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Prompt: arrivare troppo tardi

Missione: M2

Parole: 3420

Warning: major character death, tematiche delicate (suicidio).





“E’ impossibile. Sto solo mentendo”.

Le parole di Yumeno Gentarou gli rimbombano nel cervello anche ora, nella solitudine del suo appartamento troppo piccolo ma sufficiente per un impiegato di terza categoria come lui. A volte, quando torna a notte fonda dopo ore su ore di straordinari, Doppo varca la soglia e sente di essere al sicuro tra quelle quattro mura che quasi gli si stringono addosso. Ci sono sere in cui persino la sua ombra è un peso troppo grande da trascinarsi dietro, viscida sostanza che lo tiene a terra come una zavorra – si è chiesto, in un paio di occasioni, se buttandosi dal balcone quella stessa ombra peserebbe abbastanza da assicurargli un impatto violento con il terreno, duro e brutale abbastanza da sfociare in un solo istante di puro dolore e poi, finalmente, liberarlo.

In sere come quella si chiude la porta alle spalle, abbandona le scarpe e la cartellina da lavoro all’ingresso, trascina i piedi fino alla sua stanza e si lascia scivolare vicino alla finestra; ogni volta che Hifumi pulisce la sua camera, insieme a tutto il resto della casa, lascia il futon ben piegato e fuori dall’armadio perché prenda aria. Doppo lo fissa e vi si lascia cadere contro, la schiena tesa che si rilassa a contatto con la morbidezza del materasso e gli occhi chiari a vagare verso l’esterno. Il cielo di Shinjuku non offre grandi distese di stelle, con le luci artificiali a oscurare i puntini luminosi, ma a Doppo non servono. Preferisce di gran lunga la sensazione delle mura che sembrano chiuderglisi addosso, schiacciandolo fino a dargli l’idea che nulla possa entrare dalla porta o avvicinarsi fino anche solo a sfiorarlo; gli piace sentire il respiro spingere per allargargli la cassa toracica, mentre rannicchiato lì in un angolo lui si chiude, e chiude, e chiude fin quasi a non far passare nemmeno un filo di fiato. Alcune notti rimane in silenzio per ore, finché l’alba non rischiara il cielo e segna un altro giorno di lavoro.

Il rumore del giro di chiave nella serratura è come un colpo di fucile – ed è quasi ironico, in un mondo ormai privo di armi dove agli uomini è stato dato un microfono come unica possibilità di fare tutto da sé e per sé: giustizia, riacquistare dignità, difendersi, fare la differenza. Doppo non vuole nessuna di queste cose, non sa nemmeno cosa farsene di un hypnosis microphone.

Tende l’orecchio, improvvisamente ipersensibile a ogni rumore: porta chiusa, chiavi sul mobiletto all’ingresso. Scarpe tolte alla bell’e meglio. Passi, ma soprattutto nessun fruscio di abiti tolti. Cerca con lo sguardo la figura di Hifumi, aspettandosela da un momento all’altro perché casa loro è fatta così e per andare nella sua stanza il suo coinquilino deve per forza passare davanti alla sua porta; Doppo sospetta che l’assegnazione non sia stata affatto casuale, che non poter evitare la sua camera per raggiungere la propria sia la scusa di Hifumi per controllare ogni sera che lui sia rientrato e non sia da cercare all’edificio della compagnia per cui lavora o, peggio, sui binari della stazione più vicina.

Ed eccolo. Hifumi appare lì sulla sua soglia e lo guarda: il corpo dell’host più desiderato di Shinjuku – e non solo? – è fasciato dal completo bianco e tutto è perfetto nel modo in cui la camicia nera risalta, nei bottoni aperti, negli anelli alle dita e persino nel ciuffo di capelli biondi che gli incornicia un lato del viso. Si guardano per un istante ma a Doppo è sufficiente. Basta sempre, quando ci si è guardati per più di quindici anni, prestandosi attenzione più di quanto si sia mai fatto con se stessi. Per Doppo quasi non c’è bisogno di vedere altro se non la piega delle labbra di Hifumi, il sorriso perfetto di chi offre se stesso nel finto innamoramento per cui le donne pagano qualsiasi cifra, nel suo locale.

«Ah, sei ancora sveglio?»

Gigolo è lì e un’ondata di delizioso e ipocrita sollievo lo invade come l’euforia di una droga presa per la prima volta.

Sto solo mentendo.

L’acido della bile gli raschia la gola e gli pervade la bocca. Quando ha cominciato a provare sollievo di fronte alla seconda personalità del suo migliore amico?

«Mh.» emette a malapena un suono, non fidandosi a parlare, non ancora. A guardarlo sono gli occhi di Hifumi, ma a vederlo davvero è Gigolo e Doppo lo sa. Non si aspetta che l’altro diminuisca la distanza tra loro o si preoccupi per le occhiaie sul suo viso, o perché sono quasi le quattro del mattino e lui dovrebbe dormire da almeno tre, se fosse una persona con un tenore di vita sano. Gigolo invece lo studia come se lui fosse un animale buffo, ma non abbastanza interessante da valere la fatica di avvicinarsi e allungare una mano per toccarlo – non è questo il perfetto riassunto dell’esistenza di Doppo? Essere niente di particolare.

Quando lui e Gigolo si incontrano, per una manciata di istanti Doppo si sente libero. Perché Gigolo è autosufficiente e non ha bisogno di lui, è sicuro di sé, non si preoccupa facendolo sentire oppresso dal costante pensiero di doversi prendere cura della propria persona. Gigolo potrebbe coesistere nella stessa casa con lui e vivere comunque da solo, in un modo molto complesso che a Doppo a volte sembra così semplice. Lui che ha già troppi pensieri, troppe voci nella testa tra tutto ciò che gli viene detto e tutto ciò che invece tace e non rivela mai a nessuno, segreti inconfessabili, scatti d’ira mai avvenuti, veleno ributtato nello stomaco e mandato giù fin quasi a soffocarsi quando sul lavoro lo fanno sentire inutile, incapace. Uno spreco di spazio e un furto di ossigeno; glielo dicono e glielo fanno capire e non soltanto nell’azienda e a ventinove anni. E forse hanno ragione a trattarlo così, a farlo sentire meno di quanto potrebbe essere, a indicargli quanto sia sbagliato.

Un vero amico non gioirebbe di fronte a Gigolo per il sollievo di non essere responsabile di qualcuno, con la rassicurazione di potersi abbandonare al proprio egoismo; una piccola parte di lui gli ripete che, dopotutto, cosa potrebbe mai fare. Lui è soltanto Doppo e non è mai stato lui il sole, quello è il ruolo di Hifumi, tutto dell’altro lo grida a gran voce. Doppo può essere una di quelle stelle coperte dai lampioni di Shinjuku.

Gigolo si lascia scappare tra le labbra una risata impossibile da decifrare, ma lui capisce cosa sta avvenendo: l’altro sta cercando di nascondere se stesso, di ingannarlo per sembrare Hifumi, per non insospettirlo perché – per ragioni che Doppo non comprenderà mai – lui è l’unico capace di far riemergere la personalità principale racchiusa in quel corpo e questo, a Gigolo, non piace. Cercare di riportare Hifumi indietro, è stancante e asfissiante insieme; Doppo vorrebbe solo potersi voltare dall’altra parte e fingere di non aver notato nulla, di potersene lavare le mani, ma non lo fa mai. Per quanto gli sembri di respirare meglio, a volte, il pensiero di non avere indietro Hifumi annienta quel poco che di umano è rimasto in lui.

Si trascina in piedi, inspirando, e muove un primo passo verso l’uomo sulla soglia. Lo vede irrigidirsi e sa che entrambi hanno capito cosa sta accadendo, di nuovo, come decine di notti prima di questa.

«Hifumi» lo chiama, il tono basso «Hifumi

Gigolo stringe i pugni lungo i propri fianchi, mentre lo vede avanzare, passo dopo passo.

Doppo ha imparato presto il peso delle parole, molto prima che il dottor Jinguji desse loro i microfoni per formare la divisione dei Matenrou con lui; ha compreso da bambino quanto siano molto più pericolose dei gesti e delle armi, a volte, e anche per questo non capisce secondo quale logica in un mondo senza più armi dei microfoni in grado di tramutare le parole e le voci in qualcosa che può arrecare danni gravi alle persone sia sembrato sensato. Eppure ogni volta che prende quel microfono in mano, e la sua voce si propaga e lui riesce persino a urlare, un senso di liberazione sembra sciogliersi nella pancia e risalire su per la gola, come se il suo fisico stesse finalmente tirando fuori ogni sostanza nociva lasciandolo con una inebriante sensazione di vuoto.

Ma Doppo sa che le parole sono ciò che ha creato Gigolo – la paura e l’autoconvincersi di poterla superare se solo Hifumi fosse stato diverso, l’opposto di ciò che era: più sicuro, più spigliato, senza l’angoscia e il disgusto e il rifiuto. Parole che nel silenzio deve essersi ripetuto nella testa per proteggersi, fino a creare un altro se stesso che potesse prendere il suo posto e che oggi come la prima volta è sempre difficile ricacciare indietro. Gigolo può essere disumano, eppure Doppo sa che è importante non annientarlo del tutto, perché è il motivo per il quale Hifumi in qualche modo riesce sempre a riemergere, a non soccombere e a restare umano in un mondo che di lui non sa che farsene una volta fuori dal locale in cui le donne che tanto odia lo desiderano, pagando interi stipendi in cascate di champagne e finte dimostrazioni d’amore. Lo stesso Hifumi che a scuola veniva deriso, e preso di mira dai bulli è lì in fondo, da qualche parte; Doppo deve solo trovarlo, prenderlo per mano e tirarlo fuori.

«Hifumi…?» ripete con poca convinzione, in apparenza. Allunga una mano e sfiora il polso dell’uomo di fronte a lui e Gigolo assottiglia lo sguardo, si allontana come una bestia ferita e Doppo quasi si aspetta di sentirlo ringhiare per scacciarlo o per metterlo in guardia.

Una falcata più ampia lo porta quasi a cozzare contro il corpo dell’host e le sue mani gli afferrano il viso: «Va tutto bene.» glielo dice anche se non ci crede. Come potrebbe mai andare bene un mondo in cui per tenersi stretta un briciolo di umanità, per non permettere agli altri di distruggerla definitivamente, devi renderti inumano o portare te stesso alla pazzia per proteggerti?

Una smorfia adombra il viso di Gigolo – Hifumi – e alla fine qualcosa sembra spezzarsi nel suo sguardo; gli occhi lo mettono a fuoco per la prima volta, i muscoli delle spalle si rilassano e le mani tremano appena quando si alzano per posarsi entrambe sui polsi di Doppo. Le sente stringere piano, poi sempre più forte, e sa che Hifumi sta riemergendo e si aggrappa a lui come se fosse l’unico punto fermo in un vortice di nulla che cerca di portarlo giù, di nuovo e definitivamente.

Hifumi apre la bocca per dire qualcosa, ma qualsiasi cosa sia rimane incastrato da qualche parte. Doppo sospira, porta la fronte contro la sua e chiude gli occhi; funziona sempre, quando Hifumi ha bisogno di tornare a respirare e, soprattutto, tornare se stesso.

«Scusami…»

Quasi ironico che lui si scusi quando quella parola è il mantra personale della vita di Doppo. Fuori il cielo si rischiara lentamente, ma l’alba per Doppo non ha nulla di positivo, non è l’inizio di un prezioso giorno ma di una maledizione; sentire le scuse di Hifumi, il tono debole, gli fa venire voglia di urlare. Il pensiero che in poche ore dovrà di nuovo uscire di casa e andare al lavoro gli fa desiderare di addormentarsi e non svegliarsi mai più.

«Vai a fare un bagno.» mormora in risposta a quelle scuse, lasciandogli il viso e limitandosi a guardarlo. Lo vede incurvare le labbra in un sorriso debole ma grato, e muoversi con lentezza fino a sparire nella sua stanza per prendere un cambio di vestiti e attraversare poi la scarsa distanza da lì al bagno. Quando la porta gli si chiude alle spalle, il silenzio piomba di nuovo addosso a lui.

La soglia lo mette di fronte a una scelta: tornare indietro nella sua stanza, stendere il materasso quanto sufficiente a potersi poggiare per dormire un po’ e illudersi che il giorno sia ancora lontano, oppure spostarsi nell’unica area comune che condividono lui e Hifumi insieme alla cucina. Gli occhi si soffermano sulla finestra più grande della casa e il piccolo balcone che s’intravede dalla soglia della propria stanza e a stento si accorge di come i suoi piedi lo guidino verso di essa, un sonnambulo nella veglia completa.

Il blocco della finestra è leggermente duro – non se ne è stupito, l’appartamento è economico e non certo una reggia di recente costruzione – ma hanno imparato presto il trucco per aprirla senza fare troppa forza o troppo rumore. Fa scorrere uno dei vetri e l’aria frizzante entra nella stanza, facendolo rabbrividire. Lo schiarirsi del cielo non è che una striscia di blu meno cupo all’orizzonte, ma lo attira come la più grande meraviglia del mondo fino a fargli poggiare i piedi sul freddo pavimento del balcone; la città dorme ancora, se non per qualche parte dove i locali ancora intrattengono gli ultimi clienti o finiscono di fare le pulizie prima della chiusura. Tutto intorno a lui il silenzio e quel che rimane della notte lo inglobano come una coperta sicura. Se si sforza, in lontananza potrebbe quasi scorgere se non l’edificio in cui lavora almeno la direzione giusta in cui sa di poterlo trovare giorno dopo giorno.

Poggia le mani sul davanzale, sentendo sotto i polpastrelli il mattone ruvido e sembra l’unica ancora alla realtà. Dal palazzo della sua azienda, o la sagoma che potrebbe esserlo, quasi sente ripetersi le parole che sente quotidianamente, insinuate sotto la sua pelle ormai da anni. Non ricorda come sia iniziata, però. Se prova a riportare alla mente l’esatto giorno o istante in cui il mondo lo ha rifiutato, la sua memoria lo tradisce, compagna fedifraga che invece non dimentica mai gli sguardi accusatori dei suoi colleghi di lavoro: gli altri uomini lo guardano come uno zerbino da calpestare fin quando non ci si è tolti tutto lo sporco dalla suola delle scarpe, e le donne lo guardano come fanno con tutti gli uomini – inferiori, privi di reale potere in un governo dove è il gentil sesso a prevalere e a ricoprire le cariche davvero importanti, a comandare – ma ancora più disgustate, a volte. Gli sembra di sentirla, la voce del suo capo urlare il suo cognome e ridicolizzarlo per un errore che non sarebbe avvenuto, se solo smettessero di far ricadere le responsabilità di tre su una sola persona; lo scherno delle colleghe che commentano il suo vestiario, indice di trascuratezza e di una disponibilità economica modesta; una volta, chiuso nel cubicolo del bagno, ha sentito per caso qualcuno commentare l’averlo visto con un host. Il giorno dopo, la voce che spenda il poco stipendio preso ogni mese in accompagnatori occasionali e per di più uomini era stata sentita persino dalle mura dell’edificio. Non ne è sicuro, ma non esclude che alcune spallate ricevute nel corridoio e fatte passare per casuali non lo fossero affatto.

Sposta distrattamente il peso dai talloni alle punte dei piedi, dondolando sul posto e assottigliando gli occhi chiari per mettere a fuoco qualcosa che in verità non riesce a vedere davvero; l’orizzonte gli risponde con un cielo che continua a schiarirsi pian piano, senza riguardi per nessuno. Doppo sospira, si lascia sfuggire aria dalla bocca come se centellinare l’ossigeno fosse importantissimo. Le mura non gli si stanno più chiudendo addosso, ma un nodo nello stomaco gli si forma e si stringe ora, si allenta poi. Nemmeno sente i passi dietro di lui finché la voce di Hifumi non gli arriva all’orecchio – è davvero Hifumi, lo percepisce subito insieme alla nota di malcelato allarme nella sua voce.

«Doppochin…?»

Doppo si volta a guardarlo, ma è solo un osservarlo da sopra la propria spalla, senza muovere granché il resto del corpo. Una ventata frizzante gli arriva addosso, gelandogli le guance e dandogli al tempo stesso una sensazione piacevole che lo porta a inspirare a pieni polmoni. Hifumi lo guarda con un fondo di terrore negli occhi che a Doppo ricorda quando andavano ancora a scuola, e il suo migliore amico era una delle vittime preferite di un bullismo disgustoso sfociato in una violenza altrettanto disgustosa – è per questo che Gigolo esiste, forte dove Hifumi è debole, sicuro quando Hifumi vuole fuggire e aggressivo quando Hifumi torna a essere il ragazzino delle medie toccato da mani che non avrebbero nemmeno dovuto sfiorarlo.

Doppo a volte si chiede dove sia il suo, di “Gigolo”.

«Doppochin» sente ripetere a Hifumi, gli vede abbozzare un sorriso vuoto che non riesce a nascondere l’accenno di panico nella sua voce e nel tremolio lieve della mano che si tende verso di lui «scendi di lì, andiamo a fare colazione insieme…»

Sbatte le palpebre per un momento, prima di abbassare lo sguardo sui propri piedi e allora, solo allora, si rende conto di essere fermo sul davanzale del balcone; Hifumi dietro di lui, il vuoto davanti. Dicono che guardare in basso in certi momenti sia la cosa peggiore da fare e dunque d’istinto Doppo punta lo sguardo davanti a sé. Il vento gli colpisce ancora il viso con qualche folata un poco più forte delle altre, e lui in un impeto di coraggio che non gli appartiene stacca leggermente un piede dal suo appoggio e lo sporge appena in avanti. In un’altra situazione forse potrebbe sembrare come il se stesso bambino che, tornando a casa da scuola, giocava a camminare in equilibrio sulle strisce della strada e immaginava che ci fosse solo mare intorno a lui, che non rispettando le linee rette e bianche sarebbe caduto in acqua.

«Doppo!» è un richiamo più urgente, ma soprattutto più fermo a interrompere il suo movimento. Per la prima volta, quando guarda di nuovo verso Hifumi, non riesce a capire se si tratti di lui o di Gigolo – forse di entrambi? Contemporaneamente?

Si aspetta che aggiunga qualcosa ma non lo fa. Doppo ha persino l’istinto di girarsi, non fosse che ora i suoi piedi sembrano inchiodati su quel piccolo spazio su cui poggiano. Distrattamente, come se non riuscisse a focalizzarsi del tutto su Hifumi, registra che forse il motivo per cui l’altro non lo afferra e non aggiunge altro a quel richiamo è che teme si lasci andare nel vuoto. Ha paura di diventare complice di qualcosa che non desidera, se solo dovesse pronunciare la parola sbagliata.

Sarebbe poi così tremendo? I pensieri suicidi non sono una novità per lui, ma fedeli compagni di una buona parte della sua vita negli ultimi anni. A un certo punto Doppo ha capito di non poter coesistere con i suoi demoni; vorrebbe dirlo, a Hifumi, che ci sono volte in cui nella sua testa si uccide nei modi peggiori oppure lo sogna: di cadere nel vuoto e schiantarsi contro l’asfalto, di lasciarsi andare sotto un treno la mattina mentre va al lavoro e basterebbero due passi oltre la linea gialla di sicurezza. Un colpo di pistola no, troppa razionalità per premere il grilletto. L’annegamento nemmeno, troppo lento e non lo sopporterebbe, di sicuro l’istinto lo farebbe riemergere. Ma ci sono volte in cui non uccide se stesso, in cui si dice che non c’è motivo per cui lui dovrebbe privarsi della vita – sono i momenti peggiori, in cui immagina che a finire giù da un tetto siano i suoi superiori, o che la materia grigia sull’asfalto sia di quelle donne insopportabili, oppure nella sua testa si delinea la figura dell’uomo che lo colpisce in corridoio sussurrandogli “frocio” venire spazzata via da un treno in corsa.

Chissà se Hifumi accetterebbe anche questo, se sopporterebbe l’idea che la voce che grida raschiandogli la gola durante le rap battle non esiste solo nella dimensione dei Matenrou ma in una più ampia, nascosta e malata, a fare le veci di un supereroe che nella realtà non arriva mai a salvare nessuno.

Doppo la sente anche adesso, nella sua testa, ma è un rumore confuso nel quale non riesce a distinguere le parole esatte. I suoi demoni ha imparato a combatterli con un mostro, lasciando l’umanità al sicuro sotto una campana di coscienza fatta di fragile cristallo.

Guarda da un lato, e il sole ormai ha fatto capolino tra i palazzi; guarda dall’altro, vede come la luce si riflette sui capelli biondi di Hifumi che ha ancora la mano tesa verso di lui.

Il busto girato in parte, alla sua sinistra il vuoto di un asfalto immaginato spesso, alla sua destra quello breve che lo separa dalla sicurezza del balcone.

Hifumi sta allungando una mano verso di lui, ma è troppo tardi.
Muove un piede.

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Prompt: warnings (au, angst, lemon)
Missione: M1
Parole: 1224
Warnings: pwp, major character death, shinigami!ramuda, ramujaku




Non è così che Ramuda se l’era immaginato. Anni da Shinigami - secoli come angelo della morte, anche se lui preferisce di gran lunga essere chiamato dio - gli hanno insegnato quasi tutti i segreti del mestiere: non affezionarsi all’umano che si segue, in primis; tenerli d’occhio una volta individuati dalla lista quelli di propria competenza di cui dovranno assistere la morte prima di poterne recuperare l’anima, essere osservatori super partes per i loro ultimi sette giorni di vita dopodiché attendere che siano lì a esalare l’ultimo respiro e via, prelevarne l’anima. Ramuda ha visto molte anime nere, pochissime bianche, la maggior parte grigie; la sfumatura di quella di Jakurai è una delle più strambe che lui abbia mai avuto modo di sbirciare prima di averla materialmente tra le proprie mani: un’anima di un grigio chiarissimo - la cosa più vicina a una bianca, di solito prerogativa quasi unicamente dei bambini - con un nucleo nero come la pece. La prima volta che l’ha vista, a Ramuda ha ricordato un buco nero e si è chiesto, divertito, se avrebbe continuato a espandersi fino a inglobare quanto di bianco era rimasto. Sono bastati due giorni a osservarla, però, per capire che non sarebbe successo; si è persino preso la briga di assumere forma umana per passare del tempo con la sua vittima, vedere di scatenare qualche reazione in lui, ma il medico non ha mai fatto nulla di eclatante. Il massimo è stato veder tremolare quel nucleo nero un paio di volte, senza poter però ricollegare la cosa a qualche ragione particolare.
Assolutamente noioso, ecco cos’era stato.
«Eeeeh, non ci sono leggi che ci vietano di divertirci con gli umani di cui aspettiamo la morte!» ha obiettato con Juto, l’unico collega che non ha ancora del tutto snervato - forse perché Juto è troppo stanco di tutto e tutti «L’importante» ha proseguito «è che io non gli faccia venire voglia di vivere o che non gli salvi la vita per sbaglio!» ha sottolineato divertito.

«Nessuno è così disperato da farsi venire voglia di vivere grazie a te, Amemura.»
Ramuda ha riso.


Il corpo di Jakurai sotto di lui è caldo e sudato e Ramuda lo sente tremare appena ogni volta che lo tocca. Rispetto a lui quel medico è un gigante - colpa sua, naturalmente, Ramuda non vuole sentire nemmeno ipotizzare da uno così che sia lui a essere troppo esile e minuto, anche se è vero. Soprattutto perché sa essere vero.
Gli dà un senso di infantile superiorità essere sopra a un uomo così tanto più grande di lui, sia come età apparente che come prestanza fisica e sentirlo sciogliersi ai suoi tocchi e alle sue attenzioni, mosso dall’istinto più vecchio del mondo che forse qualcuno si aspetterebbe sopito in un dio della morte e che invece Ramuda ricorda bene.
Spinge dentro Jakurai e lo sente quasi vibrare di piacere, i lunghi capelli ormai una matassa sparsa su tutto il letto in modo confuso, disordinato; Ramuda ne prende una ciocca tra le dita e tira, né troppo piano né troppo forte, mentre si spinge dentro di lui ancora, e ancora. Jakurai lo guarda in un modo che con gli amanti non ha nulla a che vedere: lo accusa, lo desidera, lo disprezza ma non lo allontana, come se tutto sommato si stesse sacrificando per qualcuno anche ora che è in punto di morte.
A Ramuda fa venire il voltastomaco ma, al tempo stesso, vedere quella macchia scura dell’anima di Jakurai allargarsi anche soltanto un poco, divorare quello che di buono è rimasto nell’uomo, lo esalta e lo eccita come solo la caccia alle anime riusciva a fare un tempo.
«Inutile che mi guardi così.» gli rimbecca con soddisfazione, fermandosi per un istante con il solo scopo di dargli un unico momento di falsa pausa, di artificiale respiro, per poi affondare all’improvviso più di quanto non abbia fatto fino a quel momento. Jakurai si tende sotto di lui, lo sente allargare le gambe per un istante e poi stringerle di nuovo attorno ai fianchi del dio della morte, forse per provocarlo volutamente o magari solo d’istinto, senza potersi controllare.
«Odio gli umani come te.» sibila «Volete sempre, sempre redimervi quando siete vicini alla morte e cominciate ad avere paura di aver avuto una vita inutile, o che non finirete in paradiso. Troppo comodo, no?» lamenta - lui non ci ha provato nemmeno quando è toccato a lui, e anche se lo avesse fatto lo sa che non sarebbe mai stato perdonato. E dopotutto, non sentiva di doversi far perdonare nulla.
«Siete così ipocriti e patetici.» sibila ancora, tirando appena di più i capelli e vedendo il volto di Jakurai sfigurato da un misto di accenno di dolore e di piacere quando si spinge in lui con un’angolazione leggermente diversa e, è chiaro, tocca il suo punto erogeno. Jakurai si tende, ancora, mentre l’orgasmo lo coglie ma il gemito si perde nella bocca di Ramuda.
Non c’è nemmeno un vago accenno di amore in quello scambio - e come potrebbe? Ramuda non ha amato in vita, non comincerà certo ora e con quello che è poco più di un divertente quanto momentaneo passatempo. Ciò che il dio della morte vuole sentire è solo il sapore dell’anima che entro qualche ora avrà, letteralmente, tra le mani.



Gli occhi chiari vagano sullo specchio dal quale è possibile, per loro, spiare nel mondo umano alla ricerca di una serie di volti da associare ai nomi di una lista i cui numeri sono sempre fin troppo elevati. L’espressione annoiata, mentre dondola infantilmente i piedi avanti e indietro, non può che scattare quando un rumore di passi tradisce l’arrivo di qualcuno. Impiega una manciata di secondi irrisoria a inquadrare Juto, l’aria appena seccata nel sistemarsi gli occhiali da vista sul naso e nel passo quasi marziale che ha nell’avvicinarlo. Ramuda gli rivolge un sorriso divertito e impertinente, ma senza una sfumatura più precisa di quella - non sa perché è lì, ma è divertente di default vedere Juto così visto che non succede spesso.
«Brutta giornata?» lo vezzeggia, quasi canzonatorio, vedendo gli occhi dell’altro focalizzarsi su di lui con lo stesso impeto che avrebbero se Juto avesse la certezza di potergli dare fuoco solo così.
Ops.
«Sarebbe brutta anche la tua, se il capo ti avesse tenuto due ore in ufficio per lamentarsi delle condizioni disastrate delle ultime anime arrivate.»
«Oh, la neesan era così arrabbiata?» canticchia, fiele dolciastro nel suo tono quanto sulle sue labbra, incontrando il disappunto - nascosto bene, ma non abbastanza - sul viso di Juto.
«L’anima del tuo medico, comunque, l’ho trovata e l’ho vista.» cambia discorso l’altro, guardandolo di sottecchi. Ramuda non riesce a trattenere un verso disgustato.
«Non chiamarla così, mi disturbi.» si lamenta con un tono così infantile da non poter essere altro che falso «E quindi?» lo incalza, però. Non riesce ad attendere troppo di sapere le sorti di quell’anima.
«Dannata.» pronuncia quell’unica parola, Juto, come una sentenza «Negli ultimi istanti di vita la sua parte oscura sembra aver preso il sopravvento. Strano visto l’andamento degli ultimi anni, ma pare che possa succedere.» taglia corto con una spiegazione diretta e impersonale, tornando alle sue scartoffie con l’espressione che è già la noia che sempre lo contraddistingue.
Non visto, il volto di Ramuda si deforma in un’espressione di puro piacere ed euforica vittoria.

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 Prompt: warnings (au, fluff, gen)
Missione: M1
Parole: 2227
Warnings: nekomimi!au, child!doppo, child!hifumi, parent!jakurai




 
 
Doppo guarda fuori dalla finestra, spiando le goccioline di pioggia che scivolano lungo il vetro. Hifumi è tutto preso a leggere un manga in un angolo, adagiato tra i cuscini che sistema ogni volta a terra anziché goderne sul divano; è un’abitudine che ha sempre avuto da quando si sono sistemati in quella casa e quando sono soli. Doppo sbircia in sua direzione, trovandolo quasi appallottolato lì, con la tuta che indossa quando hanno un pomeriggio libero dallo studio. C’è un silenzio interrotto solo dal voltare le pagine di Hifumi e da qualche sbuffetto divertito di tanto in tanto, di certo causato da qualche tavola del manga; in un angolo del salotto, fievole, arriva il ticchettio dell’orologio.
A far rizzare le orecchie a entrambi, però, è lo scatto della serratura che preannuncia l’aprirsi della porta e l’ingresso dell’unico altro abitante della casa oltre loro due. Hifumi abbandona subito il manga alla propria destra, facendo saettare gli occhi dorati dall’arco che collega l’ingresso al salotto a Doppo, un’aspettativa evidente nello sguardo. Una manciata di secondi dopo Hifumi lo ha già preso per mano e lo sta trascinando, anche se non serve davvero; ci vuole una manciata di secondi perché Jakurai entri nella stanza e si ritrovi non solo nel loro campo visivo, ma anche a distanza piuttosto ravvicinata. Abbastanza perché Hifumi gli si lanci addosso, praticamente, una risata allegra nel tirarsi dietro anche un Doppo più reticente, timido.
«Sensei, bentornato!» esclama Hifumi, le braccia esili a stringere la vita di Jakurai - forse un modo per farsi perdonare della piccola testata data involontariamente all’uomo nell’impeto del gesto -, ricevendo in cambio un colpetto affettuoso sul capo, un lieve scompigliargli i capelli. Le orecchie da felino, di pelo biondo proprio come i suoi capelli, scattano un paio di volte mentre delle fusa leggere abbandonano la sua gola in segno di apprezzamento per le attenzioni ricevute.
Doppo, mezzo coinvolto nell’abbraccio ma ancora troppo timido per azzardare un gesto del genere in prima persona, cerca di sbirciare come può l’espressione dell’uomo finché una mano non si posa con delicatezza anche sulla sua testa; senza che nemmeno se ne accorga, la coda rossiccia ondeggia di qua e di là, tradendo ciò che la sua insicurezza cela nel silenzio. Per fortuna Hifumi riesce a riempire tutti i momenti come quello.
«Sensei, sensei! Ci hanno ridato i test!» esclama contento, lasciando Doppo e Jakurai, zompettando nell’altra stanza in maniera rumorosa. Per Doppo è difficile stare in uno spazio senza Hifumi: sono stati lasciati da soli, sono vissuti insieme fin da prima che Jakurai li prendesse con sé, e ancora adesso dopo diversi mesi di convivenza non è ancora abituato nemmeno a spostarsi in tutta la casa senza la consapevolezza della presenza di Hifumi al suo fianco. Il fatto stesso di condividere la camera dove dormono, la classe a scuola e in generale ogni spazio occupato nel tempo libero ha fatto sì che Doppo ora si ritrovi del tutto dipendente dalla figura del coetaneo. Anche quando è al sicuro con l’uomo che li ha presi con sé, offrendo loro un tetto, del cibo e protezione. 
Jakurai lo sta guardando, Doppo lo percepisce anche se - come al solito - tende a guardare per terra; le mani giochicchiano nervosamente con il bordo della felpa, la coda a intrufolarsi tra le gambe senza che lui nemmeno se ne renda conto.
«Doppo-kun» lo richiama Jakurai, e lui sobbalza appena anche se cerca di nasconderlo. Sa che Jakurai è buono, e gli dispiace avere quei piccoli salti di nervosismo di fronte a lui, specie perché cerca di fare del suo meglio per controllarsi. Alza lo sguardo sull’uomo, sebbene non in modo troppo diretto, e attende.
«Di quale materia era, il test?»
«Giapponese...» mormora Doppo, consapevole di non aver certo ottenuto il massimo. Un risultato mediocre nonostante si sia applicato tanto, o almeno, nonostante fosse convinto di averlo fatto. Ci sono stati tanti molto più bravi di lui e questo lo mortifica se pensa che Jakurai si occupa di tutte le spese per gli studi suoi e di Hifumi.
Quest’ultimo torna nella stanza, saltellando allegro e portando con sé due fogli, il suo e quello di Doppo: li porge entrambi a Jakurai, guardandolo pieno di aspettativa per quei due numeri segnati in rosso in alto a destra dei test. Un settantasei e un sessantotto svettano lì, dove chiunque li può vedere.
«La volta scorsa avevo preso sessantatre!» esclama Hifumi pieno di orgoglio «E anche Doppo-chin ha fatto sei punti in più, a questo!» elogia il lavoro del compagno come se fosse il proprio, con l’entusiasmo che Doppo non riesce del tutto a condividere; è andata meglio, sì, ma poteva fare di più e forse Jakurai si aspettava un voto molto più alto dopo averli anche aiutati a fare i compiti qualche volta. Ma il dottore scruta i fogli con attenzione, prendendosi tutto il tempo necessario, e quando rialza lo sguardo su di loro gli sta rivolgendo un sorriso caldo e gentile.
«Siete stati molto bravi.» commenta come se fosse l’unica cosa giusta da dire - non li sgrida, non li incalza a fare ancora di più, ma mette invece via i fogli con molta cura neanche fossero importantissimi e da conservare come un tesoro. E se li ha poggiati sul tavolino basso del salotto, è solo per liberare le mani e poterle portare a legare i lunghi capelli.
«Festeggiamo con una buona cena.» decreta, cominciando a muoversi verso la cucina e chiedendo loro cosa vogliono mangiare. Mentre Hifumi lo affianca e comincia a elencare tutta una serie di piatti preferiti tra cui non sa scegliere, Doppo allunga appena la mano e azzarda a prendere la manica dell’uomo; Jakurai se ne accorge, Doppo lo sa perché lo vede guardarlo e sorridergli per un istante, ma non commenta nulla e semplicemente lo lascia fare. Per Doppo è abbastanza.
 
La cena è stata all’insegna del buon cibo. Alla fine Jakurai ha persino dato loro un budino comprato al convenience store prima di tornare a casa dal lavoro. Sia Doppo che Hifumi lo hanno mangiato con gusto - Hifumi facendo più chiasso, ma questa è un’altra storia - e poi hanno potuto fare un bel bagno caldo, indossare il pigiama e starsene davanti alla tv tutti e tre insieme. Doppo non è mai riuscito a intuire se Jakurai avrebbe piacere di averli entrambi seduti vicino a lui o se, tutto sommato, la cosa non lo tocchi troppo ma in ogni caso Doppo preferisce starsene vicino a Hifumi. A sua discolpa, Hifumi stesso tende ad arpionarsi al suo braccio tanto a casa quanto a scuola, quando magari camminano per i corridoi, e a non lasciarlo per tenerselo accanto più possibile. Visto che a lui non dispiace, lo lascia fare: Hifumi riesce a essere sempre caldo e rassicurante, ai suoi occhi, non importa cosa dicano gli altri o che li prendano in giro perché stanno sempre insieme - Doppo sa che alcune ragazze, a scuola, non lo vedono di buon occhio perché secondo loro gli ruba le attenzioni di Hifumi ma non gli interessa. E’ l’unica cosa sulla quale ha deciso di non lasciarsi troppo influenzare.
Sente la presa di Hifumi sul proprio braccio farsi più molle e il suo respiro regolare, segno che deve essersi appisolato così, con la guancia sulla sua spalla. Il volume della tv è udibile ma basso abbastanza da essere conciliante; il profilo di Jakurai lo mostra ancora sveglio, occhi sullo schermo, ma forse ha sentito lo sguardo su di sé perché in quel momento esatto si volta, incrociando quello di Doppo.
«Ah.» commenta, rivolto a Hifumi, accorgendosi solo ora di come sia crollato. Doppo lo vede sorridere di nuovo e alzarsi con lentezza, forse per non muoversi troppo e svegliarlo. Si posiziona davanti a loro, le mani tese per sciogliere con delicatezza la stretta debole di Hifumi al braccio di Doppo e poterlo prendere in braccio. Lo fa senza alcuno sforzo e dunque Doppo si alza a sua volta, pronto a seguirlo nella propria camera; vede Hifumi accoccolarsi contro l’uomo, nel sonno, ma Jakurai piuttosto allunga la mano verso di lui, offrendogliela.
Doppo la guarda, un po’ stupito: ha dato l’impressione di essere geloso di Hifumi? Di aver bisogno di essere preso per mano? Di sentirsi solo? Di-- Jakurai agisce da sé, chiudendo la mano più minuta e giovane nella propria. E’ un po’ imbarazzante, specie nel modo in cui la coda di Doppo lo tradisce, ondeggiando di nuovo come alla mano fra i capelli di poche ore prima.
Il tragitto fino alla stanza sua e di Hifumi non è lungo: è una camera abbastanza ampia per contenere un letto a castello, due scrivanie e un armadio ampio e sufficiente a ospitare gli abiti di entrambi. A modo loro hanno reso personali i propri spazi - quello di Hifumi tende a essere molto più ordinato e colorato, quello di Doppo un eterno sparpagliarsi di libri e quaderni e fogli che sarebbero molti di più se Hifumi non passasse dalla sua scrivania piuttosto spesso. Di solito Hifumi è l’occupante del letto sopra, mentre Doppo ha docilmente acconsentito all’altro, visto che per lui non faceva differenza. Stavolta, però, si azzarda a proporre un’alternativa, attirando l’attenzione di Jakurai con un leggero tirargli la manica.
«Posso andare io sopra, per stanotte...» mormora, lo sguardo sfuggente che si alterna tra l’uomo e i due letti - per lui è abbastanza implicito che con Hifumi addormentato e per quanto alto sia Jakurai, non sia comodissimo poggiarlo sul letto superiore. Jakurai lo guarda per qualche momento e poi adagia Hifumi sul materasso di Doppo, tornando bello dritto dopo aver rimboccato le coperte al biondo; un mezzo mugolio - miagolio? - di apprezzamento lascia le labbra di Hifumi, gli occhi ancora chiusi e il viso mezzo affondato nel cuscino con espressione rilassata e soddisfatta.
Jakurai si rivolge a Doppo, quindi, si piega in avanti e gli passa le mani sotto le ascelle per tirarlo su prima che Doppo possa dire qualsiasi cosa. Giusto le orecchie da felino si rizzano per un istante, per la sorpresa, così come la coda; ma quando viene adagiato con attenzione sul materasso superiore, è già più calmo e la mano di Jakurai che gli scompiglia i capelli è gentile.
«Buonanotte, Doppo-kun.» gli dice soltanto, e in fondo lui ne è grato perché i complimenti troppo diretti, il dirgli che è un bravo ragazzo a volte lo spiazzano e non sempre lo fanno sentire degno, anzi - ci sono occasioni in cui più lo elogiano e più Doppo sente di non meritarlo. E’ bello avere una casa e una persona che sembrano capirlo e farlo sentire bene senza esagerare con i complimenti, ma dosando i gesti in modo tale che lui possa sentirsi apprezzato a piccole dosi.
«Buonanotte, sensei.» replica, guardandolo uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle. Si sdraia, dunque, andando a infilarsi sotto le coperte ancora un po’ fredde. Non fa in tempo ad abituarsi al silenzio, però, che sente qualche rumore di lenzuola scostate da sotto di sé e poco dopo le orecchie di Hifumi prima e tutto il resto del suo viso poi appaiono. L’altro è lì, sulla scaletta, che cerca un qualche segno di veglia. Lo trova appena nota che gli occhi di Doppo sono aperti e ancora piuttosto vigili considerando l’orario - al contrario Hifumi è particolarmente assonnato e si vede, ma non abbastanza da demordere all’evidente idea di intrufolarsi sotto le coperte con lui. Doppo lo lascia fare, accostandosi più possibile al muro alle sue spalle ora che si è sistemato su un fianco; Hifumi scivola sotto le coperte con qualche difficoltà ma con successo, alla fine. Lo vede rabbrividire appena prima di sentirlo appiccicarsi al suo corpo: le gambe snelle si incrociano con le sue, un braccio viene posato sul suo fianco e l’altra mano cerca la sua, intrecciando le dita. Da che ricorda, lui e Hifumi hanno dormito spessissimo così e a Doppo piace percepire quel tepore che lo fa sentire sicuro e sa così tanto di casa, di famiglia.
Hifumi ridacchia piano, uno sbuffo appena forse, mentre la sua coda si muove sotto le coperte battendo contenta contro il materasso in qualche tonfo sordo.
«Ti muoverai un sacco anche stanotte...» mormora Doppo, rassegnato, tacendo il fatto che non per questo lo caccerebbe mai dal proprio letto. Vivono in simbiosi da troppo tempo perché farlo sia considerato accettabile da entrambi.
Hifumi avvicina il volto al suo, sfiorandogli la punta del naso con la propria più volte, in quel modo affettuoso e giocoso con cui si sono sempre dimostrati di volersi bene.
«Il sensei è una brava persona, vero?» lo incalza, anche se la voce un po’ intontita dal sonno smorza il tutto. Doppo sa quanto Hifumi adori la nuova famiglia che si è formata quando Jakurai ha deciso di tenerli entrambi, di non dividerli - Doppo era già pronto a odiarlo e fare di tutto per impedirglielo, pure se nel vederlo così alto si era chiesto come avrebbe mai potuto farcela.
Lui stesso, ormai, sente quella famiglia un po’ sua.
«Mh.» è la sua risposta, un po’ ermetica ma senza bisogno di spiegazioni quando si tratta di Hifumi. 
«Doppo-chin,» lo richiama in un sussurro, gli occhi chiusi e la coscienza che con molta probabilità sta di nuovo scivolando nel sonno «staremo insieme per sempre, vero?»
«Mh-mh.» su questo non ha dubbi, mai «Sempre.»
hakurenshi: (Default)

Prompt: Age difference

Parole: 4558

Missione: M3
Fandom/pair: Hypnosis Mic (RioSabu)
Warning: omegaverse, underage character



 

 

 

 


Più del test di genere di Ichiro, lui ricorda quello di Jiro per una semplice questione di vicinanza di età; ha ancora in mente l’immagine del fratello tornato da scuola con aria di tutto tranne che di superiorità e senza sbandierare il foglio con il risultato. Quando Saburo gli aveva chiesto quale fosse, Jiro lo aveva scansato senza tante cerimonie e con una spallata, lo aveva oltrepassato urlandogli di farsi gli affari suoi ed era scappato a rifugiarsi in camera - come se poi fosse una vera via di fuga, dal momento che l’hanno condivisa per anni.

Ichiro era già l’alfa di casa e Jiro forse, nonostante tutto, avrebbe voluto essere come lui almeno in quello. Invece il pezzo di carta che decretava come avrebbe vissuto il resto della sua vita da quel momento in avanti recitava “beta”. Saburo ricorda di essersi chiesto se anche lui, due anni più tardi, sarebbe tornato a casa deluso dalla risposta senza voce di una visita medica.


Da quel giorno Saburo ha studiato diligentemente, ha imparato a far valere la sua testa più del fisico o di qualsiasi altra risorsa, e per un periodo è stato anche più che apprezzato in classe. Più maturo della sua età, diligente, con ottimi voti. Buona parte dei suoi compagni erano certi che dalla visita medica finale il simbolo “alfa” sarebbe stato lì, nero su bianco, a confermare una cosa ai loro occhi già scontata. Invece a Saburo quel certificato aveva detto l’esatto contrario, una percentuale ancora più bassa di quella che lo avrebbe visto crescere come Ichiro.
Non si è davvero stupito quando la sua classe ha preso le distanze, di quando alle medie lo hanno creduto un tipo di persona e sono poi rimasti delusi per conto loro nello scoprirlo diverso - non c’è voluto così tanto, considerato l’essersi assentato dalla prima volta che è andato in calore per periodi precisi e regolari. Peggio per gli altri, si è sempre detto: Jiro ha un carattere più debole sulle cose più assurde, e questo a Saburo è sempre stato chiaro. Una persona bisognosa di attenzioni, specialmente dagli affetti, ma soprattutto qualcuno che aveva visto il fallimento in se stesso prima che lo facesse chiunque altro, cucendoselo addosso anche quando i suoi fratelli lo vedevano in molti modi tranne che quello. Jiro, ecco, lui forse non l’avrebbe saputa gestire in quel modo quindi forse è un bene che sia toccato a lui; ogni tanto ci pensa, sebbene eviti di dirglielo. E d’altronde, sa di essere meglio di quasi tutti i beta che conosce, e di qualche alfa, anche.
Se proprio, la cosa che Saburo detesta della sua situazione è la consapevolezza che un giorno potrebbe arrivare il suo partner, quell’alfa destinato a lui e a lui il destino finora non ha dato niente che volesse davvero o verso cui abbia sviluppato un attaccamento di qualche tipo, a parte i suoi fratelli. E anche lì, il destino ha preteso che ci lavorasse, su quel rapporto, senza risparmiargli fraintendimenti e incomprensioni e qualche sentimento negativo di troppo. Saburo viene da una famiglia in cui Ichiro non si è piegato al fato, ma gli ha sbattuto in faccia quanto poco gli interessi scegliendo come suo partner un altro alfa. Ha Jiro, che può scegliere chiunque lui voglia nel mezzo della popolazione con il genere più numeroso e non deve temere di stare con qualcuno e, un giorno, venir arrivare un’altra persona a cui non sarà in grado di resistere nonostante tutto - e Jiro a volte gli dà la sensazione di essere l’unico che dal destino vorrebbe essere incatenato, ma Saburo no.
E poi ci sono i suoi genitori: due partner predestinati. Senza uno dei due, l’altro è impazzito al punto da togliersi la vita.
Cosa ci sia di romantico e desiderabile, in questo, Saburo non lo capirà mai.


«Yamada-kun, ho finito.» pronuncia la capoclasse, allungando verso di lui il registro da riconsegnare insieme al materiale che il responsabile di classe ha espressamente richiesto a lui. Sono rimasti d’accordo perché Saburo portasse tutto insieme in sala professori, a compito concluso, dunque recupera l’oggetto dalle mani di lei con uno sguardo veloce per assicurarsi di avere tutto prima di muoversi per guadagnare l’uscita dall’aula.
«Okay, a domani.» replica senza perdersi in troppi convenevoli a parte un lieve chinare il capo, varcando la soglia e percorrendo il corridoio. Sono in pochi a essersi trattenuti a scuola, al di fuori di chi partecipa ai club scolastici ed è già nelle palestre o nelle rispettive aule, perciò Saburo non ha nemmeno bisogno di badare più del solito alla strada percorsa. Al suo ultimo anno delle medie il massimo che può accadere è che qualche studente più giovane gli rivolga un saluto per educazione, ma di certo dubita di venire trattenuto a lungo e così è fino al corridoio in cui intravede la targa che indica l’ubicazione della sala docenti. Saranno quanti, sei metri appena tra lui e la porta, quando un profumo che non ha mai sentito prima gli invade le narici con prepotenza e lo gela sul posto? E’ in qualche modo così violento che Saburo ha la sensazione delle gambe che si piegano sotto il suo peso anche senza che questo avvenga, e un calore che si propaga in tutto il corpo. A stento si accorge di poggiarsi contro la parete e del registro di classe che gli cade tra le mani, mentre gli occhi vengono alzati d’istinto quando la porta della sala professori si apre bruscamente e la voce del suo responsabile di classe richiama la figura che oltrepassa la soglia.
E’ un uomo adulto ed è immediatamente chiaro che si tratti di uno straniero: supera Saburo di quasi venti centimetri, piazzato e con addosso una tuta mimetica che lo fa sembrare uno delle forze speciali che non si capisce per quale motivo dovrebbe essere lì. Ma a Saburo in quel momento non interessa - indipendentemente dalla sua volontà l’unica cosa che percepisce è l’odore sempre più forte e inebriante, un peso enorme sulle spalle e al tempo stesso qualcosa che lo fa sentire leggero e gli annebbia la mente, portandolo a muovere un passo dopo l’altro in direzione dello straniero senza una reale ragione per farlo. Se Saburo fosse più debole a livello mentale, se non avesse previsto fin dal suo test medico che questo sarebbe potuto succedere, è certo che sarebbe a stento in grado di riconoscere cosa stia avvenendo.
«Deve farsi indietro…!» esclama il suo responsabile di classe, una mano a poggiarsi sul braccio dell’uomo in mimetica; Saburo non ha una lucidità sufficiente a notare - o meglio, a registrare mentalmente - la quantità di feromoni che sta emanando e come questi influenzino persino il docente, un beta dichiarato. Il soldato invece è rigido, fermo sul posto quasi ci si stesse inchiodando da solo e per scelta, e una parte di Saburo lo odia: perché non gli va vicino? Perché non mette fine a quella sensazione di calore inebriante? Lo sa che può, lo sente in ogni muscolo del proprio corpo, ma quello se ne sta lì e basta, gli occhi puntati su di lui e la mascella contratta, il peso ben puntato a terra. Dietro di lui Saburo nota un’altra figura, e poi un’altra ancora, ma prima che possa registrare altri due docenti - due alfa, se lo ricorderebbe se non fosse del tutto in balia delle sensazioni del suo corpo come non è mai stato prima di oggi - un pugno si abbatte contro la porta mezza aperta.
Sobbalza lui, e così fanno tutti gli altri mentre il soldato gli dà le spalle per fronteggiare gli altri tre; non dice nulla, ma Saburo sente nei brividi sulla pelle che l’altro sta emettendo volutamente un’aura di possessività e di pronta aggressione ai danni del primo di loro che farà un passo verso di lui. Riconosce, nel potere intangibile che lo schiaccia, la differenza tra un alfa e un omega.


Attorno a sé percepisce il vociare più ovattato, quasi una barriera tra lui e il resto del mondo stesse cercando di proteggerlo dall’esterno. Ci riesce, con le voci meno familiari, ma è difficile quando tra queste spicca quella di tuo fratello maggiore che riconosceresti ovunque. Il tono di Ichiro gli ricorda vagamente la parentesi incerta del loro rapporto, quegli anni in cui sembrava arrabbiato con tutti e non era ancora il perfetto sostituto dei loro genitori che voleva invece essere, e finiva con l’arrabbiarsi ancora di più con se stesso. Saburo gli sente nella voce una severità che a lui e a Jiro non rivolge quasi mai, non con quella durezza nel tono e con quel distacco. Pronuncia poche parole ma lapidarie, e il suo interlocutore deve essere o troppo intimidito per spiccicare parola o conscio di essere del tutto in torto - non se ne stupisce, è di Ichiro che si parla. Poi, all’improvviso, è il proprio nome che sente.
«Saburo è il mio fratellino» sta dicendo «ed è all’ultimo anno delle medie. Quanti anni avresti, tu?»
«Ventotto.» replica una voce profonda che Saburo non riconosce ma che, al tempo stesso, gli fa attorcigliare lo stomaco in un modo che non saprebbe definire se piacevole o spiacevole. Non c’è molto del romanticismo di cui parlano le ragazze (e qualche ragazzo) della sua età, ma non è nemmeno tremendo come se lo è sempre immaginato; la consapevolezza di star focalizzando di cosa si tratta sembra risvegliare la voce della ragione dentro di lui al solo scopo di dirgli di ricacciare indietro tutto, e fingere di non aver capito. Per sua sfortuna, Saburo sa di essere più intelligente della media.
«Quindi non ho bisogno di dirti di stare lontano da lui, vero?»
C’è un lungo momento di silenzio, o almeno a Saburo sembra che duri molto mentre si chiede se dovrebbe continuare a fingere di essere incosciente o se non sarebbe il caso, invece, di far notare di essere in ascolto.
«E’ il mio partner.»
Quasi lo sente, il ringhio bloccato nella gola di suo fratello.
«E’ un ragazzino, cosa ne sai.»
«Un soldato sa quanti colpi ci sono ancora in canna senza bisogno di contarli. Lo sa e basta.» pronuncia l’altra voce, serissima «Io lo sento.»
Quella dichiarazione è come una bomba che esplode: Saburo sobbalza non solo per il rumore delle gambe della sedia che all’improvviso grattano per terra, ma anche perché quelle tre parole lo rendono più schiavo di quanto sia sopportabile per il suo orgoglio - si ritrova ad aprire gli occhi prima ancora di aver deciso se voglia continuare a origliare o meno, cercando d’istinto la figura dell’uomo di cui non conosce nemmeno il nome.
Ichiro lo sta tenendo per il bavero, il viso a pochi respiri da lui, mentre l’altro sta seduto e fermo, come se non sentisse provenire da Ichiro un istinto violento sufficiente da doversi preoccupare e difendere.
«Ichi-nii!» esclama prima ancora di rendersene conto, una punta di allarme nella voce che non riconosce, ma soprattutto che non sa come giustificare; si limita a guardare suo fratello quando questi lo fa per primo, e cerca disperatamente l’assenza di un rifiuto, del giudizio e della delusione negli occhi di Ichiro. Ci trova, dopo interminabili secondi, la rassegnazione giocosa che ha accompagnato ogni suo litigio infantile con Jiro nel corso degli anni, e un piccolo nodo all’altezza del petto si scioglie mentre le spalle si rilassano.
«Voglio prima sapere chi sei.» ricomincia ignorando la pausa che c’è stata e tornando con lo sguardo fisso sul viso del soldato «Tutto. Non verrai alla scuola di Saburo, non ti ci avvicinerai nemmeno. Solo se deciderò che mi posso fidare, potrai vederlo e in luoghi pubblici.» dichiara, le braccia incrociate al petto e in attesa di una conferma da parte dell’altro. Il soldato lo guarda per un attimo, poi gli occhi vagano fino a posarsi su Saburo, alla ricerca di una reazione che gli indichi in quale modo rispondere, forse; Saburo non dice nulla, ma deglutisce - non si fida ad aprire bocca, ha il sospetto che potrebbe dire l’esatto contrario di cosa la ragione gli suggerirebbe in qualsiasi altra occasione.
«Busujima» pronuncia quello, tornando su Ichiro «Il mio nome. Rio Mason Busujima.»


E’ strana la sensazione che ha nei mesi successivi; all’inizio lui e Rio non si vedono per nulla. Forse il soldato ha fiutato, in qualche modo, che a Ichiro basta volerlo per venire a conoscenza di un qualsiasi sgarro alla promessa che si sono fatti riguardo il suo vedere Saburo solo in determinati contesti. O forse Rio è solo il tipo di persona così stupidamente nobile da mantenere la parola data nonostante tutto.
Nelle occasioni in cui si vedono, parlano. Per meglio dire, ci provano: Rio non è una persona di molte parole, se non punzecchiata con i giusti argomenti e le domande più dirette alle quali si possa pensare. Saburo, di suo, è aiutato dall’avere una maturità media superiore alla sua età, ma resta quello che è fisicamente e lo percepisce ancora di più di fronte a un uomo fatto e finito, con esperienze forti come l’esercito alle spalle, per cui non ha avuto subito grande interesse psicologicamente ma verso il quale ha sentito un’attrazione e un legame tali da rendergli insopportabile stargli lontano fisicamente.
Non è una cosa che Saburo è felice di dover gestire, nemmeno ora che con le medicine riesce a normalizzare le sue reazioni in presenza dell’altro. A onor del vero, Rio ha dimostrato un autocontrollo invidiabile, forse dovuto alla sua formazione ma anche al suo carattere; a volte Saburo si chiede se esista qualcosa capace di fargli perdere il controllo per davvero e avrebbe quasi la tentazione di provare, ma alla fine si frena finché ha ancora potere decisionale sul proprio istinto.
Così passano incontro dopo incontro a conoscersi in un modo forzato e naturale insieme - Rio sembra del tutto a suo agio nella situazione, come se avesse preso per oro colato quello che il suo essere alfa gli suggerisce, senza porsi domande su quanto lui come individuo lo voglia. Tutti quei dubbi che dovrebbe farsi venire animano la mente di Saburo come una serie di fantasmi, invece. I quattordici anni di differenza che hanno racchiudono tutto ciò che non gli permette di trovare naturale fino in fondo quanto stanno cercando di costruire così goffamente: quando Rio aveva la sua età, Saburo nasceva. Quando lui era nell’esercito, chissà dove nel mondo, Saburo forse imparava a leggere e a scrivere. Nonostante non abbia avuto un partner predestinato è inverosimile credere non ne abbia avuti in generale - lui, Saburo, se ne è ben guardato anche quando tra i suoi compagni si è formata qualche timida, prima coppia e in ogni caso non è mai stato circondato da persone esattamente stimolanti.

A volte Rio lo guarda e Saburo finge di non accorgersene perché non sa come guardarlo a sua volta. Quando si ritrova quel pensiero stupido nella testa sente anche montare l’irritazione e la lascia uscire fuori con qualche commento tagliente, in alcuni casi. Rio assorbe tutto, nulla lo fa tentennare, niente lo sposta dal suo perfetto equilibrio. Al primo periodo in calore dopo l’incontro con Rio, Saburo si rigira nel letto con il respiro affannoso e l’unica cosa a cui riesce a pensare è che vorrebbe Busujima fosse lì, nel letto con lui, vorrebbe che lo toccasse e invece non può, forse non lo vuole davvero, forse non sono predestinati - ma poi lui al destino voleva solo urlare in faccia di non averne bisogno.

Il desiderio lo nausea.


Non sa perché l’idea di vedere un film a casa, in pieno giorno, e per giunta una pellicola contro ogni tentazione - ucciderà Jiro per avergli noleggiato un cartone animato del genere. Non stanno nemmeno parlando. Sono due robot che fanno versetti - sembrasse geniale, tre giorni fa. Saburo sa solo che non sente di poter davvero giudicare Rio per essersi addormentato non molto dopo l’inizio ed esserlo rimasto finora che ormai si avviano alla fine. Gli lancia un’occhiata di traverso e si concede il tempo di osservarlo: le braccia incrociate al petto, le gambe stese in avanti, i muscoli del viso più rilassati di quando è sveglio ma senza una differenza marcata a dare l’idea che Rio lì si senta così a suo agio da non aver bisogno di alzare un muro di qualche tipo. Nei mesi Saburo ha notato che c’è qualcosa a renderli distanti, un elemento slegato dalla differenza di età, stili di vita ed esperienze; una parte di lui non vuole addentrarsi, ripetendosi che non è davvero affar suo, ma l’altra scalpita come se da quel segreto ne andasse tutta la sua vita. Quale alfa, di fronte al proprio omega, è capace di mantenere la calma e, di conseguenza, la promessa fatta a Ichiro di non fare nulla di sconveniente? In mesi, mesi, Rio e lui si sono a stento tenuti la mano - sempre che quello stare con le mani vicine, o una più o meno sopra l’altra, si possa considerare tale. Rio non rifiuta un contatto, se è Saburo a iniziare, ma nulla parte mai da lui.
Non sa nemmeno perché continuano quella farsa, a dire il vero.
«Saburo.» lo richiama a sorpresa la voce di Rio e, altrettanto inaspettato, quando Saburo si volta a guardarlo abbandonando lo schermo della televisione, la mano di Rio gli sfiora la guancia in una carezza appena accennata; senza dubbio, però, è la cosa più vicina a un gesto intimo che ci sia mai stata tra loro, soprattutto da parte dell’uomo. Saburo è abbastanza sicuro di non essere riuscito a nascondere la sorpresa in tempo perché Rio non la notasse - si imbroncia appena, a quella consapevolezza.
«Che c’è?»
«Stai emanando un odore diverso.» sentenzia Rio, facendolo sentire colto in flagrante per qualcosa di involontario e di cui non è nemmeno conscio. Odia come lo fa sentire, e odia ancora di più aver ormai compreso di volerlo, di essere sceso a patti con il fatto che Rio sia il suo compagno deciso da qualcosa che Saburo non può controllare - il destino, la genetica, ormai non è nemmeno così vitale saperlo, può incolpare tutto senza far torto a nessuno.
Finalmente, finalmente, vede una scintilla di sorpresa negli occhi azzurri di Rio quando, con un movimento un po’ goffo ma efficace, Saburo riesce a sistemarsi a cavalcioni su di lui. Rio resta immobile e lo guarda; solo in quel momento Saburo realizza che l’uomo avrebbe potuto facilmente interrompere il suo spostamento o inchiodarlo al suo posto sul divano. Con l’evidente differenza nella forza e nella prestanza fisica a Rio sarebbe bastato un istante, invece non ha mosso un muscolo. Forse in questi mesi in cui hanno cercato di conoscersi Saburo non ha colto tutte quelle piccole avvisaglie a cui invece non avrebbe faticato a prestare attenzione in un altro momento.
«Non è vero.» mente, un po’ anche per provocazione; al contrario di quanto avviene di solito, non riesce a prevedere le reazioni di quell’uomo che gli sta davanti.
Lo vede spostare l’attenzione per un istante verso la porta della stanza, forse per assicurarsi che Jiro non sia nascosto a origliare o a controllarli su richiesta di Ichiro o per propria iniziativa. Torna quasi subito su di lui, però, e Saburo sente un brivido passargli lungo la schiena. Non è nemmeno eccitazione, più… un fastidioso miscuglio di tante cose diverse.
«Saburo.» Rio lo chiama di nuovo, e lui detesta come l’altro non abbia nemmeno bisogno di parlare o di dare una particolare inflessione al proprio tono di voce per rendere chiaro cosa stia pensando ora - “sì che è vero”, “non mentirmi”, “non smetterò di chiedere finché non me lo dirai”.
Odia gli adulti come lui.
«Forse dovresti trovarti un altro compagno.» sputa fuori con tono arrogante, ormai oltre il concetto di provocazione e l’idea di vedere dove il provocare possa portarlo. La risposta è chiara da almeno un mese: da nessuna parte.
«Vuoi un altro compagno?» gli sente chiedere la cosa che meno si aspettava. Rio è serio, gli basta guardarlo in viso per capirlo: gli sta davvero facendo quella domanda come se potessero semplicemente decidere di andare ognuno per la sua strada e vivere felici, lontani e con altre persone.
«Sono uno studente delle medie» comincia, senza davvero rispondere alla sua domanda «sono mesi che ci vediamo sotto la supervisione di Ichi-nii» prosegue «parliamo per modo di dire, a stento ci siamo presi la mano e tu sei un adulto.» continua a sciorinare motivazioni, esasperato come se avesse a che fare con un bambino un po’ stupido e fosse già stufo di spiegargli le cose «E nemmeno te ne lamenti. Non ti interessa e quanto aspetterai? Dieci anni? O solo i sei che mancano alla mia maggiore età? Quale alfa ci riesce? Potresti essere presente mentre vado in calore» lo dice quasi schifato, perché ha sempre detestato quel modo di dire che gli ricorda quanto simile a un animale lui possa essere «e non faresti una piega. Ah già» si corregge, sarcastico «è già successo.»
Per una manciata di secondi c’è solo silenzio tra loro, ma quando Saburo fa per alzarsi, entrambe le mani di Rio si posano sui suoi fianchi, facendo solo una pressione sufficiente a tenerlo fermo lì dove si trova.
«Che c’è?!» sbotta, poggiando una mano contro lo schienale del divano per mantenere l’equilibrio senza assestarsi in braccio a Rio - per non dargliela vinta.
«Vuoi un altro compagno?» ripete Rio, guardandolo dritto negli occhi e ignorando tutto lo sproloquio, quasi fosse del tutto trascurabile. Saburo tace, incredulo, una stretta allo stomaco che non accenna ad allentarsi.
Lo vuole? Non lo vuole?
«Io sono un ex soldato» pronuncia «e alcuni omega finiscono a fare qualcosa nei campi di addestramento.» ammette - non dice cosa, ma Saburo può arrivarci da solo.
«Se non sapessi controllarmi, non sarei un buon soldato. O un buon compagno…?» c’è un punto di domanda vago alla fine di quella frase, come se Rio stesso non fosse sicuro del perché stiano affrontando quella conversazione.
«Beh io non sono un soldato» ribatte Saburo, piccato e testardo «quindi non sono un buon compagno.»
«Saburo può fare quello che vuole. Non devi controllarti.»
Quella frase è come una bomba sganciata a tradimento, senza preavviso - lo rende euforico, lo fa vergognare e lo disturba al tempo stesso. Sente il calore affluire al viso e non vuole sapere quale espressione abbia assunto.
«Mh» sfugge tra le labbra a Rio, un verso soddisfatto che in un primo momento non comprende «ora il tuo odore è tornato più dolce.»
E’ istintivo per Saburo sporgersi e posare, goffamente, le labbra su quelle di Rio; ma dall’altra parte non sembra esserci né sorpresa, né rifiuto. Rio sta immobile e, quando Saburo si allontana di nuovo, lo accoglie con lo sguardo come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«Vedi?» mormora, accusatorio, di fronte a quella ennesima dimostrazione di calma apparente; stavolta, però, all’uomo non sembrano servire spiegazioni perché gli circonda la vita con un braccio, avvicinando Saburo a sé. L’altra mano ha abbandonato il suo fianco ma resta ferma e non lo tocca da nessun’altra parte. Quello che cambia, invece, è l’odore che Saburo sente: è molto diverso dall’esplosione di feromoni che Rio ha liberato in passato al loro primo incontro, per rivendicare un possesso di un certo tipo. Stavolta è meno violento, lo circonda senza annullare le altre percezioni che Saburo ha di se stesso e, in una certa misura, si mescola a qualcos’altro che - Saburo sospetta - potrebbe essere il proprio odore. In ogni caso è una reazione che non ha mai sentito prima, da parte sua.
«Sei bravo.» pronuncia Rio, più criptico di quanto Saburo possa sopportare - bravo a cosa, quando non ha la minima esperienza se si parla della sfera intima di una coppia? Bravo a rendersi ridicolo? «A controllarti. Sei già un buon compagno, anche senza essere un soldato.» chiarisce l’uomo, e Saburo avrebbe la perfetta risposta piccata per lui, se Rio non catturasse le sue labbra di propria spontanea volontà, stavolta. E’ un bacio che in qualche modo rispetta i suoi spazi e quelli imposti da Ichiro, questo Saburo lo capisce, ma non gli sfugge nemmeno come il controllo di Rio non sia assoluto, stavolta - c’è una breccia nel muro, si riconosce nel modo in cui l’uomo lo stringe contro il proprio corpo, più possessivo di quanto non si sia mai mostrato, e in come l’altra mano si posizioni sulla nuca di Saburo, avvicinandolo ancora di più.
Saburo azzarda, abbandonando la ragione dalla quale sa essere tanto dipendente - è questa la scusa che si darà, dopo, se qualcosa dovesse andare storto - e schiude appena le labbra, sfiora quelle di Rio con la punta della lingua, esitante e senza la minima idea di come si approfondisca un bacio, di come si possa chiedere senza doverlo fare a voce.
Rio però intuisce la sua richiesta, evidentemente, e Saburo comprende, quando quel bacio è molto più profondo di quanto si aspettasse, quanto facile sia perdere il controllo.
Se Rio ha sempre avuto questo istinto verso di lui…
«Saburo.» stavolta è appena un mormorio, rauco, il braccio attorno alla sua vita che si irrigidisce e la mano che si apre, spingendosi sul suo fianco. Saburo non realizza nemmeno perché lo stia richiamando a quel modo, né di essersi mosso più di quanto gli sia sembrato - di aver allargato appena le gambe, di starsi muovendo avanti e indietro, strusciandosi contro la coscia dell’uomo, cercando di soddisfare quel bisogno fisico che non ha mai imparato a conoscere davvero prima di allora, non così almeno. Saburo sa solo che a un certo punto - che non ricorda con precisione - ha portato le braccia al collo di Rio e perso un po’ di quella razionalità con cui analizza anche le cose che dovrebbe lasciar stare, alla sua età, e godersi in maniera diversa.
Assottiglia lo sguardo mentre lo focalizza alla meno peggio su Rio, un fare interrogativo nell’allungarsi di nuovo verso di lui per baciarlo di nuovo; trattiene un sospiro quasi sulla bocca dell’altro, però, quando sente la mano dell’uomo insinuarsi appena sotto la sua felpa. Non va troppo in là, ma è un contatto pelle contro pelle, molto più di quanto ci sia mai stato - ma tutto al momento lo è.
Le dita che prima gli hanno sfiorato la guancia invece sono scese, e Saburo se ne accorge solo quando le sente toccare il bordo dei propri pantaloni. Rio lo guarda, in una tacita richiesta o forse in un monito, a questo punto non lo sa più. Lui a sua volta non dice nulla, ma il movimento di bacino che si spinge ancora una volta verso il soldato forse la dice lunga, perché Rio non esita oltre e le dita si infilano oltre il bordo dei pantaloni e dei boxer, andando a sfiorarlo in modo diretto, di nuovo pelle contro pelle.
Un gemito vergognoso gli sfugge tra le labbra - morirà, quando se ne renderà conto a mente lucida, ma per adesso l’unica cosa che rischia di far avvicinare il momento della sua morte è sentire i passi frettolosi di Jiro per le scale che portano al loro appartamento.
«Saburo!» lo chiama a gran voce, e Saburo ha solo una certezza mentre sente Rio lasciarsi scappare un verso gutturale e frustrato poco prima di ritirare la mano.
Ucciderà suo fratello.



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