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Prompt: qualcuno che cucina + ricetta (riso al curry)
Missione: M2 (week 4)
Parole: 2000
Rating: PG13
Warning: shonen-ai, missing moment



Il fruscio delle buste della spesa riempie la cucina mentre Mio annuncia di essere tornato dalla breve spedizione al supermercato perché, come ogni volta che comprano del cibo, sembrano destinati a dimenticare sempre una cosa e molto spesso è proprio l’unica che non avrebbero dovuto dimenticare. Con l’occasione, inspiegabilmente, si aggiunge comunque del cibo che all’inizio non era nella lista, ma a dirla tutta Shun non è proprio fiscale su quel tipo di cose.


Uno dei gatti di casa si intrufola tra le sue gambe, strusciandosi e miagolando; Shun abbassa lo sguardo, mentre l’acqua del rubinetto continua a scorrere sulle verdure che ha messo a sciacquare poco prima che Mio rientrasse. Sente che l’altro gli sta parlando, ma ci mette un po’ a focalizzarsi su quello, fin quando l’altro non alza di poco il tono chiamandolo con un «Shuuun» rassegnato di chi è abituato a dover attirare la sua attenzione più di una volta, per ottenerla. Specie quando è reduce da una notte in cui due ore di sonno scarse sono state il massimo ottenuto.


La mano si allunga a chiudere il rubinetto e, quasi nello stesso momento, sente una mano poggiarsi sul suo fianco e le labbra di Mio posargli un bacio leggero e veloce sulla guancia. E’ un gesto dato dall’abitudine che, però, spesso riesce a stupirlo lo stesso. Non ha idea se arriverà mai il giorno in cui il suo cervello riuscirà a considerare quei gesti parte della quotidianità e non di un’immensa fortuna passeggera. 


«Hai trovato il roux?» gli domanda, occhieggiandolo, ma Mio è già fuori dal suo campo visivo e lo sente aprire un paio di sportelli per recuperare quanto serve a cucinare tra ingredienti e utensili. «Sì, l’ho preso!» replica poco prima di affiancarlo. Shun lo vede tirare su le maniche della felpa prima e legare i capelli in un codino pratico - gli si sono allungati di nuovo, nonostante non sia passato così tanto tempo da quando li aveva tagliati, prima di partire per accompagnarlo in Hokkaido.  «Allora?» si sente incalzare e lo vede lì, a guardarlo con un sorriso contento di chi non sembra avere mezzo problema al mondo se non cucinare per bene quella cena di cui si devono occupare, in mancanza di sua madre e di suo padre. Anche Fumi, per una sera, se ne starà altrove. 


«Mmh...» mormora pensoso, come se all’improvviso cucinare del curry fosse questione di applicare una scienza esatta dove il minimo errore può costare caro. «Magari pelo le patate.» decreta infine. Mio lo osserva per qualche attimo, Shun quasi si aspetta che gli faccia qualche domanda poco inerente al cibo, ma alla fine l’altro gli mette in un’insalatiera le patate, le carote e al mela solitaria che sembra deciso ad aggiungere a costo di combattere a lungo per ottenere quel diritto. Shun non ha nemmeno bisogno di discutere: sua madre ha sempre messo la mela nel curry fin da quando era piccolo, per quanto ricorda. «Ecco, tu occupati di queste.» lo incalza Mio, un gesto veloce per indicargli la sedia poco distante «Io intanto faccio la carne e le cipolle.» «E il porro?» «Giusto.» gli sente dire prima di vederlo dargli le spalle per recuperare quello e un tagliere. 


Sospira e si sede, sposta la sedia quanto sufficiente a prendere posto ma lo fa dalla parte opposta a quella indicata da Mio. Si mette lì perché così può alzare lo sguardo e trovare la figura familiare di Mio, che gli dà le spalle mentre il rumore ritmico del coltello che batte contro il legno del tagliere accompagna il loro lavorare in cucina. Lui si dedica a pelare le patate, come prima cosa, così da liberare il grosso del contenitore in cui Mio gli ha messo le cose di cui occuparsi. Da quanto ricorda, sebbene non sia mai stato un figlio particolarmente avvezzo a dare una mano in cucina a sua madre, da quando si è trasferito sull’isola ha cominciato ad apprezzare la ripetizione degli stessi gesti riscoperta nell’aiutare al locale. Non si tratta di una passione per la cucina in sé, quanto più di una sorta di… ordine, forse anche mentale, che riusciva a dargli sollievo e glielo dà ancora. Nel caos in cui si trova costantemente la sua testa quando è lì a spremere il suo processo creativo più che può – anche controvoglia – la linearità dello stesso gesto per tagliare qualcosa o pelare le patate, come in questo caso, è una benedizione.

Farlo con la possibilità di alzare lo sguardo e trovare Mio, è ancora meglio. Anche se non glielo ha mai detto finora.

«Come va il lavoro?» lo sente domandare, nel tono la leggerezza di chi non chiede per mettere pressione ma per interesse genuino. Shun corruga la fronte e in quel silenzio Mio legge una risposta specifica, eppure stranamente errata in questo caso. «Non preoccuparti, se hai scritto poco. Una buona cena, una bella dormita e domani—» «Ho scritto un intero capitolo.» pronuncia come se fosse una cosa da nulla. Per una manciata di secondi tra loro c’è solo silenzio.

Poi Mio si volta, repentino e sorpreso: «Cosa?!» esclama, un’incredulità di fondo a cui però Shun non ha mai associato malignità. D’altronde anche lui ne è stupito. E il sorriso che si allarga sul viso di Mio fa il resto: «E’ fantastico, Shun! Allora stasera festeggiamo!» esclama e lo fa sbuffare divertito.

«Col curry?»
«Col curry!»
«Lo useresti per festeggiare qualsiasi cosa.» lo prende in giro, bonario, continuando a pelare le patate – poi le taglia, senza preoccuparsi troppo che i pezzi siano grossolani, visto che in ogni caso non deve né tagliarli uguali, né troppo piccoli.
«E cosa c’è di male? È buono.» si limita a rispondergli Mio, un’alzata di spalle per tornare a voltarsi e a lavorare sul tagliere; ci vuole poco perché cominci a canticchiare una delle sue solite canzoncine inventate sul momento. A Shun non dà fastidio, anzi: sono un po’ sempliciotte, a volte del tutto insensate e quasi ridicole, ma gli fanno tenerezza in un certo senso.

Rimangono in silenzio di nuovo, se si esclude il canticchiare di Mio e i rumori della cucina mentre loro approntano gli ingredienti per il curry. Di tanto in tanto Shun abbandona il suo compito per una manciata di secondi e per seguire Mio con lo sguardo; alla fine però le patate sono tagliate e così tutte le altre verdure che gli sono state affidate. L’assenza del rumore del coltello contro il tagliere fa supporre a Shun che anche l’altro abbia ormai concluso, e ne ha la certezza quando lo vede spostarsi per recuperare una pentola dai bordi alti e metterla sul fuoco. 


Lo vede armeggiare con la bottiglia dell’olio e assicurarsi che la fiamma non sia troppo alta prima di voltarsi e rivolgergli un «Hai finito con le verdure, Shun?» domanda e poi si sporge un poco sul tavolo per controllare con i suoi occhi. Non impiegano molto a mettere porro in pentola e aggiungendoci la cipolla poco dopo. Nemmeno a caramellarla ci vuole troppo, ma Shun se ne accorge dall’odore prima ancora che Mio glielo dica e gli chieda di passargli la carne di cui si è occupato e le verdure tagliate da Shun stesso. 


«Mi passi quella brocca che ho riempito con l’acqua?» gli chiede Mio senza alzare lo sguardo su di lui e andando anche a tentoni per prenderla quando Shun gliela porge, versandone il contenuto nella pentola. Sbircia l’espressione sul viso dell’altro e lo vede soddisfatto mentre si assicura che sia tutto fatto e che si debbano solo aspettare i primi venti minuti senza dover fare altro.


«Sono stupito che Fumi sia voluto andare.» osserva Mio quando torna, alla fine, con l’attenzione su di lui. Shun finisce di pulirsi le mani nel panno umido e lo poggia sul tavolo, corrugando la fronte per qualche istante: «Sì, pare sia uno zio che gli piace abbastanza.» replica, distratto. O fingendosi tale. Sente lo sguardo di Mio su di sé e, all’improvviso, vorrebbe che fosse di nuovo sui fornelli. Contrariamente a quanto si aspetta, però, Mio non gli fa domande – è probabile che ormai sappia riconoscere dal modo in cui risponde quando un argomento è qualcosa su cui non ha piacere di soffermarsi. D’altronde, avendogli parlato del disastroso finale del suo tentato matrimonio, non c’è da stupirsi che riesca a fare due più due quando si parla di parenti da andare a trovare.


Di lì a poco, invece, sente le mani di Mio posarsi sulle sue spalle e stringere appena – forse vuole confortarlo o forse vuole soltanto fargli sapere che è lì. Lo salva con ogni gesto, più di quanto sia consapevole. Allunga una mano andando a sfiorare una delle sue, le dita picchiettano un paio di volte contro quelle altrui e poi si intrufolano tra di esse, intrecciandole con le proprie. Tira leggermente, per avvicinare il dorso della mano di Mio alle proprie labbra e posarci un bacio leggero, quasi per gioco. Poi tira ancora un po’ di più, e volta il viso quando basta a guardare il suo. E’ incredibile come, nonostante stiano insieme da un po’, l’altro si imbarazzi ancora abbastanza da renderlo visibile sul proprio volto. Shun in momenti come questo non riesce a tenere per sé un sorriso leggero, intenerito, e intanto una parte della sua testa gli fa il solito brutto scherzo e lo porta a chiedersi se tutta questa fortuna, questa forma di felicità, sia qualcosa a cui ha diritto. 


Bacia Mio prima di continuare a chiederselo: un tocco casto prima, ma quasi subito sfiora le labbra dell’altro con la lingua e la intrufola nella sua bocca quando lui le schiude. Lo sente rispondere e si concede di perdersi nella sensazione del calore del corpo di Mio, così vicino, di come sente la sua mano andare a sfiorarlo sotto il lobo come fa sempre da quando ha scoperto che gli piace. Allo stesso modo lui fa salire l’altra mano e intrufola le dita fra i suoi capelli, stringe appena ma senza tirare troppo. È un bacio lento in cui si prendono tutto il tempo del mondo, consapevoli che né suo padre, né sua madre, né Fumi arriveranno da un momento all’altro beccandoli in flagrante e creando e un imbarazzo difficile da mandare via – e il senso di colpa, ma quello Shun è felice di essere sempre stato l’unico a provarlo. Avrebbe preferito di no, ma almeno Mio ne è stato risparmiato.

Lo sente mugolare piano, un verso più di gola che di voce, e si scosta poco da lui. Posa un bacio sulle sue labbra, semplice; un altro e un altro ancora, finché non lo sente sbuffare divertito e strusciare la punta del naso contro la propria.

Lentamente, l’odore di buon cibo riempie l’aria della piccola cucina.

*

«Il riso è pronto?» domanda Mio, mentre con il mestolo continua a girare il curry. Hanno perso qualche minuto in più, prima, ma hanno comunque aggiunto il roux come ultimo ingrediente e lasciato che riposasse ancora senza troppi danni collaterali. Shun adocchia la cuociriso che gli rimanda indietro la lucina con l’inequivocabile significato traducibile come riso pronto. La spegne quindi e ne apre il coperchio, lasciando che la prima nuvola di vapore si liberi nell’aria.

«Pronto. Il curry?»
«Mmmh, forse un altro paio di minuti? Lo vuoi più denso di così?»
«Non lo so, è uguale…»
«Shun.» lo richiama e lui si accosta, svogliato, gettando un’occhiata al contenuto della pentola – non è che non gli interessi, ma un minuto in più o uno in meno non cambierà di troppo il sapore e soprattutto non cambierà il fatto di potersi sedere insieme al tavolo e mangiare. Non cambierà la sensazione di essere soli in una casa loro, a condividere una quotidianità sulla quale Shun non soltanto non avrebbe mai scommesso ma riguardo la quale si era arreso da anni ancora prima di incontrare Mio.

«Ma sì, un altro paio di minuti…» butta lì, allungandosi di poco per lasciargli un bacio sulla tempia.

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Prompt: Conflitto
Missione: M3 (week 1)
Parole: 2098
Warning: hurt/comfort




Shun non ha mai avuto un momento preferito della giornata in cui dedicarsi ai pensieri, né ha mai capito come potessero averlo le altre persone; lui, che nella sua testa ha sempre percepito una matassa di pensieri così grande da non riuscire nemmeno a immaginare di trovarci un capo e una coda, non ha nemmeno conosciuto il privilegio di poter relegare i pensieri a un solo e unico momento. Perciò a volte perdeva il filo del discorso durante le lezioni, altre rimaneva in religioso e innaturale silenzio durante i pasti con la sua famiglia e altre ancora si svegliava nel cuore della notte senza riuscire più a riprendere sonno.

Adesso ha quasi trent’anni, si sente scivolare la vita addosso senza avere la forza di afferrarla e direzionarla dove preferirebbe - e dove preferisce? Non lo sa - e mentre il foglio bianco lo guarda di rimando, giudicandolo per non averlo ancora riempito di caratteri che possano formare una storia, nel suo campo visivo rientra Mio. Dorme scomposto, respira a bocca aperta e le coperte sono nel caos più totale. Se lo guarda, Shun vede una cosa che ha desiderato per tanto tempo e che si è solo tradotta in Mio, ma è nata come un’esigenza più astratta; se torna al foglio bianco, invece, è un mezzo che si è ritrovato tra le mani per lasciare che tutto il mondo soffra di un veleno che lo ha annientato per anni. Ma non riesce a condividerlo. Ci sono notti in cui pensa di volerlo tenere per sé, perché se dovesse poi svuotarsi di tutto quel marciume, poi cosa rimarrebbe di lui?
E’ tutta la vita che si lascia in bilico tra due possibilità, non ci si può aspettare che impari adesso a smettere di farlo.


Nelle notti di passaggio tra l’estate e l’autunno, quando si sente ancora il caldo afoso ma, se si ha fortuna, c’è anche qualche soffio di vento piacevole, a Shun torna in mente il periodo delle scuole superiori; il calore e la sensazione di appiccicaticcio sulla pelle sono gli stessi delle notti in cui a volte, nascosto sotto un lenzuolo e dietro la porta chiusa della propria stanza, si masturbava immaginando (con un po’ di difficoltà, a dirla tutta) che le proprie mani fossero quelle di Wada. Poi se ne pentiva, sempre, e si sentiva sporco e stupido - e ancora peggio quando Wada gli aveva detto di non poterlo ricambiare. Shun ricorda la rabbia per un rifiuto ricevuto senza nemmeno dichiararsi, senza averlo voluto, e la tristezza di fondo sebbene non riuscisse a inquadrarne con chiarezza il motivo; ma c’è anche un vago e offuscato ricordo di una sensazione di liberazione. Non aveva pensato alla possibilità che Wada lo dicesse alla sua classe, perché lo aveva coperto già una volta, ma era come poterlo guardare senza più l’ansia di essere colto in flagrante - e la consapevolezza di avere più diritto di farlo, rispetto a prima, dopo essere stato rifiutato definitivamente. Ricorda che in una di quelle notti afose, in lui c’era il piacevole vuoto di chi ha finalmente confessato la colpa più grande della propria vita.
In un momento imprecisato di quelle ore di buio Shun si è chiesto: è così che andrà sempre? Mi sentirò libero per un po’ e poi, il giorno dopo, sarà come prima? - ed era difficile capire se valesse la pena essere contenti di quell’istante notturno o se invece sarebbe stato più saggio non illudersi.
Ma a diciassette anni Shun non era saggio. Era solo.


Le giornate primaverili gli riportano alla mente l’infanzia. Shun non ha moltissimi ricordi dei suoi primi anni di vita, ma ce n’è uno che è indelebile nella sua mente: la scuola materna dove andava, una giornata soleggiata perfetta per giocare all’aperto, e il piacevole tepore dell’abbraccio del suo maestro. Non ne ricorda con precisione il viso, ma è abbastanza sicuro avesse una voce morbida e gentile, e che lo viziasse un po’: «Shun-kun è timido, mh?» diceva «Vuoi leggere un libro con me?» proponeva con la delicatezza di un adulto che forse aveva compreso con facilità ciò che Shun avrebbe compreso solo anni dopo. Ma l’importante era il suo dargli la certezza di avere un piccolo posto solo per sé e che come questo lo faceva sentire felice, al sicuro. Nonostante avvenuto poi in seguito - perché Shun lo sa, ora, che forse già a quel tempo era ciò che è, già allora forse una piccola parte di lui percepiva di essere diverso e per questo si sentiva a disagio con gli altri bambini - quello del suo maestro d’asilo è uno dei ricordi più gentili e preziosi che ha.
Non ne ha mai parlato con Mio perché se ne vergogna un po’, ma a volte si chiede come sarebbe stato se non avesse mai incontrato quel semplice insegnante. A volte pensa, stupidamente, che sia anche merito suo se ora può avere Mio al suo fianco; forse, se quell’uomo non gli avesse mostrato tanta dolcezza, se il ricordo non fosse rimasto impresso nella mente di Shun, forse allora lui non avrebbe fermato Mio nel vederlo da solo, su quella panchina a guardare il mare. Non avrebbe notato quanto fosse triste la sagoma di quel ragazzino lì da solo, con lo sguardo perso all’orizzonte. Per giorni si era domandato se rivolgergli la parola o meno, in conflitto con se stesso e le sue parole e quando, alla fine, lo aveva fatto ricorda di aver pensato: era così facile?
Lui che era convinto che nulla più lo fosse, nemmeno - soprattutto - vivere, aveva trovato qualcosa: Mio.


«Shun!» la voce di Mio lo chiama dalla cucina e si avvicina, richiamo dopo richiamo, fino a raggiungerlo nel salotto. Shun lo guarda dalla propria posizione, seduto con le gambe al caldo sotto il kotatsu, senza rispondere. Mio sbuffa mentre incespica nel cercare di togliere la giacca e, al tempo stesso, non lasciar cadere la busta di plastica che tiene in mano. La sciarpa, che gli si sta srotolando impedendogli ancora di più i movimenti, è bagnata: «Ha nevicato?»
«Mh? Mah, sì, un po’.»
Si acciglia nel vederlo finalmente vincere la sua battaglia contro i vestiti e lasciarsi cadere seduto di fianco a lui; la busta è abbandonata al suo fianco, e Shun lo guarda accoccolarsi come può sotto il kotatsu e rabbrividire.
«Ti ammalerai di nuovo.» brontola mentre riporta lo sguardo sulla tv; il vociare di un quiz a premi è tutto ciò che riempie la stanza per qualche momento.
«Shun» lo chiama Mio, aspettando un istante prima di chiamarlo di nuovo «Shuuun» allunga la vocale dando un tono infantile al modo in cui pronuncia il suo nome. Shun mantiene ostinatamente lo sguardo sulla tv, senza reale interesse per il programma. Sente Mio sospirare al suo fianco e chiamarlo ancora una volta. Ci sono occasioni in cui a Shun capita di avere momenti in cui sente di avercela con se stesso, senza ragione apparente, e di riflesso mette alla prova gli altri. Un po’ si aspetta che Mio lo lasci, che gli dica di non poterne più di lui, confermando cose che affollano la mente di Shun spesso, specie in inverno; una parte di lui, invece, spera che Mio lo perdoni e lo vizi e sia indulgente, che gli dica - o dimostri - di volerlo sempre e a prescindere da qualsiasi cosa faccia. In un certo senso lo sa, è colpa di notti come la precedente in cui nel totale silenzio persino la neve riesce a far rumore mentre cade. Nelle notti come quella Shun non riesce a dormire, e se lo fa dorme male; gli ricorda quando si è davvero reso conto di star per sposare Sakurako. Ne era consapevole, certo, a livello inconscio era una realtà presente, fisica e sfiorata. Eppure ricorda che all’improvviso, come se non ci avesse mai riflettuto prima di allora, si era ritrovato a pensare: sto sposando qualcuno che renderò infelice per tutta la vita.
Aveva già cercato di forzare se stesso al sesso con una donna, ed era stato tremendo; Sakurako lo amava, e lui lo sapeva, ma chiedere a una persona così di restare con qualcuno che avrebbe sempre, intimamente rifiutato di starle accanto completamente era troppo crudele.
Shun ricorda di aver aperto la finestra, quella notte, lasciando che il gelo entrasse nella stanza e di aver guardato la neve cadere per almeno un’ora; poi, all’improvviso, aveva iniziato a piangere. Non voleva ferire Sakurako - per quanto, alla fine, l’aveva ferita comunque - ma uscire allo scoperto significava che non avrebbe mai più potuto rifugiarsi nella comoda relazione con una donna e, ancora di più, era certo sarebbe rimasto da solo per sempre.
E quello, per lo Shun di allora - e, in fondo, in parte anche per lo Shun di adesso - era un pensiero insopportabile.
«Shun» lo richiama Mio per l’ennesima volta e lui si arrende, spostando l’attenzione su di lui, venendo anticipato da un bacio leggero che gli viene posato sulla guancia. Le labbra di Mio sono incurvate in un sorriso, lo sente contro la propria pelle, e quando finalmente lo guarda in viso l’altro sorride divertito e poi lo abbraccia senza preavviso, facendo finire entrambi a terra. Ride mentre Shun brontola e gli chiede cosa gli sia preso, poggia la fronte contro la sua e gli dice «Dormiamo insieme qui, sotto il kotatsu.» come se fosse una marachella da ragazzini pensata e ripensata nei minimi dettagli.
Fuori la neve continua ad accumularsi in silenzio.


A un certo punto della sua vita Shun ha pensato: forse dovrei scrivere.
Ancora oggi non sa se è stato per dimenticare o per ricordare, se perché volesse a tutti i costi poter richiamare alla mente cose lontane di anni e anni o se perché, invece, sperasse di esorcizzare tutto il suo dolore e diventare vuoto, senza nulla a turbarlo in alcun modo. Quando ha pensato che diventare uno scrittore potesse essere una buona idea la calura dell’estate scivolava via insieme ai colori delle foglie, e l’autunno era ormai alle porte. Ora, mentre il respiro regolare di Mio al suo fianco lo culla, Shun non saprebbe dire se diventare uno scrittore sia stata una cosa buona o una cosa cattiva; ci sono momenti in cui non è nemmeno sicuro di poter essere così arrogante da considerarsi un vero autore, per quanto abbia vinto un premio e venga effettivamente pubblicato. Ci sono giorni in cui il solo pensiero di mettersi davanti a un foglio bianco gli fa venire la nausea, altri in cui lo fissa per ore e ore e ore, senza tirarne fuori nulla: lo odia, si infuria con lui e a volte, al culmine della frustrazione, lo distrugge. Mentre lo appallottola o lo straccia sente una soddisfazione infinita, come se stesse distruggendo tutti i propri problemi e i pensieri negativi e nient’altro potesse più farlo sentire impotente e insignificante. La scrittura ha su di lui quel potere tremendo e Shun a volte - quasi sempre - desidera annullarlo; ma quando lo sguardo gli cade su quel foglio ormai inutilizzabile, una piccolissima parte di lui è distrutta allo stesso modo. Il foglio diventa uno specchio: poteva essere parte di una storia e non lo sarà mai.
«Shun…?»
Abbassa lo sguardo di poco, lasciando che la scrivania illuminata dalla lampada scappi via dal suo campo visivo e in esso rientri solo Mio. C’è qualcosa di tenero nel modo in cui i capelli ormai troppo lunghi gli si spettinano sul cuscino, addolcendogli un po’ i lineamenti già rilassati dal sonno. Non si era nemmeno accorto di averlo svegliato.
«Torna a dormire, adesso arrivo anche io.»
«Stai... ancora scrivendo?» domanda confuso dal risveglio. Shun tace un istante, con una rapida occhiata alla pila di fogli che ormai hanno solo bisogno di una conclusione per smettere di essere lo specchio tremolante di qualcuno e diventare un romanzo.
«No, ho finito.» assicura, togliendo gli occhiali da riposo e posando la penna.

Mentre si infila sotto le coperte e il calore del corpo di Mio lo accoglie in un mezzo abbraccio, sente tutta la fatica e la spossatezza mentale crollargli addosso, nemmeno avesse bisogno di toccare il materasso per arrendersi all’idea di dover dormire.
Posa le labbra sulla fronte di Mio in un bacio morbido e affettuoso, sentendolo mugolare contento ma pressoché inconsciente del gesto ricevuto.
Fuori anche i grilli sono ormai andati a dormire.


Pensandoci, la sua intera vita era stata un insieme di conflitti interiori.
Più che distruggerli, rifiutarli e farsi soffocare da loro, Kamio aveva deciso
- alla fine -
di lasciare che facessero parte di lui.




Lo specchio di carta.
Hashimoto Shun

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