar, despite five years have passed for him and something in his reality slightly changed, that Dazai barely needs to check where he is going or at which intersection he's taking a turn. So when he stops without notice, Odasaku almost ends up against him and can't help but speak with a confused voice «What's wrong?»

Dazai is looking in front of him: a small girl, even younger than the one he saw with Atsushi before this whole mess happened, is standing in the middle of the street. It's not a main one, on the contrary is the kind of street where a kid should not go alone, unless they are... orphans without a place to go back to. Dazai decides to observe calmly for a few seconds, enough to recognise her face, even if with more childish features. Her clothes may be different, but she is definitely the same person. And, just to prove him right, the child looks like she recognised him too and that must be why she starts running away the moment Dazai takes one step towards her. He is ready to follow her when a hand stops him, holding his shoulder, and Odasaku's voice calls him louder: «Dazai!»

It's too late to try and catch her: she already turned the corner and Dazai knows that what waits for him behind it is a tangled net of alleys. 

He sighs and turns to Odasaku; he surely doesn't need to speak, he's confident that the older man realises that he is waiting for an explanation. His hand lets go of him, but his eyes tell Dazai that he's ready to stop him again if he keeps that weird behaviour.

«What are doing? Your face is terrible, what were you about to do to the child?»

Odasaku has always been the kind of guy who would ask, before judging you, no matter how people had obviously ill intentions or how clear their purpose was, he would still ask and wait for the reply to decide what to do in response. Dazai used to admire it, maybe he was even envious of something he would have never been able to do - trust people, no matter how risky it was. A tiny part of him tells him and this is why you are alive and Odasaku isn't, but he silences it.

Still, he feels irritated. That was the first contact with the person who brought them there and that, probably, is the only one who will be able to send him back and yet…

«The child» Dazai stresses the word on purpose «is probably the one responsible for my being here and even the culprit of all the disappearances of this month.» 

Odasaku is surprised, that much is clear; not even him can completely hide his emotions now and Dazai is still used to read them on his face - to think that something that was only a memory until days ago would now feel so strongly imprinted into his mind is almost painful. This is not how it was supposed to be, this is not how Dazai wanted to go back and make things better. Not with the uncertainty of what will happen if he is thrown back to his reality as suddenly as he was brought here; not without a plan, without knowing what exactly he should change and what should be kept as it is. He was not ready to see Odasaku alive again and he is not in the mood to be genuinely happy about it.

Because it's only now, but after this? What should someone do after getting used to someone they already lost once and that they will soon lose for a second time?

«You could have told me.» it's not an accusation, but to Dazai it sounds exactly like that, no matter how rationally he tries to listen to him «I will help you to look for her. She's so young she will surely be around this area.» he offers, calm voice and best intentions.

«You will not.»

«Dazai...»

«You will not Odasaku. Knowing you, the moment she starts shedding tears you will feel sorry for her and you will just be in the way.»

«Why, are you planning to do anything to her? You only need to ask her to send you back.»

«Of course, why didn't I think about it? Asking a girl who is how old, maybe five or six years old?, to send me back with the ability she probably uses unconsciously. No side effects for sure, this is going to be child's game.» 

Dazai knows that he is not being fair but, after all, Odasaku isn't either. The situation is already a mess, Mori will observe him all the time until he stays there and what's worse is that the more Dazai gets used to being in a world where Odasaku is still alive, the more he will be tempted to do everything he can to avoid his death, which means convince him to do things differently, it means to protect the orphans he cares for, it means to stop Ango before it's too late.

It means to destroy everything to save only one thing and despite Dazai wouldn't hesitate one second to send the universe to hell only to save Odasaku, he still can't. Not like this. So he doesn't want to hear from Odasaku, of all people, that he will help.

Dazai doesn't need help, he needs a miracle. And miracles don't happen because of one's faith, they do because someone makes them.

«Dazai, you know that-»

«Yes, I know.» he hisses and starts walking again towards the Port Mafia base. When he passes next to Odasaku, he pretends to be calm «I will think about it and let you know.» he tells him absentmindedly and moves quicker, ignoring Odasaku's gaze on him.

He doesn't see Odasaku's face, so he misses his expression; if he could see it, Dazai would recognise it immediately: that is the look Odasaku had when they almost fought, just a little bit before he died, and he called Dazai only to have to look at his back as he walked away without a second thought.

What Dazai can think about is: has Odasaku ever showed him a disappointed expression?

Maybe not. Maybe he simply does not remember. But this doesn't change that there are many things Odasaku ignores that Dazai would like to have the choice to ignore too.

But he can't.


*


«So what you are saying, Dazai-kun, is that you probably found out who the culprit is and you want complete authority over the operation.» 

Mori doesn't look pissed off by his request and that much was expected; he should have no issues about giving Dazai important missions or enough space to move however he finds appropriate to the task at hand. All Dazai needs to do now is wait for his reply - hopefully the one he expects from the Mori-san of his past - and then he will be able to go searching for the girl, alone, ask the few questions he has and then disappear.

«Mind to share your thoughts, Dazai-kun?» Mori pushes him a little, smile on his lips and an amused expression; of course he wants to know the details. Dazai doesn't mind to give him most of them anyway, this is not really going to change much for him.

«All the disappearances are in an area and the Port Mafia base is included in said area.» he starts explaining, almost bored «The two things that seemed off in the beginning were how everyone simply vanished, as the only witnessed we interrogated told us, and the fact that the area was too large to cover by someone who doesn't live here but at the same time it seemed impossible to think that someone who actually can be seen often around here, and could be the culprit, was never noticed.»

Mori nods and waits for him to keep explaining. Chuuya is five or six feets behind him, sighing loudly without trying to sound less annoyed than he is; Odasaku too is behind him and frankly speaking Dazai doesn't need to focus on that.

«So I thought to change prospective.»

«What the hell does it mean?!»

«Chuuya-kun, let him finish. I'm quite interested.» Mori stops Chuuya with nothing but a small gesture of the hand and Dazai just keeps talking: «If the person has not much presence it would be pointless to look for them since it's supposed to be hard to notice. So I wondered: how can a person hide someone, make it seem like they vanished and keep hiding them when we already looked around? If people were kept somewhere, we would have found them by now.»

This is not entirely true, Dazai never changed point of view, but he can't exactly say that he just happened to find that girl and understand what is probably going on. So, he has to pretend he analysed everything.

«And then I remembered something I noticed the first time I was in my room in this building: my phone on the small table.»

«Oh?»

Mori looks very interested, at this point, almost entertained. Dazai thinks that he must already have reached his same conclusion, but he keeps talking nonetheless.

«The phone that belongs to my younger self was there. The phone per se is not important» or well, it is but for other considerations he isn't going to share «but isn't my younger self the same as those victims? He suddenly disappeared. The only difference is that I was sent here.»

«So what?! How does it change the fact we still have missing people and no culprit?!» Chuuya barks at him, unable to stop himself; Mori doesn't reprimand him, but only chuckles at their exchange.

Dazai looks over his shoulder at Chuuya, shakes his head and sighs, without a proper reply.

«Say, Chuuya-kun. What does my younger self have that other victims have not?» he tries, just to make it more believable. Him making fun of Chuuya, after all, is not suspicious no matter at what age it happens.

«Ah!? Apart from the fact that karma hates us enough to give us an older version of your asshole self?»

«Exactly that.» Dazai hums, totally faking his happiness for this unexpected development «They disappeared because in the future they don't have someone that can take their place. They didn't vanished, they should have swapped places with their older selves but they couldn't.»

«Why is-» Chuuya begins but stops by himself, probably because he understood while he was still in the middle of the sentence. Dazai and Mori look at each other and they don't need to say anything else.

Yet the show must go on until the end.

«They couldn't because, in the future, they are dead so they don’t exist and, for sure, they can’t come here.»

The silence fills the whole room. All the people there must have their thoughts, all different from one another; personally, the only thing Dazai hopes for is Mori-san giving him the final okay to do what he needs to do. Accordingly to the plan, this should be easy once Mori is on his side: he finds the girl, asks her to bring him back and everything will be back to normal.

Mori finally nods, his face half hidden behind his hands, fingers slightly intertwined. 

«Very good, Dazai-kun.» he says «You really exceed all my expectations, no matter what version of you is in front of me.» 

Dazai could read a lot of meanings behind those words, but chooses to ignore them; he acknowledges Mori's sentence and implied permission with a small nod and then moves to reach the door and exit the room. He sees, out of the corner of his eye, Odasaku taking a step forward probably to follow him outside and ask him what he plans to do with the girl. Dazai momentarily ignores him - if there is a fatal flaw in all this, something that could definitely give his true identity away to Mori, is the fact that the hardest thing to do for him is behaving like having Odasaku alive in front of him is natural and not something he longed for until now.

When he's about to open the door, Mori stops him as if this is a habit he can't get rid of: «Dazai-kun, I only have a last question, if you don't mind.»

Dazai keeps a sigh to himself and looks at the man, waiting; the way Mori smiles at him, not a hint of joy in his eyes, is bad news even before he actually speaks.

«On which side are you, in the future? The Port Mafia?»

Dazai knew this would happen, he was conscious that the hardest person to deceive would be no one else but Mori. Yet, not his past self nor the man he is now have never been fond of people trying to know all his secrets. So he smiles in the same way Mori did - he can see, even if only for a second before focusing on the mafia boss, that Chuuya noticed his expression, recognised it and that he doesn't like what he sees.

«What does Mori-san think?» Dazai asks back, a question instead of an answer «Would Mori-san really allow me to move around freely if you thought I will be an hindrance in the future?»

Mori chuckles softly and doesn't say anything more.


*


Odasaku stays in front of the door, uncertain about knocking or not.

Since the meeting with Mori, Dazai has barely spoken to him if not for a few words while going back to his room and then Odasaku let him be, gave him the space he knows Dazai needs sometimes, no matter how much he thinks that something is undoubtedly wrong.

It's a vague feeling and yet it never went away since the moment Odasaku saw that older Dazai. No matter how similar to the younger Dazai his clothes are, or how much his behaviour reminds Odasaku of the same person he considers his best friend, there is still something that bothers him. When they found the girl accidentally, Odasaku was not really surprised by Dazai's actions - if anything, what gave him an odd feeling was the conversation immediately after. It's like there is something in Dazai's mind, something even more unfathomable than usual, a darkness so deep that most of the people would instinctively run away from it. For Odasaku it's not easy to try to close the distance instead of fearing it, yet he tries, and tries, because somehow he is sure that the moment he will give up Dazai will vanish for sure and not physically, not because of some weird ability.

Maybe what Odasaku thinks is Dazai's heart would be lost, and that is the only thing he would never forgive, especially if it was going to happen because of him.

Yet, Dazai is hard to understand, hard to "manage"; there are only a few right answers, with him, and endless mistakes one could make. Even now, as he looks at the door with his hand still in mid-air, Odasaku has no right options to offer or to pick.

In the end, though, he knocks - because a lot of people would not, so he has to.

«Dazai?»

Silence comes from the other side of the door and it stays like that for minutes.

«Dazai?» he tries again, and still no answers. He moves his hand, puts it on the door handle and tries to lower it, just a little to be sure that everything is okay. Not very much like him, but when your best friend is a young boy that mentions way too much how living is something that doesn't bring him any joy at all, something almost mysterious to him, you learn to be a bit more of a busybody.

The room happens to be empty, no trace of Dazai anywhere, but the first thing Odasaku notices is the small table and the mobile phone on it. Wasn't Dazai used to take it everywhere with him? 

Odasaku is about to leave the room when, out of the corner of his eye, he sees a small note under the small lamp next to the phone. Normally he wouldn't even dare to look at it, but a shiver on his back makes him think of how much that resemble a suicide note out of a dramatic novel.

He takes it, looks at it; the message is very short.


Odasaku, there are a lot of things to say and most of them can't be said. Thank you.


Somewhere else, not that far from the Port Mafia base, a small girl and a seventeen years old Dazai are one in front of the other, in an empty valley.
 
hakurenshi: (Default)

Prompt: Leone
Missione: M12
Parole: 1091
Warnings: kindergarten!au, sensei!Kunikida




Portiamo i bambini allo zoo, dicevano. Sarà una bella esperienza formativa, dicevano.
Kunikida non pensa di meritarsi una cosa del genere, invece. Non pensa di aver studiato per formare giovani menti e ritrovarsi con piccoli cuccioli d’uomo dalle più disparate personalità che potrebbero morire in qualsiasi momento per la cosa più assurda.
«Sensei! Poe non vuole venire via dalla gabbia!» sente strillare a troppi decibel di potenza per non attirare la sua attenzione - e non far sanguinare le sue orecchie -, così da farlo voltare. Edogawa Ranpo è un bambino carino quando è impegnato a leggere qualcosa o a interessarsi a dettagli che non crede sia sano un bambino noti, ma se a volte serve a farlo stare buono va bene. Purtroppo, molto spesso, a impegnarlo è il piacere perverso di tormentare il suo compagno di classe più silenzioso (qualità molto apprezzata e molto rara), Poe. Il povero ragazzino, di cui Kunikida crede di ricordare a stento la voce per quanto poco si esprima fra timidezza e indole tranquilla, è del tutto a suo agio lì davanti alla gabbia a osservare l’animale meno spettacolare della terra: un procione.
Doppo inspira, cercando di farsi forza, e si accosta a Poe; il piccolo, già sentitosi chiamare in causa fin troppo, alza lo sguardo con l’aria di chi vorrebbe già scusarsi mille volte o, in alternativa, nascondersi sotto terra.
«Al ritorno passeremo di nuovo davanti al tuo amico, Poe-kun.» pronuncia con austera delicatezza - che non è sicuro esista, ma Yosano ci ha tenuto a specificare come sia l’unica descrizione possibile della sua persona - e il bambino sembra quantomeno convinto a permettere a tutta la classe di proseguire.
«Sensei» lo richiama, addirittura, con fare timido ma pieno di speranze «da grande posso tenere un procione a casa?»
Perché il suo gruppo deve essere il più strano. Perché.


Nonostante le stranezze la giornata sembrava quasi destinata a finire bene, se non fosse che di punto in bianco Oda Sakunosuke, il bambino preferito di Kunikida che preferenze non ne mostra, ma apprezza il suo essere l’esatto opposto di un cinquenne che fa solo danni, richiama la sua attenzione.
«Kunikida-sensei» dice, l’espressione non troppo turbata in apparenza - a volte Kunikida si domanda se sia sano alla sua età non sembrare toccato da niente a parte i libri - «Dazai-kun ha detto ad Atsushi-kun di andare a salutare suo fratello.»
...Un momento. Non gli risulta proprio che Nakajima abbia fratelli dentro lo zoo e questo lo colma di terrore, perché Dazai è il figlio del demonio senza ombra di dubbio.
«Suo fratello? Dove?»
«Nella gabbia dei leoni.»
Per un fugace istante Kunikida ricorda due pomeriggi precedenti, la classe in aula, Yosano a leggere un libro illustrato per loro con tanto di effetti sonori di animali feroci e lui a dividere la classe dando un ruolo a ognuno di loro. Sembrava un esercizio innocuo e divertente per permettere loro di imparare i versi degli animali e divertirsi allo stesso tempo. Nella sua testa l’immagine di Akutagawa - dall’importantissimo ruolo del lupo - preso a guardare in cagnesco (che non vorrebbe essere una battuta) Nakajima e dà voce alla domanda «Perché Atsushi fa la tigre?» lo fa rabbrividire.
Dazai. Cos’ha fatto, lui, per meritare una cosa distruttiva come Dazai Osamu nella sua classe e soprattutto nella sua vita?


Quando raggiunge di corsa la gabbia, non così distante per fortuna, l’immagine che vede è raccapricciante: Nakajima è davvero a un soffio dalla gabbia, appena prima del limite di sicurezza segnalato dagli inservienti dello zoo. Per fortuna ci sono anche diverse famiglie e qualche adulto responsabile ha ben pensato di fermarlo, prima che finisse davvero nelle fauci del leone che sembra momentaneamente interessato abbastanza da gironzolare lì nei pressi e puntare il suo sguardo ambrato su Atsushi di tanto in tanto. Kunikida non vuole credere che lo stia guardando pensandolo come il suo prossimo, lauto pasto.
Atsushi sembra contrariato dal fatto che qualcuno lo abbia fermato e lì, ben poco distante, Dazai sta tenendo per un polso Akutagawa e con l’altra mano ha appena agguantato Oda. Ride, lui.
«Atsushi-kun.» tuona, severo quanto serve a far capire già dal tono della propria voce che quello è un rimprovero serio; il piccolo sussulta e subito sembra rannicchiarsi su se stesso. Considerando il suo background famigliare Kunikida mantiene sempre una distanza fisica evidente per il bambino, così da non metterlo in allarme riguardo ad eventuali (impossibili) percosse di sorta. Ma vede che ha già capito di aver fatto qualcosa di sbagliato, sebbene di certo non sappia cosa. Kunikida lo vede alternare lo sguardo tra lui e il leone - forse sta vagliando la possibilità di lanciarsi del tutto in pasto alla bestia piuttosto che al suo rimprovero.
In verità, lo sa, è solo mortificato ma al tempo stesso ancora ammirato dall’animale.
«Sai quale animale è quello?»
«Un leone...»
«E i leoni abbiamo detto che sono?» prosegue con pazienza.
«Pericolosi…»
«Esatto. E la regola numero uno davanti alle gabbie degli animali pericolosi è?»
Il leone decide di sbadigliare proprio in quel momento, e scrollarsi facendo ondeggiare la coda. Questo sembra distrarre Nakajima, ma Kunikida sa di dover insistere ora, perché poi Dazai richiederà molto più tempo.
«Atsushi-kun, la regola numero uno?» lo incalza, braccia incrociate al petto; Atsushi è di nuovo con gli occhi spauriti su di lui e tanto basta a convincere Oda a lasciar andare la mano di Dazai e allungarsi fino a sistemarsi di fianco ad Atsushi e offrirgli la mano. Quello ci si aggrappa come se ne dipendesse la sua vita.
«Stiamo lontani dalle gabbie...» pigola a quel punto.
«Molto bene. Quindi adesso starai due passi dietro la corda con il cartello e non andrai più verso la gabbia. Intesi?»
«Mh-mh.»
Kunikida sospira, soddisfatto. Almeno finché la soave voce di Nakahara - bambino sereno finché non coesiste nello spazio di Dazai, cosa che accade sempre e inevitabilmente in una classe, e che dovrebbe essere in gruppo con Yosano - non lo raggiunge.
«SE DAZAI VA NELLA GABBIA DEL LEONE CI VOGLIO ANDARE ANCHE IO.»
Gelo. Si volta lentamente. Inquadra Dazai. Dazai oltre la corda. Dazai che verrà ucciso con o senza l’aiuto del leone.
«Dazai!» tuona, stavolta lo sentono fino alla gabbia delle scimmie forse, non lo sa.
Il leone, per tutta risposta, è già a dare le spalle a tutti loro per andare a sonnecchiare dove c’è più silenzio. Mentre tira indietro Dazai e si prepara a una ramanzina di trenta minuti che culminerà con la grave e tremenda punizione di un “niente merenda”, Kunikida vorrebbe essere lui.
 
hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Tristezza
Missione: M2
Parole: 8103
Warning: au, 18!Dazai, 23!Odasaku





Per Dazai è difficile ricordare la prima occasione in cui ha visto uno dei fili del destino con la piena consapevolezza di cosa fossero. Di certo non da bambino, tanto che se prova ad andare indietro con la memoria, si rende conto di aver forse parlato a sproposito più di una volta riguardo essi, ma di non aver presente l’avvenimento nello specifico. Conoscendosi non si stupirebbe se avesse semplicemente tirato uno di quei fili chiedendo all’adulto di turno cosa fosse, ma il punto è che non lo ricorda.
Come tutto ciò che c’è stato prima dei suoi diciassette anni, d’altronde.



Un giorno Dazai si è risvegliato in un letto d’ospedale. In che modo ci sia arrivato, glielo hanno dovuto raccontare: incidente d’auto, i testimoni dicono di averlo visto buttarsi da un cavalcavia. Un miracolo che sia sopravvissuto, un miracolo che non sia rimasto paralizzato, un miracolo che il punto da dove si è buttato non fosse alto quanto credeva e che sotto di lui non sia passato un autobus o un camion ma un furgone aperto della spazzatura. Ha sentito pronunciare la parola “miracolo” fino alla nausea, non si sarebbe stupito nemmeno se glielo avessero dato come secondo nome, a un certo punto.
E’ rimasto in quell’ospedale per un tempo lunghissimo, considerato quanto ci è voluto a rimetterlo in piedi e in grado di camminare e di badare a se stesso. Parenti non ne hanno trovati: nessuno ha denunciato la sua scomparsa, nessuno è andato a cercarlo. A Dazai non ci è voluto molto per capire di aver cercato di suicidarsi, considerata l’accortezza con cui ha gettato la tessera studenti; sfortunatamente per lui, di mezzi per identificare un essere umano ne esistono fin troppi. Così prima “lo sconosciuto del miracolo” è diventato “Dazai Osamu” e poi è uscito dall’ospedale a pochi giorni dal suo diciottesimo compleanno è stato dimesso; sarebbe potuto rimanere per un paio di anni, quello a dividerlo dalla maggiore età, all’orfanotrofio in cui apparentemente è sempre stato. Tuttavia mettere uno che ha tentato di suicidarsi in mezzo ai bambini non sembrava una grande idea, così Dazai ha dovuto seguire interminabili e tediose sedute con uno specialista, una volta a settimana e rintanarsi in un alloggio per studenti che cade a pezzi ma che è, tutto sommato, più di quanto gli servirebbe davvero.
A diciotto anni Dazai non si ricordava nemmeno perché avesse avuto tanta voglia di morire, perché buttarsi giù con la speranza di ammazzarsi in un secondo fosse sembrata una buona idea. Il terapista gli ha chiesto più volte - in maniera più o meno enigmatica a seconda dei casi - se avvertisse di nuovo il desiderio di porre fine alla sua vita, o se gli fosse tornato in mente qualcosa.
Dazai è rimasto in silenzio tante volte, fino a che un giorno ha guardato la mano dell’uomo e il suo anulare sinistro, con una bella fede al dito, di quelle semplici ma che ci si è chiaramente impegnati a scegliere.
«Sua moglie che lavoro fa?»
Il terapista lo ha guardato perplesso dalla domanda, ma in evidente entusiasmo per avergli tirato fuori dalla bocca qualcosa che non fosse imboccata a forza da lui stesso.
«L’insegnante alle medie. Dazai-kun, stai pensando a quale lavoro fare?»
Dazai ha scosso la testa, aggiungendoci un’alzata di spalle.
Il filo rosso del suo terapista era collegato alla segretaria.



Quando è stato dimesso e ha capito, con i mesi di terapia, che quei fili li vedeva solo lui a Dazai non ci è voluto molto per decidere cosa fare dell’informazione intanto che un tedioso, ultimo anno di liceo scivolava lento giorno dopo giorno verso una fine che Dazai si augurava avrebbe messo un punto tra sé e i suoi compagni di classe. Niente di personale, ma anche per un adolescente normale sarebbe stato difficile inserirsi per bene in una classe dove in parecchi erano già amici e il resto si conosceva almeno di vista.
Dazai non è mai stato (nell’unico anno di vita che ricorda) normale.
Prima ha fatto una prova su se stesso: ha seguito con lo sguardo un filo rosa partendo dal proprio dito e ritrovandolo legato a una studentessa della classe accanto; ha studiato sia quello che lei per qualche giorno, e notato una cosa simile a un interesse nei propri confronti. Così lo ha tagliato, e a partire da quell’istante in lei non c’è stata quasi più coscienza della sua esistenza.
Ha ripetuto quell’esperimento un’altra volta, con fili di diverso colore - ce n’erano così tanti gialli, di recente, da non sentire certo la mancanza di uno o due - e constatato come al taglio del filo corrispondesse la perdita di un legame. Da lì il passo è stato semplice e breve: i pettegolezzi proliferano in pochi luoghi come nei corridoi di un liceo, e lui lo ha sfruttato a proprio vantaggio. In brevissimo tempo la voce di qualcuno che taglia i legami del destino per un compenso irrisorio si è sparsa, e Dazai si è ritrovato una paghetta tra le mani senza nemmeno troppo impegno. All’inizio forse con qualche piccolissima difficoltà dovuta allo scetticismo, ma è stato sufficiente aiutare due o tre ragazze e via, la voce ha finito con lo spargersi come una macchia.
Di fili alle sue mani non ce ne sono mai stati in abbondanza da quando ha riaperto gli occhi in ospedale, ma mentre taglia quello della sua ultima cliente per dividere il suo destino da quello di un ragazzo che continua a farle una corte indesiderata, non può fare a meno di sorridere.
«Cosa c’è?» lei sembra guardinga, e solo per quello si accorge di essersi quasi fatto scappare quell’espressione.
«Nulla. Il filo è scomparso.» assicura, vedendola rilassarsi.
Forse se tagliasse tutti quelli che vede collegati alle proprie dita, riducendosi a essere qualcuno completamente slegato dal mondo, allora in un certo senso sarebbe un po’ come morire.


Quando a contattarlo sul proprio indirizzo mail “di lavoro” è qualcuno che si firma come uomo, Dazai è inizialmente abbastanza perplesso. Non perché non sia più che pronto ad accettare clienti di qualsiasi sesso, quanto perché non gli è quasi mai capitato fossero uomini o ragazzi a rivolgersi a lui - d’altronde la storia del filo rosso del destino è più famosa tra le ragazze che altro.
Ciò nonostante dà appuntamento a lui come ha fatto agli altri, a eccezione del luogo che in questo caso è per forza di cose esterno alla scuola, trattandosi di un adulto almeno secondo quanto scritto nella mail. E’ un linguaggio non troppo formale, quindi Dazai esclude si tratti di qualcuno di troppo grande rispetto a lui, e le frasi sono piuttosto brevi e con quasi la totale assenza di fronzoli oltre la normale buona educazione degli adulti per bene.
Si firma Heigo, e assicura - in risposta al suo breve messaggio con indicati luogo e ora dell’incontro - che sarà riconoscibile grazie a un libro intitolato Discourse on Decadence.
Dazai non commenta oltre, ma lo trova quasi divertente. E’ piuttosto curioso di vedere di che tipo di persona si tratti, quando arriva al locale dell’appuntamento con un certo anticipo; prende posto per primo a un tavolo che gli permetta sia di osservare che di essere in vista dall’ingresso e attende, tra le mani un libro a propria volta. La cameriera gli porta un bicchiere d’acqua, e lui specifica di star aspettando un amico per ordinare.
Quella se ne va e Dazai non deve attendere molto. Legge appena un paio di pagine, prima che con la coda dell’occhio non individui qualcuno vicino al proprio tavolo. Mentre alza lo sguardo sente dire «No longer human?» con un po’ di perplessità a cui è abituato, visto che non molti alla sua età leggono un libro come quello; però anche a Dazai tocca sorprendersi, visto che si ritrova davanti due persone e non una sola come credeva. Sono entrambi senza dubbio più grandi di lui, e a parlare è stato Heigo - quantomeno ha il libro concordato in mano, Dazai lo può vedere senza difficoltà - mentre l’altro sembra non sapere nemmeno perché si trova qui. A Dazai non crea grandi problemi avere uno o due clienti contemporaneamente o avere l’accompagnatore di un cliente con loro, così si premura di mettere il segnalibro tra le pagine e poi dedicarsi a loro.
Sa qual è la prima cosa che l’uomo con gli occhiali sta pensando, perché è cosciente di avere l’aspetto di un ragazzo che subisce violenza domestica a causa delle bende che gli coprono le braccia fino a parte delle mani e che precludono la vista di uno dei suoi occhi. Per tutta risposta, rivolge loro un incurvarsi di labbra senza sbottonarsi oltre.
«Dicono che vedi i cosiddetti fili del destino.» incalza Heigo.
«E li taglio su richiesta, se serve.» replica lui, con tutta la tranquillità del mondo sebbene il suo sguardo sia impegnato a cominciare a scorrere il menù «Devo tagliare o soltanto osservare?» domanda, cercando di inquadrare il tipo di lavoro e il dolce che lo ispira di più.
Ci sono diversi istanti di silenzio che portano Dazai ad alzare lo sguardo su di loro; l’uomo che non ha ancora aperto bocca mantiene comunque lo sguardo su di lui - per essere un giapponese è un po’ strano, con i capelli rossicci e gli occhi di quel colore particolare.
«Vedi un filo a collegare me e quest’uomo?» Heigo attira di nuovo la sua attenzione, costringendolo a chiedersi se non stia perdendo tempo o se invece l’altro sia solo uno di quei clienti molto scettici che lo contattano ogni tanto. Abbassa gli occhi sulle mani dell’uomo, lasciando da parte il menù; Heigo non sembra avere molti amici, ma molte persone a cui è in qualche modo legato per il lavoro o in generale in modo superficiale sì. Tra quel groviglio di fili di poco conto ne cerca uno verde oppure quello rosso - esclude possano avere un rapporto di odio, non gli danno quell’idea, né di gelosia negativa e questo lo porta a escludere nero, blu e giallo. Il rosso lo include perché, dopotutto, il Destino secondo Dazai è complicato e infantile abbastanza da poter accoppiare chiunque se solo lo desidera.
Lo trova poco dopo aver iniziato a cercare, e avvicina due dita alla mano di Heigo. Non sfiora lui, ma prende tra pollice e indice il filo verde: al contrario di quello rosso, che sembra collegato a qualcuno che non è però nelle vicinanze, il verde scivola giù dal tavolo e Dazai lo segue, lo tira leggermente e si sporge un poco sul tavolo finché non vede che sì, è legato a una delle dita dell’altro uomo. Prima che possa dire qualcosa però Heigo parla di nuovo, solo non con lui.
«Cosa ne dici, Odasaku?»
«Li vede.» replica l’altro con semplicità e a Dazai non sfugge cosa significa.
I fili del destino li vedono entrambi.
I due lo stanno studiando, Dazai lo sai e li lascia fare per qualche momento per poi incalzarli; apprezza la curiosità e vuole e aspettare di consumare il proprio ordine prima di prendere e andarsene, ma essere come in uno zoo non lo esalta troppo.
«Devo tagliarlo?» domanda, giusto per capire se quello è mai stato un vero ingaggio; Heigo - ma a questo punto dubito sia il suo vero nome, così come quel “Odasaku” - scuote subito la testa.
«No.»
«Quindi eravate solo curiosi.» sentenzia Dazai di rimando, occhieggiandoli; la cameriera li raggiunge e attira tutta la sua attenzione. Ordina un caffè, sentendo Heigo fare lo stesso per sé e per l’altro e quando la giovane va via il silenzio che cade fra loro è macchiato da una sorta di disagio invisibile e dalle molteplici cause.
«Non capisco bene perché fosse così curiosi, quando il tuo amico li vede come me. O non te lo hai mai detto?»
Li vede guardarsi, ma negli occhi di Heigo non vede la sorpresa di chi non sapeva fino a quel momento. Dazai deduce quindi che non abbiano semplicemente incontrato qualcuno prima di lui e con la stessa capacità - d’altronde dubita che siano in tanti - o che Odasaku l’abbia usata come scusa. Dazai non sa bene cosa si provi a voler o non voler condividere una capacità simile con un amico, né se si possa essere triste o feriti da un rifiuto.
Lui non ci ha mai pensato.
«Non abbiamo mai incontrato qualcuno con la stessa capacità.» è Odazaku a parlare, per la prima volta peraltro, confermando quanto Dazai aveva già ipotizzato e guardandolo dritto in faccia; gli adulti, di solito, non lo fanno oppure lo fanno in maniera tale da credersi discreti. E’ una sorpresa, questa, più di quanto lo sia il vedere i fili che legano le persone.
«E l’unico che conosco» puntualizza Heigo, sistemandosi gli occhiali sul viso «non mette annunci sul saper vedere o sull’essere disposto a tagliare i legami delle persone su richiesta.»
Il tono con cui lo dice ricorda a Dazai una delle prime persone a cui ha offerto il proprio aiuto, una delle sue prime “clienti”. Una di quelle che nonostante sia troppo frenata dalla propria morale per accettare e approvare un atteggiamento, finisce comunque con il cedere se a macchiarsene sono gli altri, mentre a lei rimane solo un manto di ipocrisia a fare da vestito.
«Quindi pensavi che fossi un malintenzionato?» lo prende in giro, abbastanza apertamente perché l’altro lo capisca ma non in maniera così sfacciata da risultare maleducato. Ritira la mano, lasciando andare il filo incriminato e portando lo sguardo fuori dalla finestra; tende sempre a sede in  modo che il lato cieco non sia mai quello offerto ai suoi interlocutori, proprio come adesso.
Sente uno dei due schiarirsi la voce, appena appena, e con la coda dell’occhio inquadra il tipo chiamato Odasaku; è in quel momento che la cameriera porta loro le ordinazioni, e Dazai non fa tanti complimenti per bere il proprio caffè, zuccherandolo quanto basta. Ha appena mandato giù una sorsata quando quella che, a quel punto, immagina essere la vera richiesta arriva.
«I fili si possono accorciare, che tu sappia?» domanda Heigo a bruciapelo, in evidente difficoltà sul come dare forma a un pensiero che è chiaro non sappia associare a un’immagine reale, non potendo vedere nulla. Dazai non può non riportare lo sguardo su di lui, celando la sorpresa e il pizzico di perplessità di fronte a quella domanda che non gli è mai stata posta prima, nemmeno da chi si è dimostrato piuttosto interessato all’argomento.
«Accorciare in che senso?»
«Oltre a tagliarli, è possibile che si accorcino se il legame si sta spezzando naturalmente? Oppure essere più corti o più lunghi a seconda del caso.» Heigo cerca di fare di meglio, con la spiegazione di cosa intende. Non ci riesce del tutto ma, a onor del vero, non è colpa sua.
«Non ho mai visto i fili “accorciarsi”. Se il legame si spezza naturalmente, così fanno i fili. In genere li taglio, quindi non ho badato molto a quelli che si interrompono da soli, ma a grandi linee so per certo che non si consumano.» ammette con un totale disinteresse per la cosa. Per notare una cosa simile si sarebbe dovuto interessare dei legami di almeno una persona e controllarli giornalmente, uno per uno, oppure individuarne uno singolo e tenerlo d’occhio. Per lui che, dopo un primo momento di studio, ha deciso di ignorare persino i suoi di fili del destino, è assurdo pensare di essersi potuto preoccupare di quelli altrui. Tuttavia la domanda di Heigo lo pungola nel modo sbagliato: se capisce lo scetticismo negli altri, di fronte al suo “lavoro”, gli riesce molto complesso comprendere l’urgenza che gli sente appena nel tono. A discolpa dell’uomo, Dazai è convinto che chiunque altro non ci avrebbe fatto troppo caso.
Purtroppo per Heigo, però, lui non è chiunque altro sebbene non sappia poi con esattezza chi sia stato e - di conseguenza? - chi lui sia ora.
Heigo e Odasaku si scambiano un’occhiata in silenzio, ma quest’ultimo a Dazai non sembra particolarmente preoccupato. L’occhio gli cade senza grande discrezione sulle mani dell’uomo: un po’ come Dazai, i suoi fili non sono molto, ma gli sembrano a posto e meglio distribuiti. Oltre al verde che lo collega a Heigo ce ne sono un altro paio - un uomo con pochi amici ma buoni, è chiaro -, di giallo non molto, di nero niente (un uomo benvoluto, quindi) e diversi rosa che sono sempre un po’ complessi da distinguere tra affetto dei parenti e degli amici da un interesse romantico di qualcuno. Nessuno di quei fili è molto lungo, ma niente che a Dazai faccia scattare chissà cosa.
Poi nota il filo rosso, e di norma non si cura di seguirne il percorso fino all’altro capo a meno che non gli venga espressamente richiesto, ma in questo caso è indipendente dalla sua volontà: il filo rosso di Odasaku fa un paio di giri attorno al suo anulare sinistro, come succede per tutte le persone, ma lì dove dovrebbe poi proseguire è già spezzato. La lunghezza non arriva nemmeno ad attraversare l’intero palmo di mano dell’uomo.
«...»
«Lo hai visto.» quella di Heigo, stavolta, non è una domanda.
«Mi chiedo come lo sappia tu.»
«Me lo ha detto Odasaku. Io non vedo nulla.» replica, forse indispettito abbastanza da lasciarselo sfuggire in una sfumatura del tono di voce. Dazai sospetta che non lo disturbi il non vedere una manciata di fili attaccati alle mani della gente come se fossero tutti marionettisti, ma non riuscire a vedere quelli di Odasaku nello specifico.
Dazai tace, rifugiandosi in un generoso sorso di caffè dalla propria tazza, tenendo lo sguardo sulla mano dell’uomo per un lungo istante e ponderando. Di possibile causa gliene salta in mente una sola, a essere sincero, e sebbene nessuno lo paghi per avere tatto con gli altri non è sicuro che quell’individuo che ha pronunciato una sola frase da quando sono lì sia pronto a sentirsi dare l’unica spiegazione plausibile.
«Se vuoi posso osservare i fili per un periodo.» propone «Vedere se, guardandoli a intervalli regolari, noto qualche differenza e la causa dello stato di quello rosso.» spiega meglio le sue intenzioni - a dire il vero lo incuriosisce: sarà davvero quello l’aspetto del filo rosso di qualcuno la cui anima gemella è già morta?
Perché è quella l’unica opzione che a Dazai sembra possibile.
«Non ho mai offerto un lavoro a lungo termine, ma non è un problema e possiamo concordare il compenso.» assicura con un sorriso costruito, imparato guardando business men che si possono incontrare ovunque per le strade, mentre si va a scuola.
Heigo e Odasaku si guardano per un attimo, e quest’ultimo sospira. Heigo invece torna con l’attenzione su Dazai, fino a che non allunga una mano sul tavolo. offrendogliela. Dazai gliela stringe, convinto di star sigillando un accordo, ma Heigo gliela trattiene.
«Ango.» pronuncia, sistemando con l’altra mano gli occhiali in quello che Dazai ormai ha classificato come un gesto meccanico.
«Cosa?»
«Sakaguchi Ango è il mio nome. Heigo è un alias.»
«Dazai Osamu.» si presenta a sua volta, perché non ha niente da perdere a dire il proprio nome reale: chi sarebbe così stupido da rivelarlo quando farlo significa quasi sempre ammettere di aver creduto che una persona potesse vedere fili invisibili al resto del mondo?
«Bene, Dazai-kun. Abbiamo un accordo allora.» pronuncia Ango, lasciandogli la mano e bevendo il proprio caffè in un solo sorso, per potersi poi alzare in piedi: «Darò io a Odasaku il tuo indirizzo mail, ora purtroppo siamo di fretta entrambi.» rivela, portando la mano nella tasca interna della giacca e tirandone fuori una busta semplice che allunga sul tavolo, perché Dazai possa prenderla. Non ha bisogno di chiedere per sapere che dentro ci sono i soldi dell’incontro di oggi, sia perché non vede cos’altro potrebbe dargli Ango, sia perché è un uomo facile da inquadrare almeno nel suo fare troppo serio e troppo formale.
Dazai si limita a un’alzata di spalle e un cenno della testa - non gli tange molto che lui e Odasaku si scambino ora gli indirizzi o tramite una terza persona. Anche lui si è alzato, ha bevuto il caffè in un paio di sorsi e ora lo osserva.
Ango fa per voltarsi e andarsene, ma Odasaku mantiene lo sguardo su Dazai e alla fine si decide a pronunciare una domanda che Dazai, nel sentirla, sospetta si sia tenuto finora.
«Per quelle hai bisogno di aiuto?» domanda, accennando alle bende.
Dazai vorrebbe ridere: Odasaku avrebbe potuto chiedere in maniera molto più invadente a cosa fossero dovute - una rissa, violenza domestica, un incidente - o cosa nascondessero, e invece l’unica cosa di cui sembra preoccuparsi è come aiutare un minorenne appena conosciuto in maniera anche vagamente losca.
E’ apprezzabile, sì, perciò decide di premiarlo con una cosa rara da parte propria: la verità.
«No» pronuncia con un sorriso affabile a incurvargli le labbra «ho cercato di uccidermi, ma non ha funzionato.» minimizza, sapendo bene nel momento in cui lascia scappare quelle parole quale effetto esse possano avere sugli altri.
Ango si irrigidisce, ma poi sembra analizzarlo per cercare di capire quanto sia vero quello che sta dicendo - Dazai lo capisce perché hanno un modo di studiare gli altri non troppo dissimile, lo ha capito subito.
Odasaku invece lo guarda, in silenzio, e quasi sembra non aver avuto reazioni.
Escono entrambi dal locale poco dopo, lasciandolo solo al tavolo. Fuori ha cominciato a piovere a dirotto, senza alcune preavviso come spesso succede durante la stagione.
Dazai guarda fuori, lasciando libera la sua testa di farsi affollare di pensieri.
Ho cercato di uccidermi ma non ha funzionato.
Non ricorda nemmeno perché ci abbia provato, ma a volte pensa sia una gran seccatura aver fallito.


Lui e Odasaku finiscono per incontrarsi più di quanto lui creda, e in generale il suo lavoro di osservatore diventa più lungo del previsto. Uno dei pochi motivi per cui nessun cliente ha mai avuto di che lamentarsi riguardo Dazai è che lui non ha mai reso più complesso del previsto un lavoro solo per guadagnare più soldi. Anche con Odasaku se potesse troncherebbe di netto la cosa passando al prossimo lavoro, non importa che Ango sia estremamente puntuale con i pagamenti - la cifra non è mai stata chissà quanto alta, visto che di bisogni non ne ha di così impellenti da necessitare l’arricchirsi, d’altronde.
In questo caso, però, davvero non sa bene come definire la situazione. Si vedono in media una volta a settimana, qualche volta due compreso uno dei giorni del weekend; la compagnia di Odasaku è migliore di quella di molti altri che hanno provato a passare del tempo con lui, di questo Dazai gliene ha dato atto fin dal primo incontro senza Ango presente. Odasaku non è tanto più grande di lui, a conti fatti, ed è un avido lettore cosa che a Dazai fa piacere per due motivi: preferisce la compagnia di un libro a quella delle persone, quindi avere qualcuno con cui fare due chiacchiere in merito non è male, e soprattutto possono passare la maggior parte del tempo insieme in silenzio, senza dover per forza instaurare un dialogo di qualche tipo destinato a rivelarsi del tutto superficiale e indesiderato.
Quando parlano, è su qualche impressione sui libri che tengono tra le mani ma ogni tanto Dazai concede anche un argomento un pelo più personale; non gli dispiace che Odasaku sia il tipo di persona riservata abbastanza da non voler essere invadente con gli altri, ma al tempo stesso lo incuriosisce che esista una persona così. Prima di dirigersi da qualche parte e prima di separarsi, Dazai ha sempre tenuto d’occhio quel filo rosso - ma anche tutti gli altri - per constatare la presenza o meno di cambiamenti di qualche tipo.
Sono quasi tre mesi che si incontrano, quando Odasaku finalmente oltrepassa un confine probabilmente autoimposto e che, a essere sincero, Dazai avrebbe preferito non superasse.
«Non si stanno avvicinando gli esami di ammissione, per gli studenti del liceo?» gli chiede di punto in bianco, tanto da portarlo ad alzare lo sguardo dai caratteri sulle pagine e puntarlo su di lui, quasi cercando di capire dove sia l’inganno. Quella è la tipica domanda che Dazai si aspetterebbe da uno come Ango, non da Odasaku che sembra a stento interessato alla sua persona o a qualsiasi altra cosa - a volte lo irrita persino. Farebbe qualcosa in merito se non temesse di vederlo trasformarsi in una adulto come il suo responsabile di classe, che continua a trattarlo come il figlio che non ha mai avuto e soprattutto come se Dazai desiderasse un padre sopra ogni altra cosa.
«Direi di sì.» commenta mantenendosi vago e neutrale, lasciando che sia Odasaku a fare la fatica, se proprio ci tiene a conversare su un argomento tanto inutile.
«Possiamo vederci meno. Per lo studio, intendo.»
«Perché pensi che debba fare gli esami di ammissione all’università?» lo incalza Dazai, sbirciando nella sua direzione ma assicurandosi che Odasaku se ne accorga. A ben pensarci, quando ha scoperto che “Odasaku” non era un nome inventato come “Heigo”, ma il modo in cui i suoi pochi amici lo hanno sempre chiamato - Oda Sakunosuke, Odasaku va bene, gli ha detto la prima volta - se ne è stupito. Lo ha aiutato a inquadrarlo con grande facilità ma, al tempo stesso, qualcosa ha suggerito a Dazai che non potesse esistere una persona più distante da lui.
Odasaku alza un sopracciglio, chiaramente perplesso: «Sei intelligente.»
«E questo significa che devo per forza proseguire gli studi?»
«No.» osserva Odasaku «Ho solo pensato fosse un peccato.»
«La vita è breve, Odasaku.» e detto da lui fa così ridere che non riesce a non sbuffare divertito, sebbene sia certo che nessuno lo trovi divertente quanto lui «La mia è più lunga del previsto, chi ti dice che io abbia voglia di arrivare a laurearmi.»
Cade il silenzio tra loro per diversi attimi, tanto che Dazai a un certo punto si convince di aver chiuso la questione con insospettabile velocità. Odasaku forse sta riorganizzando i pensieri, o magari sta solo lasciando cadere il discorso, non lo sa e non sa nemmeno quale opzione preferisca - non ama essere interrogato e doversi esporre, tant’è che riesce a evitarlo sempre con facilità e spesso senza impegnarsi però una parte di lui prova disappunto e fastidio nei confronti di quell’uomo capace di interessarsi alle cose sbagliate e, con altrettanta velocità, a lasciarle andare.
Dazai voleva (lo voleva?) lasciar andare tutto, dalla sua vita al resto del mondo, e adesso gli resta in mano un mondo che se lo è tenuto stretto e che lui deve imparare a conoscere di nuovo da zero, perché in cambio ha avuto solo un buco nero di sedici anni e mezzo sulle spalle.
Ma Odasaku non sta facendo scivolare via nulla, in verità.
«Pensi di riprovare a ucciderti?» domanda con una pacatezza quasi fuori luogo. Questo a Dazai non dispiace, ma solo perché non sarebbe stato in grado né invogliato a sopportare una reazione isterica sull’argomento; d’altronde, nemmeno la prima volta che lo ha menzionato Odasaku è sembrato particolarmente turbato, non nel modo in cui lo sono gli adulti di solito.
«Sto studiando il modo migliore. Non so cosa ne pensavo prima, ma ho deciso che il dolore non mi piace, quindi devo trovare la tecnica perfetta per morire in fretta e non soffrire.»
Odasaku lo studia, forse per cercare di capire se lo stia prendendo in giro oppure no. Dazai non può dargli torto, sull’avere quel dubbio; in tre mesi Odasaku ha già capito che in lui non deve cercare un diciottenne ormai prossimo al diploma e pieno di curiosità e speranza per il futuro, di preoccupazioni normali e banali, di interesse romantico per l’amica di sempre e il sogno di un lavoro e una strada da percorrere che sta appena iniziando a scoprire. Dovesse lui, Dazai, elencare cosa si potrebbe trovare in lui non avrebbe una lista pronta. Si sente come un buco nero, niente di quello che si avvicina rimane lì a lasciare traccia di sé.
«Non sai cosa ne pensavi prima.» ripete l’altro, non come domanda ma come constatazione. Dazai lo percepisce, nel suo tono, che Odasaku sta facendo due più due.
Chissà quanto può spingersi oltre prima che lui ceda.
«L’unica cosa che mi sono portato dietro dall’ultimo tentativo è una tabula rasa in testa, quindi mi dispiace ma chiedermi perché io ci abbia provato è inutile.»
«Le bende.»
«Mh?»
«Una tabula rasa e le bende, sono quello che ti sei portato dietro?» lo interroga Odasaku, e Dazai ammette che per una volta non capisce dove il discorso stia andando a parare. O meglio, non riesce a capire se l’altro stia cercando di portarlo all’ammissione di qualcosa o se le sue siano solo osservazioni casuali. Alza un sopracciglio e lo fissa per una manciata di secondi, prima di annuire lentamente; non intende entrare nel merito di come le bende, ormai, non nascondano più ferite fresche. Dà per scontato che anche Odasaku ci abbia pensato.
«Mh.» pare l’unico commento con cui Odasaku sembra intenzionato a sbilanciarsi. Dazai riporta lo sguardo sul libro, ma è dopo nemmeno tre righe lette che sente la voce al suo fianco parlare ancora una volta.
«Credo che sotto le bende sia rimasto qualcosa ancora.»
«Nah» quasi lo canticchia, inquadrando quel lungo silenzio per la preoccupazione di qualche cicatrice, forse «non c’è nessuna cicatrice sotto, ma mi donano, no?» scherza su.
«Non le cicatrici» riprende Odasaku, ma il suo sguardo sta tornando sul libro che stava leggendo prima «tutto il resto. Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.»
Lui non è solito ammutolire, ma un po’ per scelta e un po’ per colpa di Odasaku lo fa; si sente montare nella bocca dello stomaco un sentimento a cui non sa dare nome, niente di positivo, un mix di cose che non ci tiene a riconoscere ma che si traducono in un filo blu che ora lo lega a Odasaku, così, per prendersi gioco di lui - un filo blu per la paura e la tristezza e tutti quei sentimenti umani che Dazai non sa mai riconoscere, incolpando della cosa l’assenza di memoria.
Si morde l’interno della guancia, scaricando lì parole e accuse che ricaccia indietro, giù per la gola.
Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.
Perché, c’è qualcosa oltre quello che si vede?


Quando si salutano , Odasaku lo guarda con una briciola di apprensione nello sguardo e gli offre di mangiare insieme, una cena leggera, dopodiché lo riaccompagnerà a casa.
Dazai odia essere sfiorato più di quanto odi essere toccato - quando lo toccano, non che ci abbiano provato in molti, può scrollarsi la mano di dosso e mettere in chiaro che non è un gesto gradito. Ma le persone che sfiorano gli altri senza un contatto vero perché hanno paura di spezzarlo sono quelle alle quali non può scacciare la mano perché tempo di voltarsi verso di essa, e quella non è più lì.
Così quando la gentilezza di Odasaku cerca di farsi appena percepire, Dazai si scosta nell’unico modo possibile che conosce: ferisce.
«Non preoccuparti per me, Odasaku. Non so se è la persona a essere stata dall’altra parte del tuo filo rosso a essersi uccisa, ma io e lei siamo due cose distinte.»
Una volta a casa, una stanza stretta appena sufficiente a esistere senza soffocare, gli occhi gli cadono per caso sul filo blu e si aspetta di trovarlo giallo - il colore della gelosia, ma anche quello del disprezzo e dell’antagonismo in generale, uno di quelli che gli è più familiare.
E’ ancora blu.
Questo non sa come lo faccia sentire, ma di sicuro non è felicità.


Lo sorprende vedere Odasaku contattarlo di nuovo, ma lo sorprende ancora di più accettare di incontrarsi ancora, sebbene all’inizio ipotizzi che potrebbe anche essere la scissione di un contratto che in fin dei conti è solo verbale. Mentre si dirige al luogo dell’appuntamento si prepara persino a trovare Ango, e di certo non per complimentarsi con lui del lavoro svolto finora.
Invece Odasaku è da solo, sulla panchina del parco, a dare attenzioni a un gatto randagio ben accomodato accanto a lui.
«Ti piacciono così tanto i randagi, Odasaku?» gli scappa di bocca al posto di un saluto e prima che possa tenerselo per sé - non è così grave, Dazai non si è mai preso la briga di avere tatto nei confronti degli altri o di privarsi di rendere chiara la cruda realtà così come lui l’ha sempre vista dal risveglio in ospedale. Il suo modo di fare è in bilico tra il desiderio di ferire per vedere le reazioni degli altri, e la speranza di riscoprire in quelle stesse reazioni qualcosa di familiare che gli ricordi come si fa a essere umani, persone normali. Non perché brami la banalità che vede negli altri, ma perché forse più di un anno a farsi studiare il cervello con domande su domande e a osservare gli altri con l’avidità di chi del mondo non sa niente gli sono bastati per capire di essere un contenuto vuoto. E qualcuno ha detto, o magari anche scritto, che un recipiente vuoto tende sempre al riempimento.
Odasaku lo guarda e sospira, quasi rassegnato, prima di tornare con lo sguardo sul felino; quello pare più interessato a fissare Dazai, quasi a giudicarlo, ma lo lascia stare presto per alzarsi e andarsene via.
Quasi fosse una ripicca, Dazai si siede al suo posto con uno sbuffetto tra il divertito e il soddisfatto.
«Quello che hai detto la volta scorsa» comincia subito Odasaku, senza aspettare oltre o introdurre l’argomento in modo più soft «non credo sia corretto.»
«Perché?» domanda, provocatorio. Ovvio che non è stato corretto, gli ha praticamente sbattuto in faccia di non fare l’errore di sovrapporre lui alla figura della persona che un tempo è stata dall’altra parte di un filo del destino spezzato e per cui non esiste riparo, al contrario di quelli degli altri legami. Di anima gemella ce n’è una sola, d’altronde.
«Perché non ho mai avuto una persona che potesse essere dall’altra parte del filo rosso.» ammette con un candore che nemmeno Dazai può ignorare e che lo sorprende al punto da non permettere alla sua solita poker face di ingannare il suo interlocutore in merito all’interesse che la cosa gli susciti. Più che interesse specifico, quello di Dazai è dovuto a un unico fattore: non pensava potesse esserci qualcuno dell’età di Odasaku il cui filo, non ancora connesso, somigliasse a uno tranciato di netto.
«...Mi stai dicendo che potresti essere un caso di persona senza anima gemella?» lo interroga, guardingo - forse la sua anima gemella non è ancora nata? Impossibile, ci sarebbe un esagerato divario di età a renderlo impossibile. Forse è morta prima che Odasaku nascesse, o prima che si rendesse conto di cosa significava quel filo? La differenza in quel caso non sarebbe altrettanta, per quanto sarebbe… insoddisfacente. Crede.
«Questo dovresti dirmelo tu, Dazai.» replica Odasaku con un mezzo sorriso, il gomito poggiato sul proprio ginocchio e la mano a sostenerne il volto mentre se ne sta voltato verso di lui a osservarlo «Sei tu l’esperto.»
«Beh, però quello strano sei tu, Odasaku.» rimbecca «Hai il mio stesso potere, ma non lo utilizzi e non te ne sei mai interessato. Ho capito subito, quando vi ho visti, che è stato Ango a insistere per incontrarmi e non tu. Poi non hai mai avuto un’anima gemella, il tuo filo è interrotto non come quando non è ancora collegato ma come quando viene spezzato, eppure tu dici che è sempre stato così.» sciorina tutte le proprie motivazioni, bravo come un libro che non ha mai bisogno di essere corretto perché dice solo cose giuste.
«Un filo rosso come il tuo non l’ho mai visto.»
«Persino il tuo è collegato, Dazai?» sembra genuinamente sorpreso dalla cosa, e Dazai non può dargli torto. Però, contro ogni aspettativa, si lascia sfuggire la pura e semplice verità - per quanto sia conscio che, a dire certe cose nel modo in cui lo fa lui, come se non fossero affatto importanti, lascia sempre il dubbio agli altri se stia mentendo o meno.
«Io non ce l’ho.»
«...» Odasaku tace, e in quel silenzio a Dazai sembra di sentire delle scuse incerte, un’indecisione di base su come comportarsi ora, su cosa dire.
«E’ possibile?»
«Direi di sì.» replica, con una sfumatura di ovvietà nella voce, alzando la mano incriminata e mostrandogliela: pochi fili, di colori diversi tra loro, ma nemmeno l’ombra di uno rosso.
«Non avevo mai visto qualcuno senza.»
«Allora forse siamo in due.» sottolinea «Ho immaginato fosse perché avevo il potere di vederli, ma forse non è così visto che tu lo hai, per quanto malconcio.»
Rimangono entrambi in silenzio, Odasaku ancora con gli occhi sulla mano senza filo rosso, Dazai a guardare lui.
I silenzi di Odasaku sono sempre duplici: lo fanno sentire rilassato come di rado accade per la presenza di un’altra persona, ma sono anche estremamente pericolosi. Quell’uomo di solo qualche anno più grande di lui ha la capacità di parlare poco e cogliere sempre nel segno, una qualità che Dazai apprezza più dell’ipocrisia ma che mina troppo a tutta quella parte di sé che è al pari di una tavolozza che nessuno - lui per primo - vuole prendersi la briga di riempire con qualche colore o anche solo una bozza di qualcosa.
«Ti rende triste?» domanda così, dal nulla, riconfermandosi una mina vagante pronta a esplodere in territorio nemico in ogni istante.
Ci pensa, per un attimo, anziché minimizzare subito; non è tanto il desiderio di aprirsi quanto il pensiero di dover forse concedere un pezzetto per averne indietro un altro, qualcosa che lo aiuti a districare la matassa di misteri che si concentrano in quell’unico, incomprensibile filo.
La risposta però è più difficile da trovare di quanto sembri. Lo rende triste? Da quando si è risvegliato nel letto di ospedale, senza poter muovere nemmeno un muscolo senza sentire dolore, era triste di essere vivo? Triste per aver provato a uccidersi? Triste di non ricordare nulla?
E’ triste quando guarda la propria mano e realizza che forse nemmeno il karma ha avuto il coraggio di unire la sua vita a quella di un’altra persona?
«Si può essere tristi per qualcosa che non si ha mai avuto?» replica, ma non è una provocazione questa volta il suo farlo con un’altra domanda. Torna a guardare davanti a sé, abbassando la mano e posandola mollemente sulla propria gamba, lasciandola lì perché Odasaku la guardi pure, se preferisce. A volte, quando lascia vagare la mente si accorge di guardare sempre più in fondo, sempre più verso l’orizzonte e di cercare di superarlo, quasi avesse piena coscienza della presenza di qualcosa al di là ma non riuscisse a vederla.
Non c’è mai niente da vedere davvero, però.
«Voglio dire, non so nemmeno se ho mai avuto questo filo prima. Se c’erano persone, prima. In ogni caso, se c’erano, non sono venute a cercarmi.» non lo dice con amarezza, non è il tipo. Crede, almeno, di non essere il tipo. In ogni caso di questo è abbastanza sicuro: parlare di come sia solo e rendersi conto di non avere nessuno - o almeno, nessuno che abbia deciso di tornare a riprenderlo in ospedale - non lo fa sentire distrutto dal dolore.
Nostalgico nemmeno, si ha nostalgia di qualcosa che si aveva un tempo e che ora manca.
«A te fa sentire triste, averlo così?»
«Non proprio.» ammette Odasaku, sebbene non si sbilanci di più «Forse ti senti solo.»
Sbuffa divertito, Dazai, non può non farlo perché la solitudine è una cosa che veste come una seconda pelle e con piacere: «Solo mi piace.»
«Non ho detto che non ti piace.» sottolinea Odasaku, la spalla che tocca quella di Dazai «Ma il fatto che ti piaccia, non significa che “solo” è una cosa che non senti distante da te?»
«Odio come usi le parole, Odasaku.» lo interrompe - forse cerca di distogliere la sua attenzione dall’argomento - ed è un grande complimento perché Dazai con le parole ci gioca spesso (sempre).
«Beh» dice l’altro, divertito, tanto che non sembra nemmeno stiano parlando di argomenti seri ed esistenziali «è un bene che non sia mai finito a fare lo scrittore.»
«Vuoi fare lo scrittore?»
«Da bambino. Ormai ho lasciato stare.»
«Non muori certo domani, Odasaku. Potresti.»
«Morire domani?»
«Fare lo scrittore. I tuoi libri sarebbero insopportabili, ma penso sarebbero anche belli.» gli concede, continuando a guardare con insistenza davanti a sé. Percepisce lo sguardo di Odasaku addosso ma finge di no, conscio di averlo sorpreso perché ha stupito anche se stesso - con Odasaku scopre di avere ancora qualcosa dentro di sé, qualcosa che non si vede in superficie forse. Magari l’altro aveva ragione.
«Penso che tu riconosca bene le emozioni degli altri, Dazai.» riprende l’uomo come se non avessero mai affrontato la parentesi di cosa volesse fare da ragazzino, quando cercava di immaginarsi adulto.
«Le mie no?»
«Mh. Credo di no. Penso che non esista una sola persona al mondo che sarà mai in grado di riconoscerle per te e tu le neghi, le mascheri come un ragazzino della tua età non dovrebbe saper fare e per questo… forse nemmeno tu riesci a vederle.»
Cade di nuovo il silenzio tra loro, ma non è di quelli scomodi. Dazai si lascia scivolare con la schiena contro la panchina e lo sguardo sale verso l’alto, abbandonando in parte l’orizzonte o qualunque cosa cercasse oltre esso. Sente Odasaku imitare la sua posizione, perché la spalla dell’uomo si allinea di nuovo alla sua.
«Quindi» riprende abbandonando ogni filo logico possibile di quella conversazione, sempre se ne sia rimasta almeno l’ombra «mi sento solo e questo mi rende triste?»
«Non lo so. Ti fa felice? O vorresti non essere solo?»
«...Non lo so.» si rintana dietro tre parole per non dire che, in fondo, se l’alternativa alla solitudine fosse Odasaku potrebbe non essere tanto male.
L’altro lo sta di nuovo guardando, lo percepisce.
«Vieni a mangiare da me.» propone infine, ma non aspetta la sua risposta «Puoi anche restare a dormire, per una notte.»
Fa fatica a capire perché dovrebbe e perché il suo rapporto di lavoro ormai è un legame indefinito e basta; però l’idea non gli dispiace e già questo è sorprendente.
Essere qualcosa di diverso da “solo”. Chi lo avrebbe mai detto.



Sto portando Odasaku in ospedale.
Le parole di Ango gli rimbombano in testa mentre esce di casa, prende la metro, sbaglia strada e deve chiedere informazioni - e per fortuna se ne accorge abbastanza in fretta, o perderebbe ore. Forse minuti. Ma quanto è grave il motivo per cui Odasaku è in ospedale?
C’è stato un incidente. Diceva che avevate un appuntamento.
Sì, il solito della settimana. Dazai muove un passo dietro l’altro: sostenuto, poi più veloce, poi sta correndo e non ha davvero la preparazione fisica per fare uno sforzo simile dopo appena un anno di riabilitazione completa ma a quell’ospedale ci arriva.
E’ difficile inquadrare subito chi si sta occupando della reception e chiedere di Odasaku, perché quando dice il suo nome l’infermiera controlla e gli dice che non c’è nessuno lì - Dazai fa schioccare la lingua contro il palato, Oda Sakunosuke, si corregge.
Lei gli chiede se è un parente, lui scuote la testa: sta per dire che è un amico anche se non è vero - cosa sono lui e Odasaku? - quando Ango appare dal nulla come un cavaliere dall’armatura scintillante, non fosse per il solito completo da impiegato triste e la faccia bianca come un cadavere, l’espressione grave in viso.
E’ lui che si prende la briga di parlare con l’infermiera, di spiegargli; Dazai non sa cosa gli dica ma ottiene di farlo passare, poi gli posa una mano sulla spalla per guidarlo come se Dazai non fosse in grado di camminare da solo. Appena girano l’angolo, l’uomo comincia a vomitare parole e spiegazioni che Dazai fatica a cogliere tutte insieme. Gli parla di incidenti, di Odasaku, di macchine, di incontri, di appuntamenti, di lavoro, di lui che corre, di come sembra che anche Dazai abbia corso.
Gli dice di no, ma si sente a metà quando lo dice.
La sala operatoria è ancora chiusa, la luce rossa accesa fuori segnala che è tutto in corso - Dazai detesta non avere risposte, ma detesta ancora di più il panico che si sente dentro e che è di sicuro colpa di Ango e della sua agitazione.
Non muori certo domani, Odasaku.
Glielo ha detto sul serio ma non ci credeva, era una battuta come la maggior parte di ciò che gli esce di bocca, fatto di ironia, una punta di sarcasmo a volte e zero consapevolezza del domani. Come fa uno che si è buttato da un cavalcavia per ammazzarsi ad avere la presunzione di sapere cosa aspettarsi il giorno dopo?
Non voleva nemmeno avercelo, un giorno dopo. Anche se non sa ancora perché. Però mentre si siede fuori con Ango, spera che Odasaku un domani ce l’abbia.

La luce fuori dalla sala operatoria si spegne e Ango salta in piedi come se gli avessero dato la scossa. Dazai rimane seduto, registra quel cambiamento luminoso con qualche secondo di ritardo.
Quando il medico esce e si toglie la mascherina, chiedendo ad Ango se sono solo loro due lì o se la famiglia è in arrivo, Dazai capisce che Odasaku è morto.
Potrebbe pensare “qualcosa è andato storto”, oppure “c’è stata una complicazione ma lo hanno salvato” invece l’unica possibilità gli pare quella. Non riesce a pensare al positivo, alle tante cose che potrebbero essere andate storte rimanendo comunque un’opzione migliore della morte.
Mentre Ango parla con il medico, Dazai non ha nemmeno bisogno di alzarsi per saperlo.
Oda Sakunosuke è morto.

«Vado a firmare le carte.» pronuncia Ango, senza sfiorarlo nemmeno. Il loro unico contatto è stato in quel breve momento di panico interiore per entrambi, ma ora tutto sembra tornato a un’asettica normalità.
Dazai sente a stento la porta chiudersi alle sue spalle, lo sguardo fermo sul corpo di Odasaku sotto un lenzuolo bianco. Quando è sicuro che Ango non stia per tornare dentro, lo scopre: il volto è più pallido, ma non è passato abbastanza perché sembri già morto piuttosto che in un sonno profondo e niente di più.
Allunga una mano e gli sfiora una guancia; la ritrae, la porta più giù, e gli tocca la mano.
Non muori certo domani, Odasaku.
Il filo rosso di Odasaku è ancora lì, spezzato tra fili ancora integri ma che si stanno allentando. E’ la prima volta che Dazai vede il progressivo venire meno dei legami con gli altri, e non si aspettava fosse così - eppure ora lo vede con chiarezza: quel filo non si è mai legato non perché l’anima gemella di Odasaku sia già morta, ma perché lui era destinato a morire prima di incontrarla.
Un conato di vomito gli risale dallo stomaco alla gola, l’acido della bile a grattare per uscire. Lo trattiene, portando una mano alla bocca: c’è qualcosa che lo sta mangiando da dentro e non capisce cosa sia - forse la rabbia, perché che senso ha una persona come Odasaku morta in un letto di ospedale, Odasaku che vuole (voleva) fare lo scrittore mentre uno come lui, come Dazai, che non desidera niente e non ha niente si ritrova con il peso di dieci, cento, mille domani ancora. E l’unica volta che ha provato a toglierseli di torno non ci è nemmeno riuscito.
Ti rende triste?
Gli si rivolta lo stomaco, non in senso letterale, però; le viscere gli si stringono in maniera dolorosa e gli si forma un nodo in gola, così stretto che Dazai pensa di non star più respirando nel modo giusto. La mano su quella di Odasaku si stringe, tiene la sua.
Ha sempre pensato di essere vuoto, di essere quel tipo di assenza che attira solo altra assenza, quel recipiente che tende al riempimento senza però riuscire a farcela. Non ha mai percepito né accostato a sé il vuoto che ora sente di fronte a un corpo senza vita, di fronte a Odasaku che non si sveglierà mai più.
Si è immaginato la morte come qualcosa che un se stesso a lui sconosciuto aveva cercato e desiderato, mai come una cosa immobile e triste.
Ti rende triste?
Stringe la sua mano fino a che le nocche non sbiancano, si morde l’interno della guancia a sangue, ma non lascia sfuggire un solo suono tra le sue labbra.
Forse, ormai quasi due anni fa, ha desiderato di non sentire più nulla.
Non muori certo domani, Odasaku.

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‘Osamu’ è il nome che gli ha dato sua madre. Non “i suoi genitori”, solo sua madre; si ricorda ancora di qualche anno fa, quando la sua insegnante ha chiesto a tutta la classe di scrivere un breve tema sui loro nomi, e come i loro genitori fossero arrivati a scegliere proprio quelli. Lui l’aveva scritto, e poi l’aveva letto di fronte a tutti i suoi compagni di classe - e alla fine qualcuno aveva chiesto “e tuo padre, Dazai-kun?
L’espressione della sua insegnante era stata davvero buffa, perché era sembrata terrorizzata da quella domanda; ma lui non capiva cosa ci fosse di così spaventoso. Aveva semplicemente detto la verità. Solo dopo qualche anno aveva compreso che a essere stato sbagliato era stato il modo in cui lo aveva detto, come se non fosse toccato da una domanda così personale, difficile - crudele. A lui, a quel tempo, era sembrata una come tante altre che avrebbero potuto fargli.
«Non ne ho uno.»
Nemmeno una volta aveva pensato a se stesso come sfortunato. Forse perché le persone non potevano oggettivamente sentire la mancanza di qualcosa che non avevano mai avuto, quindi Osamu non si era mai davvero sentito in difetto di qualcosa solo perché non aveva un padre: non lo aveva mai visto, neanche in un’occasione; non sa se si somigliano o se ci sono solo alcune cose che ha preso da un uomo che nella sua mente non ha nemmeno un’identità precisa. Ha provato a immaginarlo, una volta o due, ma ha fallito. L’unica cosa che sa è che era piuttosto bello, a giudicare dal poco che sua madre gli ha raccontato nei rari momenti in cui gli ha parlato di lui: un uomo davvero, davvero bello, un uomo buono - Osamu non ne è molto sicuro, visto che i padri dei suoi compagni di classe sono sempre presenti per i loro figli.
No, lui è abbastanza sicuro di essere un ragazzo fortunato: sua madre lo ha fatto nascere e lo ha cresciuto tutta da sola; a volte la sente piangere, l’abbraccia e lei ride. E’ in quei momenti che pensa di non aver bisogno di una terza persona oltre sua madre e se stesso, di non aver bisogno di un padre.
Dazai Osamu ha nove anni, e pensa che sua madre sia un’eroina.


Tutte le sue compagne di classe sono strane. E’ l’Ottobre del suo primo anno di scuola media e tutto ciò di cui parlano si riconduce alla storia dell’anima gemella; non che lui non sappia di cosa si tratta, ma proprio per questo sa che si tratta di qualcosa da affrontare nella pubertà e per cui manca ancora diverso tempo quindi - le ragazze però sviluppano prima dei ragazzi, perciò molte di loro hanno già questa frase sui loro corpi, molte ridono tutto il tempo mentre se le mostrano l’un l’altra, specie durante la pausa pranzo. A dire il vero a lui non interessa molto: innanzitutto perché non ne ha ancora una, perciò non ha niente di cui parlare; secondo, perché l’intera faccenda non gli piace granché.
Giusto qualche giorno prima ha visto una ragazza di un’altra classe piangere nel corridoio perché - a quanto pare? - le poche parole che ci sono sul suo polso sono parole che il ragazzo che le piace non potrebbe mai dire, qualcosa a proposito di una sorella minore che non ha, perché ha solo un fratello maggiore.
Non è che Osamu non capisca i suoi sentimenti, almeno su un piano teorico e generale, ma… come si può essere così disperati per una cosa così sciocca? Poche parole non sono una sentenza di morte, né rappresentano una legge assoluta.
«Dazai-kun ti posso parlare?»
La ragazza di fronte a lui è Kaori, della sua classe: è timida e gentile, una delle poche che ancora non ha visto comparire su qualche parte del suo corpo le parole della sua anima gemella o, se le ha, non sono in un punto visibile per tutti. Lui la guarda, non molto sicuro di voler davvero uscire dalla classe per ciò che lei deve dirgli, qualcosa che non è difficile immaginare. Lo fa comunque, perché c’è una vaga possibilità che non si tratti di una dichiarazione: quindi annuisce e si alza, la segue fuori mentre i suoi compagni fanno qualche battuta idiota alle sue spalle; lei per fortuna si ferma quasi subito, quando raggiungono le scale.
Ha un sorriso timido a incurvarle le labbra, mentre si tortura le mani cercando il modo migliore di dire quel che deve dire. In un certo senso lo sorprende quando punta lo sguardo su di lui, instaurando un contatto visivo diretto.
«Mi piaci, Dazai-kun.»
«Davvero?»
«Sì. Sei… gentile, e intelligente, e sembri davvero maturo. E penso che tu possa essere la mia anima gemella, Dazai-kun.»
E’ per questo che l’intera faccenda non gli piace per nulla: tutti sembrano credere che nel momento in cui scopriranno chi è questa fantomatica anima gemella saranno destinati alla più completa infelicità qualora non dovessero essere ricambiati. Non c’è alcuna logica e non riesce ad accettarlo. Sa bene che il giorno in cui le parole della persona a lui destinata arriverà, ma si limiterà a leggerle e poi a dimenticarsene; dopotutto non morirà certo per averle ignorate.
Osamu sa meglio di chiunque altro che si può sopravvivere anche senza la propria anima gemella: ha visto spesso la frase sul corpo di sua madre, ma sa che suo padre non l’ha pronunciata la prima volta che si sono incontrati. Quindi è chiaro che non fosse l’uomo destinato a sua madre.
Ma è tutta qui la questione: lei continua a incontrare uomini, notte dopo notte; a volte torna a casa di mattina, e va bene, perché Osamu può fare finta di stare dormendo quando lei apre la porta e gli si sdraia accanto - non sa se lei finga o meno di sbagliare porta, ma non la caccia mai, perché lei lo abbraccia e mormora un nome che forse potrebbe essere quello di suo padre. Eppure la maggior parte delle volte le fa anche entrare alcuni di quegli uomini mentre lui è in casa. A loro non piace mai: probabilmente pensano che avere un moccioso tra i piedi non farà altro che rovinare i loro piani o qualcosa del genere. Così sua madre lo manda via dalla sua stanza, da casa loro, e poi prova a convincere quegli uomini a restare, come se quelli fossero l’unica cosa in grado di alleviare la solitudine che le monta dentro ogni volta che la frase sul suo corpo le urla dietro di essere stata abbandonata, marchiandole la pelle come fuoco.
Osamu odia quegli uomini, li odia tutti, ma alla fine se ne va sempre e rimane fuori quanto basta, per tutto il tempo necessario. A volte va a studiare in biblioteca, perché così non deve spendere soldi. Ci sono giorni in cui sua madre si è persino dimenticata di lui e di farlo rientrare, lasciandolo fuori tutta la notte. Perciò, quando sente i suoi compagni parlare di quanto romantico debba essere il primo incontro con le loro anime gemelle, si irrita. Sua madre probabilmente non ha mai incontrato la persona a cui era destinata eppure è sopravvissuta, ha persino avuto un figlio e si svende perché è una di quelle donne che non può essere lasciata sola, che ha bisogno di un uomo a tutti i costi - una di quelle a cui non interessa niente della propria dignità, dell’amore o della famiglia.
Come fanno le persone a fregarsene della storia dell’anima gemella, che è solo una favola per bambini, per assicurargli - mentendo - che non rimarranno mai soli?
«Io no.» replica dopo una pausa forse troppo lunga «Io non penso di essere la tua anima gemella. E non penso di piacerti. Comunque, anche se fosse vero, non ho intenzione di incontrare la persona della mia frase o di uscire con lei, se anche dovessi incontrarla.»
Kaori lo guarda come se avesse detto una cosa orribile, come se fosse un serial kille che ha appena confessato crimini indicibili contro l’umanità. Un po’ lo diverte.
Dazai Osamu ha tredici anni e quando guarda sua madre non vede altro che un essere umano da compatire, solo e abbandonato a se stesso.


E’ il secondo anno delle superiori quando il suo responsabile di classe lo chiama per un colloquio privato e Osamu non sa cosa aspettarsi. Non è stato mai chiamato in sala professori perché tutti i suoi insegnanti lo adorano - o, per meglio dire, apprezzano i suoi risultati. Sua madre non è mai stata chiamata, non che sarebbe mai andata ai colloqui, e Osamu non ha mai avuto bisogno di fare dei compiti in più né ha mai sbagliato un esame. E’ piuttosto curioso quindi, il cuore gli batte appena più veloce quando apre la porta; il suo insegnante lo accoglie con un “sorriso da adulti”: è il modo in cui li chiama Osamu. Quei sorrisi che le persone usano ma che non raggiunge mai i loro occhi - il modo più semplice per capire quando ti stanno mentendo o quando stanno cercando di essere gentili solo perché devono.
«Per favore siediti, Dazai-kun.»
Il suo insegnante non è male: un uomo forse sui quarantacinque anni, bravo nel suo lavoro. Insegna Letteratura Giapponese, è appassionato riguardo quello che fa ed è chiaro che ami la materia che insegna. Osamu è abbastanza sicuro che l’università che ha scelto sia anche merito di questo professore. Ma non dovrebbe provare a occuparsi dei suoi studenti in qualità di persona: non gli riesce granché.
«Vivi con tua madre, giusto?»
«Sì.» Osamu ha imparato a non starsene sulla difensiva, quando glielo chiedono; ora è abituato a sorridere di rimando come se non ci fosse alcun problema, come se la sua vita fosse tanto perfetta quanto lo sono i suoi voti.
«E dimmi… ecco, tu sai che è un dovere degli insegnanti supportare gli studenti, vero? Perciò Dazai-kun, se avessi dei problemi di cui volessi discutere, potresti sempre--»
«Sensei» Osamu lo interrompe che ancora sorride «se è riguardo alle bende, non è come pensa. Mia madre non mi picchia.»
Si sente quasi in colpa nel vedere il suo insegnante così in imbarazzo per l’errore. Ma essere schietti è utile perché i docenti sentono di aver fatto quel che c’era da fare, di non dover ascoltare preoccupazioni superficiali di un adolescente. Infatti non ci vuole molto perché anche lui possa tornarsene in classe, congedato da qualche frase di circostanza.
Ha iniziato a indossare le bende il giorno prima, e tutti i suoi compagni gli hanno già fatto le domande più disparate. Osamu ci ha pensato, prima di rispondere: avrebbe potuto dire la verità, ma poi sarebbe solo diventato ancora più seccante; avrebbe potuto mentire, ma dal momento che intende indossare quelle bende per sempre, a che pro farlo?
Non è ancora sicuro.
«Dazaui-kun stai bene?» è la prima cosa che uno dei suoi compagni chiede quando torna in classe. La maggior parte di loro lo guarda, la curiosità nello sguardo. Takeda è il rappresentante di classe, e sembra un ragazzo serio e diligente, un tipo a posto; troppo apprensivo per i suoi gusti, ma…
«Tutto a posto. L’insegnante voleva solo un chiarimento da parte mia su una questione.»
«Intendevo le tue bende. Ti sei ferito?»
E’ questo il problema con le persone che si interessano troppo. Gli sorride lo stesso, però.
«Mh… a questo punto penso non serva più nasconderlo visto che le terrò per un bel po’.» decide all’improvviso di dire la verità - una mezza verità «Non mi sono ferito. Ho solo un brutto segno che voglio nascondere.» e potrebbe chiuderla lì, ma quasi tutti i suoi compagni ormai hanno il marchio delle loro anime gemelle sul corpo. Come potrebbero non capire cosa intende quando parla di un “segno”?
«Intendi dire il marchio della tua anima gem--»
«Un brutto segno.» ripete sorridendogli.
Nessuno fa più domande.
Osamu ha sedici anni, e dal momento che sua madre è la prova vivente di come l’amore possa essere, perché dovrebbe preoccuparsi di una cosa tanto inutile, seccante e disgustosa?


Quasi un anno dopo quell’episodio sua madre tenta di togliergli le bende mentre sta dormendo. Forse è ubriaca, o forse lo fa per curiosità perché il giorno prima non aveva nulla e quello dopo indossava delle bende intorno al collo. Ha buone intenzioni, almeno di quello Osamu è sicuro. Ma non cambia il fatto che non vuole mostrare a nessuno quello che c’è sotto, e poi cosa importa a sua madre, dopotutto?
Glielo chiede - lo intende come una domanda retorica, è chiaro - e in quel momento lei comincia a piangere: è sbalordito. Di solito lei piange perché gli uomini finiscono con l’abbandonarla, perché si sente sola, ma per lui non ha mai versato una lacrima. Beh magari quando era un bambino, le prime volte che lo ha mandato via da casa: tendeva a riaccoglierlo dentro, ad abbracciarlo e a sussurrargli delle scuse nell’orecchio; diceva spesso “Mi dispiace Osamu. La mamma ti ama davvero tanto, lo sai sì? Ma si sentiva sola. Ora però passa.” e piangeva finché non si addormentavano insieme.
Quando era un bambino, pensava che l’avrebbe perdonata sempre. Ma crescendo, volta dopo volta lei faceva la stessa cosa - alla fine il suo “la mamma ti ama” aveva perso ogni significato. Forse era una bugia.
Lui non glielo aveva mai chiesto.
Eppure, lo preoccupa che lei pianga a causa sua.
«Certo che m’importa!» urla lei e gli ricorda un bambino capriccioso che non conosce altro modo di farsi ascoltare: «Mi importa di mio figlio! Pensavo… forse Osamu mi odia e pensa che nessuno lo amerà per colpa mia… e forse non vuole amare nessuno.»
«E’ proprio così. Non voglio sapere chi è la mia anima gemella. Dopotutto tu non hai sposato la tua, no? Però sei sopravvissuta.»
E’ quasi divertente il modo in cui lei smetta di piangere quando sente le sue parole. Osamu non sa se l’ha ferita o se volesse farlo, ma la guarda aspettandosi una reazione. E la ottiene: per la prima volta da che ha memoria, lei lo schiaffeggia.
«Stai dicendo che è colpa mia se tuo padre non è qui?! Giusto perché tu lo sappia, era un uomo orribile e ha abbandonato me tanto quanto te! Avrei potuto abortire e farlo restare, invece ti ho fatto nascere! Perciò se non sai cosa sia un padre vai a prendertela con lui!» è ciò che gli grida in faccia, e Osamu non sa se la cosa lo ferisca. Forse è perché ha sempre saputo che suo padre non era il tipo da sperare tornasse a casa o nella propria vita; o forse è il modo in cui sua madre fa sembrare la sua scelta di non abortire non qualcosa di cui essere felici, ma di cui essere grati, come se le dovesse un favore.
Forse si arrabbia perché pensava lei non fosse più in grado di ferirlo o di farlo sentire così… solo. Ma quando lei allunga le mani verso di lui per disfargli le bende, lui la spinge via per la prima volta in vita sua.
«Osamu!»
«No!» urla lui, e le sue mani non si sono mai mosse così velocemente. Si toglie le bende da solo, finché la frase non è chiara e visibile. E allora comincia a graffiare con entrambe le mani. La pelle diventa rossa e a un certo punto è sicuro che finirà col sanguinare. E’ in quel momento che sua madre lo ferma.
«Ecco qui! Oh, Grantors of Dark Disgrace. Do not wake me again!» urla «Che frase romantica! Ma forse la mia anima gemella starebbe meglio morta che viva, come me. Non sei mai stata una madre degna di questo nome, non cominciare a fare il genitore ora, perché dopo il diploma andrò via, ti lascerò sola con tutti quegli uomini che ti usano. Perché forse è l’unica cosa che ti meriti.»
E’ senza fiato, quando si zittisce e la guarda: è ferita dalle sue parole, eppure lui non riesce a sentirsi in colpa per questo.
Forse è a questo che è destinato: essere solo, e non sentire nient'altro per tutto il resto della sua vita.

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