Prompt: arrivare troppo tardi
Missione: M2
Parole: 3420
Warning: major character death, tematiche delicate (suicidio).
“E’ impossibile. Sto solo mentendo”.
Le parole di Yumeno Gentarou gli rimbombano nel cervello anche ora, nella solitudine del suo appartamento troppo piccolo ma sufficiente per un impiegato di terza categoria come lui. A volte, quando torna a notte fonda dopo ore su ore di straordinari, Doppo varca la soglia e sente di essere al sicuro tra quelle quattro mura che quasi gli si stringono addosso. Ci sono sere in cui persino la sua ombra è un peso troppo grande da trascinarsi dietro, viscida sostanza che lo tiene a terra come una zavorra – si è chiesto, in un paio di occasioni, se buttandosi dal balcone quella stessa ombra peserebbe abbastanza da assicurargli un impatto violento con il terreno, duro e brutale abbastanza da sfociare in un solo istante di puro dolore e poi, finalmente, liberarlo.
In sere come quella si chiude la porta alle spalle, abbandona le scarpe e la cartellina da lavoro all’ingresso, trascina i piedi fino alla sua stanza e si lascia scivolare vicino alla finestra; ogni volta che Hifumi pulisce la sua camera, insieme a tutto il resto della casa, lascia il futon ben piegato e fuori dall’armadio perché prenda aria. Doppo lo fissa e vi si lascia cadere contro, la schiena tesa che si rilassa a contatto con la morbidezza del materasso e gli occhi chiari a vagare verso l’esterno. Il cielo di Shinjuku non offre grandi distese di stelle, con le luci artificiali a oscurare i puntini luminosi, ma a Doppo non servono. Preferisce di gran lunga la sensazione delle mura che sembrano chiuderglisi addosso, schiacciandolo fino a dargli l’idea che nulla possa entrare dalla porta o avvicinarsi fino anche solo a sfiorarlo; gli piace sentire il respiro spingere per allargargli la cassa toracica, mentre rannicchiato lì in un angolo lui si chiude, e chiude, e chiude fin quasi a non far passare nemmeno un filo di fiato. Alcune notti rimane in silenzio per ore, finché l’alba non rischiara il cielo e segna un altro giorno di lavoro.
Il rumore del giro di chiave nella serratura è come un colpo di fucile – ed è quasi ironico, in un mondo ormai privo di armi dove agli uomini è stato dato un microfono come unica possibilità di fare tutto da sé e per sé: giustizia, riacquistare dignità, difendersi, fare la differenza. Doppo non vuole nessuna di queste cose, non sa nemmeno cosa farsene di un hypnosis microphone.
Tende l’orecchio, improvvisamente ipersensibile a ogni rumore: porta chiusa, chiavi sul mobiletto all’ingresso. Scarpe tolte alla bell’e meglio. Passi, ma soprattutto nessun fruscio di abiti tolti. Cerca con lo sguardo la figura di Hifumi, aspettandosela da un momento all’altro perché casa loro è fatta così e per andare nella sua stanza il suo coinquilino deve per forza passare davanti alla sua porta; Doppo sospetta che l’assegnazione non sia stata affatto casuale, che non poter evitare la sua camera per raggiungere la propria sia la scusa di Hifumi per controllare ogni sera che lui sia rientrato e non sia da cercare all’edificio della compagnia per cui lavora o, peggio, sui binari della stazione più vicina.
Ed eccolo. Hifumi appare lì sulla sua soglia e lo guarda: il corpo dell’host più desiderato di Shinjuku – e non solo? – è fasciato dal completo bianco e tutto è perfetto nel modo in cui la camicia nera risalta, nei bottoni aperti, negli anelli alle dita e persino nel ciuffo di capelli biondi che gli incornicia un lato del viso. Si guardano per un istante ma a Doppo è sufficiente. Basta sempre, quando ci si è guardati per più di quindici anni, prestandosi attenzione più di quanto si sia mai fatto con se stessi. Per Doppo quasi non c’è bisogno di vedere altro se non la piega delle labbra di Hifumi, il sorriso perfetto di chi offre se stesso nel finto innamoramento per cui le donne pagano qualsiasi cifra, nel suo locale.
«Ah, sei ancora sveglio?»
Gigolo è lì e un’ondata di delizioso e ipocrita sollievo lo invade come l’euforia di una droga presa per la prima volta.
Sto solo mentendo.
L’acido della bile gli raschia la gola e gli pervade la bocca. Quando ha cominciato a provare sollievo di fronte alla seconda personalità del suo migliore amico?
«Mh.» emette a malapena un suono, non fidandosi a parlare, non ancora. A guardarlo sono gli occhi di Hifumi, ma a vederlo davvero è Gigolo e Doppo lo sa. Non si aspetta che l’altro diminuisca la distanza tra loro o si preoccupi per le occhiaie sul suo viso, o perché sono quasi le quattro del mattino e lui dovrebbe dormire da almeno tre, se fosse una persona con un tenore di vita sano. Gigolo invece lo studia come se lui fosse un animale buffo, ma non abbastanza interessante da valere la fatica di avvicinarsi e allungare una mano per toccarlo – non è questo il perfetto riassunto dell’esistenza di Doppo? Essere niente di particolare.
Quando lui e Gigolo si incontrano, per una manciata di istanti Doppo si sente libero. Perché Gigolo è autosufficiente e non ha bisogno di lui, è sicuro di sé, non si preoccupa facendolo sentire oppresso dal costante pensiero di doversi prendere cura della propria persona. Gigolo potrebbe coesistere nella stessa casa con lui e vivere comunque da solo, in un modo molto complesso che a Doppo a volte sembra così semplice. Lui che ha già troppi pensieri, troppe voci nella testa tra tutto ciò che gli viene detto e tutto ciò che invece tace e non rivela mai a nessuno, segreti inconfessabili, scatti d’ira mai avvenuti, veleno ributtato nello stomaco e mandato giù fin quasi a soffocarsi quando sul lavoro lo fanno sentire inutile, incapace. Uno spreco di spazio e un furto di ossigeno; glielo dicono e glielo fanno capire e non soltanto nell’azienda e a ventinove anni. E forse hanno ragione a trattarlo così, a farlo sentire meno di quanto potrebbe essere, a indicargli quanto sia sbagliato.
Un vero amico non gioirebbe di fronte a Gigolo per il sollievo di non essere responsabile di qualcuno, con la rassicurazione di potersi abbandonare al proprio egoismo; una piccola parte di lui gli ripete che, dopotutto, cosa potrebbe mai fare. Lui è soltanto Doppo e non è mai stato lui il sole, quello è il ruolo di Hifumi, tutto dell’altro lo grida a gran voce. Doppo può essere una di quelle stelle coperte dai lampioni di Shinjuku.
Gigolo si lascia scappare tra le labbra una risata impossibile da decifrare, ma lui capisce cosa sta avvenendo: l’altro sta cercando di nascondere se stesso, di ingannarlo per sembrare Hifumi, per non insospettirlo perché – per ragioni che Doppo non comprenderà mai – lui è l’unico capace di far riemergere la personalità principale racchiusa in quel corpo e questo, a Gigolo, non piace. Cercare di riportare Hifumi indietro, è stancante e asfissiante insieme; Doppo vorrebbe solo potersi voltare dall’altra parte e fingere di non aver notato nulla, di potersene lavare le mani, ma non lo fa mai. Per quanto gli sembri di respirare meglio, a volte, il pensiero di non avere indietro Hifumi annienta quel poco che di umano è rimasto in lui.
Si trascina in piedi, inspirando, e muove un primo passo verso l’uomo sulla soglia. Lo vede irrigidirsi e sa che entrambi hanno capito cosa sta accadendo, di nuovo, come decine di notti prima di questa.
«Hifumi» lo chiama, il tono basso «Hifumi.»
Gigolo stringe i pugni lungo i propri fianchi, mentre lo vede avanzare, passo dopo passo.
Doppo ha imparato presto il peso delle parole, molto prima che il dottor Jinguji desse loro i microfoni per formare la divisione dei Matenrou con lui; ha compreso da bambino quanto siano molto più pericolose dei gesti e delle armi, a volte, e anche per questo non capisce secondo quale logica in un mondo senza più armi dei microfoni in grado di tramutare le parole e le voci in qualcosa che può arrecare danni gravi alle persone sia sembrato sensato. Eppure ogni volta che prende quel microfono in mano, e la sua voce si propaga e lui riesce persino a urlare, un senso di liberazione sembra sciogliersi nella pancia e risalire su per la gola, come se il suo fisico stesse finalmente tirando fuori ogni sostanza nociva lasciandolo con una inebriante sensazione di vuoto.
Ma Doppo sa che le parole sono ciò che ha creato Gigolo – la paura e l’autoconvincersi di poterla superare se solo Hifumi fosse stato diverso, l’opposto di ciò che era: più sicuro, più spigliato, senza l’angoscia e il disgusto e il rifiuto. Parole che nel silenzio deve essersi ripetuto nella testa per proteggersi, fino a creare un altro se stesso che potesse prendere il suo posto e che oggi come la prima volta è sempre difficile ricacciare indietro. Gigolo può essere disumano, eppure Doppo sa che è importante non annientarlo del tutto, perché è il motivo per il quale Hifumi in qualche modo riesce sempre a riemergere, a non soccombere e a restare umano in un mondo che di lui non sa che farsene una volta fuori dal locale in cui le donne che tanto odia lo desiderano, pagando interi stipendi in cascate di champagne e finte dimostrazioni d’amore. Lo stesso Hifumi che a scuola veniva deriso, e preso di mira dai bulli è lì in fondo, da qualche parte; Doppo deve solo trovarlo, prenderlo per mano e tirarlo fuori.
«Hifumi…?» ripete con poca convinzione, in apparenza. Allunga una mano e sfiora il polso dell’uomo di fronte a lui e Gigolo assottiglia lo sguardo, si allontana come una bestia ferita e Doppo quasi si aspetta di sentirlo ringhiare per scacciarlo o per metterlo in guardia.
Una falcata più ampia lo porta quasi a cozzare contro il corpo dell’host e le sue mani gli afferrano il viso: «Va tutto bene.» glielo dice anche se non ci crede. Come potrebbe mai andare bene un mondo in cui per tenersi stretta un briciolo di umanità, per non permettere agli altri di distruggerla definitivamente, devi renderti inumano o portare te stesso alla pazzia per proteggerti?
Una smorfia adombra il viso di Gigolo – Hifumi – e alla fine qualcosa sembra spezzarsi nel suo sguardo; gli occhi lo mettono a fuoco per la prima volta, i muscoli delle spalle si rilassano e le mani tremano appena quando si alzano per posarsi entrambe sui polsi di Doppo. Le sente stringere piano, poi sempre più forte, e sa che Hifumi sta riemergendo e si aggrappa a lui come se fosse l’unico punto fermo in un vortice di nulla che cerca di portarlo giù, di nuovo e definitivamente.
Hifumi apre la bocca per dire qualcosa, ma qualsiasi cosa sia rimane incastrato da qualche parte. Doppo sospira, porta la fronte contro la sua e chiude gli occhi; funziona sempre, quando Hifumi ha bisogno di tornare a respirare e, soprattutto, tornare se stesso.
«Scusami…»
Quasi ironico che lui si scusi quando quella parola è il mantra personale della vita di Doppo. Fuori il cielo si rischiara lentamente, ma l’alba per Doppo non ha nulla di positivo, non è l’inizio di un prezioso giorno ma di una maledizione; sentire le scuse di Hifumi, il tono debole, gli fa venire voglia di urlare. Il pensiero che in poche ore dovrà di nuovo uscire di casa e andare al lavoro gli fa desiderare di addormentarsi e non svegliarsi mai più.
«Vai a fare un bagno.» mormora in risposta a quelle scuse, lasciandogli il viso e limitandosi a guardarlo. Lo vede incurvare le labbra in un sorriso debole ma grato, e muoversi con lentezza fino a sparire nella sua stanza per prendere un cambio di vestiti e attraversare poi la scarsa distanza da lì al bagno. Quando la porta gli si chiude alle spalle, il silenzio piomba di nuovo addosso a lui.
La soglia lo mette di fronte a una scelta: tornare indietro nella sua stanza, stendere il materasso quanto sufficiente a potersi poggiare per dormire un po’ e illudersi che il giorno sia ancora lontano, oppure spostarsi nell’unica area comune che condividono lui e Hifumi insieme alla cucina. Gli occhi si soffermano sulla finestra più grande della casa e il piccolo balcone che s’intravede dalla soglia della propria stanza e a stento si accorge di come i suoi piedi lo guidino verso di essa, un sonnambulo nella veglia completa.
Il blocco della finestra è leggermente duro – non se ne è stupito, l’appartamento è economico e non certo una reggia di recente costruzione – ma hanno imparato presto il trucco per aprirla senza fare troppa forza o troppo rumore. Fa scorrere uno dei vetri e l’aria frizzante entra nella stanza, facendolo rabbrividire. Lo schiarirsi del cielo non è che una striscia di blu meno cupo all’orizzonte, ma lo attira come la più grande meraviglia del mondo fino a fargli poggiare i piedi sul freddo pavimento del balcone; la città dorme ancora, se non per qualche parte dove i locali ancora intrattengono gli ultimi clienti o finiscono di fare le pulizie prima della chiusura. Tutto intorno a lui il silenzio e quel che rimane della notte lo inglobano come una coperta sicura. Se si sforza, in lontananza potrebbe quasi scorgere se non l’edificio in cui lavora almeno la direzione giusta in cui sa di poterlo trovare giorno dopo giorno.
Poggia le mani sul davanzale, sentendo sotto i polpastrelli il mattone ruvido e sembra l’unica ancora alla realtà. Dal palazzo della sua azienda, o la sagoma che potrebbe esserlo, quasi sente ripetersi le parole che sente quotidianamente, insinuate sotto la sua pelle ormai da anni. Non ricorda come sia iniziata, però. Se prova a riportare alla mente l’esatto giorno o istante in cui il mondo lo ha rifiutato, la sua memoria lo tradisce, compagna fedifraga che invece non dimentica mai gli sguardi accusatori dei suoi colleghi di lavoro: gli altri uomini lo guardano come uno zerbino da calpestare fin quando non ci si è tolti tutto lo sporco dalla suola delle scarpe, e le donne lo guardano come fanno con tutti gli uomini – inferiori, privi di reale potere in un governo dove è il gentil sesso a prevalere e a ricoprire le cariche davvero importanti, a comandare – ma ancora più disgustate, a volte. Gli sembra di sentirla, la voce del suo capo urlare il suo cognome e ridicolizzarlo per un errore che non sarebbe avvenuto, se solo smettessero di far ricadere le responsabilità di tre su una sola persona; lo scherno delle colleghe che commentano il suo vestiario, indice di trascuratezza e di una disponibilità economica modesta; una volta, chiuso nel cubicolo del bagno, ha sentito per caso qualcuno commentare l’averlo visto con un host. Il giorno dopo, la voce che spenda il poco stipendio preso ogni mese in accompagnatori occasionali e per di più uomini era stata sentita persino dalle mura dell’edificio. Non ne è sicuro, ma non esclude che alcune spallate ricevute nel corridoio e fatte passare per casuali non lo fossero affatto.
Sposta distrattamente il peso dai talloni alle punte dei piedi, dondolando sul posto e assottigliando gli occhi chiari per mettere a fuoco qualcosa che in verità non riesce a vedere davvero; l’orizzonte gli risponde con un cielo che continua a schiarirsi pian piano, senza riguardi per nessuno. Doppo sospira, si lascia sfuggire aria dalla bocca come se centellinare l’ossigeno fosse importantissimo. Le mura non gli si stanno più chiudendo addosso, ma un nodo nello stomaco gli si forma e si stringe ora, si allenta poi. Nemmeno sente i passi dietro di lui finché la voce di Hifumi non gli arriva all’orecchio – è davvero Hifumi, lo percepisce subito insieme alla nota di malcelato allarme nella sua voce.
«Doppochin…?»
Doppo si volta a guardarlo, ma è solo un osservarlo da sopra la propria spalla, senza muovere granché il resto del corpo. Una ventata frizzante gli arriva addosso, gelandogli le guance e dandogli al tempo stesso una sensazione piacevole che lo porta a inspirare a pieni polmoni. Hifumi lo guarda con un fondo di terrore negli occhi che a Doppo ricorda quando andavano ancora a scuola, e il suo migliore amico era una delle vittime preferite di un bullismo disgustoso sfociato in una violenza altrettanto disgustosa – è per questo che Gigolo esiste, forte dove Hifumi è debole, sicuro quando Hifumi vuole fuggire e aggressivo quando Hifumi torna a essere il ragazzino delle medie toccato da mani che non avrebbero nemmeno dovuto sfiorarlo.
Doppo a volte si chiede dove sia il suo, di “Gigolo”.
«Doppochin» sente ripetere a Hifumi, gli vede abbozzare un sorriso vuoto che non riesce a nascondere l’accenno di panico nella sua voce e nel tremolio lieve della mano che si tende verso di lui «scendi di lì, andiamo a fare colazione insieme…»
Sbatte le palpebre per un momento, prima di abbassare lo sguardo sui propri piedi e allora, solo allora, si rende conto di essere fermo sul davanzale del balcone; Hifumi dietro di lui, il vuoto davanti. Dicono che guardare in basso in certi momenti sia la cosa peggiore da fare e dunque d’istinto Doppo punta lo sguardo davanti a sé. Il vento gli colpisce ancora il viso con qualche folata un poco più forte delle altre, e lui in un impeto di coraggio che non gli appartiene stacca leggermente un piede dal suo appoggio e lo sporge appena in avanti. In un’altra situazione forse potrebbe sembrare come il se stesso bambino che, tornando a casa da scuola, giocava a camminare in equilibrio sulle strisce della strada e immaginava che ci fosse solo mare intorno a lui, che non rispettando le linee rette e bianche sarebbe caduto in acqua.
«Doppo!» è un richiamo più urgente, ma soprattutto più fermo a interrompere il suo movimento. Per la prima volta, quando guarda di nuovo verso Hifumi, non riesce a capire se si tratti di lui o di Gigolo – forse di entrambi? Contemporaneamente?
Si aspetta che aggiunga qualcosa ma non lo fa. Doppo ha persino l’istinto di girarsi, non fosse che ora i suoi piedi sembrano inchiodati su quel piccolo spazio su cui poggiano. Distrattamente, come se non riuscisse a focalizzarsi del tutto su Hifumi, registra che forse il motivo per cui l’altro non lo afferra e non aggiunge altro a quel richiamo è che teme si lasci andare nel vuoto. Ha paura di diventare complice di qualcosa che non desidera, se solo dovesse pronunciare la parola sbagliata.
Sarebbe poi così tremendo? I pensieri suicidi non sono una novità per lui, ma fedeli compagni di una buona parte della sua vita negli ultimi anni. A un certo punto Doppo ha capito di non poter coesistere con i suoi demoni; vorrebbe dirlo, a Hifumi, che ci sono volte in cui nella sua testa si uccide nei modi peggiori oppure lo sogna: di cadere nel vuoto e schiantarsi contro l’asfalto, di lasciarsi andare sotto un treno la mattina mentre va al lavoro e basterebbero due passi oltre la linea gialla di sicurezza. Un colpo di pistola no, troppa razionalità per premere il grilletto. L’annegamento nemmeno, troppo lento e non lo sopporterebbe, di sicuro l’istinto lo farebbe riemergere. Ma ci sono volte in cui non uccide se stesso, in cui si dice che non c’è motivo per cui lui dovrebbe privarsi della vita – sono i momenti peggiori, in cui immagina che a finire giù da un tetto siano i suoi superiori, o che la materia grigia sull’asfalto sia di quelle donne insopportabili, oppure nella sua testa si delinea la figura dell’uomo che lo colpisce in corridoio sussurrandogli “frocio” venire spazzata via da un treno in corsa.
Chissà se Hifumi accetterebbe anche questo, se sopporterebbe l’idea che la voce che grida raschiandogli la gola durante le rap battle non esiste solo nella dimensione dei Matenrou ma in una più ampia, nascosta e malata, a fare le veci di un supereroe che nella realtà non arriva mai a salvare nessuno.
Doppo la sente anche adesso, nella sua testa, ma è un rumore confuso nel quale non riesce a distinguere le parole esatte. I suoi demoni ha imparato a combatterli con un mostro, lasciando l’umanità al sicuro sotto una campana di coscienza fatta di fragile cristallo.
Guarda da un lato, e il sole ormai ha fatto capolino tra i palazzi; guarda dall’altro, vede come la luce si riflette sui capelli biondi di Hifumi che ha ancora la mano tesa verso di lui.
Il busto girato in parte, alla sua sinistra il vuoto di un asfalto immaginato spesso, alla sua destra quello breve che lo separa dalla sicurezza del balcone.
Hifumi sta allungando una mano verso di lui, ma è troppo tardi.
Muove un piede.