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‘Osamu’ è il nome che gli ha dato sua madre. Non “i suoi genitori”, solo sua madre; si ricorda ancora di qualche anno fa, quando la sua insegnante ha chiesto a tutta la classe di scrivere un breve tema sui loro nomi, e come i loro genitori fossero arrivati a scegliere proprio quelli. Lui l’aveva scritto, e poi l’aveva letto di fronte a tutti i suoi compagni di classe - e alla fine qualcuno aveva chiesto “e tuo padre, Dazai-kun?
L’espressione della sua insegnante era stata davvero buffa, perché era sembrata terrorizzata da quella domanda; ma lui non capiva cosa ci fosse di così spaventoso. Aveva semplicemente detto la verità. Solo dopo qualche anno aveva compreso che a essere stato sbagliato era stato il modo in cui lo aveva detto, come se non fosse toccato da una domanda così personale, difficile - crudele. A lui, a quel tempo, era sembrata una come tante altre che avrebbero potuto fargli.
«Non ne ho uno.»
Nemmeno una volta aveva pensato a se stesso come sfortunato. Forse perché le persone non potevano oggettivamente sentire la mancanza di qualcosa che non avevano mai avuto, quindi Osamu non si era mai davvero sentito in difetto di qualcosa solo perché non aveva un padre: non lo aveva mai visto, neanche in un’occasione; non sa se si somigliano o se ci sono solo alcune cose che ha preso da un uomo che nella sua mente non ha nemmeno un’identità precisa. Ha provato a immaginarlo, una volta o due, ma ha fallito. L’unica cosa che sa è che era piuttosto bello, a giudicare dal poco che sua madre gli ha raccontato nei rari momenti in cui gli ha parlato di lui: un uomo davvero, davvero bello, un uomo buono - Osamu non ne è molto sicuro, visto che i padri dei suoi compagni di classe sono sempre presenti per i loro figli.
No, lui è abbastanza sicuro di essere un ragazzo fortunato: sua madre lo ha fatto nascere e lo ha cresciuto tutta da sola; a volte la sente piangere, l’abbraccia e lei ride. E’ in quei momenti che pensa di non aver bisogno di una terza persona oltre sua madre e se stesso, di non aver bisogno di un padre.
Dazai Osamu ha nove anni, e pensa che sua madre sia un’eroina.


Tutte le sue compagne di classe sono strane. E’ l’Ottobre del suo primo anno di scuola media e tutto ciò di cui parlano si riconduce alla storia dell’anima gemella; non che lui non sappia di cosa si tratta, ma proprio per questo sa che si tratta di qualcosa da affrontare nella pubertà e per cui manca ancora diverso tempo quindi - le ragazze però sviluppano prima dei ragazzi, perciò molte di loro hanno già questa frase sui loro corpi, molte ridono tutto il tempo mentre se le mostrano l’un l’altra, specie durante la pausa pranzo. A dire il vero a lui non interessa molto: innanzitutto perché non ne ha ancora una, perciò non ha niente di cui parlare; secondo, perché l’intera faccenda non gli piace granché.
Giusto qualche giorno prima ha visto una ragazza di un’altra classe piangere nel corridoio perché - a quanto pare? - le poche parole che ci sono sul suo polso sono parole che il ragazzo che le piace non potrebbe mai dire, qualcosa a proposito di una sorella minore che non ha, perché ha solo un fratello maggiore.
Non è che Osamu non capisca i suoi sentimenti, almeno su un piano teorico e generale, ma… come si può essere così disperati per una cosa così sciocca? Poche parole non sono una sentenza di morte, né rappresentano una legge assoluta.
«Dazai-kun ti posso parlare?»
La ragazza di fronte a lui è Kaori, della sua classe: è timida e gentile, una delle poche che ancora non ha visto comparire su qualche parte del suo corpo le parole della sua anima gemella o, se le ha, non sono in un punto visibile per tutti. Lui la guarda, non molto sicuro di voler davvero uscire dalla classe per ciò che lei deve dirgli, qualcosa che non è difficile immaginare. Lo fa comunque, perché c’è una vaga possibilità che non si tratti di una dichiarazione: quindi annuisce e si alza, la segue fuori mentre i suoi compagni fanno qualche battuta idiota alle sue spalle; lei per fortuna si ferma quasi subito, quando raggiungono le scale.
Ha un sorriso timido a incurvarle le labbra, mentre si tortura le mani cercando il modo migliore di dire quel che deve dire. In un certo senso lo sorprende quando punta lo sguardo su di lui, instaurando un contatto visivo diretto.
«Mi piaci, Dazai-kun.»
«Davvero?»
«Sì. Sei… gentile, e intelligente, e sembri davvero maturo. E penso che tu possa essere la mia anima gemella, Dazai-kun.»
E’ per questo che l’intera faccenda non gli piace per nulla: tutti sembrano credere che nel momento in cui scopriranno chi è questa fantomatica anima gemella saranno destinati alla più completa infelicità qualora non dovessero essere ricambiati. Non c’è alcuna logica e non riesce ad accettarlo. Sa bene che il giorno in cui le parole della persona a lui destinata arriverà, ma si limiterà a leggerle e poi a dimenticarsene; dopotutto non morirà certo per averle ignorate.
Osamu sa meglio di chiunque altro che si può sopravvivere anche senza la propria anima gemella: ha visto spesso la frase sul corpo di sua madre, ma sa che suo padre non l’ha pronunciata la prima volta che si sono incontrati. Quindi è chiaro che non fosse l’uomo destinato a sua madre.
Ma è tutta qui la questione: lei continua a incontrare uomini, notte dopo notte; a volte torna a casa di mattina, e va bene, perché Osamu può fare finta di stare dormendo quando lei apre la porta e gli si sdraia accanto - non sa se lei finga o meno di sbagliare porta, ma non la caccia mai, perché lei lo abbraccia e mormora un nome che forse potrebbe essere quello di suo padre. Eppure la maggior parte delle volte le fa anche entrare alcuni di quegli uomini mentre lui è in casa. A loro non piace mai: probabilmente pensano che avere un moccioso tra i piedi non farà altro che rovinare i loro piani o qualcosa del genere. Così sua madre lo manda via dalla sua stanza, da casa loro, e poi prova a convincere quegli uomini a restare, come se quelli fossero l’unica cosa in grado di alleviare la solitudine che le monta dentro ogni volta che la frase sul suo corpo le urla dietro di essere stata abbandonata, marchiandole la pelle come fuoco.
Osamu odia quegli uomini, li odia tutti, ma alla fine se ne va sempre e rimane fuori quanto basta, per tutto il tempo necessario. A volte va a studiare in biblioteca, perché così non deve spendere soldi. Ci sono giorni in cui sua madre si è persino dimenticata di lui e di farlo rientrare, lasciandolo fuori tutta la notte. Perciò, quando sente i suoi compagni parlare di quanto romantico debba essere il primo incontro con le loro anime gemelle, si irrita. Sua madre probabilmente non ha mai incontrato la persona a cui era destinata eppure è sopravvissuta, ha persino avuto un figlio e si svende perché è una di quelle donne che non può essere lasciata sola, che ha bisogno di un uomo a tutti i costi - una di quelle a cui non interessa niente della propria dignità, dell’amore o della famiglia.
Come fanno le persone a fregarsene della storia dell’anima gemella, che è solo una favola per bambini, per assicurargli - mentendo - che non rimarranno mai soli?
«Io no.» replica dopo una pausa forse troppo lunga «Io non penso di essere la tua anima gemella. E non penso di piacerti. Comunque, anche se fosse vero, non ho intenzione di incontrare la persona della mia frase o di uscire con lei, se anche dovessi incontrarla.»
Kaori lo guarda come se avesse detto una cosa orribile, come se fosse un serial kille che ha appena confessato crimini indicibili contro l’umanità. Un po’ lo diverte.
Dazai Osamu ha tredici anni e quando guarda sua madre non vede altro che un essere umano da compatire, solo e abbandonato a se stesso.


E’ il secondo anno delle superiori quando il suo responsabile di classe lo chiama per un colloquio privato e Osamu non sa cosa aspettarsi. Non è stato mai chiamato in sala professori perché tutti i suoi insegnanti lo adorano - o, per meglio dire, apprezzano i suoi risultati. Sua madre non è mai stata chiamata, non che sarebbe mai andata ai colloqui, e Osamu non ha mai avuto bisogno di fare dei compiti in più né ha mai sbagliato un esame. E’ piuttosto curioso quindi, il cuore gli batte appena più veloce quando apre la porta; il suo insegnante lo accoglie con un “sorriso da adulti”: è il modo in cui li chiama Osamu. Quei sorrisi che le persone usano ma che non raggiunge mai i loro occhi - il modo più semplice per capire quando ti stanno mentendo o quando stanno cercando di essere gentili solo perché devono.
«Per favore siediti, Dazai-kun.»
Il suo insegnante non è male: un uomo forse sui quarantacinque anni, bravo nel suo lavoro. Insegna Letteratura Giapponese, è appassionato riguardo quello che fa ed è chiaro che ami la materia che insegna. Osamu è abbastanza sicuro che l’università che ha scelto sia anche merito di questo professore. Ma non dovrebbe provare a occuparsi dei suoi studenti in qualità di persona: non gli riesce granché.
«Vivi con tua madre, giusto?»
«Sì.» Osamu ha imparato a non starsene sulla difensiva, quando glielo chiedono; ora è abituato a sorridere di rimando come se non ci fosse alcun problema, come se la sua vita fosse tanto perfetta quanto lo sono i suoi voti.
«E dimmi… ecco, tu sai che è un dovere degli insegnanti supportare gli studenti, vero? Perciò Dazai-kun, se avessi dei problemi di cui volessi discutere, potresti sempre--»
«Sensei» Osamu lo interrompe che ancora sorride «se è riguardo alle bende, non è come pensa. Mia madre non mi picchia.»
Si sente quasi in colpa nel vedere il suo insegnante così in imbarazzo per l’errore. Ma essere schietti è utile perché i docenti sentono di aver fatto quel che c’era da fare, di non dover ascoltare preoccupazioni superficiali di un adolescente. Infatti non ci vuole molto perché anche lui possa tornarsene in classe, congedato da qualche frase di circostanza.
Ha iniziato a indossare le bende il giorno prima, e tutti i suoi compagni gli hanno già fatto le domande più disparate. Osamu ci ha pensato, prima di rispondere: avrebbe potuto dire la verità, ma poi sarebbe solo diventato ancora più seccante; avrebbe potuto mentire, ma dal momento che intende indossare quelle bende per sempre, a che pro farlo?
Non è ancora sicuro.
«Dazaui-kun stai bene?» è la prima cosa che uno dei suoi compagni chiede quando torna in classe. La maggior parte di loro lo guarda, la curiosità nello sguardo. Takeda è il rappresentante di classe, e sembra un ragazzo serio e diligente, un tipo a posto; troppo apprensivo per i suoi gusti, ma…
«Tutto a posto. L’insegnante voleva solo un chiarimento da parte mia su una questione.»
«Intendevo le tue bende. Ti sei ferito?»
E’ questo il problema con le persone che si interessano troppo. Gli sorride lo stesso, però.
«Mh… a questo punto penso non serva più nasconderlo visto che le terrò per un bel po’.» decide all’improvviso di dire la verità - una mezza verità «Non mi sono ferito. Ho solo un brutto segno che voglio nascondere.» e potrebbe chiuderla lì, ma quasi tutti i suoi compagni ormai hanno il marchio delle loro anime gemelle sul corpo. Come potrebbero non capire cosa intende quando parla di un “segno”?
«Intendi dire il marchio della tua anima gem--»
«Un brutto segno.» ripete sorridendogli.
Nessuno fa più domande.
Osamu ha sedici anni, e dal momento che sua madre è la prova vivente di come l’amore possa essere, perché dovrebbe preoccuparsi di una cosa tanto inutile, seccante e disgustosa?


Quasi un anno dopo quell’episodio sua madre tenta di togliergli le bende mentre sta dormendo. Forse è ubriaca, o forse lo fa per curiosità perché il giorno prima non aveva nulla e quello dopo indossava delle bende intorno al collo. Ha buone intenzioni, almeno di quello Osamu è sicuro. Ma non cambia il fatto che non vuole mostrare a nessuno quello che c’è sotto, e poi cosa importa a sua madre, dopotutto?
Glielo chiede - lo intende come una domanda retorica, è chiaro - e in quel momento lei comincia a piangere: è sbalordito. Di solito lei piange perché gli uomini finiscono con l’abbandonarla, perché si sente sola, ma per lui non ha mai versato una lacrima. Beh magari quando era un bambino, le prime volte che lo ha mandato via da casa: tendeva a riaccoglierlo dentro, ad abbracciarlo e a sussurrargli delle scuse nell’orecchio; diceva spesso “Mi dispiace Osamu. La mamma ti ama davvero tanto, lo sai sì? Ma si sentiva sola. Ora però passa.” e piangeva finché non si addormentavano insieme.
Quando era un bambino, pensava che l’avrebbe perdonata sempre. Ma crescendo, volta dopo volta lei faceva la stessa cosa - alla fine il suo “la mamma ti ama” aveva perso ogni significato. Forse era una bugia.
Lui non glielo aveva mai chiesto.
Eppure, lo preoccupa che lei pianga a causa sua.
«Certo che m’importa!» urla lei e gli ricorda un bambino capriccioso che non conosce altro modo di farsi ascoltare: «Mi importa di mio figlio! Pensavo… forse Osamu mi odia e pensa che nessuno lo amerà per colpa mia… e forse non vuole amare nessuno.»
«E’ proprio così. Non voglio sapere chi è la mia anima gemella. Dopotutto tu non hai sposato la tua, no? Però sei sopravvissuta.»
E’ quasi divertente il modo in cui lei smetta di piangere quando sente le sue parole. Osamu non sa se l’ha ferita o se volesse farlo, ma la guarda aspettandosi una reazione. E la ottiene: per la prima volta da che ha memoria, lei lo schiaffeggia.
«Stai dicendo che è colpa mia se tuo padre non è qui?! Giusto perché tu lo sappia, era un uomo orribile e ha abbandonato me tanto quanto te! Avrei potuto abortire e farlo restare, invece ti ho fatto nascere! Perciò se non sai cosa sia un padre vai a prendertela con lui!» è ciò che gli grida in faccia, e Osamu non sa se la cosa lo ferisca. Forse è perché ha sempre saputo che suo padre non era il tipo da sperare tornasse a casa o nella propria vita; o forse è il modo in cui sua madre fa sembrare la sua scelta di non abortire non qualcosa di cui essere felici, ma di cui essere grati, come se le dovesse un favore.
Forse si arrabbia perché pensava lei non fosse più in grado di ferirlo o di farlo sentire così… solo. Ma quando lei allunga le mani verso di lui per disfargli le bende, lui la spinge via per la prima volta in vita sua.
«Osamu!»
«No!» urla lui, e le sue mani non si sono mai mosse così velocemente. Si toglie le bende da solo, finché la frase non è chiara e visibile. E allora comincia a graffiare con entrambe le mani. La pelle diventa rossa e a un certo punto è sicuro che finirà col sanguinare. E’ in quel momento che sua madre lo ferma.
«Ecco qui! Oh, Grantors of Dark Disgrace. Do not wake me again!» urla «Che frase romantica! Ma forse la mia anima gemella starebbe meglio morta che viva, come me. Non sei mai stata una madre degna di questo nome, non cominciare a fare il genitore ora, perché dopo il diploma andrò via, ti lascerò sola con tutti quegli uomini che ti usano. Perché forse è l’unica cosa che ti meriti.»
E’ senza fiato, quando si zittisce e la guarda: è ferita dalle sue parole, eppure lui non riesce a sentirsi in colpa per questo.
Forse è a questo che è destinato: essere solo, e non sentire nient'altro per tutto il resto della sua vita.

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