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Prompt: boschi
Missione: m3 (week1)
Parole: 1208
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Col senno di poi, Dynaim ammette che sì, forse avrebbe dovuto imparare i nomi di suoi compagni di corso. O, almeno, di quelli di questo gruppo di ricerca. A sua discolpa, quelli della sua razza non sono portati a socializzare al di fuori del proprio clan - a parte suo zio Dalyar. E sì, non importa se lui è solo un drago per un quarto mentre suo zio lo è per metà e dovrebbe, quindi, essere il più guardingo dei due. Dynaim è sicuro che con suo zio qualcosa nel DNA abbia fallito. D’altronde, si parla dello stesso zio sposato per scelta con un umano. Bleah.


In ogni caso, il problelma adesso è un altro e, benché Dynaim sia convinto che dovrebbe chiamarsi la mia stupida accademia magica ha pensato che fosse una buona idea visitare gli uni la casa degli altri quando invece è un’idea di merda, ammette che in verità si tratta di lui che non ricorda i nomi dei tre sfigati che ora si sta portando dietro e ai quali non sa come dare indicazioni per non perdersi in quel bosco che invece, per lui, non ha segreti. Certo, potrebbe semplicemente chiamarli “uno”, “due” e “tre” ma sospetta che poi dovrebbe inutilmente perdere tempo a discutere con almeno uno di loro. Che stanchezza.


Il bosco di Ander è il più esteso di tutta la regione neutrale nonché la sede del saggio di Syelle. Un po’ come essere nel giardino del re, in pratica, solo che il saggio non fa troppi problemi sulla proprietà privata e l’inaccessibilità del luogo. Si estende per ettari ed ettari, una boscaglia piena di alberi per un’abbondante metà e di intricati sentieri in cui è facile smarrire la via senza i giusti punti di riferimento, tanto che i visitatori di altre regioni sono sempre accompagnati da una guida. Per tutta la parte a nord-est è quasi impossibile muoversi su un terreno che non sia scosceso, alla completa mercé della natura; verso sudo-ovest invece il bosco si fa un po’ meno fitto, in concomitanza anche del villaggio in cui Dynaim è nato e cresciuto - o solo cresciuto. Non ha mai capito questa storia di Ivirenth come patria dei draghi, a dirla tutta.


«Credete che… potremmo provare a muoverci?» domanda numero uno, che almeno è l’unica ragazza e quindi può chiamarla Femmina nella sua testa, finché una qualche illuminazione non gli suggerirà qualcosa di meglio. «No.» risponde secco, lo sguardo fisso su un punto chiamato raro mostro boschivo notturno che non capita mai in questa parte di bosco tranne quando gli déi mi odiano particolarmente”. Notturno, poi. Crepuscolare. In ogni caso, fuori posto di almeno trenta chilometri.


«Beh, Gazewintergilde» quale fantasia animi numero due per chiamarlo per cognome non lo sa. Masochismo, suppone. «Sei tu l’esperto della zona cresciuto nel bosco. Tiracene fuori.» commenta sarcastico «Se sapessi leggere i libri sapresti che dal bosco potresti uscire volando o percorrendo a occhio e croce due miglia. Auguri.» ribatte seccato, sprecando fin troppe parole per i suoi gusti. Numero tre tace e, a essere onesto, Dynaim quasi lo apprezza per questo. Intanto, dalla sua posizione, l’esemplare di Rukk se ne sta rilassato e ignaro di quattro ospiti non troppo distanti. Ora, Dynaim non vorrebbe aversi a che fare se possibile, ricordandosi bene le raccomandazioni di Hisei e le annotazioni sul suo bestiario personale: “Pacifico ma territoriale. No apparizioni a sorpresa. Nessuno vuole quasi un quintale di bestia agitata e spaventata a pochi metri di distanza”. Dynaim di sicuro non vuole.


«Esattamente… perché c’è questa cosa così vicina al villaggio? O in generale dove passano le persone?» domanda Femmina, la preoccupazione nella voce nonostante sia ostentando quanta più calma possibile. al suo contrario, Dynaim è abbastanza certo che numero tre stia per vomitare. 


«Non» comincia in un sussurro «agitarti. Se lo sente non potrai correre abbastanza velocemente, fidati.» gli fa presente con un’occhiata prima di tornare su Femmina per qualche secondo «E’ la magia del bosco. Magia antica con cui l’anziano stipula un contratto.» si limita a dire. Lei se lo fa bastare. Quel manzo impedito di numero due invece no. «Ascolta» lo sente cominciare e, davvero, sarebbe poi un crimine tanto imperdonabile abbandonarlo lì? Con una casuale spinta verso le fauci del Rukk, per esempio? Potrebbe farlo sembrare un incidente, con un po’ di impegno, Dynaim ne è sicuro… e poi chi mai potrebbe testimoniare in un bosco semi deserto? «già non capisco per quale motivo siamo dovuti venire in mezzo a un bosco per visitare dove sei cresciuto per questo stupido progetto.» parte con l’invettiva ma è Dynaim stesso a fermarlo.

«Ti ho mai detto che se lo offendi il bosco ti maledice?»

Il gelo attraversa il gruppo. Numero tre è probabile sia a un passo dallo svenimento ma Dynaim resta lì, a guardare numero due mortalmente serio. Quello sembra spiazzato, indeciso se credergli o no, confuso di certo nel vederlo così convinto e nel saperlo originario di lì – dunque, in linea teorica, di certo con più informazioni potenzialmente vere sul luogo.

«Lo dici per sfottermi.»

«Ho interessi e passatempi molto più costruttivi.» commenta Dynaim, mantenendo lo sguardo (di entrambi gli occhi, quindi anche di quello maledetto) su di lui. Non deve fare un bell’effetto e ne è consapevole. Il vento gli dà una mano con effetti speciali facendo muovere le fronde degli alberi in un modo assolutamente normale che la suggestione rende sinistro. Il Rukk, non troppo distante, si aggiusta un poco nella sua posizione attirando gli sguardi più o meno diretti degli altri tre. Numero due sembra convinto abbastanza da decidere di non farsi scappare altre offese riguardo il posto in cui si trovano, almeno finché non ne saranno fuori.

«Magia antica.» gli ricorda Dynaim con una scrollata di spalle «Nemmeno io saprei come salvarti.» conclude, non senza una certa soddisfazione a dirla tutta. Femmina intanto attira la sua attenzione con un tocco leggero sulla sua spalla – preferirebbe di no, ma per stavolta glielo concede. La guarda, in un tacito incalzarla.

«Credo si sia… addormentato?» pronuncia, facendo un cenno del capo verso il Rukk. Quello in effetti sembra riposarsi, il respiro regolare e i movimenti ormai minimi e relativi solo all’abbassarsi e alzarsi del dorso al ritmo del respiro. Dynaim annuisce e fa segno a tutti e tre di muoversi lentamente e seguendo i suoi passi.

Quasi un’ora dopo sono al villaggio – allontanatisi abbastanza hanno potuto usare la magia per volare e arrivare più velocemente, riuscendo a evitare di finire col tornare a notte fonda. Il bosco è meno fitto lì dove c’è l’agglomerato di case ed edifici in cui Dynaim è cresciuto e sua madre è stata fin troppo felice di cucinare per suo figlio e i compagni di quest’ultimo. Accennano al Rukk, all’aspetto sinistro del bosco a tratti e qualcuno accenna anche alle maledizioni. Lei lo guarda a metà tra il sospetto e il giudizio di un genitore che ha già capito fin troppo.

«Dynaim Gazewintergilde» lo richiama, il tono severo di chi sta per rimproverarti qualcosa «non avrete offeso il bosco di Ander dove il bosco poteva sentirvi, voglio sperare.»

Dynaim non è amante delle smancerie, ma vorrebbe tanto baciare sua madre per avergli appena retto il gioco quando non esiste luogo più innocuo al mondo del bosco in cui si trovano.

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Prompt: Sometimes good things fall apart so better things can fall together. Every story has an end, but in life every end is just a new beginning.

Missione: M1 (prepararsi per il viaggio)

Parole: 936

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Il sole stava ormai sparendo oltre la linea dell’orizzonte, dando l’impressione di stare per immergersi nell’acqua dell’oceano fino a farsi inglobare del tutto, così da lasciare il posto alla notte che cominciava a imbrunire il cielo. Il lieve oscillare della nave tra le piccole onde di uno specchio d’acqua quasi immobile sembrava cullare la maggior parte dell’equipaggio ancora impegnato a sistemare le cose per la cena e per la notte sotto coperta, dando a Dalyar il tempo di osservare in lontananza davanti a sé.

Le coste di Ivirenth si facevano sempre più lontane, ormai poco più di una linea sottile e appena visibile per un occhio normale - lui riusciva a focalizzarsi leggermente di più, aiutato dalle sue origini in parte draconiche e dall’amore per la sua isola che gliela rendeva cara e visibile anche a occhi chiusi. Il braccio poggiato sul bordo in legno della nave e seduto con le gambe lunghe molto vicine al petto, non si accorse affatto dei passi che si stavano avvicinando a lui; colse un’altra presenza solo quando un secondo corpo gli si sedette di fianco.

Liam non si era palesato sfiorandolo o annunciandosi, ma ormai dopo quanto condiviso durante il viaggio finora, Dalyar non considerava il suo spazio “suo” e basta, e Liam poteva invaderlo in qualsiasi momento. Magari questo non glielo avrebbe detto, però.

«Ti manca casa?» gli domandò l’altro a bruciapelo, spostando gli occhi verdi nella stessa direzione in cui Dalyar aveva tenuto lo sguardo fino a quel momento, quasi cercasse di inseguire l’oggetto del suo desiderio senza volergli chiedere niente in merito. Non che ce ne fosse bisogno, comunque, visto che anche Liam conosceva Ivirenth e sapeva perfettamente in quale direzione fosse a quel punto della loro traversata. 

«Mh.» Dalyar non era di poche parole, eppure sentiva di non aver bisogno di parlare a lungo di quanto desiderasse tornare nella sua terra e alla propria vita tranquilla di prima, per una serie infinita di ragioni che in parte non potevano essere capite nemmeno se si aveva la forte volontà e il desiderio di comprenderle. Chi non era vissuto su un’isola sia per eredità della propria specie sia perché non poteva prendersi la libertà di provare a vivere in nessun altro posto non avrebbe potuto immaginare come fosse. Sapeva però che, in fondo, Liam cercava di essere gentile e di avere riguardi per lui a modo proprio e questo lo inteneriva.

«Beh non è che tu non possa tornarci mai più e non te ne stai lontano per fare dispetto alla tua famiglia.» gli fece notare, schietto, portando l’attenzione su di lui. Gli occhi verdi di Liam, a cui la luce sempre minore non rendeva affatto giustizia, avevano sempre l’abitudine di fissarsi dritti in quelli del suo interlocutore. Era una pena per chi, come Dalyar, non andava d’accordo con il contatto visivo prolungato a causa di un’immensa timidezza che impiegava fin troppo tempo a scemare.

«Lo so...»
«Se lo sapessi non la guarderesti così.» rimbrottò Liam, forse un po’ brusco a giudicare da come tentò quasi subito di utilizzare un tono più gentile «Ma stai facendo la cosa giusta. Ti stai prendendo la responsabilità del futuro di tutta la tua famiglia, di tre regni interi per la verità. Stiamo andando a farci prendere a calci in culo per il bene superiore, come lo chiamano quelli che vogliono farla sembrare una bella storia.»

Era più forte di lui: Liam non riusciva ad addolcire le cose che dolci non erano, nemmeno per essere conciliante con gli altri; Dalyar ammirava quel tratto del compagno, che lui non avrebbe avuto mai, e si ritrovò a ridacchiare.

«Dici che siamo un po’ degli eroi?»
«Direi degli sfigati, ci hanno scelto perché siamo sacrificabili.» sentenziò, seccato; si chiuse qualche istante nel silenzio, forse per cercare di ricordare a se stesso che quello doveva essere un discorso motivazionale «Ma sì, se la guardiamo con il tuo inguaribile ottimismo, siamo lontani da casa a rischiare la vita perché se avremo successo daremo un’opzione migliore a tutti. Anche a chi non se lo merita, ma pure a chi invece se lo merita, a quelli per cui vorremmo un mondo perfetto. Tu hai la tua famiglia, io ho mio fratello. Nithae, beh, qualcuno ce l’avrà.» tagliò corto con un’alzata di spalle.

Dalyar lanciò un ulteriore sguardo alla sua terra natia e sospirò, voltandosi poi verso Liam, la testa poggiata sul proprio braccio.

Sentendosi osservato, Liam lo guardò di rimando: «Che c’è?»
«Casa e la vita di prima mi mancheranno sempre lo stesso.»
«Perché vivevi in un paradiso, ma ammetti che era un po’ falso. Non sei tu quello che ha detto di aver sognato un sacco, da bambino, di poter vivere felice anche fuori dall’isola con tutta la famiglia?»
Dalyar annuì, sentendosi ancora in imbarazzo; glielo aveva rivelato in una notte insonne, senza quasi pensarci.

Dal nulla, Liam gli diede una pacca sulla schiena - non era fortissima, ma era significativa da uno che non elargiva il contatto fisico tanto per fare.
«Bene. Allora lasciati alle spalle la tua isola e punta a prenderti tutto il mondo. Non può andare peggio di come ti è andata, può solo migliorare.»
«A meno che un altro mostro del deserto non decida di ucciderci sul serio, stavolta...» mormorò, un po’ pensandoci sul serio e un po’ per smorzare la solennità del tutto - sapeva che Liam non sapeva farlo, e quindi gli andava incontro, bilanciando dove poteva.

«Giuro sugli dèi che se succede di nuovo vi lascio e me ne vado a salvarmi la pelle da solo.» sentenziò dopo un lungo, lunghissimo silenzio l’eletto di Atia.

Dalyar scoppiò a ridere.

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Dalyar ama Ivirenth al punto tale da non riuscire a considerarla solo il suo paese di origine, ma una parte di sé. L’Isola dei Draghi è rimasta disabitata per anni, almeno per tutto il mondo esterno al di fuori di essa; sua nonna ha lasciato che credessero alle leggende, che temessero maledizioni inesistente, che avessero il terrore di mettere piede sulla loro terra più di quanta le persone ne abbiano a passare per le Terre di Nessuno. Forse ha sofferto la cosa quando era bambino, prima dell’incidente con suo padre, ma poi ha capito quanto fosse importante preservare quel luogo; con il tempo, Dalyar lo ha sentito sempre più suo, sempre più parte integrante del proprio corpo. Ogni più piccola cosa, dalle radure alle scogliere, dalle rovine di Xile pregne della Magia Antica che lui ha visto solo da lontano alle mura della casa in cui è cresciuto; ogni più piccola cosa di Ivirenth risuona in lui. Conosce bene il momento in cui il sole sorge, il modo in cui si infila nella sua stanza filtrando tra le tende, arrivando fino al letto ma non all’altezza del cuscino, così da non forzare il suo risveglio.
Stamattina però il sole arriva che lui ha già aperto gli occhi, quegli stessi occhi che gli sono valsi lo scorno di alcuni e il disprezzo di altre, una delle forme di razzismo più antiche e ingiuste, quelli che riflettono il colore del cielo di Ivirenth nel punto in cui s’incontra con il mare, ma solo nei giorni d’estate verso mezzogiorno, quando l’intensità di quell’azzurro è di una sfumatura particolare che non si ripete in altri momenti del giorno. La sua attenzione ora non è per il sole, non per il nuovo giorno, ma per il corpo che giace vicino a lui: Liam dorme ancora, voltato verso di lui, il respiro regolare e per nulla rumoroso. Il suo corpo si alza e si abbassa lento, dando a volte l’impressione di non farlo affatto. I capelli scuri gli incorniciano il viso, e a Dalyar quasi dispiace che dorma, perché dalla prima volta che si sono visti ha pensato che gli occhi di Liam fossero meravigliosi. Non gli era mai capitato di non riuscire ad accostare una sfumatura a una parte della sua Isola - del suo mondo - ma con Liam era successo; anche se poi aveva aperto bocca e ci era voluto qualche tempo per tornare a concentrarsi sui suoi occhi e non sulle sue parole taglienti.
Se ci ripensa adesso gli viene solo da sorridere, persino intenerito all’idea di cosa il modo di fare del ragazzo che ha vicino nasconda.
Liam si muove piano, non è nemmeno un vero spostamento il modo in cui si chiude un po’ su se stesso, come un riccio che cerca di proteggersi da qualcosa di pericoloso - solo che per Liam, e per il riccio, le cose pericolose sono il mondo intero, l’esterno nella sua accezione più ampia. Dalyar indugia, non sapendo bene se allungare un braccio e cingergli un fianco rischi solo di svegliarlo o possa aiutarlo a rilassarsi: è ancora troppo giovane per avere esperienza in queste cose, e condividono più di un viaggio obbligato e di una missione indesiderata da troppo poco tempo. Senza contare che Liam sembra una di quelle persone destinate a essere un mistero eterno.
Si decide alla fine, e porta un braccio sul suo fianco; lo posa con quanta più delicatezza gli riesce, cosa non facile quando sei un quindicenne in un corpo da un metro e ottantacinque, ma in qualche modo ce la fa perché Liam non si lamenta, né sobbalza o da segni di essersi svegliato.
Se non fosse per il fatto che parla.
«Non voglio aprire gli occhi, so già che è un orario indecente.» mormora, il tono arrochito dalle ore di sonno e un respiro più lento, quasi pesante ma non snervato. Dalyar si irrigidisce per un secondo prima di aprirsi in un sorriso tenero, stringendo un pochino quel mezzo abbraccio in cui voleva chiuderlo, un po’ per bisogno e un po’ perché a volte pensa che a Liam serva, anche se non lo chiede.
«Dormi ancora» gli suggerisce con tono basso «è presto» gli conferma.
«Presto per tutti o presto per me ma non per uno dei gemelli che piomberà in camera tra meno di cinque minuti?»
Incredibile come Liam Alderbow riesca a essere polemico anche di prima mattina quando ha ancora sonno e poca voglia di prendere coscienza di quello che lo circonda; Dalyar sbuffa divertito, e questo sembra un’onta sufficiente per convincere l’altro ad aprire un occhio.
«Presto per tutti.» si affretta a dire, quasi per scusarsi di quella piccola presa in giro che gli ha rivolto tacitamente. Liam sembra studiarlo, ma in verità deve star cercando di metterlo a fuoco. Meno male che non ha il potere di Ian, o Dalyar potrebbe quasi temere che stia prendendo in considerazione di dargli fuoco direttamente.
«Mh.» gli concede, sistemandosi meglio e avvicinando il corpo al suo, agevolando quell’abbraccio: cerca persino di ricambiarlo, un po’ come viene, ma Dalyar ne è già più che contento. Ha imparato che Liam, tra le altre cose, è molto più fisico - nel senso più puro del termine - di quanto avrebbe mai pensato prima di conoscerlo in quelle vesti di… beh. Dalyar non è sicuro se possano esattamente definirsi fidanzati, non ha molta esperienza in materia - non ne ha nessuna, vive su un’isola considerata disabitata per un motivo: perché lo è. A parte per la sua famiglia.
Restano in silenzio per un po’, tanto che Dalyar a un certo punto si convince che Liam si sia riaddormentato. Ovviamente però non è così.
«Dalyar» lo richiama, sorprendendolo. Abbassa lo sguardo su di lui, ritrovandolo con gli occhi aperti: nella poca luce della stanza sembrano di un verde più scuro, comunque belli, ma quasi sembra mancargli qualcosa.
«Dimmi.» risponde, osservandolo in attesa. Vede che anche Liam sembra indugiare, come se cercasse le parole adatte, il che un po’ lo preoccupa visto che l’altro tende a dire le cose semplicemente come gli vengono.
«Tu non hai mai avuto una relazione, giusto?» non è un’accusa, più una constatazione, e non c’è alcun intento crudele nel chiedere ma Dalyar sente il calore affluire al viso e sa già di dover essere contento di non essere illuminato a giorno; però sa anche di non poter scampare alla situazione. Sa anche che Liam si è reso conto di tutto, senza farsi sfuggire nulla.
«Mh.» conferma, timido, rifuggendo il suo sguardo.
«Quindi non hai nemmeno mai baciato nessuno.»
«Mh.» suona più come un rantolio, la seconda ammissione, e ancora non lo guarda; si ritrova a farlo quando Liam gli pincia il naso, tirando appena e invitandolo ad alzare gli occhi su di lui. Lo fa, anche se se ne vergogna un po’, non per un motivo preciso ma perché quando si è il più grande di cinque fratelli e l’alternativa è chiedere certe cose ai tuoi genitori, semplicemente non lo fai.
E poi chi mai avrebbe potuto dover baciare? Gli alberi di Ivirenth?
«Vuoi provare?»
...Eh?
«Stiamo insieme. Tu non hai mai baciato nessuno. Non sarebbe strano se tu volessi provare e non è che io conti di guardarci negli occhi da qui a per sempre. Anche se tuo padre poi vorrà uccidermi, ma tanto vuole già farlo, direi che sono a posto.»
In condizioni normali riderebbe perché da una parte trova buffa la rassegnazione con cui Liam accoglie il presunto odio di Dakene Gazerwintergilde, dall’altra in effetti è assai plausibile che suo padre minacci di ucciderlo se dovesse mai scoprire che stanno insieme.
Anche se Dalyar è abbastanza sicuro che lo sappia già e che sua nonna abbia fatto da intermediaria per fermare l’ira funesta di suo padre. Ma questo a Liam non lo dice.
Il punto - il motivo per cui non ride - è che è troppo impegnato a morire d’imbarazzo per farlo.
«Non… non devi se non vuoi.» mormora, un impaccio fin troppo ovvio nella sua voce. Sbircia in direzione di Liam e vede che ha un sopracciglio inarcato, come se avesse appena sentito la più grande idiozia di tutta la sua vita. Dalyar quasi si aspetta una battuta sarcastica, un’osservazione su come e perché sia inverosimile che la proposta di Liam possa essere considerata da lui stesso un obbligo, un qualcosa da fare controvoglia. Invece il braccio che l’altro aveva poggiato sul suo fianco per ricambiare il contatto si allontana dal suo corpo, ma solo perché la mano possa risalire fino al suo viso; il palmo di Liam contro la sua guancia è caldo, e il modo in cui con il pollice gli sfiora lo zigomo in una carezza leggera e appena accennata fa fare una capriola al suo stomaco. Non ci vuole molto a Dalyar per capire cosa sta succedendo, così come non ci vuole molto perché Liam si muova e lo faccia succedere: avvicina il volto al suo e posa le labbra su quelle di Dalyar. E’ un contatto leggero, anche se la bocca di Liam se ne sosta lì per qualche istante, senza fretta di allontanarsi di nuovo per vedere che effetto gli abbia fatto. Le sue labbra sono appena secche, ma non è affatto spiacevole tutto quello, e comunque anche se lo fosse Dalyar deve preoccuparsi di calmare un minimo il battito del suo cuore se non vuole rischiare di farsi prendere un colpo o peggio ancora di perdere il controllo sulla sua magia - è già successo una volta, di perdere il controllo in una situazione in cui non avrebbe dovuto farlo. Lui non lo ricorda ma glielo hanno raccontato a grandi linee, di come nell’unica occasione in cui da bambino si è allontanato da Ivirenth abbia riempito d’acqua il mezzo su cui viaggiavano. E dove c’erano altri passeggeri. Tra cui qualcuno di importante.
Non pensa di voler affogare per sbaglio Liam solo per un bacio, per quanto quel bacio lo faccia sentire stupido e felice al tempo stesso.
Quando l’altro si allontana lui non deve aprire gli occhi per cercare il suo sguardo: li ha tenuti aperti - anche se nei libri romantici tutti li chiudono - e quindi si ritrova lì, a guardarlo.
«Spero che tu stia diventando bordeaux in viso non per un principio di soffocamento.» lo prende in giro Liam e stavolta è il suo solito sarcasmo, lo capisce dal sorrisetto che gli incurva le labbra. Se ne sta immobile, a parte per lo scuotere appena la testa e per la mano sul suo fianco che giochicchia con la stoffa della sua maglia.
«Vuoi...» inizia, ma si zittisce, studiandolo per un momento; gli si accosta di più, il suo petto che quasi tocca quello di Dalyar e la mano che abbandona il suo viso per andare a guidare il suo braccio e sistemarselo meglio sul fianco. Persino Dalyar capisce che lo sta invitando in silenzio - forse per risparmiargli almeno un pochino di imbarazzo - a stringerlo di più. Cerca di farlo, nonostante l’impaccio e la timidezza non possano sparire all’improvviso. Solo allora Liam gli sfiora di nuovo il viso, stavolta con il dorso della mano, in un paio di carezze.
«Vuoi provare di nuovo?» domanda, una punta d’incertezza nella voce, come se non fosse sicuro di poter tirare troppo la corda. Dalyar deglutisce, guardandolo. Decide di muoversi, senza rispondere - è sicuro che ora come ora, con le parole, sarebbe un vero disastro - e posa la fronte contro la sua in un primo momento. Poi le labbra sulle sue, in un bacio veloce che forse non si può nemmeno definire bacio ma più un tastare il terreno; lo fa una, due, tre volte e con discrete pause tra l’una e l’altra.
Liam gli sbuffa divertito sulle labbra, Dalyar ne percepisce il sorriso senza vederlo.
«Non serrare le labbra.»
«Perché?»
«Perché vorrei darti un bacio come si deve.» dice senza troppi mezzi termini. Dalyar trattiene il respiro per un secondo ma poi annuisce - non perché abbia capito, cosa deve fare di preciso? Schiudere le labbra? Ma non è un po’ stupido? - e si affida a lui, perché ha già raggiunto il massimo picco di iniziativa che poteva mostrare.
Liam lo bacia di nuovo, e stavolta non ci vuole molto prima che la punta della lingua sfiori le labbra di Dalyar; per istinto e con un timore di fondo azzarda a fare lo stesso, schiude appena quelle stesse labbra e, seppure con un certo tentennamento, finisce con il toccare la punta della lingua di Liam con la propria. Deve combattere con l’impulso di scostarsi e scusarsi per restare esattamente lì, mentre Liam si fa più audace in un modo che Dalyar non pensava avrebbe mai conosciuto, uno che azzera ogni sua possibilità di ragionare su cosa fare, su come toccarlo, se muovere o meno la mano, se stringerlo di più o no.
Liam non sembra curarsene. Il suo è un bacio che non è casto ma è lento, rispettoso dei suoi tempi e della sua timidezza. E quando Liam si scosta, in verità rimane così vicino che i loro nasi si sfiorano.
«Tutto ok?» sussurra piano, come un bambino che si assicura di non aver fatto niente di irreparabile con le sue migliori intenzioni. Dalyar se lo stringe addosso, affondando il viso contro il suo collo, stringendo così forte che Liam prima si lamenta e poi ridacchia - di lui, per lui o con lui, Dalyar non lo sa.
Forse, in ogni caso, gli sta bene.

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 Odiava Echait con tutto se stesso: ma come si poteva vivere in uno stupido posto così gelido?! Va bene che detto da uno che abitava le Terre di Nessuno, deserte sia come clima e presenza di dune che come popolazione per il livello di pericoli che presentavano poteva sembrare poco obiettivo come commento, ma sul serio, la gente di Echait in più di sei secoli non aveva mai pensato di cambiare luogo? Migrare? Maledire gli dèi?
«Wyran è disperato perché dice che non trovare un ospite è inammissibile.» pronunciò una voce alle sue spalle; se non si voltò con l’intento di darle fuoco - letteralmente - fu solo perché sapeva riconoscere l’assenza di intento omicida tanto quanto la sua presenza. Quando si ritrovò faccia a faccia con la regina di Echait fu piuttosto felice di non averle dato fuoco. Supponeva non sarebbe stato molto d’aiuto dal punto di vista diplomatico anche se, beh, lui della diplomazia non era proprio un grande esponente né se ne faceva davvero qualcosa.
«Non sono un pezzo grosso, può stare tranquillo anche se vado disperso, mh? Che insomma, c’è poco da scherzarci in questo posto. Davvero vi sapete orientare?»
«La maggior parte di noi sì. Mi posso sedere?»
Per essere una sovrana, strana lo era di sicuro. Ian di re ne aveva incrociati abbastanza per una vita intera - ossia uno solo, più che sufficiente per tutta la sua categoria -, ma era ben difficile immaginarne uno mettersi sullo stesso piano di un ospite di poca importanza, senza titolo nobiliare, considerato addirittura un fuorilegge. Il suo essere a capo dei reietti che nessun altro voleva non valeva nulla, di fronte a una regina, eppure Iris di Echait chiedeva il permesso di occupare un piccolo spazio accanto a lui, lì seduto su uno dei punti più alti del palazzo reale. Simulò un piccolo inchino, un gesto goliardico e non di vero rispetto, ma Iris si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito che si trasformò in una piccola nuvola di condensa, il fiato caldo a perdersi nel clima rigido. Si sedette, raccogliendo le gambe vicine al corpo e abbracciandole: era minuta, tanto che forse Ian non le avrebbe attribuito i suoi diciotto anni se non fosse stato al corrente dell’età in questione.
«So che però anche le Terre di Nessuno sono difficili per l’orientamento.»
«Si potrebbe dire che abitiamo in due deserti diversi: il mio è di sabbia e terra secca, di rocce e bestie che il ragazzo-drago non penso voglia incontrare di nuovo.» ammise con una punta di divertimento. Forse lei non sapeva delle disavventure del suo protetto o forse sì, ma a lui non interessava troppo ai fini della conversazione «Il tuo è neve e ghiaccio, bianco in terra e bianco in cielo. Forse qualche bestia ce l’avete anche voi ma io in un posto simile impazzirei-- poi comunque fa un freddo esagerato!» si lamentò, un broncio leggero mentre sbuffava fuori con fare teatrale aria calda, vedendo un’ennesima nuvola di condensa formarsi.
«Se devo essere sincera, non credo che un deserto di ghiaccio come Echait possa essere abitato da qualcuno che non sia nato qui.» ammise, usando anche lei quel paragone, definendo “deserto” un luogo che era comunque di certo più abitato delle terre di Ian. Perché lo facesse, lui non ne aveva idea, ma nemmeno lo interessava troppo; la regina lo incuriosiva, sì, ma non era un’esistenza vitale per lui. Era importante come la distrazione in un momento di noia: si sopravviveva benissimo anche senza.
«Beh non penso che uno dall’esterno ci verrebbe volutamente, in un posto così. Senza offesa, eh. Tu magari sarai pure una buona regina - è un po’ difficile crederci, niente di personale però l’unico re che ho conosciuto è quello di Raskea e hai un po’ quel desiderio di dargli fuoco. Tu non usi il fuoco vero?»
«No» replicò lei scuotendo la testa «ghiaccio.»
«Ovvio.» sbuffò lui, alzando lo sguardo al cielo; che bianco fastidioso.
«Comunque sì, magari tu rendi questo posto fantastico, ma fa troppo freddo per i miei gusti.»
«Sicuramente io troverei le Terre di Nessuno troppo calde.» minimizzò lei, come a dire che non era importante che lui insultasse sottilmente (e nemmeno troppo) il suo Paese. Ian la guardò di sbieco: esisteva un sovrano così poco influenzato da un plebeo che gli diceva in faccia quanto il suo regno facesse schifo?
«Però per essere un deserto di ghiaccio e neve» riprese, portando gli occhi su di lui «è un deserto libero.»
Ah, pensò guardandola. E’ così, quindi.
Iris Ceallaigh era il tipo di regina che proteggeva nel silenzio, avvolta nella discrezione di un Paese bianco e fatto di una quiete surreale; taceva, osservava, accomodava prima di sferrare un colpo solo, anche piuttosto scontato, ma che il bersaglio lo prendeva in pieno.
Ian rise, sentendo una bolla di calore scoppiargli nel petto - si piegò in due, poi si lasciò cadere indietro fino a sdraiarsi, per poi rannicchiarsi e ridere tenendosi la pancia. Ogni tanto la guardava e vedeva che Iris ridacchiava piano, coprendosi la bocca con la mano minuta, per nulla infastidita da tutto quel rumore.
Come Echait, anche lei nascondeva ogni cosa, ma solo perché la lasciava coperta di così tanti strati di neve che vedere era impossibile.
Un guizzo nella sua mente offrì a Ian la motivazione perfetta per essere lì e per restarci, nonostante il gelo.
Chissà quando sarebbe venuta giù una valanga che Echait tratteneva da sei secoli - chissà come suonava quella regina discreta e silenziosa, quando esplodeva come il più distruttivo degli incendi.
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 Eilsel era nato a Echait, ma era sicuro che non si riuscisse mai a conoscere quel luogo, anche a viverci per tutta la propria vita. D’altronde anche dall’esterno, tutti guardavano al loro Paese nello stesso modo: un’immensa distesa di ghiaccio e neve che copriva tutto, dalle rocce ai sentieri, dalle foreste a buona parte delle abitazioni, mimetizzandole agli occhi del mondo. Persino il palazzo reale di Echait rischiava di scomparire, con il suo marmo bianco.
Non avrebbe mai potuto dire di odiare il suo Paese, ma non riusciva a trovare quel qualcosa che lo facesse sentire parte di esso, quel qualcosa che avrebbe dovuto scuoterlo nel profondo e alla quale si sarebbe dovuto aggrappare. Ed essere assegnato a seguire la futura regina di Echait non era proprio qualcosa che lo faceva sentire parte integrante del tutto, nonostante fosse considerato un ruolo quasi vitale.
Iris Ceallaigh, con i suoi undici anni - quasi dieci meno di lui - era la futura regina di un Paese difficile, eppure le volte che l’aveva intravista prima di esserle assegnato aveva sempre avuto la sensazione che fosse niente più di quello che era: una bambina. Sembrava non avere nemmeno coscienza del compito che le sarebbe spettato tra non così tanti anni come avrebbe dovuto invece avere a disposizione per essere pronta. L’eredità di Echait era più pesante di quello di qualsiasi regno. Eppure quella bambina era sgattaiolata fuori dal palazzo reale e lui l’aveva seguita lungo sentieri semi-nascosti, osservandola muoversi con addosso un vestiario che l’avrebbe resa facile da confondere con una qualsiasi ragazzina, se non fosse stato che tutto il suo regno conosceva bene il volto della propria futura regina. Tuttavia era proprio quel suo vestire che l’avrebbe mostrata come una ragazzina strana, ancor prima di una futura regina: in quell’abito leggero e in quei piedi scalzi, a muoversi su una distesa di neve come se il freddo nemmeno lo sentisse. Sembrava un’entità, più che un’umana, e il bosco di Echait l’accoglieva tra le sue fronde come se fosse uno spirito degli alberi che faceva ritorno a casa.
La futura sovrana del regno di ghiaccio aveva il nome di un fiore, come ne crescevano pochi lì, e si muoveva tra rami e radici come se niente potesse intralciare il suo cammino; lei apparteneva a quel luogo in ogni senso possibile e ogni angolo di Echait l’amava, l’accoglieva, agevolava le sue fughe e i suoi rientri a casa, agognava la sua presenza come se lei fosse l’essenza stessa della vita e della linfa che passava tra le venature dei tronchi possenti.
«Eilsel, vieni anche tu?»
Non era abituato a essere sentito, quando decideva di celare la propria presenza, e per la verità era anche convinto che la principessa sapesse a stento della sua esistenza, figurarsi il suo nome. La guardò, mentre palesava la sua esatta posizione pur senza accorciare la distanza tra loro; non lo fece perché l’istinto di sopravvivenza gli urlava contro di non farlo, e comprese il motivo poco dopo: la creatura che in tutta Echait era la più difficile da vedere pur abitando i suoi boschi, uno dei più pericolosi predatori dell’intero regno, stava a dormire placida contro un albero, vicina a Iris come se in lei non vedesse alcuna minaccia ma anzi, fosse parte del suo habitat naturale. Eilsel era certo che se si fosse mosso, lo avrebbe azzannato alla gola in un secondo.
«Non dovreste stare vicino a una creatura tanto pericolosa.» osservò, immobile come una statua. Iris, quella bambina incurante del pericolo e del rischio, lo guardò incerta di aver compreso bene le sue parole e poi si lasciò scappare una risata allegra e divertita, una molto adatta alla sua età e poco a quello che un giorno sarebbe diventata.
«Il Bosco di Echait non contiene nulla di pericoloso.» disse come se ne sapesse più di chiunque altro - Eilsel le diede il beneficio del dubbio non per cieca lealtà, ma perché in qualche modo vedeva nei suoi occhi che non lo diceva a caso o per l’ingenua convinzione che ogni bambino possiede in merito a qualcosa. Lo diceva con la certezza di pronunciare una verità assoluta.
«Ci fai compagnia se ti dico un segreto? Però non dire a Wyran che te l’ho detto.»
Eilsel tacque. Wyran era l’uomo che l’aveva cresciuta dopo la morte dei genitori, quello che le stava accanto mentre lo zio di lei occupava un trono non suo; non riusciva a pensare a un segreto così importante che quell’uomo potesse raccomandarsi di tenere per sé, ma di certo se esisteva doveva essere di una portata enorme, ed Eilsel - che nella vita non poteva vantare molte cose andate per il verso giusto - non era sicuro di volersi addossare un peso del genere e dire “sì, manterrò il segreto per sempre”. L’eternità non esisteva, e i per sempre relativi delle persone erano un tempo troppo lungo per lui.
Ritrattò.
«Potremmo incontrarci a metà strada.» le disse, e lei s’illuminò come se le avesse concesso un mondo intero; la vide fare una carezza a quella creatura, saltellare verso di lui che le andava incontro - i piccoli piedi toccavano la neve e lei sembrava non sentirla nemmeno, ancora. Quando furono l’una di fronte all’altro lui si piegò in avanti e lei si mise sulle punte, coprendo parte del viso come se ci fosse qualcuno presente in grado di leggere il labiale di quel segreto che gli disse in un orecchio.
«Il Bosco di Echait mi ha parlato.»
Le credette. Non seppe perché, ma in un futuro non così lontano avrebbe capito - a sua insaputa, ora - che quel bosco le parlava davvero. Non erano le fantasie di una bambina.
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Il mare di Ivirenth era conosciuto in tutto il mondo: chi si era spinto quasi fino all’isola assicurava che le scogliere di quell’isola erano uno spettacolo che mozzava il fiato. Il modo in cui le onde s’infrangevano sulla pietra chiara e modellata dal tempo, le sfumature che la luce dava a quelle acque, erano capaci di far innamorare di quella terra di cui si vedevano – dalle navi – gli alberi rigogliosi sul lato ovest. Era facile immaginare un fitto bosco che coprire una generosa parte di quelle terre, qualche fiumiciattolo suddividere quel luogo segnando confini naturali, tutti aspetti affascinanti a dare l’illusione di un luogo benedetto.
Chi di Ivirenth vedeva solo la forma sulle cartine o, se proprio, le terre in lontananza non ne aveva un’idea così positiva: il mare che si frapponeva tra l’isola e Raskea, il continente a essa più vicino, era anche la naturale barriera tra il mondo e “l’isola disabitata”, il soprannome con cui Ivirenth era conosciuta. La concezione che si aveva di quel posto non era così diverso da quella sulle Terre di Nessuno, con la differenza che di queste ultime era risaputo come fossero il covo di tutti i Dimenticati, quegli uomini e quelle donne il cui posto nel mondo non esisteva più. Per scelta di chi dipendeva dalle storie a cui si prestava ascolto. L’isola disabitata, invece, era quasi peggiore: si vociferava che avesse smesso di essere adatta alla sopravvivenza di qualcuno due secoli prima e due sole città, delle vecchie conosciute, erano ancora in piedi. Èidenn, la cui unica parte davvero funzionante era il porto in cui riposavano i pochi mercanti che osavano spingersi fino all’isola per recuperare materie prime introvabili altrove, e Xile, una città in rovina dove si raccontava fossero state perpetrare cose di cui più nessuno osava parlare nel dettaglio. Il poco che si spingevano a dire i più anziani o chi ne aveva studiato la storia per interesse personale, era che fosse una città dell’esilio. Nessuno più si spingeva fin lì, tanto più perché Xile si trovava esattamente dal lato opposto rispetto a Èidenn; in quest’ultima, invece, si mantenevano in un discreto stato le poche case utilizzate dai mercanti come rifugi di una notte o poco più. La parte della città che si spingeva più all’interno dell’isola non veniva nemmeno visitata, tanto meno abitata.

Crescere su Ivirenth non era il massimo per un adolescente desideroso di mettersi alla prova, di confrontarsi con altre persone e di conoscere il mondo in tutte le sue sfaccettature; per sua fortuna, Dalyar non aveva tutte queste grandi pretese, quindi la vita sull’isola non era così male se si ignorava come - a conti fatti - la sua patria fosse considerata una specie di luogo infestato. In quindici anni non aveva mai visto un solo spettro e, per quel che valeva, passare il tempo sulle scogliere rimaneva comunque la sua attività preferita e il rumore, l’odore e la bellezza del mare sarebbero sempre rimasti la perfetta descrizione di “casa”, per lui.
«Dal! Papà ti sta cercando da un pezzo!»
L’isola disabitata, come la chiamano tutti, non è poi così disabitata. Ma Dalyar era stato il primo di cinque figli a sentirsi spiegare l’importanza di far sì che il mondo continuasse a pensarla così e non era stato così raro aiutare i suoi genitori a spiegarlo ai quattro venuti dopo di lui. Tra questi Keea, la secondogenita, era stata quella più difficile da convincere: aveva preso tutta la decisione e la testardaggine che Dalyar sentiva di non avere e questo lo rendeva orgoglioso, per uno di quelle incomprensibili dinamiche tra fratello e sorella di cui non si sapeva mai spiegare granché. Sapeva bene quanto doveva costarle, il pensiero di rimanere bloccata su quell’isola - in verità non era impossibile per loro recarsi negli altri Paesi, ma le complicazioni non erano poche. Dalyar stesso ricordava di aver visto Raskea una sola volta in vita sua, accompagnato da suo padre; Athia e Echait, distanti un intero continente, non erano niente più di una cartina disegnata su vecchi libri.

Keea lo raggiunge, arrampicandosi con agilità, i lunghi capelli biondi tenuti su in una pettinatura semplice e pratica. Gli occhi azzurri furono puntati subito su di lui e Dalyar le rivolse un sorriso di scuse, riconoscendo subito il cipiglio che preannunciava un rimprovero e che sua sorella aveva ereditato senza alcun dubbio dalla nonna.
«Manchi soltanto tu, a casa.»
«Pensavo papà avesse rinunciato alla staccionata, per oggi…?»
«Macché, quella l’abbiamo rimandata!» ribatté Keea agitando una mano davanti al naso con fare sbrigativo: «C’è un messaggio da Echait. Papà l’ha letto e vuole che ci siamo tutti, quindi mi gioco mezza scogliera che è un messaggio della regina.» commentò arricciando il naso. Keea non era una ragazzina irrispettosa. Dalyar sapeva meglio di chiunque altro quanta dolcezza ci fosse in lei, ma era la sorella più grande e se da una parte aveva conosciuto il piacere di essere viziata proprio da lui, dall’altra aveva avuto tre piccoli di cui prendersi cura a propria volta. Si sentiva in dovere di vegliare sugli altri, e qualsiasi cosa o persona esterna alla famiglia era qualcosa da cui guardarsi fino a nuovo insindacabile giudizio. Era troppo giovane per avere un’idea completa su persone mai incontrate, e la regina di Echait non era - per ovvie ragioni - qualcuno che potesse andare a far loro visita ogni giorno per sincerarsi di non essere vista come un mostro senza cuore.
Dalyar spostò lo sguardo sul mare, soffermandosi per qualche istante ancora sulle onde; sapeva che Keea lo osservava, in attesa, senza capire perché i suoi occhi cercassero di continuo quello specchio d’acqua. Lui non aveva la pretesa di spiegarglielo o che lei lo capisse, non perché non ne avesse la sensibilità ma perché sarebbe stato come spiegare a qualcuno che non aveva bisogno di respirare quanto farlo fosse invece essenziale per quelli come lui. Il legame con quell’elemento gli scorreva nelle vene e solo parte della sua famiglia poteva capire quanto profondo fosse. Quando si alzò, infine, e si avviò al fianco di sua sorella minore lei non gli chiese nulla sul perché fosse di nuovo andato in cima alla scogliera, ma quando casa fu in vista, la sentì prendergli la mano. La strinse prontamente, rivolgendole un’occhiata e un sorriso.
«Secondo te sono cattive notizie?»
«Non credo… di solito i messaggi da Echait, quando arrivano, sono solo delle comunicazioni. Perché sei così preoccupata? Papà ha detto qualcosa?»
«No,» disse subito lei, stringendogli un po’ di più la mano «ma aveva un’espressione strana.»
Dalyar ricordava poche occasioni in cui Dakene, loro padre, aveva dato loro modo di preoccuparsi solo guardandolo in viso e nessuna di quelle era qualcosa che voleva si ripetesse. Non sentiva di poter tranquillizzare Keea senza mentire, così tacque fino a raggiungere casa. Una volta entrati fu facile vedere che la famiglia li aspettava nel salotto: la loro abitazione era abbastanza grande, sebbene nulla di esagerato; appena si oltrepassava la soglia, quasi subito sulla destra si trovava una delle stanze più grandi. Una delle due poltrone era occupata dalla nonna, seduta con quella compostezza che Dalyar le aveva sempre associato da quando era piccolo; sull’altra sedeva Dakene, che stava parlando con Ethel, sua moglie e la madre di tutti i giovani presenti nel salotto. La donna, i lunghi capelli biondi ad accarezzarle la schiena, teneva in braccio una delle più piccole di casa Linjen. Sulla sinistra, l’ampio divano era per metà libero: su di esso c’erano Neth, il terzogenito, e Lyeal, il gemello di Linjen. Quando il più piccolo li vide entrare scivolò giù dal divano e corse subito incontro a Dalyar - lui lasciò con delicatezza la mano di Keea giusto in tempo per prendere in braccio il fratello, uno sbuffo divertito tra le labbra.
«Papà» richiamò guardando in direzione di Dakene «va tutto bene?»
L’uomo spostò gli occhi chiari sul figlio, facendogli cenno di sedersi, così Dalyar non poté fare altro che andare a prendere posto sul divano insieme a Keea e Neth. Per diversi anni della sua vita Dalyar era stato abituato a vedere suo padre impegnato nelle mura di casa o in quelle attività volte solo a garantire alla sua famiglia un buon tenore di vita, considerando che Ivirenth non brillava certo per offerte di lavoro. Il ricordo delle volte in cui lo aveva visto fuori da quel ruolo di padre e marito, era fresco abbastanza e Dalyar sperava sempre che non si ripresentasse mai più l’occasione e ora, che negli occhi azzurri di suo padre vedeva una sfumatura di quelle volte, riconosceva prima di quanto avrebbero potuto fare i suoi fratelli la presenza di qualcosa che non andava. Sbirciò verso sua madre e sua nonna, ma le uniche cose che trovò sui loro volti furono un sorriso incoraggiante dalla prima e una calma imperturbabile nella seconda.
«Questa è il messaggio arrivato da Echait.» fu la premessa di Dakene, la mano destra che teneva in mano il foglio in questione che portò quest’ultimo più vicino al viso, con la chiara intenzione di leggerlo ad alta voce: «“Dakene, mi scuso per questo messaggio dove non mi è possibile spiegare nel dettaglio l’urgenza che mi obbliga a chiederti, in qualità di amico prezioso, di prestarmi i tuoi servigi. Purtroppo la situazione di cui ti ho fatto accenno nella mia precedente lettera, di certo più esaustiva di questo messaggio, è andata peggiorando e confido che tu lo abbia notato prima di molti di noi.”» iniziò a leggere, scatenando in Dalyar ben più di una perplessità. Non aveva mai ficcanasato nelle lettere di suo padre, ma se quella era davvero scritta dalla regina di Echait era normale che una reale si rivolgesse con tanta familiarità a suo padre? Avevano una corrispondenza fitta e sua madre lo sapeva? Oltre a quello, la situazione che stava peggiorando… Dalyar non riusciva a immaginare di cosa si trattasse, esattamente. Suo padre non diede segno di volersi interrompere per spiegare meglio la cosa.
«“I regnanti di Raskea e di Athia hanno deciso di inviare un rappresentante, il migliore del loro regno, in cerca dell’Eristian. Tu meglio di chiunque altro conosci le colpe di cui i figli degli uomini tendono a macchiarsi quando sono accecati dal potere. Non ti chiederei mai di unirti a una causa che non senti tua, ma sei l’unico a cui posso rivolgermi. Re Ileisya e re Myades hanno accettato la presenza di un terzo rappresentante, che sarà ufficialmente designato nel nome di Echait, ma sono costernata nel dover riportare su carta il loro disappunto all’idea che quel qualcuno possa essere tu. Nella speranza che tu possa comunque concederci il tuo aiuto, ti saluto con affetto.” Segue la firma.» concluse Dakene, lasciando cadere il foglio sulle proprie gambe. Il silenzio fu l’unica cosa che aleggiò nella stanza per diversi istanti e quando venne meno, fu grazie alla voce di Keea.
«Cosa vuol dire, papà?»
«L’Eristian è un vecchio manufatto di cui parlano alcune leggende. Raskea e Athia manderanno qualcuno a cercarlo, e la regina di Echait non trova saggio mandarli da soli. A ragione, aggiungerei.» commentò Dakene, e Dalyar riconobbe senza troppe difficoltà una sfumatura di astio nella sua voce. Se ne dispiacque, sapendo che era in parte colpa sua: suo padre probabilmente non avrebbe mai più amato gli umani come faceva una volta, ed era orribile perché lui stesso era per metà uomo.
«I vecchi degli altri due regni non mi vogliono tra i piedi, sicuro quindi che non vogliano nemmeno vostra nonna. E mandare vostra madre è fuori discussione.» chiarì, stringendo in modo impercettibile il pugno posato sul bracciolo della poltrona. Dalyar era d’accordo con lui: Keea era la più grande subito dopo di lui e aveva solo tredici anni. Neth subito dopo di lei ne aveva undici e i gemelli appena sette. Era impensabile farla allontanare da casa, non perché fosse relegata a un ruolo nelle quattro mura della loro abitazione, ma perché i più piccoli avevano bisogno di averla lì. Dalyar non aveva davvero bisogno di sentirsi dire dove sarebbe ricaduta la scelta, e in ogni caso lo capì quando suo padre puntò gli occhi nei suoi.
«Al primo cenno di pericolo che non puoi affrontare tornerai indietro e li lascerai lì, non importa chi siano o la situazione, Dalyar. La nostra famiglia ha un debito verso i reali di Echait, ma non ha obblighi verso i figli degli uomini.» pronunciò asciutto, una raccomandazione che era più un’indicazione a cui Dakene non sembrava voler sentire repliche che non fossero “sì”. Il suo sguardo si ammorbidì, però, voltandosi verso la moglie e prendendo una sua mano nella propria, sfiorando quella di lei con le labbra: «Scusami.» mormorò «Sai che amo di te tutto, anche il lato umano.»

Ethel gli sorrise con dolcezza, annuendo brevemente. Solo allora Dalyar vide sua nonna abbandonare la propria posizione e alzarsi in piedi, muovendo alcuni passi fino a superare Dalyar di un paio di falcate e rivolgersi a lui: «Vieni, figliolo. Parliamo nell’altra stanza.»


L’unico viaggio in mare della sua vita Dalyar lo aveva fatto diversi anni prima, dunque la traversata fino a Braesia, la città portuale più vicina a Ivirenth, si rivelò interessante. Aveva letto di Raskea dai libri, ma non bastò a impedirgli di sorprendersi per il gran numero di persone che trovò quando la piccola nave mercantile su cui aveva viaggiato attraccò. Appena fu sceso dalla pedana, si ritrovò immerso in un via vai lungo la banchina: il sole era tiepido e gli abitanti di Braesia - senza contare tutti i mercanti di passaggio - erano indaffarati con il fare naturale della quotidianità. Nessuno di loro si fermava a controllare chi stesse scendendo dalle navi, ma evitavano con facilità chi si muoveva con più incertezze per le loro strade. Dalyar sistemò meglio il sacco sulla spalla, guardandosi intorno. Ci era voluta una settimana per prepararsi alla partenza, in quei giorni suo padre aveva mandato una risposta alla regina di Echait, ricevendo indietro un ringraziamento sentito e l’assicurazione che Dalyar avrebbe trovato qualcuno ad attenderlo a Braesia, una persona mandata espressamente dalla regina. Non avere la minima idea di quale aspetto questo qualcuno dovesse avere non era di alcun aiuto, specie mentre si rendeva conto di essere davvero in mezzo e che presto avrebbe iniziato a urtare gli altri se non si fosse messo da parte. Stava cercando con lo sguardo un punto che non lo nascondesse troppo impedendogli di essere trovato ma che, al tempo stesso, gli evitasse di essere d’impiccio agli abitanti del posto quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e richiamare la sua attenzione.
Si voltò, ritrovandosi a guardare un viso giovane, anche se non c’erano dubbi sul fatto che l’uomo di fronte a lui fosse più grande. Lo vide sgranare appena gli occhi e poi fare un fischio ammirato: «Mi avevano detto di cercare un quindicenne e mi aspettavo un bimbetto spaurito. Invece guardati!» disse divertito, dandogli una pacca amichevole. Dalyar non era abituato agli estranei né alle folle e cominciava a sentire una morsa di disagio attanagliarlo. Passò la mano libera sui pantaloni, sicuro che il palmo stesse sudando un poco, e poi l’allungò esitante verso l’uomo; quello la strinse con prontezza, indicandogli una piccola locanda di cui Dalyar riusciva a vedere l’insegna, da dove si trovavano.
«Seyah Mistamber. La regina mi ha chiesto di guidarti e di essere il tuo intermediario, dal momento che il rappresentante di Athia ne avrà uno e quello di Raskea, beh… siamo nel loro regno, quindi non gli serve davvero qualcuno che parli per lui o lei.» precisò, camminando verso il locale. Dalyar si limitava ad annuire, mentre lo seguiva, e a osservarlo: gli abiti dell’uomo erano chiaramente estranei a quella città, non tanto negli anonimi pantaloni neri, ma nella casacca bianca che copriva il torace e le braccia. I ricami vicino ai bottoni che la chiudevano sul davanti e ai bordi delle maniche erano in filo e avevano l’aria di essere stati fatti a mano con una grande attenzione ai particolari; il blu del filo utilizzato spiccava sul bianco della stoffa e donava a Seyah. Da quello che Dalyar riusciva a vedere, l’altro non sembrava avere armi con sé e se le aveva, erano nascoste davvero bene. L’unico bagaglio era simile a quello dello stesso Dalyar, una sacca da viaggio portata in spalla.
Una volta che furono di fronte alla locanda, Seyah gli aprì la porta e lasciò che Dalyar entrasse per primo, seguendolo subito dopo: l’ambiente era riscaldato, cosa piuttosto gradita visto che Raskea aveva temperature un poco inferiori a quelle di Ivirenth e che il mare aperto su cui si affacciava la città rendeva l’umidità palpabile. Subito sulla destra il bancone vedeva dietro e pronto all’accoglienza un uomo sulla mezza età che rivolse loro un saluto amichevole. Seyah comunicò la loro intenzione di soggiornare per una notte e impiegò così poco a pagare che Dalyar non ebbe nemmeno il tempo di tirar fuori la sua parte; quando nel muoversi verso uno dei tavoli sulla sinistra tentò di chiedere a Seyah quanto gli dovesse, lui si limitò a un «Nulla, la regina mi ha espressamente richiesto di occuparmi di ogni tuo bisogno.»
Dalyar era a disagio. Per cominciare, non era bravo a rapportarsi con gli estranei e in secondo luogo, non gli piaceva molto l’idea di lasciare che uno sconosciuto pagasse per lui. Seyah era intento a decidere cosa chiedere alla cameriera che si era avvicinata non appena si erano seduti e Dalyar nell’attesa sbirciò la sala: era abbastanza piena, i tavoli e le sedie in legno scuro quasi del tutto occupati, il vociare alto tanto da permettere a Dalyar di distinguere senza troppi problemi il fulcro dei discorsi del gruppo al quale dava le spalle. Fu la cameriera ad attirare la sua attenzione, andandosene con fare affaccendato dopo che lui ebbe richiesto delle patate ripiene.
«Posso supporre tu abbia diverse domande da fare.» Seyah occupò con fare magistrale il silenzio imbarazzante che altrimenti si sarebbe creato tra di loro, se fosse dipeso da Dalyar. Lui annuì, perché dire di no avrebbe significato mentire, ma abbassò lo sguardo sul tavolo; cercava non soltanto di prendere tempo, ma anche di evitare il contatto visivo con l’uomo davanti a lui. Fu abbastanza difficile quando intravide Seyah entrare nel suo campo visivo con prepotenza, piegandosi sul tavolo e inclinando la testa per obbligare Dalyar a guardarlo.
«Allora?» lo incalzò, con un sorriso che a Dalyar ricordò un po’ quello di sua sorella Keea quando faceva qualcosa di non proprio vietato, ma che non le era stato di certo raccomandato. Un fare furbo da ragazzino era ciò che leggeva sul volto dell’uomo seduto davanti a lui.
«Mio padre ci ha letto la lettera che la vostra regina gli ha mandato.» iniziò dalla cosa che gli premeva di più, interrotto quasi subito da Seyah e dal suo «Dammi anche del tu, non sei tenuto a tutta questa formalità.» che stupì un po’ Dalyar ma, indubbiamente, riuscì a metterlo a suo agio. Annuì, cercando le parole giuste per fare quella domanda: «Diceva che i re di Raskea e Athia non vogliono mio padre. Non sono sicuro che vorranno me.» ammise a testa bassa. Non stava chiedendo perché, il motivo lo conosceva meglio di chiunque altro. Nulla di quanto era stato scritto nella lettera letta da suo padre gli faceva ben sperare che la sua presenza sarebbe stata più gradita e quello lo sconfortava abbastanza. Se anche i sovrani fossero stati d’accordo - e Dalyar era convinto sarebbe stato, in realtà, un accontentarsi - le due persone con cui sarebbe dovuto partire come avrebbero reagito?
«In effetti è probabile che, se avessero potuto scegliere tra te e una qualsiasi altra persona, tu non saresti mai partito da Ivirenth.» replicò Seyah senza tanti giri di parole «Ma il punto è che non hanno avuto voce in capitolo, né possono rifiutare la tua presenza, quindi io non mi preoccuperei troppo di questo.»
Dalyar, nonostante i suoi buoni propositi, si ritrovò ad alzare gli occhi su Seyah: «Perché? Voglio dire… sono dei re. Potrebbero anche minacciare di non mandare i loro rappresentanti.»
«Oh ti assicuro di no. La situazione è troppo grave perché possano davvero farlo, ma quando domani ne parleremo con i diretti interessati lo capirai meglio. Quanto al resto non devi preoccuparti. Sai che nessuno conosce l’ubicazione esatta dell’Eristian, giusto?» chiese con fare un poco retorico e dandolo quasi per scontato. Dalyar annuì, anche se non sapeva nel dettaglio cosa fosse questo Eristian: suo padre gli aveva detto per sommi capi che si trattava di un manufatto importante e che, appunto, nessuno sapeva dove si trovasse con esattezza. O se esistesse ancora in luoghi dove gli uomini potessero arrivare.
«Bene, ora immagina: se nessuno sa dove si trova, potenzialmente quel manufatto può essere ovunque, giusto? Se tu avessi la giurisdizione su alcune porzioni di mari, porzioni che sono necessarie per viaggiare ed evitare zone ben più pericolose, pensi qualcuno avrebbe da ridire sul tuo rappresentante?» chiese, facendogli persino un occhiolino complice.
Dalyar sperava di star sbagliando, ma suonava come se la regina di Echait avesse minacciato di far affondare le navi se non avessero accettato lui nel gruppo. Non sapeva davvero come sentirsi al riguardo. Forse la sua espressione tradiva molto i suoi pensieri, perché Seyah rise mentre la cameriera portava loro il cibo ordinato: un buon profumo stuzzicò le narici di Dalyar, ma era difficile concentrarsi sulle patate ripiene con quel discorso di mezzo.
«Tranquillo, la mia regina non minaccerebbe mai di fare una cosa del genere. Ma la politica è complessa e si basa sul presupposto che i tuoi nemici debbano crederti capace di qualunque cosa.» affermò, prendendo una cucchiaiata dello stufato davanti a lui; soffiò un paio di volte, prima di aggiungere: «D’altra parte Echait non entra in guerra da seicento anni. Dovrà pur valere qualcosa, no?»

In effetti da quel punto di vista nessuno poteva dar torto a quell’uomo che gli sedeva di fronte e conversava con lui come se fossero amici da sempre. Echait era famoso per essere un regno rimasto neutrale per ben sei secoli: gli ultimi sovrani a essere entrati in guerra erano tre fratelli che avevano regnato all’epoca e da allora - sebbene Dalyar, non essendo esperto della storia di quel luogo, non ne conoscesse con precisione le ragioni - tutti quelli che si erano seduti sul trono avevano mantenuto il Paese lontano dagli scontri, senza mai prendere posizione. Si vociferava qualcosa a proposito di una fortezza inespugnabile oltre la quale chi aveva tentato di invadere Echait non era mai riuscito a passare, ma quasi tutto quel che Dalyar sapeva era grazie ai testi che aveva letto e suo padre, da parte sua, non aveva mai parlato molto delle storie di luoghi diversi da Ivirenth. Sapere la verità non era possibile, visto che l’unico modo sarebbe stato parlare con tutti i sovrani che avevano amministrato quel regno; Dalyar non poteva fare a meno di chiedersi, però, che tipo di persona potesse essere una regina che si portava sulle spalle il peso di seicento anni di neutralità nei confronti di un qualsiasi scontro potesse scoppiare e cosa, quindi, potesse smuoverla al punto da designare un rappresentante da affiancare a quelli degli altri regni. Era qualcosa che toccava Echait da vicino? Almeno quello avrebbe spiegato un po’ la situazione e reso Dalyar meno ansioso.


Svegliarsi presto era qualcosa a cui era abbastanza abituato, ma questo non gli aveva impedito di sbadigliare per parte del tragitto dopo che alle quattro e mezza del mattino si erano fatti dare un passaggio da alcuni mercanti che si stavano dirigendo alla capitale di Raskea, Flamain. Il profumo di spezie, gran parte del carico che i mercanti stavano trasportando, era stato fin troppo forte per il suo naso quando era salito dopo essere stato buttato giù dal letto da Seyah. In compenso aveva smesso di badarci quando, dopo mezza giornata di viaggio - in buona parte passato ad appisolarsi prima e a guardarsi intorno incuriosito da un paesaggio piuttosto diverso da quello di Ivirenth -, le porte di Flamain finalmente apparvero all’orizzonte. Seyah si sporse per primo, scrutando in lontananza prima di spostare lo sguardo su di lui.
«Non hai mai visto Flamain prima d’ora, giusto?»
«No» ammise Dalyar «so che la chiamano “la capitale del fuoco” ma...» lasciò in sospeso, non sapendo come continuare. All’inizio pensava l’appellativo fosse dovuto a un qualche avvenimento storico, ma non sembravano esserci state guerre particolarmente cruente di cui Flamain fosse stata il fulcro né niente sul genere.
«Quello potrei spiegartelo, ma credo sia molto meglio mostrartelo. Stasera, dopo che avremo chiuso con gli affari ufficiali, ti farò vedere.» promise, mentre un enorme arco di pietra bianca si faceva sempre più vicino. Spostando gli occhi azzurri in quella direzione, Dalyar scoprì la prima cosa riguardo la capitale di Raskea: era una città circondata da un unico muro, alto non più di cinque metri per quanto si potesse misurare alla meno  peggio con uno sguardo. Attraverso quel muro si passava appunto dall’arco che vedeva - Seyah si premurò di spiegargli che in linea d’aria ce n’era un altro proprio dalla parte opposta della città così da evitare a chi era di passaggio di dover per forza uscire da dove era entrato, e fare il giro per passare oltre.
«Il rappresentante di Athia è già qui da molto?»
«Non che io sappia. Viene dalla capitale del suo regno, Nejeik, quindi dovrebbe essere sbarcato all’altro porto di Raskea. Potrebbe essere in anticipo di mezza giornata nel caso fosse arrivato ieri, ma non più di questo.» assicurò Seyah, mentre passavano sotto l’arco ed entravano finalmente in Flamain.
Dalyar non riuscì a non trattenere il respiro quando la città si dispiegò davanti ai suoi occhi: ogni costruzione che rientrava nel suo campo visivo era in pietra lucida, diversa da quella del muro esterno. Se il porto di Braesia era stato affollato, attraversato da un via vai quasi febbrile, Flamain pulsava come un cuore in cui ogni persona e ogni cosa sembrava esattamente al suo posto a cominciare dalle forme artistiche delle costruzioni, da quell’aspetto un po’ antico che sembrava caratterizzarla e finendo con le persone che per le strade si muovevano come ordinate formiche operaie. Non era mancanza di personalità o qualcosa di negativo: pur prendendo direzioni diverse o occupandosi ognuno dei propri affari - con solo poche paia di occhi intente a osservare i mercanti che attraversavano le strade, Seyah e Dalyar con loro - sembravano del tutto consci gli uni degli altri, come se qualcosa dentro di loro gli impedisse di sovrastare l'altro o limitarne la sua libertà. Visti così, a Dalyar davano l'idea di un popolo che non avrebbe mai potuto causare torti a un'altra persona, ma era probabile che tra di loro ci fossero ben altri tipi di individui, di quelli che suo padre odiava di più.
Il mezzo su cui si stavano muovendo si fermò, e i mercanti avvisarono Seyah di non poter proseguire oltre, avendo raggiunto il negozio con cui erano soliti fare affari. L’uomo li ringraziò, offrendosi di pagare loro qualche moneta per il passaggio, ma quelli rifiutarono.
«Andavamo nella stessa direzione, ragazzo» fece notare con fare burbero e spiccio quello che fino a quel momento aveva guidato il mezzo «e non ho di certo sprecato carburante in più per voi, forza.»
Appena fu di nuovo con i piedi per terra, Dalyar fu distratto dagli altri mercanti che avevano viaggiato con loro: uno di questi stava facendo segno a quello che, invece, era rimasto sul mezzo per scaricare. Dalyar non aveva mai visto le capacità donate dalla Dea prima di allora, se non raramente da sua madre, ma ricordava bene quando Ethel glielo aveva spiegato da bambino, raccontandogli la leggenda più antica del mondo come se fosse una fiaba della buonanotte. “Tantissimi anni fa”, gli aveva narrato, “la Dea, che provava amore e compassione per gli uomini dalla vita così breve e fragile, decise di donargli il potere di immaginare”. La dea Leira, secondo la tradizione, aveva permesso ai primi uomini di materializzare tutto ciò che la loro immaginazione riusciva a creare nella loro mente e, in seguito, era stato il dio Yael a far sì che nessun uomo o donna potesse utilizzare quel potere per fare del male ai suoi simili. Nei secoli quei poteri erano diventati le colonne portanti del mondo, ma Dalyar aveva sempre e solo potuto immaginarli: suo padre e sua nonna avevano un tipo di magia diversa e rara, qualcosa che speravano il mondo avesse dimenticato mentre i suoi fratelli erano ancora o troppo giovani per manifestare quel potere, o ancora piuttosto instabili nel suo utilizzo. Dalyar aveva capito presto che, al pari di suo padre, non avrebbe mai sviluppato nulla di speciale che lo rendesse parte di una comunità in cui - comunque - non era nemmeno cresciuto. Per questo, avere l’opportunità di assistere a una qualsiasi dimostrazione di quel potere, nonostante non sapesse con precisione secondo quali criteri il mercante riuscisse a far galleggiare la merce a mezz’aria fino al punto indicato dal compagno, lo faceva emozionare. Era probabile che gli si leggesse in viso, almeno a giudicare dalla risata soffocata al suo fianco che gli anticipò la presenza di Seyah ben prima di sentire la mano sulla propria spalla.
«Possiamo proseguire e non dovremmo metterci troppo. Mi hanno consigliato di andare dritti per questa strada fino alla piazza e lì possiamo proseguire per la via alla destra della fontana. Dovremmo arrivare a palazzo abbastanza celermente, e in ogni caso perdersi è abbastanza difficile.» gli comunicò, iniziando a muoversi. Dalyar non faticava a credere all’impossibilità di perdersi; bastava guardare verso nord-ovest per individuare subito il palazzo di cui Seyah parlava. Più alto di tutte le altre costruzioni - a eccezione, forse, del campanile che si trovava nella direzione diametralmente opposta - la sua imponenza non si doveva solo alle dimensioni, ma anche all’atmosfera generale che il luogo sembrava emanare. La stessa pietra degli altri edifici era stata utilizzata anche per il palazzo reale, i cui tetti presentavano una colorazione molto più scura del resto dell’edificio, creando questo contrasto tra un bianco molto sporco e un grigio così pesante da sembrare nero. A vederla così, Dalyar faticava a capire cosa potesse rendere a quella città l’appellativo con cui era conosciuta, ma qualunque fosse il filo dei suoi pensieri che avrebbe potuto seguire in quel momento, Seyah richiamò la sua attenzione.
«Ivirenth non ha dei re o delle regine, quindi immagino tu non sia abituato all’idea di stare davanti a uno di loro. Né che tu abbia studiato qualcosa sui sovrani degli altri Paesi, giusto?»
«Giusto…»
«Vorrà dire che ti farò una guida veloce mentre camminiamo.» assicurò Seyah con un sorriso convinto; Dalyar avrebbe voluto sentire sua tutta quella sicurezza, ma suppose di doversi accontentare delle punte delle dita gelide, cosa che gli succedeva ogni volta che si agitava per qualcosa.
«Il re di Raskea è Myades della casata dei Rubell. Si tratta di un re abbastanza giovane e le due volte che ho avuto modo di vederlo in visita a Echait non mi ha fatto una brutta impressione. Ma è una persona arrogante e con un modo piuttosto… brusco di affermare le cose. Aspettati che ti metta in difficoltà, perché è vero che né lui né il re di Athia possono avanzare la pretesa di non averti in questa spedizione, ma se fossi tu a rifiutare il discorso sarebbe diverso.» chiarì Seyah lanciandogli un’occhiata. Dalyar avrebbe preferito non essere a conoscenza di quella parte.
«Non ci sarebbe il tempo per la mia regina di scegliere un’altra persona e lo sanno, perciò se ti tirassi indietro non potremmo far altro che accettare l’idea di soli due rappresentanti, ed è l’opzione che sia Myades che Ileisya preferirebbero. Di contro» proseguì, e Dalyar sperava davvero di sentire qualche buona notizia «Myades è molto meno freddo del re di Athia, anche se è comunque difficile capire cosa gli passi per la testa. Ci vorrebbe il nostro Generale, ma dovrai accontentarti di me.»
«Perché il Generale? E’ un vecchio amico del re?» azzardò Dalyar, mentre la via percorsa fino a quel momento si apriva in una piazza ampia e piena di bancarelle di certo dovute al mercato o a qualche ricorrenza di cui ignorava l’esistenza. Gli occhi chiari passarono velocemente in rassegna il posto, inquadrando la fontana; si mosse in quella direzione nello stesso momento in cui lo fece Seiyah, finendo con l’affiancarlo e annullare quel mezzo passo di distanza che c’era stato tra loro fino a quel punto del percorso.
«No, ma non esiste una persona più incomprensibile del Generale Yinfaren. Darei la mia vita senza un attimo di esitazione, per lui, ma capire cosa gli passi per la testa in tempo reale non è la mia specialità.» ammise divertito «Né la specialità di qualcuno esistente al mondo, che io sappia. Forse solo la regina ha un vago sentore, ma non ne sono sicuro.»
Dalyar non aveva molti termini di paragone, tutt’altro, ma più sentiva dettagli su Echait e meno poteva fare a meno di chiedersi come, esattamente, fosse organizzato quel regno. Dalle parole di Seyah sembrava quasi che tutto fosse lasciato al caso: una regina che scriveva personalmente per farsi rappresentare da una persona mai vista e non appartenente al suo popolo, un generale incomprensibile persino per i suoi sottoposti che - tuttavia - si fidavano comunque abbastanza da affermare senza battere ciglio che avrebbero dato la vita per lui…
«A ogni modo» riprese Seyah «l’aspetto positivo è che uno dei consiglieri di Raskea è tutt’altro che ligio alle regole dell’etichetta, perciò è piuttosto improbabile ti rimproverino se anche non le segui alla lettera. Limitati a fare quello che faresti parlando con… c’è una figura autoritaria a Ivirenth?» chiese, guardandolo con un rinnovato interesse nello sguardo e una curiosità affatto celata dal tono di voce.
Quella era una domanda inaspettata e Dalyar non sapeva come replicare. Dire la verità avrebbe forse portato ad altri interrogativi a cui avrebbe preferito non rispondere ma, d’altronde, Seyah era stato davvero gentile da quando lo aveva prelevato al porto e gli aveva dato ogni informazione possibile.
«Mia nonna.» ammise infine, un po’ incerto. Seyah non riuscì - o forse non volle - mascherare la sorpresa alle sue parole, ma non rise di lui. Forse attribuì quella risposta a una semplice incomprensione, dando per scontato che Dalyar avesse inteso chi fosse la figura autoritaria ai suoi occhi o forse decise solo di essere discreto.
«Bene. Fai quello che faresti parlando con tua nonna in uno dei suoi momenti severi. Magari senza chiamare “nonna” il re.»


Quando aveva pensato di non poter essere più a disagio di quanto si sentiva nella folla di un Paese mai visto e con la consapevolezza di avere un ruolo più grande di lui, oltre che non richiesto, sbagliava. L’entrata del palazzo era sorvegliata da due guardie, il che era il minimo e Dalyar se lo era aspettato, riuscendo quindi a non stupirsene troppo. Avevano richiesto di visionare un permesso, cosa di cui si era occupato Seyah, ma a Dalyar non era sfuggita l’occhiata poco convinta di uno dei due soldati quando lo aveva guardato con più attenzione. Aveva degludito, cercando di ignorare l’orrenda sensazione - fin troppo conosciuta - di essere una presenza sgradita e aveva seguito a testa bassa Seyah nell’atrio prima e per il lungo corridoio in cui furono guidati poi. In condizioni normali avrebbe prestato molta più attenzione alle mura interne, gli arredamenti, tutti dettagli che forse avrebbe avuto solo quell’occasione per osservare in tutta la vita. Invece non riuscì a fare altro se non tenere gli occhi puntati sul pavimento, perciò l’unica cosa che analizzò davvero fu la tappezzeria. Quasi non notò quando si fermarono, rischiando di finire contro la schiena di Seyah; si bloccò giusto in tempo, ritrovandosi a guardare una porta in legno chiaro, chiusa. La guardia che li aveva accompagnati si spostò di lato, posando una mano sulla maniglia dorata e rivolgendosi a entrambi: «Il rappresentanti può entrare in attesa che il colloquio con Sua Maestà abbia inizio. L’accompagnatore mi segua.» comunicò, asciutto. Seyah annuì, voltandosi verso di lui e Dalyar fu quasi tentato di pregarlo di restare. La mano dell’uomo si posò sulla sua spalla e la strinse, nel tentativo di rassicurarlo: «Ci vediamo nell’altra stanza. Tutti gli accompagnatori presenziano al colloquio con Sua Maestà.» assicurò con un mezzo sorriso, mentre la guardia apriva la porta. Dalyar annuì, scivolando dentro la stanza in silenzio, quasi timoroso di disturbare; con sua sorpresa, c’era qualcosa più dei muri e dell’arredamento da cui farsi notare: un’altra persona, infatti, si trovava dentro la stanza. Era più basso di una spanna, se non anche qualcosa di più, e quando si voltò d’istinto nel sentire la porta che si apriva Dalyar poté vedere meglio i suoi abiti. Era così palese che venissero da due posti diversi, già solo guardandoli: Dalyar aveva portato con sé i semplici vestiti che indossava a Ivirenth - una maglia semplice sotto la casacca grigio scuro che portava, e dei pantaloni dello stesso colore. Gli stivali neri gli coprivano fino a sotto il ginocchio e la mano destra era coperta da un guanto senza dita, anch’esso nero. Il rappresentante di Athia invece aveva addosso dei pantaloni neri stretti e, quasi in opposizione, una casacca verde scuro che gli copriva ben oltre la vita. Aveva ai piedi delle scarpe molto semplici che non davano l’idea di aver viaggiato granché e i capelli neri, seppur legati in una coda bassa, sfioravano le scapole. Nel momento in cui si chiuse la porta alle spalle di Dalyar l’altro ragazzo puntò gli occhi su di lui: erano di un verde che a Dalyar ricordò il colore delle foreste di Ivirenth, ma non c’era alcun calore nel modo in cui l’altro lo guardò, nessun benvenuto. Diversamente dalla guardia all’ingresso del palazzo, però, non era una freddezza dettata dal disprezzo, ma più la seccatura di non essere più solo nella stanza.
Ora sì che si sarebbe sentito il benvenuto nel gruppo.
«Dobbiamo… aspettare il rappresentante di Raskea?» domandò, appellandosi a tutta la spigliatezza che gli apparteneva - pochissima. Non era sicuro di doversi presentare, se fosse il caso di allungare una mano nella speranza che l’altro la stringesse o se, invece, non fosse meglio starsene fermo al suo posto e aspettare in silenzio. L’altro giovane lo studiò per qualche momento, quasi soppesando la possibilità di prenderlo in considerazione o meno; alla fine si avvicinò, coprendo in pochi passi la distanza tra loro. Dalyar quasi non ci credette, quando lo vide allungare una mano verso di lui.
Cercò di stringerla prontamente, senza sembrare disperato e grato come se l’altro gli avesse salvato la vita.
«Liam Alderbow.» pronunciò lui e quando parlò di nuovo, guardandolo come se avesse sbagliato stanza e con la mano ancora stretta nella sua, Dalyar desiderò sprofondare e tornare alla sua scogliera e al suo mare.
«Che ci fa un mezzo drago qui?»

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