hakurenshi: (Default)
 

Prompt: bad ending

Missione: M5 (week 6)
Parole: 10101
Rating: mature
Fandom: original

Warnings: scene violente, accenno alla tortura, graphic violence, menzioni di suicidio





Tatsuya ricorda perfettamente la prima volta in cui ha provato il suo potere, scoprendo un'abilità che nessuno prima di lui aveva mai avuto in famiglia: ricorda la meraviglia, lo stupore, la curiosità. Ricorda come il primo pensiero sia stato che così sarebbe potuto essere un supereroe anche se forse questo non sarebbe piaciuto a suo padre - difficile esserlo quando si è destinati a prendere le redini di un gruppo della yakuza.


Sua madre aveva accolto la sua capacità molto meglio di come lo avesse fatto suo padre, forse aiutata dal fatto di essere di indole molto più accogliente e basta, o forse perché per lei suo figlio era tutto. Tatsuya non si sentiva in difetto con lei e a volte, quando era sicuro di non rischiare di essere visto da suo padre, faceva qualche piccolo gioco con il suo potere per farla ridere. Quando ci riusciva pensava che qualunque cosa pensasse suo padre, non poteva esserci nulla di male nell'avere un'abilità speciale, specie se riusciva a mettere sua madre di buon umore. Poco importava, nel tempo, aver compreso che sarebbe stato qualcosa a cui si sarebbe dovuto abituare da solo e che nessuno sarebbe stato in grado di insegnargli. A Tatsuya andava bene doversela cavare da solo perché almeno, forse per la prima volta, aveva qualcosa di unicamente suo.


Non era mai stato un peso, una vergogna, ma nemmeno qualcosa per cui sentirsi troppo speciali. Era solo stato parte di sé.


Nessuno si aspetta che una parte di sé finisca per trascinarlo all'inferno.


*


C'era chi diceva il Miyuki-gumi avesse cambiato leader troppo presto, non tanto per piangerne il vecchio quanto più per preoccupazione verso il suo successore. Tatsuya non se ne era mai curato davvero, nonostante alcuni soprattutto tra i membri più vicini alla sua età - pochi - o quelli che lo avevano letteralmente visto crescere non apprezzassero particolarmente quelle voci mai dette davvero in faccia. La verità era che giovane in fondo lo era sul serio e di sicuro nei piani di suo padre non c'era mai stato di vederlo a capo del gruppo a soli diciotto anni, poco importava che il suo destino fosse comunque arrivare a esserlo.


Tatsuya avrebbe mentito se avesse detto di aver iniziato sapendo cosa andasse fatto, perché tutta la preparazione del mondo e i meeting a cui assistere accompagnando suo padre in via ufficiale non avrebbero mai potuto prepararlo davvero al cento per cento. Eppure era certo di aver a suo modo imparato da sé, proprio come era riuscito a fare con la sua abilità, la stessa che nel suo gruppo era stata rivelata solo ai membri più anziani e più leali. Non perché Tatsuya non si fidasse degli altri, quanto più perché non avrebbe mai voluto che diventasse la risoluzione di qualunque problematica. Manipolare il Tempo non era uno scherzo e lo aveva capito molto presto; sfruttarlo per cose di poco conto e con scarsa attenzione, invece, sarebbe stato un disastro anche solo in generale senza nemmeno iniziare a considerare i problemi di "contraccolpo" che ne sarebbero derivati. Lo scenario peggiore era che non riuscisse più a controllarlo, diventando un buco nero ambulante.


L'unico con cui si concedeva il lusso della totale sincerità era la persona che suo padre avrebbe approvato meno in assoluto: Moriguchi Jin, futuro leader del clan Moriguchi. Per quanto ci fosse una chiara alleanza tra i due gruppi, si parlava pur sempre di qualcosa di intangibile che dipendeva molto dalla guida degli stessi. In generale rivelare il proprio più grande segreto proprio a un altro leader non sarebbe stata considerata una buona idea, ma Tatsuya aveva passato il liceo con lui - tampinato, da lui - e pensava di essere piuttosto bravo a giudicare le persone. D'altronde, Jin aveva ricambiato rivelandogli la propria abilità oltre che di possederne una a sua volta. A Tatsuya questo bastava.


Jin aveva impiegato molto a entrare nelle sue grazie, a entrarci davvero, in quel modo che nel linguaggio personale di Tatsuya significava due cose: avrebbe dato un arto per lui senza battere ciglio e, allo stesso modo, gliene avrebbe tranciato di netto uno se solo Jin lo avesse tradito.


Era piuttosto sicuro che l'altro lo avesse capito quasi subito e da allora era stato un amico leale. Per questo, quando erano insieme, Tatsuya permetteva a se stesso di non essere un leader e di non essere nemmeno un ability user. Era solo Tatsuya.


Sul tetto della scuola, durante la pausa pranzo, quando leader non lo era ancora nessuno dei due ogni tanto ne avevano parlato come si faceva delle cose che si reputano ancora troppo distanti nel tempo - anche se non lo diceva, per evitare che nel suo caso sembrasse una freddura di pessimo gusto - per doversene preoccupare davvero. Non lo facevano mai in modo troppo romanzato, almeno la maggior parte delle volte; altre invece lo rendevano volutamente simile ai terribili film che si facevano sull'argomento. C'era stata, nello specifico, un'occasione in cui avevano parlato di alleanze e temibili vendette per le cose più stupide come "se dovessero rubarti l'ultima onigiri li posso uccidere" e simili, senza immaginare che un giorno la vendetta avrebbe portato uno di loro oltre il punto di non ritorno.


Erano solo ragazzini, dopotutto. Perché mai avrebbero dovuto immaginare un futuro simile, nonostante il mondo a cui appartenevano?


*


Ha sentito spesso nelle serie tv frasi su come nel momento subito prima della morte la vita passi davanti ai tuoi occhi, come in un riassunto veloce; c’è anche chi dice che, invece, siano i momenti più significativi a rimanere impressi, quasi dovesse essere un qualche tipo di consolazione. Tatsuya sente di avere le gambe e le braccia intorpidite, si sente presente ma assente al tempo stesso. Guarda a ciò che lo circonda come uno spettatore passivo che non ha mai davvero avuto intenzione di assistere allo spettacolo noioso che è l’immobilità del Tempo. 


E’ come vivere due esistenze contemporaneamente senza, però, viverne davvero nessuna. I suoi occhi vedono le persone andare e venire in quella stanza di ospedale e in una certa misura registra anche il modo in cui interagiscono con lui: i medici, attenti e scrupolosi e metodici; le infermiere, silenziose e piene di compassione, a volte si perdono in qualche commento passeggero e di forma tra loro come «Così giovane…» oppure «Non si arrenda, Miyuki-san.» 


Ogni tanto arriva il secondo in comando dei Moriguchi, un uomo che ha visto Jin crescere e che a un certo punto è diventato familiare anche per lui. Si fa portavoce di un gruppo il cui leader non può chiaramente girare a piede libero come se nulla fosse, dopo quanto successo, almeno per la sua incolumità. Tatsuya li vede andare e venire, fermarsi qualche minuto o qualche ora, anche se raramente. Vede nei loro occhi che non si aspettano reagisca, parli, dia un segno di esserci ancora mente e corpo. Vorrebbe dire loro che c’è, li vede, li sente ma è così stanco, gli sembrano così lontani e la sua coscienza è come liquido che continua a fluire e passare da una parte all’altra senza lui possa intrappolarlo in alcun modo. 


D’altra parte, ci sono momenti del giorno - non sempre gli stessi, non sempre della stessa durata - in cui le immagini che vede con i suoi occhi sono lontane, percepite come un ricordo più che come qualcosa su cui stia davvero posando gli occhi. Tutto intorno a sé ha la stessa percezione di quando usa la sua abilità: il Tempo gli scorre vicino, dentro, è un luogo buio fatto di luci piccolissime che Tatsuya non saprebbe dire se siano solo gli eventi o le infinite possibilità esistenti. Sa solo che ogni tanto gli vorticano intorno e non importa quale aspetto o disposizione assumano dopo averlo fatto: concepisce distrattamente l’idea di essere in un flusso del Tempo stesso, ma avverte la certezza assoluta che non ne uscirà mai.


Deve essere l’unica cosa da cui, anni prima, lo hanno messo in guardia: se ti perdi nelle pieghe del Tempo a forza di manipolarlo, ti perderai.


*


Si dice che sia molto più facile dimenticare le cose felici che quelle tristi. Sembra che tutto ciò che causa dolore o sentimenti negativi finisca sempre per attecchire di più, per segnare più in profondità. E’ una delle tante dietrologie dietro i discorsi motivazionali che si fanno per insegnare a qualcuno come gestire i commenti negativi, le critiche distruttive. 


Tatsuya non sa se sia vero e non si è mai interessato più del dovuto alla psicologia, ma di sicuro il suo cervello deve aver scelto per lui e continua a riproporgli il momento peggiore della sua vita - anni fa aveva pensato che nulla avrebbe superato il dolore di perdere sua madre e in un certo senso era ancora di quell’avviso. Il rapporto con sua madre è sempre stato talmente forte che quando l’ha persa, troppo giovane lei e decisamente troppo giovane lui, ha pensato che niente gli avrebbe restituito quel pezzo di sé che se ne stava andando con lei. Così era stato, anche se qualche ricordo gli aveva permesso almeno di rendere tutto meno acuto, con il passare del tempo.


Poi, in un giorno come tanti, ricorda la figura di uno dei suoi ragazzi: il volto terrorizzato è qualcosa che non dimenticherà mai ma, ancora di più, la voce straziata con cui gli ha detto «Moriranno tutti.»


*


In quel labirinto nel Tempo da cui non sta neanche davvero provando a uscire, una delle immagini più vivide è quella di un palazzo in fiamme. Uno di quelli che si amalgamano con facilità nell’urbanistica di una metropoli media giapponese, uno che dall’esterno può passare inosservato come tanti altri. Tranne quando è in fiamme.


Tatsuya si osserva come se guardasse la vita di un altro, come se ripercorrere la propria ancora e ancora - di nuovo? - fosse la punizione di chi ha osato troppo pur sapendo di non poterselo permettere. 


Arriva trafelato, con un completo che lo fa sembrare più grande e più serio di qualche anno, in apparenza disarmato. E’ una delle cose di cui è sempre andato fiero, oltre che uno dei suoi più grandi punti di forza: agli occhi di chiunque è sempre apparso come una minaccia solo nel nome che rappresenta, mai come persona in sé. Poco incline a portarsi dietro un’arma a causa della mente tradizionalista di suo padre e di una propensione quasi imbarazzante per le armi da taglio, non c’è mai stato un secondo della sua vita in cui si sia sentito davvero in pericolo o minacciato da quando ha imparato a erigere quella “barriera temporale” attorno a sé. Tatsuya lo vede negli occhi del se stesso che osserva: non ha mai pensato di poter essere colpito. Non ha mai pensato a questo.


Scoprire il colpevole in questo momento è impossibile, le priorità sono altre: prendono la forma di ingressi bloccati, di urla straziate provenire dall’interno di quell’edificio. Si concretizzano nell’immagine di un’esplosione di vetri e di un corpo in fiamme che si lancia da una finestra. Tatsuya - da lontano, ma anche da vicino in quel ricordo - lo guardano atterrare scomposto, morto sul colpo per la caduta; un atto di pietà della natura, per evitargli di bruciare fino alle ossa. Non riesce nemmeno a riconoscerlo. Non si dà modo, non rimane fermo.


Il Tatsuya di quel passato per nulla lontano si avvicina incurante di chi lo richiama, ignorando chi cerca di fermarlo - si volta a guardare il povero compagno con nello sguardo la violenza di chi potrebbe uccidere chiunque si metta sul suo cammino senza nemmeno pensarci su un secondo, alleato o nemico ha già perso d’importanza. Il suo potere è come una seconda pelle, ferma il tempo di quelle fiamme fino a toccare la superficie dell’edificio senza bruciarsi o sentire alcun calore; non esita un solo istante a fare ciò che con il Tempo non si dovrebbe fare mai: lo riavvolge fino a vedere le fiamme ritrarsi, fino a quando non spariscono. Vede i volti di chi blocca le entrate, di chi appicca il fuoco.


Quando toglie la mano, il mondo riprende a muoversi nella sua naturale velocità e direzione.


Quello che il Tatsuya del passato ancora non sa è che se si prova a ingannare il Tempo, quello finirà per ingannare te.


*


Guardarlo di nuovo deve essere la punizione per chi ha osato troppo, è la spiegazione che Tatsuya si dà. Si chiede, per un istante, immobile in un letto di cui ha coscienza ma dal quale non sa se riuscirà mai ad alzarsi, se sia la sua legge del contrappasso: imparare da un errore commesso senza potervi porre rimedio mai, lui che ha cercato di forzare l’impossibile. 

Il Tatsuya che può osservare senza essere visto, nitido nei suoi ricordi fin troppo freschi, si affanna su per le scale del primo, del secondo piano e cerca disperatamente di incrociare qualcuno da strappare a sorti che non si merita e di cui lui sente l’irrazionale responsabilità. Finalmente riesce a trovare uno dei suoi compagni ed è questione di un secondo, forse due prima che i loro sguardi si incrocino e subito dopo parte del soffitto crolli su di loro: il suo compagno si spinge in avanti, si slancia per allontanarlo dal pericolo e Tatsuya è salvo, ma lui no. Il sangue sgorga copioso, gli macchia le mani e i vestiti e tutto ciò che vorrebbe fare è urlare anche mentre cerca di allontanare il corpo ormai senza vita dalle macerie, perché non rimanga schiacciato come un topo in trappola. 


Al piano di sopra cominciano a sentirsi urla, voci che avvisano «Al fuoco!» e «La porta non si apre!» e il Tatsuya del passato - lo vede, lo riconosce perché sono la stessa cosa e lo ha provato ed è stato terribile - realizza che è già troppo tardi. Non è andato abbastanza indietro. Perciò la mano cerca spasmodicamente una parete mentre il resto del soffitto sembra cedere. 


Le macerie non lo raggiungono mai, il cemento non lo schiaccia; si ferma a mezz’aria e inverte la sua rotta e Tatsuya lo guarda (si guarda) mentre un cuore torna a battere e un corpo schiacciato è di nuovo sano, un uomo è in piedi sulle scale, l’edificio è ancora sano. Va indietro, indietro, indietro. Vede compagni fare su e giù per l’edificio, ignari, poi quando gli sembra sia abbastanza ferma il flusso del proprio potere. 


E’ stanco, perché riavvolgere il Tempo non è uno scherzo ed è forse il peggiore sforzo a cui un Cronocineta possa sottoporre il proprio corpo. Eppure non è importante, mentre cerca di respirare e di focalizzare lo sguardo, perché ha bisogno di essere attento, non può permettersi di perdere alcun dettaglio di vitale importanza.


Se non vede ogni cosa, non può prevenirla.


Non sa ancora che manipolare il Tempo, anche con le più nobili intenzioni del mondo, non lo rende Dio.


*


Ci vogliono tentativi su tentativi, per capire la dura verità, quella che non si riesce ad accettare neanche quando viene sbattuta in faccia con una violenza inaudita. Ogni volta riesce a salvare qualcuno, a evitare la morte di un compagno, ma il Tempo sembra esigere un numero di vittime specifico e non voler fare sconti di alcun tipo: per ogni persona che strappa alla morte, una finisce per essere sacrificata comunque.   


Tatsuya osserva il suo passato, lo guarda come un monito e al tempo stesso cerca di distogliere lo sguardo come se fosse una tortura, obbligato immobile a guardare. 


La consapevolezza di non poter fare nulla è qualcosa che arriva lenta, leggera al punto da non accorgersi che c'è fin quando ormai non ricopre tutto; ha la viscosità di una melma che immobilizza, piano e gradualmente, come un veleno che entra in circolo e quando i primi sintomi lo rendono ovvio è già troppo tardi per assumere un antidoto. Il Tatsuya di un passato che l'aver abusato della sua abilità forse gli mostrerà fino alla morte continua a salvare, poi a vedere morire, poi a riavvolgere il tempo.


Ogni volta va sempre peggio, Tatsuya sa riconoscere i segni che sul momento la disperazione ha nascosto con meticolosa attenzione: si muove sempre peggio fino a deambulare; respira affannato, come se ogni utilizzo del suo potere minacciasse di rallentargli il cuore fino a fermarlo; non riesce a mettere a fuoco, si nota da alcuni suoi movimenti, ma l'unica cosa che cresce è la schiacciante, tremenda consapevolezza di non poterli salvare.


Il Tatsuya del passato vede l'edificio prendere fuoco di nuovo, prima che lui riesca a fare nulla per evitare che uno dei suoi uomini lo spinga via, sacrificandosi per salvarlo. Si piega sulle ginocchia, tossisce fino a quando lo sforzo non gli stringe lo stomaco al punto da fargli vomitare la bile. A terra, lì a toccare il suo personale punto di non ritorno, stringe una mano a pugno e colpisce il duro pavimento mentre un urlo di frustrazione, disperazione e tristezza gli graffia la gola e non serve comunque a niente più che sfogare la propria impotenza per qualche secondo. Anche se ora, con il volto che non si vede, Tatsuya non riesce a distinguere la sua espressione sa che si sta concedendo l'ultimo pianto prima di una decisione definitiva. Un atto di debolezza, prima di uno di forza - o di incoscienza.


La mano si allunga di nuovo, rimane lì col palmo aperto ad aderire al pavimento e Tatsuya sa che il se stesso del passato sta per riavvolgere il Tempo un'ultima volta, quella che lo condannerà al fallimento, alla perdita e a vagare con la coscienza in quello stesso Tempo che da bambino pensava sarebbe stato il suo modo di essere un super eroe.


*


Non sa quanto duri. Forse settimane, forse mesi. Le visite dei medici si fanno meno frequenti, quelle delle infermiere gli sembrano rimanere sempre identiche invece. Il braccio destro dei Moriguchi torna di rado, ma una volta lo fa con Jin - Tatsuya vorrebbe almeno muovere le dita della mano, dargli un segno che in un certo senso è lì anche se non c'è davvero. A un certo punto smette di rivedere sempre le stesse scene, anche se sono lì in agguato e quando meno se lo aspetta è come viverle di nuovo, e di nuovo, e di nuovo.


Altre volte sono flash brevi dell'infanzia, sono le chiacchierate con Jin sulla terrazza della scuola, sono cose stupide fatte da ragazzo. Sono la famiglia che non esiste più da nessuna parte, i legami spezzati per sempre. Ogni tanto a Tatsuya sembra di dimenticare la propria identità. In altri momenti che quasi somigliano a quelli di lucidità, invece, si sente più presente di quanto non sia mai stato e ha il sentore di poter quantificare da quanto tempo sia lì oppure quanto riesca in effetti a muoversi. O quanto potrebbe farlo, se la sua coscienza tornasse ad allinearsi con il suo corpo anziché perdersi in uno spazio che non è da nessuna parte se non nella sua testa e nella sua essenza di ability user.


Se glielo avessero chiesto in passato non avrebbe mai creduto alla possibilità di divenire un giorno prigioniero dello stesso potere che lo aveva sempre fatto sentire libero.


Poi è successo senza che ci sperasse nemmeno più - perché in fondo, anche riprendendosi e tornando a vivere, il Miyuki-gumi non esiste più e la sua famiglia lo stesso. Non fa in tempo a chiedersi se almeno Jin sia ancora in quella città che non potrà mai fare altro che ricordargli quello che ha perso, da ritrovarsi ad accorgersi vagamente della presenza di Jin lì nella stanza. Deve aspettare sia l'altro a entrare nel suo campo visivo, data la posizione in cui lo sistemano le infermiere ogni giorno, ma alla fine riesce.


Non è così diverso da come lo ricorda, perciò forse non sono passati anni e anni. E' solo, se non con un membro che non riconosce e che quindi suppone sia nuovo: è un ragazzo giovane, dall'aspetto peculiare e non per la cicatrice da ustione che gli copre una porzione di viso. Rimane fermo in piedi dietro Jin e Tatsuya, nella vaghezza di pensieri che non sono più abituati a essere formulati in ordine, riconosce in quella sua postura il ruolo di una guardia del corpo.


«Tsuya» pronuncia Jin, senza parole di conforto inutili, specie se non è nemmeno sicuro di essere sentito «li abbiamo trovati. Manca poco, solo essere sicuri che siano i diretti responsabili.»


Per chiunque, sarebbero una condanna a morire di nuovo nella consapevolezza di essere inchiodato al letto di un ospedale; per lui è lo strappo violento che la realtà attua su di lui: è come una mano che lo strattona con violenza e una manciata di secondi dopo lui sente la gravità tornare ad avere presa su di lui. Cade a terra dal letto, forse per un movimento troppo brusco, forse per uno spasmo muscolare per quel poco di muscoli rimasti dopo tanta immobilità. Non incontra il freddo pavimento solo perché Jin è veloce ad evitarglielo, anche nel pieno stupore di fronte a quello che chiunque considererebbe un miracolo.


Sente parole da parte sua ma fatica a distinguerle; nella nebbia della sua testa rimbomba solo una frase a cui le corde vocali, dopo tanto riposo forzato, faticano a dare voce.


Punta gli occhi ambrati in quelli di Jin e sa che, in una manciata di secondi, lui capisce comunque.


Sono miei. Lasciali a me. A costo di farmi ammazzare.


*


Si rivela tutto molto più difficile e di sicuro meno immediato di quanto il suo desiderio di vendetta vorrebbe per lui. Mesi di totale immobilità richiedono non solo una serie di accertamenti medici prima che venga autorizzato anche solo a essere accompagnato fuori nel giardino dell’ospedale in sedia a rotelle - e il medico in ogni caso non ne sembra particolarmente entusiasta se non con il controllo costante di un infermiere - ma richiedono una riabilitazione che presto si trasforma nel più grande e frustrante degli ostacoli.


La fortuna nella sfortuna è che non si tratta di una riabilitazione dovuta a condizioni pesanti come gli capita di vederne quando va per i suoi appuntamenti nell’area dedicata dell’edificio: ci sono persone sottoposte a operazioni importanti o altre che devono imparare a vivere di nuovo da zero senza un arto. Tatsuya, a confronto, sente di potercela fare molto più velocemente ma forse una vita intera passata a non doversi preoccupare di quanta energia e forza nelle gambe ci volesse per fare quindici passi rende complesso accettare di non riuscire in tutto subito.


Alla frustrazione di una ripresa troppo lenta, mentre come unico obiettivo non riesce a pensare ad altro che alla vendetta, si aggiunge quello che si rivela essere il vero problema della sua ripresa completa. Contro ogni aspettativa, sono gli incubi a sfinirlo: più di una volta apre gli occhi, con la sensazione di star soffocando e dopo aver mandato per terra qualche oggetto del comodino senza volerlo. Di solito ci sono due infermiere del turno di notte e dopo tre episodi consecutivi, ormai hanno il loro modo di svegliarlo e gestirlo prima che si faccia male per errore. 


E’ qualcosa su cui non ha il minimo controllo e che non si era nemmeno aspettato: mesi con la coscienza intrappolata nella propria stessa abilità a rivivere il ricordo del suo fallimento a ripetizione l’avevano illuso di potersi dire ormai insensibile abbastanza perché non fosse un impedimento. Invece, dopo due settimane in cui gli incubi continuano a interrompere bruscamente quel riposo di cui avrebbe tanto bisogno, Tatsuya ha un’epifania: da quando ha riaperto gli occhi, non ha mai fatto uso del suo potere.


Per la prima volta in vita sua, tutto ciò che è sempre stato parte di lui è diventato il suo peggior nemico.


*


Quando finalmente il medico annuncia di poterlo dimettere, Tatsuya si aspetta un problema che viene risolto ancora prima che possa porsi: la soluzione assume l’aspetto di Moriguchi Jin e della sua guardia del corpo che si presentano all’ingresso dell’ospedale come se lui non fosse il nuovo leader di un gruppo della yakuza e come se il mondo non se ne accorgesse già solo guardandolo. Eppure Jin si comporta come se stesse entrando dentro casa propria - un modo di fare che gli è sempre appartenuto - e lo saluta gioviale nemmeno fosse suo cugino venuto a prenderlo per andare a fare un picnic.


Tatsuya non ha nemmeno il tempo di chiedergli nulla: Jin fa un mezzo gesto con la mano ed è costretto a interromperlo neanche a metà perché la sua guardia del corpo sta già togliendo dalle mani di Tatsuya il borsone mezzo vuoto che ha. Prova a protestare ma Jin scuote la testa, quasi a volergli suggerire che sarebbe solo un enorme spreco di fiato. 


«Lascia la borsa a Isen, su.» lo vezzeggia come se Tatsuya fosse un bambino «Hai bisogno di un posto dove riprendere ad allenarti in pace, giusto?» la butta lì come se lui fosse un grande sportivo che deve riprendere l’attività dopo un periodo di fermo a causa di un imprevedibile incidente. Nelle sue parole c’è la promessa di un luogo dove possa riprendere a utilizzare la propria abilità ma, soprattutto, la spada. La promessa di un posto dove chi vi transita non si farebbe domande, non le farebbe a lui e forse si presterebbe anche a quegli allenamenti se solo Tatsuya dovesse decidere di chiedere aiuto.


Non ci vuole molto per capire che il posto di cui parla è il territorio dei Moriguchi stessi.


«No.»
«Non te lo stavo chiedendo e soprattutto non te lo chiederebbe mio nonno, per cui comunque sei un nipote più apprezzabile del sottoscritto!» ribatte Jin, accompagnandovi quella mezza risata da iena che si ritrova. Tatsuya sa che Moriguchi Kazuma è un uomo complesso, di altri tempi e che avere la sua stima è qualcosa che risale ad anni prima. Per quanto quella dell’essere il nipote preferito sia una inside joke da tempo e Jin non sia certo detestato da suo nonno, Tatsuya comprende il peso dietro quelle parole in apparenza solo giocose.


Per quanto il pensiero di essere cercato da chi ha annientato il suo gruppo e di rischiare così di essere la causa dello stesso destino anche per i Moriguchi gli faccia venire da vomitare, non è così stupido da credere che Jin gli stia lasciando davvero scelta. O di averne una alternativa. 


Così accetta e passa i mesi successivi ad allenarsi fino a non sentire più le gambe e le braccia, fino a ritrovare lo smalto che gli è sempre stato proprio.


*


Quando è troppo stanco per muovere anche solo un muscolo, si stende sul pavimento in legno e  respira fino a regolarizzare l'alzarsi e l'abbassarsi del suo petto, tenendo lo sguardo sul soffitto senza che ci sia nulla di particolare da vedere. L'assenza di dettagli lo aiuta a fermare la mente, a darsi tregua. Lo fa infinite volte, ogni tanto si distrae qualche secondo soppesando l'idea di ricominciare ad allenare anche il potere - o meglio, di vedere se quello arrivi come la seconda natura che è sempre stato oppure se debba scendere a patti con l'idea di aver bisogno di ancora più tempo prima di poter andare a compiere la propria vendetta.


Jin gli ha detto di aver mobilitato solo uomini di fiducia per assicurarsi informazioni esatte che gli permettano di andare a colpo sicuro senza sorprese, ma Tatsuya ormai sospetta che le abbia da molto e stia semplicemente aspettando di vederlo pronto come una volta. Quello che invece è inaspettato è sentire la porta aprirsi e, nel voltarsi verso di essa, vedere la guardia del corpo di Jin entrare.


Isenlen è una creatura particolare, Tatsuya ha impiegato poco a notarlo: silenzioso, peculiare anche per una guardia del corpo. In genere quelle si riconoscono abbastanza facilmente dal modo in cui si rapportano con il proprio boss, ma Isen è diverso in un certo senso. Rimane accanto a Jin quando c'è bisogno - principalmente quando si tratta di affari all'esterno, da quanto Tatsuya ha avuto modo di osservare - ma non ha quel senso di protezione quasi ossessivo che in genere le figure come la sua hanno. Lo stesso Jin un po' lo punzecchia per farlo ammattire come ha sempre fatto con tutti quelli che hanno ricoperto quel ruolo, un po' Tatsuya ha notato lo sguardo che Jin rivolge al ragazzo e che con i ruoli ha davvero poco da spartire.


Il punto è che sentire la voce di Isen è quasi un miracolo, al di fuori delle interazioni con lo stesso Jin, così come la guardia del corpo è introversa abbastanza da non farsi trovare quasi mai al centro degli spazi comuni o nei gruppi più o meno numerosi formati dagli altri membri. Il fatto che sia venuto lì ma, soprattutto, che nel vederlo sembri aver trovato proprio chi stava cercando non può che lasciare Tatsuya perplesso. Non lo caccia di certo, comunque. Per quanto ospitali siano i Moriguchi, Isen ha più diritto di lui a muoversi ovunque voglia in quell'edificio.


Il ragazzo lo raggiunge, fino a sedersi vicino abbastanza da lasciar intendere di voler avere una conversazione con lui ma non tanto da invadere il suo spazio vitale. Tatsuya lo apprezza, non perché ne abbia bisogno ma perché quel tipo di attenzione è una qualità rara. Isen tace, lo fa così a lungo che Tatsuya inizia a dubitare delle sue intenzioni, o almeno che tra quelle non ci sia il parlare. Proprio quando sta per rinunciare e prendendo in considerazione l'idea di alzarsi e riprendere l'allenamento, la voce bassa di Isen lo raggiunge: «Jin dice che forse posso aiutarti con il potere, Tatsuya-san.»


Lo dice in un modo così diretto che a Tatsuya scappa da ridere. Non è una risata sentita, non è l'espressione di una gioia che non pensa sarà più in grado di provare, ma si porta dietro uno strascico di divertimento. Quelli come Isen, così diretti e sinceri al punto da poterlo quasi considerare un difetto, sono rari - e Tatsuya non osa neanche pensare a quanto uno così possa far penare Jin. Seppure inconsciamente, sospetta.


«Jin dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che il mio potere è raro anche per un ability user e che funziona in modo anche troppo specifico. Apprezzo l'interessamento, però.»

«No, non per il tipo di potere» chiarisce Isen corrugando appena la fronte, come se nemmeno lui riuscisse a capire come si suppone debba portare avanti la conversazione «ma perché forse ne sei spaventato, ora.»


Tatsuya lo capisce subito, perché tutto del linguaggio del corpo di Isen lo dice: non lo ha pronunciato con cattiveria né come una provocazione, ma come una semplice e obiettiva verità. Allo stesso tempo è chiaro che Jin non debba avergli spiegato nel dettaglio cosa lo abbia condotto in ospedale; dovesse tirare a indovinare, Tatsuya azzarderebbe a dire che forse Jin deve aver parlato di un utilizzo eccessivo del potere o poco più. Isen, per il tipo che sembra, non deve nemmeno aver fatto domande. Potrebbe tirarsi su a sedere, ma dubita l'altro si faccia troppi problemi sulla posizione dalla quale decide di rispondergli.


«Tu sei spaventato dal tuo potere?»

«Ora non più.»

«Manipolazione del fuoco, giusto?» domanda Tatsuya, avendone avuto solo un minimo assaggio e così veloce che per quanto gli sembri quello il caso, potrebbe comunque essere qualcosa di leggermente diverso. L'annuire di Isen toglie però ogni dubbio e permette a Tatsuya di dare voce a un «E' perché ti sei procurato quella?» indicando con un gesto vago la cicatrice sul viso altrui.


Con sua sorpresa, però, Isen scuote la testa.


«No, è per quello che ho fatto agli altri.»


Tatsuya non ha bisogno di chiedere altro perché a quel punto immaginare l'episodio è molto semplice: il problema delle abilità elementali è spesso quello, non importa quale sia l'elemento interessato. Quando si scopre come controllarlo è già troppo tardi.


«Ti fa paura il tuo potere?» chiede Isen, gli occhi puntati sul viso di Tatsuya senza alcun imbarazzo. Il suo accetto è leggermente più duro, si indovina facilmente che non sia cresciuto in Giappone anche se non tradisce la sua provenienza. Tatsuya ha notato quasi subito la sua eterocromia - un occhio grigio e uno azzurro, entrambi fissi sulla sua persona come se si aspettassero di leggergli tutto in faccia. Eppure l'aspetto curioso e divertente di quel ragazzo è che quando non trova ciò che cercava, semplicemente lo chiede laddove altri cercherebbero di scrutare ancora e ancora. Forse è anche per questo che decide di premiarlo con la sincerità, o almeno ciò che più ci si avvicina.


«Non lo so, ma nel complesso credo di no.» confessa, gli occhi ambrati di nuovo a puntare il soffitto «Ormai ho visto il peggio che può farmi e il limite oltre il quale non può andare. Credo che dobbiamo solo tornare ad andare d'accordo.»


Isen annuisce e basta, come se gli bastasse questo e il suo compito fosse concluso. Tatsuya decide che non c'è ragione di dirgli che il motivo per cui non ha paura è che non conta di tornare vivo, una volta che avrà lasciato l'edificio dei Moriguchi per andare a vendicare i suoi compagni.


*


Mentre aspetta il momento giusto per colpire, Tatsuya si ritrova a pensare a quando suo cugino Chihiro gli ha detto di essere un ability user a sua volta. Avevano undici o dodici anni, Tatsuya aveva già un buon controllo del proprio potere tutto sommato e le vacanze a Kyoto stavano andando bene come ogni volta. Si ricorda di un pomeriggio come tanti, di come Chihiro che in fondo è sempre stato un bambino e un ragazzo abbastanza strano a modo suo e nel suo essere silenzioso gli si sia seduto vicino. Senza una parola, per un tempo piuttosto lungo. Tatsuya non gli aveva detto niente, perché non si trattava di un atteggiamento fuori dalla norma, anzi era qualcosa a cui si era abituato da che aveva memoria.


Chihiro gli piaceva - come gli piace tuttora - e per quanto sia sempre stato un po' una oddball anche tra le persone dotate di poteri, Tatsuya non riesce a non pensarlo sempre con affetto, non importa di quale ricordo si tratti. Questo in particolare, tuttavia, gli causa un moto di tenerezza e ora che sono adulti entrambi, anche uno di dispiacere.


Gli torna alla mente, vivida come non mai, l'immagine di quel bambino di appena un anno più piccolo di lui con i piedi dondolanti e una mano aveva finito col cercare la sua, fermandosi invece alla manica come faceva spesso: «Tsuya-nii» lo aveva chiamato, senza però ricambiare il suo sguardo «sai che se ti fai male io posso farti sparire tutto?» aveva detto con una vocina bassa, decidendosi finalmente a guardarlo «Quindi se un giorno qualcuno ti dà fastidio tu me lo dici e ci penso io.» aveva concluso speranzoso. Tatsuya non aveva capito subito la portata di quanto gli era stato rivelato, ma quando tornando a casa lo aveva detto a sua madre, lo sguardo rattristato di lei gli aveva fatto intendere ci fosse più di quello che la sua mente aveva registrato.


Quando, qualche anno dopo, Chihiro non era stato mandato in vacanza da loro come era successo in altre occasioni, Tatsuya non aveva avuto bisogno di chiedere perché o di sbattere i piedi per capriccio. Aveva capito che quello di cui parlava Chihiro era un potere in apparenza molto utile ma che poteva avere delle implicazioni tremende: se un manipolatore del tempo e uno della soglia del dolore avessero potuto agire insieme, in un territorio sotto il controllo di diversi gruppi della yakuza, cosa mai ne sarebbe potuto uscire? Torture infinite su torture infinite. Al mondo non sarebbe bastata la parola d'onore di un ragazzino che assicurava quanto buono di indole fosse suo cugino: se la voce si fosse sparsa, agli occhi di tutti sarebbero stati solo il duo più letale della città e nessuno degli altri gruppi - specie quelli non alleati o con un patto di non aggressione con i Miyuki - avrebbe aspettato di scoprire se un futuro leader yakuza mentiva.


Tatsuya aveva capito che lo avrebbero ucciso senza pensarci due volte. Così non aveva più invitato Chihiro e, nel tempo, aveva smesso di recarsi spesso a Kyoto. I diversi ritmi di vita avevano fatto il resto.


Appostato in attesa di una vendetta che forse lo ucciderà, non può fare altro che ringraziare di aver preso quella decisione; eppure al tempo stesso si sentiva incredibilmente solo. Sarebbe stato di conforto girarsi e trovare al proprio fianco l'unico membro della famiglia ancora vivo, con la certezza che l'altro gli avrebbe guardato le spalle senza neanche bisogno di chiederlo. Per la prima volta da quando si è svegliato, vorrebbe potersi alzare per andare via, senza sentire alcun obbligo e convincersi che sarebbe comunque in grado di vivere una vita dignitosa oppure di rifarsene una da qualche parte. Oppure vorrebbe alzarsi, entrare nell'edificio che ospita tutti i responsabili - diretti o meno - dello sterminio del suo gruppo e avere la certezza che quando ne sarà fuori quelli avranno subito le pene dell'inferno.


Chihiro però, per fortuna, è lontano chilometri e chilometri.


Così Tatsuya sospira, si alza in piedi dopo che l'ultimo uomo è entrato nel palazzo richiudendosi la porta alle spalle. Ricaccia indietro il ricordo di suo cugino, di un passato in cui non c'era da preoccuparsi di nulla e i poteri più letali sembravano solo quelli adatti a prendersi cura delle persone care.


Muove diversi passi con circospezione, si accosta alla porta che ha visto chiudere poco prima, assicurandosi di non aver erroneamente ignorato qualcuno in borghese o con un profilo basso ma appartenente al gruppo. Nessuno gli va incontro né lancia qualche tipo di segnale, quindi suppone di no. La katana è ancora nel suo fodero, fissato contro la schiena e lui, semplicemente, bussa.


Non si stupisce di vedere la porta aprirsi, nessuno si aspetterebbe un vendicatore che bussa con educazione e chiede magari anche "permesso". L'uomo che si ritrova di fronte non lo riconosce subito o forse non lo fa affatto, ma poco importa in realtà; in ogni caso se anche riesce lo fa troppo tardi, mentre la lama di un pugnale nascosto che non ha nemmeno visto tirare fuori gli affonda nello stomaco mozzandogli il respiro, mentre un dolore acuto deve colpirlo. Tatsuya lo guarda con la stessa empatia e la stessa carica emotiva che potrebbe rivolgere a un ciottolo per la strada, qualcosa di così poco rilevante e così semplice da ignorare che spesso nemmeno si nota davvero.


Quello prova a dire qualcosa, forse urlare; Tatsuya si assicura di girare la lama nelle sue viscere e quello fa per urlare di dolore. Per quanto conti di generare il caos a breve, nemmeno per lui è comodo che questo avvenga non appena varcata la soglia, perciò ferma il suo tempo. Dapprima abbastanza per chiudersi la porta alle spalle e poi lo osserva, pondera, cercando di decidere il da farsi.


Alla fine il tempo di quell'uomo di cui neanche conosce il nome, riprendere a scorrere mentre Tatsuya inizia a salire le scale. E' comunque troppo tardi perché il cuore riprenda a battere.


*


Potrebbe rendere tutto molto più semplice di così, lo sa bene. Se in ogni caso non si preoccupa di cosa gli accadrà alla fine, se non è importante sopravvivere, Tatsuya sa che potrebbe semplicemente scaricare tutto il suo potere su un intero edificio per la seconda volta e aspettare abbastanza tempo per replicare su larga scala quanto fatto con l'uomo che ha avuto la sventura di aprirgli la porta. Invece ha deciso di fare alla vecchia maniera, di ucciderli uno per uno, specie quando dopo il quarto uomo incontrato qualcuno ha finalmente lanciato l'allarme.


I motivi sono semplici: in primis, perché potrebbe avere un contraccolpo prima di compiere la sua vendetta o non avere reale certezza di averli uccisi tutti prima di soccombere a sua volta. Secondo, non sa chi sia stato ad aver materialmente appiccato il fuoco o se l'abbia fatto con un potere; non sa nemmeno se sia la stessa persona ad aver prima bloccato la maggior parte delle vie di fuga, lasciando solo quelle particolarmente in alto, con la crudeltà della consapevolezza che fuggire da lì avrebbe comunque comportato la morte di chi avesse tentato. La realtà però è che non gli interessa neanche più saperlo, non è importante. A questo punto sono tutti ugualmente colpevoli: carnefici diretti o indiretti è diventato un dettaglio estremamente trascurabile per lui. L'unico aspetto di reale interesse è vederli morire, lasciandoli soffrire più possibile e ha tutta l'intenzione di guardarli negli occhi mentre lo fa. Certo, non è come avere la possibilità di ferirli continuamente e assicurandosi che avvertano il quadruplo del dolore che dovrebbero provare di solito, come avrebbe potuto fare se avesse coinvolto Chihiro o qualcuno con il suo stesso potere... ma Tatsuya può accontentarsi. Può farsi bastare una soglia del dolore normale, senza modifiche da parte di nessuna capacità speciale.


Quello a cui non può davvero rinunciare è guardarli negli occhi, cercare la paura e il momento esatto in cui la presa di coscienza assume la tinta precisa di chi sa di non avere più scampo. Di chi guarda la morte in faccia e comprende che nessuno lo potrà salvare.


Tatsuya, katana impugnata, affonda la lama nella schiena dell'ultimo uomo del piano su cui si trova e lo vede crollare a terra mentre il sangue inizia a uscire copiosamente. Quello si tampona in modo spasmodico la ferita, nella sciocca e disperata convinzione che possa bastare a garantirgli la sopravvivenza. Quando Tatsuya torreggia su di lui, quella speranza vaga sparisce del tutto e nei suoi occhi rimane solamente la paura. Si aspetta un colpo di grazia che non arriva e non certo perché lui voglia risparmiarlo.


«Per quanto meriteresti di rimanere steso a terra a dissanguarti, non posso permettermi il lusso che tu sopravviva. Per quanto vaga sia la possibilità che succeda.» gli fa presente, il tono placido, senza fretta: «Ma quello che voglio sapere è: chi ha appiccato il fuoco all'edificio del Miyuki-gumi sei mesi fa?»


Negli occhi dell'uomo vede il lampo della comprensione e questo lascia supporre a Tatsuya che sia un membro di quel gruppo da abbastanza per sapere di quale "incidente" si parli, ma non di alto grado tanto da conoscere la risposta. Fa l'errore, forse, di credere che fingendo di tacere perché vuole Tatsuya gli risparmierà la vita pur di avere l'informazione che vuole; non sa che in un modo o nell'altro la otterrà comunque e quindi, quando intuisce che la cosa potrebbe inutilmente andare per le lunghe, l'ex leader del Miyuki-gumi si limita a far calare la katana su di lui con fare quasi disinteressato.


Passa oltre, niente di più.


*


Sono dentro quella stanza da quasi un'ora. Tatsuya, lo deve ammettere a se stesso, mai una volta in vita sua ha preso in considerazione la tortura. Va contro tutto ciò che gli è stato insegnato da suo padre: l'onore, il rispetto, anche - soprattutto? - per colui con cui si incrocia l'arma, specialmente la spada. Va contro ogni cosa che sua madre ha sempre rappresentato e sperato lui rappresentasse a sua volta: la gentilezza anche quando rivolgerla a qualcuno sembra impossibile, la correttezza anche quando gli altri non lo sono. Infine, è certo che se potesse vederlo ora, non potrebbe mai approvare il modo in cui la vendetta lo ha mangiato vivo.


Eppure, nonostante tutto questo rappresenti ciò che è sempre stato, al momento ignora tutto. Il responsabile della caduta del suo gruppo, delle persone che hanno rappresentato la sua famiglia anche quando entrambi i suoi genitori sono morti chi prima e chi dopo, è lì. Troppo ferito per tentare la fuga, troppo provato dal dolore per ragionare lucidamente, senza voce per le troppe urla per poter sprecare fiato in suppliche che ormai avrà capito essere inutili. Tatsuya lo osserva forse prendendosi per la prima volta il tempo di farlo: è un uomo più giovane di come sarebbe suo padre se fosse ancora vivo. Uno che deve aver fatto abbastanza esperienza da poter ricoprire il ruolo di leader del suo gruppo, uno minore che forse in un'altra situazione Tatsuya avrebbe del tutto ignorato.


E' così patetico, in balia di un potere troppo grande che Tatsuya ha persino usato il minimo sindacale. Nei suoi occhi, deve dargliene atto, non c'è la paura - non più di tanto. C'è la rassegnazione alla morte però, quello sì.


«Sarebbe più facile per te se mi dicessi il motivo dell'attacco.» la butta lì, con il disinteresse di chi ha tutta la giornata, ma forse anche tutta la vita. Di sicuro ha tutto il tempo del mondo.


L'uomo sbuffa, o forse lo farebbe in condizioni normali, ma in quelle in cui versa sembra più il tossire per sputare sangue che continua a perdere anche dalle ferite sebbene lentamente. E' come guardare una morte compiersi inesorabile senza impegnarsi a fermarla né a velocizzarla.


«Saresti... così misericor... dioso?» ansima quello, cercando di piazzarsi sulle labbra un sorriso arrogante. Tocca a Tatsuya, ridere, ma è una risata vuota che sbatte contro le pareti di quella stanza creando un suono quasi distorto.


Si sposta dalla parete contro cui si è poggiato poco prima e si avvicina a lui, guardandolo persino annoiato: «Non ho intenzione di darti nulla che non ti meriti. La misericordia non è tra questi. La tua dov'era?» lo interroga, in un chiaro riferimento all'annientamento del proprio gruppo. L'uomo tossisce di nuovo, scuotendo appena il capo in uno spreco di energie che Tatsuya non si spiega ma nemmeno si impegna chissà quanto a comprendere. Lo vede sforzarsi di alzare lo sguardo e di assumere un'espressione dignitosa e per com'è messo, specie fisicamente, deve dargli atto di riuscirci almeno vagamente.


«I tuoi... uomini» inizia a fatica, ottenendo in un istante la sua attenzione «non erano... forti abbastanza.» commenta. In quell'affermazione, Tatsuya comprende che non si stia parlando solo di forza fisica e all'improvviso una consapevolezza gli gela il sangue nelle vene: cercavano un ability user. Cercavano lui.


Il dolore che pensava non avrebbe provato mai più, dopo i tentativi di salvataggio e gli incubi e i mesi passati a rivivere tutto come una punizione si riaffaccia ora. E' acuto, è pungente e sembra volerlo soffocare per una manciata di secondi. Poi arriva come un'ondata inarrestabile: la rabbia cieca di chi ottiene una risposta e prevedibilmente quella riesce a essere sia quella che si voleva, sia quella che non si sarebbe mai voluto conoscere.


Tatsuya abbassa lo sguardo, senza un reale bisogno, sui propri vestiti: la camicia bianca ormai non solo non è più indossata con ordine, ma è quasi più macchiata di sangue che del suo colore originario. La giacca l'ha abbandonata due piani sotto, i pantaloni sono un disastro. Sposta gli occhi ambrati su quell'uomo e quella rabbia che lo scalda come lava, all'improvviso è come se si azzerasse. Come se all'improvviso dentro avesse solo il ghiaccio. Sente una lucidità che non pensava più di avere o che di certo non si sarebbe riaffacciata qui e ora; scorge nello sguardo dell'uomo che nessuna di queste reazioni è quella che si aspettava.


«Io non andavo particolarmente d'accordo con mio padre.» comincia a dire Tatsuya, le dita a sfiorare la lama anche se non necessariamente per ripulirla del sangue della scia di morti che si è lasciato alle spalle. Deve sembrare del tutto fuori di testa come discorso, eppure lui non si ne preoccupa e continua: «Sapeva cosa voleva che diventassi, ma detestava che mia madre mi rendesse più debole. Io non mi sono mai davvero opposto a fargli da successero, ma non era un uomo votato al dialogo con suo figlio. Rimane il fatto» continua, senza guardarlo «che come leader ho ereditato tutto da lui: il gruppo, le persone che ne erano parte, l'arte della spada nonostante ormai non la utilizzi praticamente nessuno nel nostro ambiente.» prosegue con quell'elenco che l'uomo ormai non riesce neanche a seguire, forse.


«Inutile dire che ho ereditato anche il suo codice: onora l'avversario, me lo avrà ripetuto un milione di volte.» ammette, il tono atono di chi non si sta certo perdendo nel prezioso ricordo d'infanzia in cui crogiolarsi «Sai cosa fa la yakuza a chi fa una cosa come quella che voi avete fatto al Miyuki-gumi?» domanda, osservandolo. Quello, com'è prevedibile, cerca di raddrizzarsi più possibile. Tatsuya in quel semplice movimento riconosce un uomo che a prescindere dalle sua azioni, almeno nella sua testa si pregia di essere un esponente di quella stessa yakuza di cui lui sta parlando. Ed è tutto ciò che Tatsuya ha bisogno di sapere.


La mano si muove veloce, afferrandogli bruscamente un ciuffo di capelli per tirare e fargli piegare la testa all'indietro con forza. Un verso di dolore, di certo per le ferite all'addome e non solo per la tirata di capelli, lascia le labbra dell'uomo e un colpo di tosse gli fa sputare del sangue. Tatsuya se ne frega, si china su di lui fino a quando i loro visi sono vicinissimi e si assicura di piantare il proprio sguardo nel suo.


«Dimenticalo.» qualsiasi cosa faccia la yakuza di fronte a un torto come quello subito da lui «Perché io non ti darò nessuna di quelle possibilità. Non onorerò il mio avversario come tu non hai onorato il mio gruppo. E mentre il resto dei tuoi uomini sono solo cadaveri a fare da tappezzeria ai piani inferiori, ti darò la morte meno onorevole possibile.» sibila con una crudeltà che non gli è mai appartenuta ma che, in fondo, perché mai non dovrebbe riservargli. Non ha nulla da perdere, perché ha già perso tutto.


La katana viene alzata e portata al collo altrui. Un lampo di terrore nei suoi occhi rivela a Tatsuya come l'altro abbia finalmente capito e non può - né vuole, in fondo - impedire alle sue labbra di incurvarsi nel sorriso cattivo di chi gode del terrore di un altro.


«Ti taglierò la gola e ti guarderò dissanguarti per i pochi secondi che ci vogliono e li renderò così lenti che ti sembrerà stiano passando ore. Ma il dolore non sparirà e tu sentirai di star morendo e sarà la cosa peggiore che avrai mai provato. L'ultima cosa che vedrai sarò io e, te lo assicuro, mi implorerai di farti morire più in fretta.»


L'uomo lo guarda, apre la bocca per dire qualcosa, forse una supplica. Forse un insulto.


Tatsuya non glielo permette, lo anticipa: la lama si porta in un movimento fulmineo alla sua gola, ne lacera le carni; il sangue a stento riesce a iniziare a sgorgare che la sua manipolazione del Tempo è già attiva, capace di rendere una morte quasi istantanea la più lenta delle agonie.


Il suo potere non lo tradisce: funziona come ha sempre fatto, rispondendo a qualcosa che in lui è naturale come respirare. In un certo senso è un ritrovare se stessi. Come una eco lontana, la voce di Isen gli risuona in un angolo di mente: hai paura del tuo potere?


Tatsuya guarda la vita scivolargli tra le mani al tempo deciso da lui, semplicemente perché può farlo. Lì, a vendicare uomini morti per lui, dando alla propria sopravvivenza l'unico senso possibile. La paura del proprio potere non ha mai davvero significato nulla.


A fargli paura dovrebbe essere se stesso, quello che guarda un uomo morire e non riesce a sentire più nulla.


*


Quando, per mesi, Tatsuya ha pensato solo alla vendetta non si è mai chiesto cosa avrebbe fatto dopo. Nel suo immaginario, uscire vivo da un edificio in cui aveva tutte le intenzioni di infilarsi da solo aveva assunto le tinte della pura utopia e quindi fare dei piani per il futuro non è mai stato contemplato. 


In quel momento, quando ha ucciso il leader dei responsabili, il silenzio è stato assordante ma ha anche portato con sé un senso di liberazione; poi, come se quello avesse finalmente tolto il tappo a tutto il resto, gli si era rovesciato addosso il dolore della solitudine e della perdita che pensava di aver elaborato e in qualche modo esorcizzato. La consapevolezza - magra consolazione - di aver raggiunto l’obiettivo e di averli vendicati tutti. Poi, la presa di coscienza: non avere più niente nel senso più ampio del termine. Non avere una famiglia; non avere uno scopo.


Sa e ha sempre saputo che se solo volesse, avrebbe un posto tra i Moriguchi. Lo ha reso chiaro Kazuma in passato, non ne ha di certo mai fatto mistero Jin. Anche quando è uscito da quell’edificio lasciandosi dietro una scia di morte, non lo ha stupito trovare proprio Jin lì fuori ad attenderlo. Tatsuya non esclude che in realtà sia arrivato ben prima che lui finisse il lavoro e che debba aver tenuto d’occhio in qualche modo la situazione, pronto a intervenire se la sua vita fosse stata in pericolo. Per quanto gli sia profondamente grato di non aver messo bocca sulla questione, di non aver neanche provato a convincerlo a desistere dal suo proposito di vendetta e per non essere intervenuto… Tatsuya non potrebbe mai accettare di unirsi al suo gruppo. Non quando l’ombra del suo ancora gli pesa sulle spalle, non mentre le urla dei suoi compagni ancora gli risuonano nelle orecchie.


Jin lo ha portato semplicemente a casa sua, distaccata dal resto del ritrovo dei Moriguchi; un luogo più tranquillo, appartato e di cui solo i membri più degni di fiducia sono a conoscenza. Non lo ha stupito quindi vederci dentro Isen, come anche Eishi o Tooru. Distrattamente, Tatsuya ha soppesato quanto dica di Jin il fatto che alcune delle sue persone più fidate siano anche i membri più giovani del gruppo, quelli che lo hanno conosciuto prima che fosse leader a eccezione forse di Isen. Nessuno dei ragazzi gli ha chiesto nulla, seppure per motivi diversi. Solo Isen ha provato ad allungare una mano, il palmo verso l’alto, in un tacito invito a lasciare che portasse lui la spada; Jin gli ha poggiato una mano sull’avambraccio, facendo una pressione levissima per farglielo abbassare, senza dire nulla oltre un semplice ed essenziale: «Non c’è bisogno.»


Tatsuya ha stretto la presa sulla katana, perché se avesse lasciato andare anche quella forse la sua coscienza sarebbe di nuovo scivolata chissà dove, circondata da soli incubi. Lui è troppo stanco per sopportarli.


*


Quando passa più di una settimana, non lo stupisce che Jin non lo abbia ancora approcciato per parlare anche se intuisce che buona parte dei membri dei Moriguchi se lo aspetta. Jin lo conosce troppo bene e da troppi anni per credere che basti una chiacchierata cuore a cuore per risolvere l'irrisolvibile e ha ragione. Salvare un uomo non è facile, ma non sempre è così difficile: se si hanno i mezzi e i giusti elementi, oltre a un po' di fortuna in qualche caso, Tatsuya lo ha anche visto succedere. Ci sono salvezze fisiche e salvezze emotive, ma non è necessario essere dei laureati in psicologia per sapere che quasi sempre le seconde sono le più complesse.


Alcuni potrebbero leggere la distanza che Jin lascia tra loro come disinteresse, quasi menefreghismo; Tatsuya invece è del tutto consapevole che sia perché nessuno lo capisce meglio di Jin, non solo per la conoscenza e l'amicizia che li lega, ma anche per il ruolo. Jin è un ability user ed è un leader. Risponde della condizione di tutti gli uomini sotto di lui, ne è rappresentanza e protettore insieme. Non esiste, nell'esperienza di Tatsuya, un uomo che abbia coperto la loro stessa posizione senza immaginare almeno una volta lo scenario peggiore: l'annientamento del proprio gruppo e il sopravvivergli come unico superstite. Perciò anche Jin deve averlo fatto e vederlo succedere così vicino a sé deve aver acuito la consapevolezza per cui Tatsuya ormai può considerarsi un uomo morto. Nessuna offerta di unirsi a un altro gruppo potrà mai superare quello che ha dentro e che gli scava il petto con una violenza inaudita, ogni giorno. Forse gli incubi a un certo punto finiranno, anche se non presto; forse cambierà vita e si allontanerà dall'ambiente in cui è cresciuto e nel quale pensava sarebbe morto.


Ma Tatsuya non ne ha la forza. Mentre siede lì sul cornicione del tetto, l'edificio dei Moriguchi di poco più alto di quelli adiacenti, guarda dritto davanti a sé: un palazzo alto almeno il doppio di quello dove si trova lui si staglia nemmeno troppo in lontananza, come un faro nella notte per chi cerca salvezza e come la condanna che incombe su di lui che la salvezza non la desidera più.


Glielo hanno presentato come un'organizzazione estremamente diversa dal gruppo di cui è stato il leader e per il quale si è sporcato le mani. Nelle strade del suo (ex?) ambiente, ora, circola voce di una strage compiuta da un solo uomo: molti la considerano già una leggenda metropolitana perché dopotutto, chi mai potrebbe credere al quel si dice un solo uomo li abbia uccisi tutti e trentatré che serpeggia nelle vie, anche in quelle abbandonate? Ma in fondo a lui sta bene che rimanga solo una leggenda metropolitana - dopotutto di encomiabile c'è davvero poco. Di certo non abbastanza da convincere un'organizzazione che collabora con il governo a prenderlo con sé.


«Ci stai pensando, Tatsuya-san?» una voce lo coglie relativamente di sorpresa. Aveva percepito già l'arrivo e l'avvicinarsi di qualcuno, senza preoccuparsene troppo. A stupirlo vagamente è che si tratti di Eishi. E' uno dei più giovani del gruppo Moriguchi, raccattato Jin solo sa dove. All'epoca gli è stato presentato come qualcuno di spaventosamente intelligente e deve ammettere di aver avuto lo stesso sentore in un paio di occasioni in cui ha potuto in effetti parlare con lui più a lungo di un semplice scambio di convenevoli. Proprio per questo non si aspetta di vederlo lì - lo reputa, per l'appunto, troppo intelligente per pensare sia venuto a cercare di convincerlo - ma al tempo stesso forse se qualcuno doveva presentarsi, Tatsuya avrebbe dovuto intuire che sarebbe stato lui.


Tatsuya torna a guardare di fronte a sé, verso l'alto edificio.


«No.» ammette «Ma immagino Jin preferirebbe una risposta diversa.»

«Tutti si aspettano da te risposte diverse, Tatsuya-san» pronuncia Eishi come se fosse un'ovvietà, accompagnando la frase con un'alzata di spalle «Tooru si aspetta che lotti, ma Tooru è stupido come un comodino ed empatico come un frigo, quindi possiamo ignorare le sue opinioni come sempre.» elenca velocemente, lasciando intendere come consideri il coetaneo degno di attenzione quanto una formica per strada. Tatsuya si limita a guardarlo di sbieco, senza proferire parola.


«Isen forse pensa che non accetterai l'idea. Dico forse perché tirargli fuori cinque parole è un'impresa su cui sto ancora lavorando.» ammette, sebbene sembri intenzionato a prenderla con tutta calma: «Il Boss credo non dica cosa vorrebbe tu scegliessi solo per rispetto. Ma direi che la risposta che vorrebbe sia ovvia per tutti quelli con un cervello funzionante. Quindi tutti tranne Tooru.» rimarca la sua antipatia, ma non la rende la protagonista del discorso.


«Tu invece su quale risposta scommetti?» non può che domandargli Tatsuya, con un pizzico di curiosità. Eishi fa vagare lo sguardo, a un certo punto anche verso l'edificio in questione, ma senza soffermarsi troppo. Appare molto più interessato a Tatsuya e i suoi eventuali cambi di espressione. Cerca di leggerlo, questo è evidente e porta persino Tatsuya a incurvare le labbra nel sorrisetto stronzo di chi ora ha tutte le intenzioni di mettersi d'impegno per rendere il lavoro dell'altro molto più difficile.


«Io sto decidendo se scommettere sulla tua intelligenza o sulla tua voglia di morire, Tatsuya-san.»


Eccola, la totale mancanza di tatto di Eishi, quella di cui Jin gli ha parlato quasi subito, definendolo un ragazzo intelligente ma quasi incapace di provare empatia. Solo uno del genere potrebbe andare da qualcuno seduto su un cornicione, con tutte le carte in regola per lasciar vincere dei pensieri suicidi e dirgli che la sua voglia di farla finita sta combattendo con l'intelligenza di chi sa bene non otterrebbe granché.


Tatsuya guarda l'edificio, abitato da un'organizzazione che lo porterebbe a interagire di nuovo con un gruppo e - nella peggiore delle ipotesi - a guidare alcuni dei suoi membri. Un'organizzazione che potrebbe accoglierlo senza riserve, almeno in parte, e cercare di farlo sentire di nuovo a casa, di nuovo non solo. Quell'edificio sa di promessa, di vita ricostruita, di legami e fiducia e spirito di sacrificio per le persone con cui si vive sotto lo stesso tetto.


Al solo pensiero, a Tatsuya viene da vomitare.


Si alza dal cornicione, con attenzione; muove un passo indietro, palese scelta silenziosa verso la vita. Un gruppo simile gli ricorderà costantemente ciò che ha perso e non è stato in grado di proteggere. L'eterna maledizione di chi l'eternità, forse, potrebbe viverla sul serio grazie al suo potere.


Questa, si dice, è la morte che merito.

hakurenshi: (Default)

*


Guardando davanti a sé in quel momento, Hajime suppose che se avessero avuto un rapporto di qualche tipo ai tempi del liceo, sarebbe stato molto più abituato a quello a cui stava assistendo da un paio di minuti. Scesi al piano terra all'orario corretto rispetto a quello che gli era stato comunicato per avere la cena servita, avevano mangiato non nelle migliori condizioni - ossia con poco meno di un silenzio selettivo che interrompevano solo per qualche commento di poco conto  - ma Hajime aveva supposto non potesse andare molto meglio di così. Di certo non aveva avuto alcuna intenzione di mettersi a fare chissà quale discussione o scenata lì, perciò aveva mandato giù il boccone amaro insieme alla cena che invece era stata decisamente ottima.


Erano usciti per tornare in camera quando avevano incrociato una conoscenza di Oikawa: da quanto aveva capito Hajime, si trattava di un kohai dell'università, perciò aveva lasciato loro il giusto tempo per parlare. Non sembrava una conversazione destinata a durare a lungo, ma due cose erano piuttosto evidenti persino per lui che non conosceva il ragazzo più giovane e di sicuro non poteva vantare un rapporto di chissà quale tipo con lo stesso Oikawa: il suo kohai sembrava decisamente perso, non al punto di un innamoramento magari, ma era chiaro fosse (stato?) invaghito di Oikawa. Quest'ultimo invece sembrava incredibilmente... freddo.


Hajime lo vide fare un gesto con la mano che sembrava interrompere qualunque cosa il ragazzo stesse dicendo; quello provò ad allungare la mano verso il braccio di Oikawa, forse per fermarlo nel suo movimento con cui stava chiaramente iniziando ad allontanarsi, ma Tooru si scostò. Non fu particolarmente brusco, ma non fu nemmeno naturale e persino il ragazzo se ne rese conto. L'ex pallavolista gli rifilò un sorriso di circostanza e pronunciò un saluto veloce, prima di avvicinarsi a Hajime; fu sorpreso nel vedersi prendere sotto braccio e nel sentirlo pronunciare un allegro «Eccomi Iwa-chan, scusami! Andiamo?» al quale non poté fare altro che annuire, iniziando a camminare con lui senza guardarsi indietro.


Si aspettava che girando l'angolo Oikawa lo lasciasse andare subito, invece quando arrivarono davanti alla porta della camera non lo aveva ancora fatto. Fu sufficiente chiudere la porta per sentire il braccio di Oikawa scivolare via dal suo. Quando Hajime lo cercò con lo sguardo, si accorse che l'altro sembrava del tutto intenzionato a fare finta che non fosse successo nulla, quantomeno al fine di tornare a ignorarlo. Sospirò, premurandosi di essere più che udibile e vide l'altro irrigidire le spalle.


«Per un attimo pensavo fosse un kohai dei tempi del liceo» decise di rompere il ghiaccio, perché dubitava sarebbe stato Oikawa a farlo «ma a meno che non fosse qualcuno della vostra squadra, non credo.»


Dava abbastanza per scontato che sarebbe stato ignorato, invece un po' a sorpresa Oikawa sospirò a sua volta prima di replicare con un: «No. Si è immatricolato alla mia università lo stesso anno in cui io mi sono laureato.» a conclusione del quale Hajime notò che il sorriso sulle labbra dell'altro non esprimeva affatto né la contentezza di averlo rivisto, né chissà quale affetto per i ricordi legati al ragazzo in questione. A piegargli le labbra, invece, era un sorriso amaro.


«So cosa stai pensando, tanto vale tu me lo chieda.» aggiunse Oikawa, senza guardarlo. Hajime non era meno seccato per quello che l'altro aveva detto in precedenza, dando inizio alla discussione che li aveva portati a questo umore decisamente spiacevole per tutti e due, ma dal modo in cui l'altro parlava sembrava quasi aspettarsi un giudizio di qualche tipo.


«Non devi per forza parlarmene.» gli fece notare «Penso che basti avere due occhi che funzionano per vedere che quel ragazzo di sicuro ha avuto o ha ancora una cotta per te, ma chi non l'ha avuta al liceo? Si sentiva il tuo nome in qualsiasi classe, non importava di che anno, e in ogni caso non è una cosa che dipende da te o di cui dovresti essere responsabile.» proseguì, deciso a evitare qualsiasi tipo di fraintendimento. Davvero non ne avevano bisogno.


Si accorse che Oikawa aveva fermato i movimenti, una mano a mezz'aria in un gesto indeciso - se continuare a recuperare il cambio per andare a dormire o restare ad ascoltarlo, suppose. Fu sorpreso di sentirlo sbuffare divertito, per quanto non gli sembrava ci fosse nulla da ridere nel proprio discorso.


«Mattsun lo aveva detto» se ne uscì Oikawa «quella volta che tu e Makki siete venuti a vedere la partita, nello spogliatoio. Qualcosa sul fatto che questo Iwaizumi, della sua classe, probabilmente sapeva a stento chi ero perché non era il tipo da dare troppo ascolto ai pettegolezzi nel corridoio e che se non ci avesse pensato il resto della scuola a ricordargli costantemente il secondo genere di alcune persone, non se ne sarebbe mai ricordato da solo.» riportò Oikawa e Hajime non ebbe il minimo dubbio che dicesse la verità. Anche solo perché aveva davvero affrontato quel discorso con Matsukawa in passato, proprio ai tempi della scuola - forse a Oikawa all'epoca era stato omesso che la conversazione fosse nata da quel tira e molla tra Matsukawa e Hanamaki andato avanti fin troppo a lungo per i gusti di tutti quelli che li conoscevano. A prescindere dalla motivazione, tuttavia, Hajime si ricordava di quello scambio e si stupì del fatto che fosse stato riportato all'altro. O per meglio dire, non riusciva a immaginare davvero la situazione in cui potesse uscire fuori quell'argomento - a meno che, all'epoca, Oikawa non avesse chiesto informazioni su di lui ma non gli sembrava troppo plausibile o sensato.


«Perché non mi è mai interessato.» decise di replicare, quantomeno per cercare di capire dove stesse andando a parare quel discorso, per quanto possibile «Anche per questo viaggio, non avevo una preferenza su chi viaggiare. Prima che tu lo dica, certo, lo so anche io che essere un Beta mi rende più facile fare questo discorso.» lo anticipò prima che Oikawa potesse avere un'altra uscita infelice delle sue e forse gli era uscito un pelo più piccato di quanto avrebbe voluto, ma l'altro non sembrava intenzionato ad attaccare briga al momento. Si era solo girato verso di lui per guardarlo mentre parlava, senza muovere un passo in sua direzione però.


Capì che per adesso era il massimo che poteva ottenere: «Proprio per questo però non me ne è mai fregato niente di cosa fossi. Alla fine noi siamo la maggioranza, tra i secondi generi, e siamo considerati la media in tutto. Penso che Matsukawa si sia sempre sentito in difetto per certi aspetti, perché un po' tutti voi Alfa venite abituati al fatto di dover eccellere sempre e comunque e lui stava iniziando a rimetterci la salute a forza di allenarsi in quel modo sconsiderato.» osservò, senza preoccuparsi affatto di mascherare come fosse del tutto convinto di essere nel giusto. Vide Oikawa aprire la bocca, di certo per ribattere, ma alzò una mano nella muta richiesta di tacere e lasciarlo finire. L'altro non ne era contento, lo vide da come serrò un poco la mascella, ma apprezzò il suo restare in silenzio e in attesa del resto.


«Perciò gli ho detto di farla finita, non è che si sfondava un ginocchio poi gli davano una medaglia. Basta con questa storia che se non arrivate primi allora non valete, così come tutta la merda che si è preso Hanamaki per essere un Omega ha sempre fatto schifo e sempre lo farà. Non posso cambiare il pensiero di tutti, ma posso almeno inculcare nella testa degli amici quanto tossica sia questa roba.» concluse, con più fermezza, quasi sfidando Oikawa a dirgli di avere torto. Ma nel tornare a guardarlo dritto negli occhi, non trovò né incredulità vera e propria né derisione sul viso dell'ex pallavolista. Oikawa sembrava più che altro colpito, come se qualcosa di cui aveva sempre e solo sentito nei racconti e che forse immaginava fosse stata romanzata, si fosse appena compiuta davanti ai suoi occhi dimostrandogli che era sempre stata realtà e non una cosa detta tanto per. In quel suo discorso dovette ritrovare qualcosa - o molto - del discorso di Matsukawa, perché non sembrava sorpreso del contenuto di per sé ma dal fatto che qualcuno fosse davvero capace di dargli voce credendoci.


Dopo qualche secondo, Hajime lo vide prima sorridere appena. Poi sbuffare divertito l'accenno di una risata che stava cercando di tenere per sé. Infine, lo vide girarsi dall'altra parte, forse per non dare a vedere di averlo fatto cedere alla risata silenziosa che gli faceva muovere appena le spalle: «Sei veramente incredibile, Iwa-chan.» commentò quando fu certo di poterlo fare senza dargliela vinta «Anche se rimani uno stronzo per avermi detto che ti faccio tristezza.»


«Quello te lo sei meritato.» rimbeccò senza esitazione «Mi hai guardato dall'alto in basso come tutti gli Alfa stronzi fanno, quindi ti ho trattato come ti meritavi.» commentò, perché per quanto preferisse avere un dialogo non sarebbe stato lì a fargliela passare. Si erano feriti a vicenda con commenti sgradevoli, ne erano entrambi consapevoli e lo avevano fatto coscienti di ciò che stessero dicendo. Non avrebbe fatto finta di nulla solo perché era più comodo e, a giudicare dall'espressione sul viso altrui, anche se aveva di sicuro da ridire doveva essersi reso conto anche lui di non essere stato un esempio di gentilezza.


O almeno Oikawa ci aveva provato, perché sentì comunque il bisogno di dirgli: «Ma è vero che per te è facile parlare. Sono bei discorsi, Iwa-chan, davvero.» sembrò voler mettere le mani avanti per evitare un'altra discussione, per quanto la premessa non facesse comunque ben sperare Hajime «Sul non essere responsabile di nulla se faccio le cose come vanno fatte, oppure riguardo l'essere legittimato a non fare sempre tutto alla perfezione. Sono discorsi che ti rendono un grande amico, ma anche uno molto idealista. Il resto del mondo non è così gentile.» gli fece notare con, di nuovo, quel sorriso amaro a piegargli le labbra.


Quello era un aspetto che Hajime aveva sempre trovato irritante. Non di Oikawa, né di Matsukawa nello specifico, ma del contesto generale in cui entrambi - tutti loro, anzi - si muovevano e che portavano a quel tipo di pensieri. Non importava quanto Hajime o chiunque altro al suo posto si impegnasse a inculcare un messaggio di quel tipo, a essere di supporto; il resto del mondo avrebbe sempre reso inutile i suoi sforzi, riuscendo ad avere molta più forza nell'imprimere certe convinzioni nella mente delle persone e nel dimostrargli ogni giorno che a dispetto delle belle parole, la realtà era sempre diversa. Lo irritava perché non sapeva come combattere un sistema ed era consapevole di non avere le forze per farlo; di essere uno tra tanti, una voce che poi finiva col perdersi nella folla.


Si mosse, raggiungendo l'altro e piazzandoglisi di fronte, notando solo di sfuggita come Oikawa avesse mosso un mezzo passo indietro. Non che il letto alle sue spalle gli concedesse molto di più in ogni caso.


«Chi se ne frega del resto del mondo?»

«Oh, andiamo.» ribatté più secco Oikawa «Non abbiamo quindici anni, cosa vuol dire "chi se ne frega del resto del mondo". Ci vai tu a parlare con mio nonno? O con i padri di altri Alfa che li crescono per tutta la vita con uno scopo già deciso e che di solito è ereditare l'impero che si sono creati negli anni? Glielo dici tu, che l'importante è quanto i loro figli facciano ciò che amano o che va bene se anche falliscono, dopotutto cosa importa?» iniziò a pronunciare Oikawa, ma più andava avanti e meno suonava come una provocazione per Hajime. Assumeva la forma di una diga che si crepava sempre di più sotto la pressione, una che Hajime era consapevole di non riuscire nemmeno a immaginare e di aver potuto forse osservare in parte da Matsukawa negli anni ma nulla di più. Lui aveva trovato il modo di arginarla e di non farla spezzare, aveva trovato la sua dimensione con Hanamaki o era stato solo più fortunato nella propria famiglia. Oikawa sembrava come quella diga: Hajime non riusciva a capire chi si sarebbe spezzato prima, ma era sicuro che in ogni caso sarebbe stato un mezzo disastro.


«Non avrebbe senso se glielo dicessi io.»

«Non ha senso che glielo dica nessuno.»

«Quindi la soluzione è avere una crisi di nervi ogni volta che qualcuno tocca un tuo nervo scoperto? O è fingere che non sia mai esistito il diciassettenne che quando ha perso una partita di pallavolo sembrava lo avessero appena condannato a morte?» puntualizzò, perché se doveva comunque spezzarsi una cosa tra le due sperava di far sì che fosse la diga, prima dello stesso Oikawa.


Capì di aver appena punto sul vivo quando vide Oikawa lanciare in malo modo quel che aveva in mano sul letto e fare quel mezzo passo di nuovo in avanti, verso di lui. Fu sorpreso di sentirsi prendere per la maglia, proprio come lui stesso aveva fatto con Oikawa sull'imbarcazione. Il viso altrui a poca distanza dal suo, lo sguardo di chi forse stava dibattendo con se stesso se dargli un pugno in viso o buttarlo direttamente giù dal balcone della stanza. Per un attimo Hajime si chiese se sarebbe stato diverso, se le loro strade si fossero incrociate molto prima o in maniera più significativa di come avevano fatto. Oppure se sarebbe stato più facile, con un viaggio più lungo e molta più strada - fisica, in questo caso - da percorrere. Se ore e ore in macchina avrebbero reso quella conversazione meno complessa, aiutati dalla stanchezza o dalla convivenza forzata per molto più tempo.


«Allora visto che sei così bravo, vai pure a dire alla mia famiglia che ho tutto il diritto di scegliere la mia strada o che anche se sono un Alfa preferirei farmi sbattere piuttosto che mettere incinta un Omega di qualsiasi sesso.» commentò crudo Oikawa. Quello Hajime non se lo aspettava - si maledì perché il fatto stesso che lo stupisse scoprire che Oikawa preferiva essere passivo nella sfera sessuale la diceva lunga su quanto anche lui, nonostante tutto l'impegno, fosse ancora fortemente influenzato da tutto il contesto sociale. Serrò la mascella, irritato anche con se stesso, prima di tornare a guardare Oikawa dritto negli occhi.


«Diglielo.»

«Come no.» ribatté Oikawa lasciandolo andare, ma Hajime fu veloce nel prendergli un braccio per evitare che si allontanasse facendo cadere un discorso che invece era importante. Era come se sapesse di essere vicino a rompere quella diga definitivamente e pensava - sperava, egoisticamente - che lo avrebbe aiutato: «Cosa frega a tuo nonno di cosa fai con la gente che ti porti al letto?!»

«Anche alla gente interessa! Credi sia così facile?!»

«Lo sarebbe se smettessi di lagnarti senza fare niente!»

«Vai a farti fott--»


Hajime aveva avuto idee migliori nella sua vita e non era mai stato un grande fan del cliché dei film romantici di quarta categoria in cui si zittiva qualcuno baciandolo. In un momento romantico di queste pellicole tutto sarebbe scomparso intorno a loro e il bacio avrebbe assunto tinte più sentimentali, mettendo tutto il resto a tacere. Invece con Oikawa Tooru niente poteva essere semplice e Hajime prima si sentì mordere il labbro inferiore e poi spintonare indietro.


«Sei uno stronzo!» sbottò Oikawa, arrabbiato e forse anche disperato.


Un attimo dopo Hajime fece qualche passo indietro, alla cieca, fino a sentire la propria schiena cozzare contro la parete della cabina armadio e le labbra di Oikawa furono di nuovo sulle sue.


*


C'era poco di romantico e molto di disperato, in un certo senso, e non era il tipo di sesso a cui Hajime si sarebbe prestato in condizioni normali. Una parte di lui, quella più razionale in effetti, aveva capito subito che Oikawa non si fosse certo scoperto all'improvviso con una storica cotta per lui né che avesse visto in quel pernottamento l'occasione per concretizzare finalmente qualcosa di lasciato in sospeso dai tempi del liceo.


Sentì Oikawa pronunciare impaziente un «Hajime» con tono basso, mentre avvertiva il suo corpo tendersi sotto il proprio e sotto i tocchi della mano. Il corpo di Oikawa era esattamente come ci si aspettava quello di una persona che per anni aveva consacrato la sua esistenza allo sport, nonostante poi non ne avesse fatto una professione. Era anche il fisico che ci si aspettava da un Alfa, forse, ma Hajime non voleva pensarlo in quei termini, categorizzarlo in quel modo che all'altro stava così stretto. Non faticava a comprendere quanto dovesse essere complicato per lui, quanto gli sembrasse di percorrere costantemente una strada in salita di cui non si riusciva a scorgere la cima. Oikawa era un uomo da cui tutti si aspettavano un carattere dominante che si estendesse anche alla sfera intima, cozzando con prepotenza con una preferenza personale che nessuno avrebbe dovuto avere il diritto di giudicare. Il modo in cui il corpo di Oikawa aveva risposto ai baci prima, alle mani sotto la stoffa poi, avevano detto a Hajime più di quanto avrebbe mai potuto tirargli fuori con le parole. Non era sottomesso nel senso più dispregiativo del termine, affatto. Era attivo e ricettivo, non restava certo inerme ad aspettare che Hajime lo toccasse o lo baciasse; lo cercava, ricambiava le attenzioni, lo toccava con lo stesso desiderio con cui Hajime pensava di star facendo lo stesso.


La carica erotica di Oikawa era qualcosa di impossibile da ignorare, ma nel modo in cui le sue mani lo stavano toccando e soprattutto nell'urgenza con cui il suo corpo continuava a cercare insistentemente il suo, Hajime riconosceva un desiderio simile ma diverso. Oikawa, probabilmente, ora come ora lo vedeva al pari di ciò che aveva sempre voluto ma non aveva osato dire ad alta voce. Non Hajime di per sé, ma ciò che rappresentava - qualcuno disposto a fare sesso con lui senza curarsi di quali ruoli la società avrebbe dovuto imporgli, ma rispettando soltanto quello che il partner voleva. Se Oikawa Tooru, un Alfa che era di certo nelle mire di molti e nei sogni di altrettanti, voleva sentire il peso di un corpo maschile contro il suo e le dita scivolare dentro di lui per prepararlo a una penetrazione, Hajime non aveva motivo per non dargli esattamente quello che voleva.


Avrebbe potuto negarglielo se non lo avesse desiderato, ma non trovava una chimica sessuale del genere con qualcuno da anni.


«Hajime» mormorò di nuovo Oikawa, il tono rauco, spingendo il bacino contro di lui. Hajime si lasciò scivolare tra le labbra un sospiro pesante, muovendo le dita dentro di lui, mordendogli piano il collo. Non era certo per sottomissione, né per emulazione - di pessimo gusto, tra l'altro - del morso di un Alfa verso un Omega. Era solo un modo di farsi sentire, di essere presente, di desiderarlo mentre Oikawa si concedeva un gemito inarcando appena la schiena. Lo sentì muovere le gambe, impaziente. Avvertì la sua mano sulla propria nuca, le dita tra i capelli neri corti e una spinta verso il basso; si lasciò guidare fino alla bocca altrui, non perdendo tempo nell'inutile tentativo di mantenere il bacio casto o breve, non avendone comunque alcuna intenzione. Accolse la lingua di Oikawa nella propria bocca e lo baciò con la stessa irruenza che l'altro cercava, per quanto non si fossero esplicitamente parlati di alcuna preferenza. Ma capiva dal solo linguaggio del corpo dell'altro che non volesse essere trattato con inutile delicatezza, con il riguardo che si sarebbe potuto rivolgere a un amante inesperto o insicuro. Sapeva cosa voleva e lo voleva da Hajime e non c'era alcun bisogno, al momento, di fingere che non fosse così.


Sfilò le dita da dentro di lui quasi nello stesso momento in cui, staccando le labbra da quelle di Oikawa, lo sentì farsi scappare un gemito più alto dei precedenti. Non gli chiese di nuovo se fosse sicuro, perché non avrebbe sortito un grande effetto; si spinse dentro di lui, più lentamente che poté, sentendolo stringersi attorno alla propria erezione d'istinto. Si morse l'interno della guancia, forte, per non venire in maniera veramente poco dignitosa. Inspirò profondamente, più volte, rimanendo immobile quando sentì di averlo penetrato del tutto.


Quando iniziò a spingere, si rese conto che contro ogni aspettativa, Oikawa era molto meno vocale di quanto si sarebbe potuto pensare. Non che fosse una legge scritta, il fatto che una persona dalla chiacchiera facile dovesse per forza essere loquace anche durante il sesso, ma nella testa di Hajime per chissà quale motivo le due cose si erano accavallate in qualche modo. Invece Oikawa comunicava molto di più con i gesti: nel modo in cui aveva stretto le gambe attorno ai suoi fianchi, per tenerlo vicino; in come le sue braccia non avevano mai smesso di restare lì ancorate alle sue spalle, o come le sue dita sembravano voler lasciare delle impronte visibili sul suo corpo quando le spinte di Hajime toccavano il punto giusto. Oppure, ancora, comunicava anche con il semplice chiamarlo per nome o nel cercare con la bocca ora il suo collo, ora il suo orecchio. Nel modo, semplice e istintivo, in cui il respiro solleticava la pelle di Hajime o la bocca trovava la sua come in una preghiera muta.


Comprese di aver individuato il punto più sensibile dentro di lui quando a Oikawa si mozzò il respiro in gola per qualche secondo, in cui annaspò in cerca di aria e poi sembrò perdere tutte le forze per un istante appena. Lo avvertì stringerglisi addosso in ogni senso possibile, la sua bocca di nuovo sulla propria, quel «Ancora» e quel «ti prego» che suonavano come un ordine e una supplica al tempo stesso. Spinse ancora, ancora, ancora fino a quando anche la voce di Oikawa finì col farsi sentire sul serio. Sentì Oikawa venirgli contro lo stomaco, bollente e con un tremore leggero delle gambe stanche; non fermò comunque il movimento del proprio bacino, raggiungendo l'amplesso con poche altre spinte e le mani di Oikawa che sembravano incapaci di lasciarlo anche quando le sue energie erano ormai venute meno.


I respiri velocizzati, ci volle qualche secondo perché Hajime si accorgesse che le dita di Oikawa tra i capelli erano scivolate via, sfiorandogli appena le spalle e sostando lì senza forze. Alzò appena il viso che aveva affondato nel collo altrui, cercando di spiarne l'espressione: aveva la pelle imperlata di sudore, il petto continuava ad alzarsi e abbassarsi e le labbra erano socchiuse. Gli occhi aperti, verso il soffitto, senza che lui riuscisse a capire davvero quali pensieri gli stessero affollando la mente.


*


Aprì gli occhi lentamente, incontrando troppa luce e ritrovandosi a chiuderli quasi subito d'istinto. Gli ci volle qualche momento per abituarsi sia all'idea di non poter ignorare di essere sveglio, né alla consapevolezza che non si sarebbe riaddormentato più, conoscendosi. Si girò pigramente, in modo da ritrovarsi su un fianco e solo allora tentò di aprire gli occhi una seconda volta. Gli ci volle qualche secondo per mettere a fuoco e capire in quale posizione si trovasse Oikawa.


Seduto sul materasso, ancora lì accanto a lui, l'altro letto su cui avevano fatto sesso del tutto sfatto e lasciato al suo destino approfittando dell'altro dopo la doccia veloce che avevano fatto. Le lenzuola a coprirgli le gambe, il busto scoperto e con ancora diversi dei segni di cui Hajime era consapevole di essere l'autore, aveva il viso girato verso la finestra. Non si stupì di trovarlo così al risveglio: intento a guardare un oceano dal quale, lungo tutta la strada che avevano fatto, era sembrato sempre attirato. L'altro dovette accorgersi del movimento perché si voltò a cercarlo con lo sguardo: quando ebbero finalmente un contatto visivo, senza una parola, Oikawa tornò a stendersi sistemandosi a sua volta su un fianco, per fronteggiarlo.


Tacquero entrambi, senza che Hajime sapesse cosa dire o cosa l'altro si aspettasse che dicesse. Senza reale sorpresa, fu comunque Oikawa a prendere parola per primo.


«Abbiamo il check-out tra cinque ore.»

«...tra cinque?»

«Sono le sei.» spiegò quello, osservandolo.


Hajime sospirò, chiudendo gli occhi per un momento. Non si aspettava di sentire delle labbra sulle sue, seppure per un tocco breve; quando guardò di nuovo Oikawa, l'altro sembrava del tutto a suo agio.


«Questo cos'era? Il buongiorno?» chiese, senza ironia.

«Potrebbe» replicò Oikawa «O potrebbe essere la richiesta di fare di nuovo sesso.»

«Romantico.» ironizzò stavolta Hajime, vedendolo però sbuffare divertito mentre una sua gamba si insinuava tra le proprie - senza davvero sfiorargli nessuna parte troppo sensibile, al contrario di come fece la mano che di lì a poco sentì sfiorare in una carezza neanche troppo velata il suo interno coscia.


Oikawa lo osservò, senza alcuna provocazione; c'era qualcosa di sensuale nel modo naturale con cui ora, dopo aver fatto sesso una volta, non sembrasse sentirsi più in difetto nel chiedere quello che voleva anche solo con i gesti.


«Sarebbe un'idea pessima?» lo sentì mormorare, il viso abbastanza vicino da essere perfettamente udibile anche così. Hajime tacque, soppesando la cosa: sarebbe stata un'idea pessima? Per quanto ne sapeva sì, ma sarebbe potuta essere anche quella migliore di tutte. Non sapeva dove li avrebbe portati, né tantomeno se si sarebbe rivelata il principio di un disastro. Non aveva la minima percezione di come sarebbe stata affrontata la questione se da "aver fatto sesso un paio di volte" si fosse trasformata in qualcosa di più serio. D'altra parte non doveva saperlo. Non era tenuto lui, come non lo era Oikawa. Nessuno pretendeva che decidessero ora.


Hajime allungò una mano sotto le lenzuola, fino a raggiungere il polso di Oikawa; guidò quella mano che lo aveva sfiorato poco più verso il centro, fino al proprio membro, rifilando all'Alfa un sorrisetto sghembo prima di vederlo sorprendersi per un istante e sentirsi baciare quello dopo.


La strada poteva essere lunga, in salita e senza una meta concreta. Per ora, però, l'unica di cui si sarebbe preoccupato sarebbe stata quella del ritorno verso casa.


hakurenshi: (Default)

Prompt: strada

Missione: M4 (week 6)

Parole: 12465

Rating: explicit

Fandom: Haikyuu!!

Warnings: road trip au, omegaverse



Quello non era il tipo di cosa che Iwaizumi avrebbe mai pensato di fare in vita sua, a dirla tutta. Appena diplomato, forse, per una incoscienza tutta particolare della tarda adolescenza ma a ventisei anni cominciava a essere a suo modo fuori target. A essere del tutto sincero Hanamaki era in questo caso la causa primaria del suo male - un aspetto mai davvero cambiato rispetto ai tempi del liceo - dopo averlo preso per puro sfinimento. Il problema con lui era che ricopriva il ruolo dell’amico tecnologico del gruppo, quello che non importava se un’app era stata rilasciata neanche ventiquattro ore prima, lui avrebbe comunque saputo spiegare ogni più piccola funzionalità come se la utilizzasse da mesi. Era sempre stato così e anche in questa occasione non aveva fatto alcuna eccezione, martellando metaforicamente la psiche di Hajime fino a quando non aveva raggiunto il limite della sopportazione. Pensare che era anche molto più paziente di un tempo, poi. 


Naturalmente sperare nell’aiuto di Matsukawa era sempre stato abbastanza inutile e la cosa non era andata migliorando da quando ormai tre anni prima avevano definito di essere in una relazione stabile. Iwaizumi non aveva mai capito se Matsukawa fosse il tipo da voler semplicemente viziare la persona con cui stava o se la sua riserva energetica gli impedisse di faticare senza motivo sulle battaglie perse in partenza.


In ogni caso, alla fine, si era fatto convincere dall’ennesimo fiume di parole da parte di Hanamaki e dal suo continuare a ribadirgli che «E’ del tutto sicura!» oppure «Pensa che devi comunque inserire il tuo secondo genere e fanno dei controlli il giorno della partenza» e anche «Ti ci vuole una cosa più trasgressiva di due birre davanti a netflix, dai.» con cui si era guadagnato uno scappellotto dietro la nuca, perché sì.


L’app in questione non era malvagia di per sé ma, quando l’altro gliene aveva parlato all’inizio, Iwaizumi l’aveva etichettata subito come l’ennesima app di incontri solo mascherata da altro e questo l’aveva fatta precipitare nella sua lista di cose importanti da ricordare. A quanto pareva, però, non si era rivelata niente di troppo trash come Iwaizumi pensava e anzi era diventata anche piuttosto famosa sul web; lui si era limitato a scorrere qualche articolo senza leggerlo con vero interesse, ma ormai nella sua formula recensita da tantissime persone aveva trovato un modo vincente di sopravvivere a tutte le altre. Bastava davvero poco per iscriversi e usufruire di “On the road”: si creava un account in cui le informazioni obbligatorie da inserire erano data di nascita e secondo genere. Iwaizumi aveva scoperto che non c’era molto della dating app, lì dentro: non ci si sceglieva a vicenda, non si visualizzavano centinaia di profili con foto discutibilmente vere per poter flirtare via chat. I dati in questione servivano unicamente agli organizzatori dietro il servizio che On the road offriva: un viaggio appunto su strada, scelto in base alle preferenze sia di lunghezza che di punto di partenza e punto di arrivo. Erano poi gli amministratori a effettuare i matching e a controllare, il giorno di ogni partenza, che tutto rispettasse quanto dichiarato.


Alla fine l’organizzazione era sembrata decente abbastanza da farsi convincere. Ora, la sera prima della partenza, Iwaizumi si chiedeva se fosse stato saggio riservarsi come primo approccio un viaggio di ore percorrendo una parte del Giappone.


«Domani è il gran giorno eh?» sentì dire a Matsukawa dall'altra parte del telefono, per quanto nel ricontrollare al volo il borsone che aveva intenzione di portarsi dietro, Iwaizumi aveva poggiato il cellulare sul materasso limitandosi a metterlo in viva voce. Chissà se così l'altro avrebbe sentito più forte e chiaro il «Fottiti.» che pronunciò al suo indirizzo, per quanto ormai fosse più l'intercalare di anni di amicizia che non qualcosa di detto con cattiveria. Prevedibilmente, la risata di Hanamaki arrivò quasi subito, anticipando il suo «Devi assolutamente mandarci degli aggiornamenti! Usali quei social network visto che da ottimo amico quale sono mi sono preso la briga di spiegarti come funzionano anni fa!»


Non visto, Iwaizumi alzò gli occhi al soffitto, senza nemmeno rispondergli.


«Facci sapere almeno se sopporti per più di un'ora chi ti hanno dato come compagno di viaggio.» aggiunse Matsukawa, limitandosi a pochi altri scambi prima di lasciarlo in pace e chiudere la chiamata.


Hajime, assicuratosi di avere tutto il necessario, recuperò il telefono stendendosi sul letto; aprì l'applicazione, scorrendo le informazioni che erano state caricate sul suo profilo una volta effettuato il matching e dove c'era a disposizione anche l'itinerario. A quanto pareva anche quello veniva valutato a seguito di tutta una serie di richieste che si inserivano nel form da cui gli organizzatori prendevano le informazioni necessarie - c'erano le più disparate, in effetti, tra cui anche la preferenza del secondo genere del proprio compagno di viaggio. A Iwaizumi non piaceva l'idea, ma quando aveva visto quella domanda a scelta multipla si era chiesto quanti accettassero di viaggiare con gli Omega. Aveva supposto che forse a parte scegliersi tra loro, l'unica altra alternativa fossero i beta come lui e per questo alla fine aveva deciso di spuntare l'opzione "indifferente" perché potessero accoppiarlo un po' a chiunque. Dopotutto per lui indifferente lo era sul serio.


L'itinerario, doveva ammetterlo, non era male: personalmente non aveva inserito troppe specifiche, solo una preferenza di paesaggio o di punti di interesse in cui fermarsi brevemente. Sulla carta il viaggio di per sé era di sette ore e mezza, ma questo supponeva non fermarsi mai, cosa che era ovviamente impossibile oltre che sconsigliato; parte dell'obbiettivo, dopotutto, era interagire anche con l'altra persona e godersi qualche luogo particolare lungo la strada. Nel suo caso il percorso selezionato dagli organizzatori era una cosiddetta "strada panoramica": da Iino-Ura a Ine, si passava tra delle foreste e persino lungo una costa. Lungo la strada, a quanto sembrava, ci si imbatteva in Izumo dove vedere uno dei più antichi santuari del Giappone - uno che Iwaizumi, a onor del vero, non aveva mai visitato prima - era un must. Indicati come altri punti di possibile interesse, a scorrere lì sullo schermo del telefono, c'erano la baia del lago Shinji e le dune di un parco nazionale. Le uniche del Giappone, apparentemente. Alla fine si sarebbero fermati a Ine, un villaggio famoso per le case galleggianti in riva al mare. Iwaizumi non riusciva a immaginarsele viste dal vivo, avendole avute sotto gli occhi una o due volte e di sfuggita, in foto di guide turistiche. Non faticava a credere, però, che dovessero avere un loro perché.


Sospirò, impostando la sveglia e mettendo il telefono in carica. Ormai, anche volendo, non poteva comunque disdire all'ultimo e tutto sommato sembrava valerne la pena.


*


Se l'inizio della giornata era da considerare un segno sul tornare a dormire, Iwaizumi non aveva colto come avrebbe dovuto. D'altra parte farsi cadere di mano la fetta di toast - rigorosamente dal lato della marmellata, perché doveva essere una chiara legge universale - era per lui più motivo di un'imprecazione che non di superstizione.


Chiuse il bagagliaio, assicurandosi che fosse a posto, prima di muoversi verso il posto di guida vinto con un agguerrito scontro a sasso, carta, forbici. Gli organizzatori avevano appena finito di dare le ultime informazioni al suo compagno di viaggio per la prossima manciata di ore che, come lui, aveva passato anche i controlli - alfa, esattamente come dichiarato all'iscrizione e lo stesso si poteva dire per la sua identità e data di nascita. Quello che gli organizzatori non potevano immaginare era che Iwaizumi non aveva avuto bisogno dei loro controlli per sapere di avere davanti esattamente chi l'altro diceva di essere.


Oikawa Tooru era stato una presenza nei corridoi per tutti e tre gli anni del liceo, ma mai una nella sua classe. Iwaizumi lo conosceva perché non era letteralmente possibile essere uno studente della sua scuola e non sapere chi fosse Oikawa: perennemente in una relazione, un flirt su gambe, asso della squadra di pallavolo della scuola e forse uno degli alfa più ambiti della scuola. Il bastardo lo sapeva benissimo e non aveva mai fatto alcun mistero della cosa, né di certo gli era mai appartenuta la falsa modestia. Iwaizumi ci aveva parlato giusto un paio di volte, accompagnando Hanamaki a vedere le partite della squadra per via di Matsukawa, ma l'altro non aveva abbastanza tempo da perdere con le conversazioni con gente a cui non era interessato. Non che Hajime ci avesse perso il sonno, chiaro.


Era abbastanza certo che Oikawa non avesse la minima idea di chi lui fosse e andava bene così. Magari crescendo era migliorato. Forse sarebbe stato un viaggio inaspettatamente piacevole. Dopotutto--


«Aw, quindi ti chiami Iwaizumi Hajime! Bene, da adesso in poi sarai Iwa-chan!»


Dopotutto poteva ucciderlo nel sonno e abbandonarlo sul ciglio della strada, nessuno lo avrebbe mai saputo, giusto?


Nel dubbio, trovandosi ancora a portata di occhi e orecchie indiscreti, decide di non inveirgli contro minacciandolo di buttarlo giù dalla macchina alla prima curva dall'aria sufficientemente pericolosa; piuttosto sale sull'auto, chiude la portiera e proprio mentre Oikawa finisce di inserire le informazioni nel navigatore lui gli pianta una mano in faccia per allontanarlo con un burbero: «Fa già caldo abbastanza senza che mi aliti addosso mentre guido.»


Ottenne in cambio uno sguardo offeso e un «Sei violento, Iwa-chan!» che gli penetrò le orecchie.

Ebbe il sospetto che la strada fosse destinata a sembrare mille volte più lunga di quanto già non fosse e che quei trecentocinquanta chilometri sarebbero sembrati  miglia intere.


*

I primi trenta minuti di strada si erano rivelati a dir poco insopportabili: Oikawa non aveva smesso di parlare un secondo, facendo rivalutare a Hajime tutte le sue scelte di vita, compresa l'amicizia con Hanamaki al quale avrebbe imputato per tutto il resto della propria esistenza la decisione di affidarsi a una app per un esperimento del genere. Poco importava fosse stato il caso - o il karma, non poteva che essere quello - a farlo finire con Oikawa.


Il karma non poteva picchiarlo, Hanamaki sì.


Neanche il principio di foreste che era previsto avvistassero per prime lungo la strada aveva avuto il potere di zittire Oikawa. Avesse almeno cercato di fare attiva conversazione, Hajime ci avrebbe quantomeno provato. Invece era stato un monologo randomico, passando da un discorso all'altro senza che ce ne fosse anche soltanto uno interessante o che fosse pensato per essere un botta e risposta, uno scambio di qualche tipo. Hajime, nel sentirlo finalmente restare in silenzio dopo così tanto tempo, decise che non importava nemmeno troppo il motivo: ne era comunque grato.


Riuscì finalmente a rilassare la presa sul volante, che non si era nemmeno accorto di aver stretto così tanto fino a quel momento pur di scaricare il nervosismo, e a sospirare concedendosi un po' meno rigidità all'altezza delle spalle.


A giudicare da quanto riportato sull’itinerario, la prima area di sosta sarebbe stata molto più avanti, a metà tra la parte di foresta e costa e quella prima di raggiungere Izumo. Di norma il silenzio con uno sconosciuto in macchina poteva risultare pieno di quell’imbarazzo di quando non si sapeva cosa dire, ma Hajime non la considerava così male come situazione: in primis perché Oikawa gli aveva già fatto sanguinare le orecchie abbastanza, per i suoi gusti; secondo, perché doveva ammettere che il panorama già da ora sembrava valere la pena. Era bastato allontanarsi un poco dal punto di partenza, di sicuro studiato perché non si dovesse percorrere metà della strada prevista per cominciare all’effettivo a godersi quello che il tragitto studiato avrebbe dovuto permettere di ammirare. Come tutte le foreste e i luoghi affini, Hajime si accorse subito di due aspetti: il vento sembrava arrivare meglio, di certo aiutato dal loro percorrere la costa, e l’atmosfera era quella di un luogo lontano da qualsiasi fonte di stress il resto del mondo potesse subire.


«Bisogna dire che per essere un bel percorso da fare, lo è.» sentì pronunciare al proprio fianco, ma il tono di voce era così diverso da prima - e molto meno fastidioso, soprattutto - che Hajime impiegò un paio di secondi a realizzare che si trattava sempre di Oikawa e a ricordarsi di avere lui seduto sul sedile del passeggero. Gli dedicò un’occhiata laterale, breve, prima di tornare a fissare la strada davanti a sé. Si rese conto che quello doveva essere il massimo tentativo di conversazione che l’altro potesse offrire ora come ora.


«Di sicuro è studiato per andare bene sia a chi preferisce la parte della foresta, sia a chi apprezza stare vicino all’acqua.» osservò, maledicendosi nel rendersi conto di suonare più o meno come il presentatore del meteo o una guida turistica poco convinta. Si aspettava di sentire l’altro ridere o prenderlo in giro, ma Oikawa rimase in silenzio e si limitò ad abbassare un poco il finestrino mentre Hajime svoltava immettendosi nella strada che a quel punto e per un lunghissimo tratto avrebbe dovuto solo limitarsi a seguire ignorando qualsiasi svolta verso l’entroterra a giudicare da quanto il navigatore rimandava sul suo schermo. Quasi per dargli conferma, la voce pre-impostata iniziò a pronunciare un «Proseguire lungo il percorso…»


«Dovendo scegliere, la costa.» se ne uscì Oikawa, agganciandosi all’osservazione generica di Hajime. Non se l’aspettava, ma suppose fosse il massimo di input alla conversazione che potessero avere e decise che avrebbe almeno dimostrato di apprezzare lo sforzo: «Mh. Forse anche io.» soppesò la cosa, mantenendo comunque l’attenzione e lo sguardo davanti a sé sulla strada «Anche se non è una preferenza assoluta. Anche i sentieri di montagna in mezzo al bosco non sono male.»


«Ew, ma è pieno di schifezze. Scommetto che sei uno di quelli che poi trova accettabile fare la pipì dietro un cespuglio e dorme a terra come un sasso.»
«Sì chiama campeggio, Oikawa, non so se te lo hanno mai spiegato alle scuole elementari.» rimbeccò, pur dovendosi impegnare a nascondere un accenno di divertimento che altrimenti non avrebbe faticato a trasparire dal tono di voce.


«No, Iwa-chan, non hai capito.»
«Cosa non ho capito?»
«Dormi a terra… come un sasso…» ripeté Oikawa più lentamente e, approfittando di un momento in cui Hajime spostò lo sguardo su di lui, fece un movimento su e giù con le sopracciglia con l’espressione più stupida del creato. Gli ci volle qualche secondo per capire l’orrenda freddura di cui quell’imbecille andava tanto fiero al punto da ripeterla anche, per essere certo Hajime la cogliesse. 


«Ti meriteresti che andassi fuori strada, se solo conoscessi un modo per farlo senza finirci di mezzo anche io.» commentò aspro, smettendo di guardarlo e sentendolo esclamare subito un «Questa è cattiveria gratuita?!» che decise di ignorare.


*


A Iwaizumi non ci era voluto molto per capire l’arcano su cui non si era mai davvero soffermato durante il liceo, ossia cosa di Oikawa Tooru lo rendesse tanto popolare, al di là degli aspetti più superficiali. Hajime ricordava una sola volta in cui aveva pensato di trovarlo oggettivamente interessante ed era stato durante una delle partite della squadra a cui si era fatto trascinare da Hanamaki. Il fatto che Oikawa fosse un atleta di spicco, Hajime lo aveva notato senza difficoltà: lui aveva giocato a pallavolo solo durante le scuole medie, scegliendo di lasciar perdere e non proseguire al liceo se non di tanto in tanto per qualche partita amichevole con i ragazzi e gli adulti del quartiere. Nonostante questo non serviva essere un allenatore certificato per riconoscere non solo il valore di Tooru ma anche per rendersi conto di come fosse una spanna sopra tutti gli altri, a eccezione di Matsukawa che gli stava dietro senza eccessive difficoltà.


Eppure l’unico momento in cui Oikawa gli era sembrato qualcosa di più di un bravo atleta con un ego troppo grande, era stato quando lo aveva visto perdere. Non perché Hajime gli augurasse di fallire - la sua esistenza era di rilievo quanto lo era la propria per Tooru, ossia quasi per nulla - ma perché per la prima volta aveva visto sul suo viso un’espressione diversa dall’arroganza che sembrava tenersi addosso come un obbligo morale. Oikawa aveva mostrato di tenerci e di essere umano e Hajime aveva saputo apprezzarlo davvero in quell’occasione. Peccato si fosse rivelata estremamente rara, non si fosse ripetuta e avessero frequentato circoli talmente diversi che in ogni caso la situazione si sarebbe potuta presentare con molta difficoltà.


Ripensandoci adesso, costretti nella stessa macchina e superata ormai la prima ora e mezza di percorrenza, lo stesso sentore avuto anni fa in una palestra scolastica si era ripresentato: Oikawa Tooru aveva un suo perché e, incredibilmente, era capace di essere una compagnia piacevole se si sopportava il suo primo approccio - e non si macchiava la propria fedina penale arrendendosi al forte istinto di soffocarlo. 


«Ci fermiamo a Izumo, giusto Iwa-chan?»


O se si accettava di avere un nomignolo non richiesto come ineluttabile destino.


«Direi. Hai già visitato il santuario?»
«No, mai. Pensavo che magari potremmo allungare un po’?»
«Allungare tipo?» chiese, inarcando un sopracciglio e guardandolo di sottecchi per qualche istante. La strada si dispiegava ancora per un po’ davanti a loro e Hajime aveva concordato un cambio al volante proprio nel ripartire da Izumo. Non gli pesava guidare per un tratto in più, ma l’idea di fare una deviazione su un percorso ragionato e programmato era un’altra questione. Di contro, il punto del viaggiare con un’altra persona che in teoria non si conosceva - o come nel suo caso, si conosceva molto poco - era anche il compromesso e Hajime immaginava non sarebbe stato il massimo impuntarsi già ora con davanti a loro almeno altre sei ore di viaggio. 


«Tipo parcheggiamo, andiamo a visitare il santuario, mangiamo qualcosa e magari ce la portiamo dietro. C’è la spiaggia a pochi minuti di macchina, quanto potrà mai essere a piedi?» propose Oikawa e Hajime dovette ammettere che non era poi un’idea così malvagia. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e il tempo era buono. Allungare un po’ la strada non era così tragico, specie visto che non sembrava essere una grande deviazione e non c’era nulla di male né era vietato dalle regole dell’organizzazione di on the road


«Va bene.» replicò quindi, semplicemente. Con la coda dell’occhio vide Oikawa voltarsi incredulo verso di lui con un: «Ma dai? Ti ho già convinto?!» e, dovette ammetterlo, non poté fare molto per mascherare lo sbuffo divertito che gli sfuggì tra le labbra. 


*


Il santuario di Izumo si era rivelato essere il tipo di posto capace di zittire anche una persona come Oikawa e di renderlo la rappresentazione del tipico giapponese: all'occhio di un qualsiasi turista i santuari dovevano sembrare tutti piuttosto simili, eppure riuscivano comunque ad avere un fascino tutto loro. Per lui, Hajime, averne visto uno non significava automaticamente averli visti tutti; tuttavia, anche quando andava sempre allo stesso per la visita del nuovo anno, non riusciva comunque a non avvertire quel qualcosa nell'atmosfera generale. Il santuario di Izumo gli faceva lo stesso effetto e fu strano condividerlo proprio con Oikawa, ma si presero il loro tempo anche separandosi a un certo punto.

Una volta riuniti, non era stato così difficile trovare dove recuperare qualcosa da mangiare e dal momento che la strada fino alla spiaggia Inasa era piuttosto semplice da percorrere anche a piedi e ben divisa dal tratto percorribile dalle macchine, si mossero fino a lì assecondando la richiesta dello stesso Tooru.


Il bel tempo si rifletteva anche nel mare e nel suo essere una tavola calma e piatta. La brezza era piacevole, ma non forte abbastanza da rendere il loro pranzo immangiabile a causa della sabbia. Tooru aveva insistito per piazzarsi, contrariamente a quanto Hajime avrebbe scommesso, in un punto da cui guardando verso l'orizzonte il mare sembrasse spezzato a metà dal grande scoglio caratteristico della spiaggia. All'inizio non aveva trovato un grande senso nella cosa, ma non se ne era fatto davvero un problema, limitandosi a sedersi sulla sabbia e provando a guardare nella sua stessa direzione per capire cosa ci trovasse.


Aveva quasi finito di mangiare il secondo onigiri quando la voce di Oikawa ruppe il silenzio.


«Una volta ho visto una foto di questo posto, credo fosse stata scattata all'alba.» iniziò a raccontargli un po' dal nulla, con nella mano ancora una polpetta di riso anche lui. Gli occhi erano verso l'orizzonte, l'espressione rilassata come chi osserva un panorama conosciuto a memoria che ormai si guarda per lo più per nostalgia e non per la curiosità di qualcosa di nuovo da fissare nei propri ricordi. Hajime non fece domande, perché aveva la sensazione che a Oikawa non servisse essere incalzato - o forse avrebbe avuto persino l'effetto contrario. Non gli aveva mai dato l'idea di un ragazzo particolarmente serio, ma Hajime non dimenticava il fatto di star parlando dell'Oikawa adolescente che apparteneva al suo ricordo altrettanto adolescente.


Per quanto la base di un carattere fosse sempre la stessa e magari non sarebbero stati i migliori amici né allora né adesso né mai, non significava che non avesse il suo bagaglio personale fatto di esperienze e che fosse quindi anche molto diverso da come Hajime lo ricordava.


«Sembrava diviso a metà. Quasi avessero preso due foto diverse, fatte in momenti differenti per poi metterle solo una vicina all'altra. Quel lato» e indicò sulla sinistra «era più sull'azzurro. L'altro» e indicò alla propria destra «era al tramonto, credo. Era incredibile.» lo sentì mormorare, come se fosse un qualche tipo di segreto da rivelare a pochi eletti. Hajime non riusciva a immaginarsi quel gioco di colori senza vederselo davanti agli occhi, ma guardando Oikawa e ascoltando il modo in cui ne parlava ebbe la sensazione che forse anche lui a un certo punto di fosse sentito spaccato a metà.


Ricordandolo nella sua arroganza di adolescente, Hajime si chiese quando gli fosse successo.


Ricordandolo in quella sua esistenza perfetta agli occhi di un'intera scuola, si chiese perché.


*


La strada dal santuario di Izumo alla città di Matsue aveva un tempo di percorrenza, a giudicare da quanto segnato sul navigatore della macchina, di poco meno di un’ora. Lui e Oikawa si erano presi il giusto tempo, una volta mangiato, di fare una passeggiata - o meglio, l’altro aveva insistito per mettere i piedi in acqua nonostante non fossero ancora temperature così calde da giustificarlo. Hajime aveva passato il tempo solo a guardarlo, all’inizio, non avendo poi tutta questa voglia di passare il tempo a togliersi la sabbia da in mezzo alle dita dei piedi. In un primo momento Oikawa aveva semplicemente tolto le scarpe lasciandole lì vicino a lui, i calzini infilati alla meno peggio nelle stesse e aveva arrotolato un poco le gambe dei pantaloni per muoversi verso il bagnasciuga. Poco era importato che l’acqua fosse calda, gelida o tiepida perché Oikawa non si era fermato né aveva rallentato il passo: aveva semplicemente immerso i piedi e poi fatto quei due, tre passetti tipici di quando il freddo arriva tutto insieme e si rimpiangono le proprie scelte.


Poi si era messo a ridere come un ragazzino, continuando a dire «E’ freddissima, Iwa-chan!» come se lui dovesse farci qualcosa e, al tempo stesso, senza davvero uscire dall’acqua nonostante sarebbe stata l’unica cosa logica da fare. 


Alla fine dopo una decina di minuti si era arreso a tornare verso di lui, avevano aspettato che la sabbia sui piedi fosse asciutta abbastanza da essere tolta alla meno peggio per poter indossare le scarpe e si erano rimessi in macchina con Oikawa alla guida. 


Hajime iniziava giusto a sentire, dopo ormai un quarto d’ora di percorso, un po’ di sonno arrivare - non così strano considerando quanto presto si fosse svegliato per raggiungere il punto di partenza di quell’itinerario - quando la voce di Oikawa quasi sembrò richiamarlo all’ordine.


«Mi ricordo di averti visto, una volta, a una delle partite della scuola.» se ne uscì l’ex pallavolista, con il tono leggero di chi faceva conversazione sui pochi argomenti comuni che era riuscito a individuare. Hajime annuì, dimentico di come l’altro avesse giustamente gli occhi sulla strada: «Accompagnavo Hanamaki a fare il tifo per Matsukawa.»


«Ah, Mattsun, ma certo!» esclamò Oikawa, contento «Mi ricordo che aveva iniziato tipo a frequentarsi da poco, lui e Makki, sì? Non molto seriamente, nel senso, non erano proprio una coppia fissa o sì?» chiese, dubbioso. Non gliene fece una colpa, dopotutto era stato tutto abbastanza fumoso per fin troppo tempo anche per gli amici più stretti e non aveva idea di quale tipo di rapporto avessero all’epoca Oikawa e Matsukawa. Anche ai tempi del liceo non è che Hajime avesse sentito quest’ultimo parlarne più di tanto, se non quando accennava a qualche aneddoto di squadra. 


«Non credo lo fossero, allora, no.» ammise, solo per sentire Oikawa esclamare immediatamente: «Adesso sì?!»


Fu più forte di Hajime: si ritrovò semplicemente a guardare il viso di Oikawa e poi a scoppiare a ridere, non così sguaiato, ma senza dubbio divertito dalla reazione. 


«Lo dici come se avessi aspettato per anni di sapere se la tua coppia preferita era vera oppure no!»
«Stai scherzando?! Tutto lo spogliatoio aveva scommesso! Beh, tranne Mattsun ovviamente. Se lo avesse saputo non penso l’avrebbe presa bene, anche se io sono sicuro lo sapesse e lo stronzo lo abbia fatto di proposito a non dirci nulla fino al diploma.» disse con un broncio evidente, mostrato senza alcuna vergogna. 


«Considerando Matsukawa, non mi stupirebbe per niente.» ammise con un sorrisetto «Ma non credo siano diventati ufficiali così facilmente come credi. A loro modo avevano dei tempi discutibili e abbastanza diversi dalle altre coppie che avevamo al liceo.» la buttò lì, perché alla fine Hajime non era mai stato il tipo da impicciarsi degli affari degli altri. Se Matsukawa e Hanamaki fossero andati a chiedergli di parlare, non si sarebbe sottratto, certo. Da lì ad andare a chiedere di sua volontà, però, c’erano centinaia di altre possibilità nel mezzo e non per disinteresse, ma per rispetto della loro privacy. Hajime era più tipo da vegliare sugli amici da lontano.


«Coppia difficile, mh?» fece eco Oikawa, rallentando un poco per adocchiare meglio il navigatore e assicurarsi di star prendendo la svolta giusta. Non lo diceva però con un tono ironico né derisorio, anzi, sembrava a suo modo star accarezzando un ricordo o un concetto a cui era particolarmente affezionato: «Comunque» riprese come se fosse stata una parentesi di distrazione gradita ma che non voleva rendere il focus della conversazione «mi ricordo di te quella volta sugli spalti in alto.»


Hajime lo osservò in maniera più diretta, non riuscendo a indovinare in quale direzione dovesse andare quella chiacchierata.


«Anche io me lo ricordo. Non che ne abbia viste abbastanza da confonderle.» aggiunse con onestà, sentendo Oikawa sbuffare divertito «Sono sicuro che te la ricordi per i motivi sbagliati.»
«Tipo tu che piangi disperato per la sconfitta?»
«Che stronzo! Non piangevo disperato!» rimbeccò Oikawa, staccando una mano dal volante e allungandola abbastanza da dargli una leggera spinta. C’era una complicità strana in quel momento tra loro, quella che Hajime immaginava ci sarebbe stata con più naturalezza se avessero avuto tempo di instaurare un certo tipo di rapporto negli anni, magari proprio con Matsukawa e Hanamaki a fare da collante. Non era comunque spiacevole come se la sarebbe aspettata all’inizio di quel viaggio, quello doveva ammetterlo.


«Non era comunque male.» gli fece presente, a lasciar intendere che piangere come un disperato non dovesse essere necessariamente considerato un suo pungolarlo su qualcosa di cui vergognarsi. Vide Oikawa assumere un’espressione poco convinta, lasciando poi che il broncio scivolasse via, il suo posto preso da un fare più serio e assorto. 


«A nessuno piace perdere.» disse alla fine Oikawa, quasi avesse impiegato tutto quel tempo a elaborare una spiegazione che nessuno gli aveva chiesto e che di certo Hajime non pretendeva da lui a quanto, dieci anni dall’accaduto? Non sapeva bene come rispondergli, a essere sincero: supponeva che il problema principale, in effetti, potesse essere che in quanto Alfa Oikawa non doveva essere stato granché abituato a non raggiungere certi risultati. Non aveva nessuna idea di come fosse il suo ambiente famigliare, quindi erano tutte supposizioni a cui non se la sentiva di dare voce, perché quello era uno dei modi migliori di fare figure pessime e di toccare senza volerlo dei tasti a dir poco dolenti. Alla fine, quindi, non poteva fare altro che annuire senza sbilanciarsi davvero, eppure quello ebbe il potere di far sbuffare divertito l’altro.

«Non volevo un discorso motivazionale da parte tua, smettila di pensare a qualcosa da dire, ti vengono le rughe!» lo sentì prenderlo in giro e stava anche per rispondergli a tono quando notò che il suo viso si illuminava e lo sguardo si faceva più vispo «Guarda, Iwa-chan!» esclamò infatti, indicando davanti a sé. La strada che avevano percorso fino a quel momento faceva una curva leggera oltre la quale all’improvviso, neanche il tragitto stesso l’avesse tenuto nascosto fino ad allora per permettere un certo effetto sorpresa, la baia del lago Shinji diventava visibile. 


Hajime sentì la macchina rallentare un poco e suppose fosse perché Oikawa voleva nel suo piccolo impedire al panorama di sfrecciare troppo velocemente. L’ideale sarebbe stato fermarsi di nuovo, era vero, ma avevano fatto pausa nemmeno un’ora fa e se avessero continuato a fare soste, avrebbero allungato inverosimilmente il percorso. Raggiunta la città di Matsue, infatti, avrebbero avuto come tappa seguente di interesse il parco nazionale di San’in Kaigan che distava altre due ore. Da lì, si supponeva che l’ideale potesse essere fare quindi tutto l’ultimo pezzo senza ulteriore fermate fino ad arrivare alla città di Ine. Da lì avrebbero deciso se prenderla con calma e partire direttamente il giorno dopo - opzione consigliata dagli organizzatori di On the road, quantomeno per una questione di sicurezza alla guida - o fare una vera e propria traversata al contrario con come unica possibilità il guidare di notte.


Per quanto lo riguardava, preferiva di certo stare tranquillo sull’essere riposato mentre era alla guida, specialmente se portava un passeggero con sé. Immaginava che anche Oikawa non avesse reali motivi per decidere diversamente, per quanto non ne avesse una reale certezza. Vedendo però come aveva rallentato per godersi il panorama e considerato anche quale esperienza particolare fosse quella che stavano facendo… 


«Perché non facciamo sosta a Matsue?» la buttò lì, osservandolo. Le sue parole sembrarono far tornare Oikawa più presente e fargli perdere un pizzico dell’interesse che aveva per il paesaggio lacustre, catapultandolo tutto su Hajime stesso.


«…Finiremmo per allungare un po’, però.» gli fece notare Oikawa, come se non fosse sicuro che Hajime lo avesse preso in considerazione e al tempo stesso volesse assicurarsi di non vederselo rinfacciare poi «Pensavo fossi più tipo da attenerti al piano e al percorso.»
«Nemmeno abbiamo delle vere indicazioni, addirittura consigliano di pernottare anziché tornare indietro direttamente rischiando di guidare di notte. Oltretutto ci siamo fermati per uno spuntino e se andiamo ancora dritti dopo Matsue, finiamo di sicuro per trovare l’altro stop oltre l’ora di pranzo o di doverci fermare dove non era neanche previsto. Non che comunque ci rimproverebbe nessuno.» sottolineò Hajime per cui, davvero, non era questo grande dramma il doversi fermare in più. Era un’esperienza ma soprattutto per lui era anche uno stacco dalla vita di tutti i giorni, viverlo con l’ansia di dover rispettare chissà quali orari quando non gli erano stati imposti, non lo trovava così piacevole. 


Oikawa sembrava combattuto. Hajime non riusciva davvero a ipotizzare perché e chiederlo, sospettava, non sarebbe davvero servito. 


«Però voglio mangiare granchio a pranzo.» se ne uscì.

«Ma siamo al lago.»
«E quindi? Io voglio il granchio!» proseguì infantile, ma Hajime si limitò a sospirare e scuotere la testa, impegnandosi a sembrare più rassegnato di quanto fosse davvero.


*


Alla fine fermarsi a Matsue si era rivelata una scelta giusta. Hajime si era informato un poco sui vari itinerari e cosa potessero offrire, certo, ma non aveva fatto lo stesso livello di ricerche di quando era lui a organizzare per sé qualche viaggio anche solo fuori porta. Così pur avendo sentito parlare più volte di come Matsue fosse considerata una “città sull’acqua”, non ricordava di preciso quanto fosse consigliato lo spostamento in barca. Un’esperienza che si sarebbe di sicuro perso se non fosse stato per Oikawa che lo aveva trascinato subito dopo il pranzo, a suon di «Eddai, Iwa-chan, non puoi perdere l’occasione!»


Il modo in cui le imbarcazioni adatte a muoversi per i canali della città scivolavano sulla superficie dell’acqua era quasi strano, dopo ore sulla strada e con la macchina come mezzo. C’era qualcosa di calmante nel lieve sciabordio dell’acqua, nei versi di uccelli che sembravano chissà quanto lontani quasi a portare i loro suoni fossero più che altro le loro eco. I canali offrivano la possibilità di guardarsi intorno e individuare tanto verde quanto gli scorci del quartiere dei samurai. L’uomo che guidava la loro imbarcazione dava loro le spalle, lì sulla prua, in un placido silenzio che per lui doveva probabilmente sapere di quotidianità. Sotto la parte coperta, a una distanza di oltre la metà dell’intera lunghezza dell’imbarcazione, Hajime e Oikawa sedevano ai due lati opposti così che entrambi potessero anche godersi la vista o sporgersi appena. Hajime pensava non avrebbero scambiato molte parole e gli andava bene così, dopotutto; si stupì un po’ quindi, quando la voce dell’altro lo raggiunse. 


«Perché non hai mai partecipato a un club sportivo? Mattsun diceva che eri una delle persone più diligenti che conosceva e che andavi a correre tutte le mattine anche se poi non eri parte di una squadra. Diceva anche che saresti stato un compagno con cui si sarebbe divertito a giocare e Mattsun non lo diceva spesso degli altri.» pronunciò Oikawa e quando Hajime si voltò a cercare il suo sguardo lo trovò ancora insistentemente rivolto all’acqua. Era un argomento così randomico rispetto a quello che stavano facendo che Hajime per qualche istante non seppe bene cosa rispondere, ma solo perché non capiva se ci fosse qualcosa di più preciso che avrebbe dovuto cogliere oppure no. 


Alla fine rinunciò a trovare per forza un senso.


«Penso sia molto più semplice di quello che stai pensando.» gli disse con un'alzata di spalle «Mi piace fare attività fisica quanto mi piaceva allora, solo non al punto da far parte di un club. Non nego che ci fosse una bella atmosfera nella vostra squadra e l'ho notato, quando sono venuto a vedervi ma penso non fosse del tutto per me.» aggiunse, senza darvi troppo peso. Dopotutto non c'era chissà quale motivazione drammatica dietro la sua scelta, nessun trauma o vecchio infortunio; era solo stata una scelta come tante altre. Oikawa doveva essere abbastanza convinto dalla sua risposta, considerato come non sembrasse particolarmente turbato dalla risposta. O almeno, considerato come ancora non aveva neanche postato lo sguardo dall'acqua, doveva non esserci nulla nella sua risposta ad aver destato la sua attenzione.


Di nuovo, però, proprio quando si era convinto che non sarebbe seguito molto altro, Oikawa ruppe il silenzio rifilandogli un «E' un peccato.»


Toccò a lui, Hajime, guardarlo con più attenzione ora. C'era qualcosa di quasi malinconico nel modo in cui parlava, ma ai suoi occhi quasi non aveva senso: non c'erano cose non dette tra loro, non c'erano rapporti del passato che si erano chiusi male o con grandi litigi. Lui e Oikawa erano state due linee rette che si erano mosse per tre anni negli stessi spazi senza incrociarsi mai davvero eppure l'altro parlava di quell'assenza di Hajime nella sua squadra come se lui li avesse abbandonati a metà campionato. Non riusciva a comprendere che tipo di sentimento animasse Oikawa nel parlare a quel modo, quale flusso di pensieri stesse seguendo. Nemmeno Hanamaki o Matsukawa ai tempi gli avevano mai parlato di Oikawa come di qualcuno che potesse avere qualche tipo di interesse nel conoscerlo o verso di lui come persona in generale, eppure eccolo lì l'ex capitano della squadra di pallavolo del liceo: a parlargli come se dovessero analizzare, lì e ora, tutto quello che sarebbero potuti essere e non erano stati. L'equivalente di due amanti con un destino avverso, non fosse stato che Hajime in quanto Beta sarebbe stato difficilmente nelle mire di un Alfa.


«Non capisco cosa ti passa per la testa al momento.» disse, perché tanto da ragazzo quanto ora non era mai stato troppo famoso per avere del tatto o per il suo girare intorno alle questioni - non feriva volutamente le persone e anzi, a modo suo cercava di non toccare tasti dolenti volutamente o altro del genere. Tuttavia, non era il tipo di persona paziente abbastanza da tollerare a lungo un continuo girare intorno a una questione senza che nessuno degli interlocutori si decidesse prima o poi ad affrontarla di petto.


Di solito quell'interlocutore era lui.


«Ne parli come se ci fosse altro e stessi aspettando il mio arrivarci da solo per continuare il discorso. Se devi dirmi qualcosa, dimmela e basta?» lo incalzò, cercando comunque per quanto possibile di non suonare troppo brusco. Vide Oikawa cambiare un minimo espressione per la prima volta - stringere gli occhi, arricciare appena le labbra infastidito, stringersi inconsciamente nelle spalle sebbene in maniera quasi impercettibile. Agli occhi di Hajime appariva come qualcuno che non era stato ancora ferito ma che doveva aver sentito il colpo arrivare troppo vicino alla parte che cercava di proteggere per essere a suo agio o per dissimularlo abbastanza bene. A quel punto Hajime aveva due opzioni: lasciar cadere il discorso, supponendo che Oikawa avrebbe fatto lo stesso, oppure continuare a pungolare fino a quando non sarebbe riuscito a scoperchiare il metaforico contenitore che sembrava essere la psiche di Oikawa.


«Non c'è niente da dire in particolare, era solo un'osservazione.»

«O forse continuare a parlarne ci porterebbe al punto in cui dovresti spiegarmi troppo? Sei il tipo che scava finché si tratta degli altri e poi quando si tratta di te, si può cambiare argomento?» incalzò Hajime, senza sapere davvero perché - non aveva nessun motivo in particolare per litigare ed era ben consapevole di come le parole appena pronunciate fossero in tutto e per tutto una provocazione che era difficile non sfociasse in una discussione quantomeno dai toni aspri.


Si sarebbe aspettato uno sbottare di qualche tipo, infantile come Oikawa poteva essere per quelle che percepiva come offese leggere oppure qualche approccio più duro nel caso si fosse sentito offeso sul serio. Hajime aveva dimenticato un dettaglio che, sebbene ne fosse a conoscenza, non emergeva così tanto come si era sempre immaginato potesse fare nella vita di tutti i giorni o come gli sembrava di ricordare succedesse invece ai tempi della scuola: Oikawa Tooru era un Alfa. All'epoca bastava guardarlo sul campo da gioco per rendersene conto. Con un solo sguardo diventava lampante quanto fosse sicuro di sé in quanto giocatore, padrone di un campo che sembrava essere stato costruito su misura per lui e per sottostare al suo regno incontrastato, alle sue regole. Oltre a quello, però, si vedeva anche la sicurezza che non aveva a che fare con le doti sportive, ma con un qualcosa che era radicato nell'indole, nella personalità. Ogni Alfa poteva essere diverso e Hajime non aveva mai creduto nel fatto che il secondo genere di una persona definisse quest'ultima in tutto e per tutto. Aveva avuto modo di conoscere Omega caparbi e ambiziosi, così come Alfa piuttosto placidi e non poi così tendenti al risultato; anche in quei casi, tuttavia, avevano una sicurezza difficile da attribuire a chiunque altro, qualcosa che più che caratterizzarli sembravano proprio emanare di per sé.


In quel momento, guardandolo quasi come se lo stesse sfidando a osare andare oltre con quello che stava dicendo, Oikawa faceva esattamente quello: emanava la sicurezza quasi arrogante di chi si sarebbe sempre sentito superiore, anche solo a livello inconscio.


«Se anche fosse?» ribatté Oikawa, le labbra incurvate in un sorriso sghembo «Non pensare di poter nemmeno riuscire a reggere cosa troveresti sotto il coperchio, Iwa-chan. Uno come te non riuscirebbe nemmeno a immaginarselo.» pronunciò, condiscendente. Già solo quello irritò Hajime più di qualsiasi altra cosa.


«Ah? Che dovrebbe significare?»

«Restate nella tua bolla felice di persona che non ha aspettative. Non è colpa tua» continuò Oikawa, apparendo ora quasi annoiato «sei solo un Beta.»


Hajime si rese conto a malapena di essersi alzato - facendo anche oscillare l'imbarcazione con quel movimento - e di averlo preso per il bavero della maglia che indossava, se non quando ormai il suo viso era pericolosamente vicino a quello altrui. Persino l'uomo che fino a quel momento era rimasto tranquillo a guidare l'imbarcazione per il percorso previsto si assestò per riprendere l'equilibrio e si voltò a guardarli, provando a richiamarli e a consigliar loro di sedersi. Hajime, però, non mosse un muscolo: rimase lì, con la stoffa tra le mani e gli occhi puntati in quelli di Oikawa. Questi sembrava per nulla impressionato dalla reazione, quasi annoiato da qualcosa di incredibilmente prevedibile che gli era successa così tante volte da non essere più nemmeno troppo degna della sua attenzione.


Rimasero entrambi fermi e in silenzio per qualche secondo. Quando Hajime lo vide in procinto di dire qualcosa, forse per uscire da quella situazione di stallo, lo lasciò andare prima che potesse farlo. Con poca delicatezza, certo, ma senza neanche rifilargli un pugno in faccia dopotutto. Oikawa sembrava un po' aspettarselo, un po' esserne sorpreso e Hajime si accorse - anche quando smise di guardarlo - di essere seguito dallo sguardo altrui nel suo sedersi di nuovo.


Sapeva che all'altro non doveva nemmeno interessare molto e che con ogni probabilità altri dovevano avergli detto qualcosa sulla falsa riga di un «Sei come tutti gli altri Alfa» o «Mi aspettavo fossi meglio di così» ed era probabile che non ne sarebbe stato toccato dall'ennesima occasione in cui gli venivano rivolte frasi di quel genere. D'altronde, perché mai gli sarebbe dovuto interessare? Senza contare quanto stupido sarebbe suonato dirgli di avere aspettative su di lui perché, a ruoli inversi, come prima cosa Hajime si sarebbe chiesto: e perché mai? Ci conosciamo abbastanza perché tu possa aspettarti qualcosa di così specifico da me?


Prima ancora che Oikawa potesse aggiungere altro, Hajime gli piantò addosso lo sguardo senza nemmeno preoccuparsi di far trasparire un sentimento piuttosto che un altro; semplicemente lo guardò per una manciata di secondi prima di sospirare: «Che tristezza.»


Si accorse con la coda dell'occhio dell'espressione che si dipinse sul viso di Oikawa ma decise, non senza una certa dose di testardaggine, che non gli sarebbe importato.


Neanche di averlo - forse - volutamente ferito.


*


Rimettersi in macchina e raggiungere il parco nazionale di San'in Kaigan era stato un supplizio, ma raggiungere il parco nazionale di per sé aveva permesso loro di dividersi e visitarlo così ognuno per proprio conto. Si erano solo dati appuntamento per evitare di aspettarsi troppo a lungo a vicenda, trattandosi di percorsi diversi, per poi ritrovarsi e ripartire senza perdere troppo tempo a cercarsi. Del tempo da solo era stato decisamente d'aiuto, per quanto fosse chiaro ormai che l'umore non sarebbe mai tornato dei migliori e l'esperienza ne sarebbe stata senza dubbio influenzata.


Una volta in partenza dal parco nazionale, era stato di nuovo tempo di fare a cambio per la guida e Hajime era stato contento toccasse a lui: tenere le mani sul volante e l'attenzione sulla strada e sul navigatore lo avevano aiutato a concentrarsi su altro. Aveva lasciato che Oikawa gestisse la musica tramite la radio, senza lamentarsi né delle canzoni su cui si soffermava né delle stazioni radiofoniche, lasciando che per lui diventassero più un rumore di sottofondo sufficiente a riempire un silenzio teso che non avrebbe aiutato nessuno di loro due. Anche quando il tragitto fino alla meta, ossia la città di Ine dove avrebbero pernottato, era di due ore e mezza e a tratti era sembrato interminabile.


Hajime aveva cercato di godersi comunque il panorama, ma non era stata la stessa cosa, quando in uno spazio ristretto aveva a pochissima distanza una persona il cui umore era quasi peggiore del suo. O molto simile.


Raggiungere Ine fu una benedizione e Hajime fu contento e al tempo stesso maledisse se stesso per aver prenotato per comodità e per disponibilità un'unica stanza con letti singoli. Era un bene perché rischiare di dover cercare qualcosa sul momento quando la stanchezza di una giornata in macchina si stava facendo sentire sarebbe stato l'ennesimo peso, ma d'altra parte non erano nelle condizioni migliori per godersi una camera in comune.


Hajime si preoccupò di parcheggiare nel posto privato e che aveva prenotato insieme alla stanza, facendo poi il giro per aprire il bagagliaio e tirarne fuori il proprio borsone. Durante la mattina non ci aveva fatto caso, preso da altro, o forse a ben pensarci non aveva visto l'altro posare le sue cose... ma si rese conto, ora, che il borsone in cui Oikawa aveva portato i suoi effetti personali era quello del team di pallavolo del liceo. L'altro lo recuperò con un movimento meccanico, mettendoselo in spalla e iniziando ad avviarsi verso l'ingresso senza dire una parola. Hajime fece lo stesso col proprio, uno classico da palestra nero e senza alcun logo particolare, assicurandosi di chiudere la macchina prima di dirigersi all'ingresso. Oikawa aveva solo varcato la soglia ma non si era diretto alla reception, forse perché in effetti la prenotazione era a nome di Hajime.


Sbrigarono in poco le formalità del caso, ottenendo la chiave in doppia copia per potersi muovere autonomamente dentro e fuori dalla camera. Questa era spaziosa il necessario a ospitare un'area che vedeva dritto per dritto rispetto alla porta d'ingressa un tavolino basso e delle sedie vicine, mentre il lato destro della stanza era del tutto occupato da una parte rialzata adibita a ospitare i due letti singoli richiesti. Sulla sinistra si apriva una piccola porta che portava al bagno con tutto il necessario e, poco più avanti di quella, una cabina armadio essenziale ma che una volta aperta guadagnava spazio in profondità. Oltre il tavolino e le sedie, invece, c'era il pezzo forte della stanza: una finestra per far filtrare più luce naturale possibile - sebbene ora visto l'orario sarebbe stata sfruttabile ancora per poco - e una porta-finestra che dava su un terrazzino sviluppato in orizzontale e in cui non c'era modo di aggiungere molto altro oltre delle sedie da esterno. A mozzare il fiato, però, era la vista: dava direttamente sull'oceano e, guardando leggermente in basso sporgendosi il minimo necessario, si potevano vedere le funaya. Erano letteralmente case sull'acqua, di cui Hajime aveva visto delle foto e di cui naturalmente conosceva l'esistenza, ma ora sporgendosi ebbe la conferma che le foto non rendevano affatto giustizia allo spettacolo che si dimostravano essere dal vivo.


«Posso usare il bagno?» sentì chiedere a Oikawa dietro di lui, voltandosi a cercarne la figura. Lo vide vicino a uno dei letti, col borsone poggiato ai piedi di uno di essi, intento a tirarne fuori un cambio di vestiti.


«Sì, io vado dopo.» replicò, vedendolo annuire appena prima di recuperare quanto tirato fuori dalla borsa e dirigersi al bagno, chiudendosi la porta alle spalle; tempo qualche secondo e il rumore della doccia gli diede un segno inequivocabile del fatto che per almeno quindici minuti sarebbe rimasto da solo nella stanza. Considerato come Oikawa era stato quello che aveva insistito per fermarsi alla spiaggia, per infilare i piedi nell'acqua nonostante fosse fredda e tutto il resto che aveva avuto modo di vedere di lui in quel viaggio... si sarebbe aspettato di vederlo uscire in balcone per primo. Non aveva abbastanza elementi per capire se fosse un atteggiamento normale o se fosse da imputare alla discussione che avevano avuto, per quanto a Hajime sembrava piuttosto ovvio.


Sapeva solo che rendeva tutto così complicato da essere irritante - soprattutto perché una parte di lui sapeva di non essere stato del tutto corretto e di aver colpito volutamente dove sapeva avrebbe fatto effetto, ma dall'altra Oikawa non ci era di certo andato più leggero.


Si trattava di capire solo quanto avesse senso mantenere il punto, a discapito del resto, e quanto invece fosse perfettamente inutile.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: originale

Warnings: //


Non c'è una sola volta in cui ricordi di aver temuto il proprio potere di fermare il tempo o che non si sia fidato delle proprie capacità e della portata dell'abilità stessa. Eppure ora, mentre guarda l'edificio del suo gruppo in fiamme, per un istante Tatsuya non sa cosa fare.


Potrebbe fermare il tempo, ma fermerebbe anche le fiamme. 

Potrebbe farlo tornare indietro, sarebbe abbastanza per evitarlo prima che accada?

Ci sono così tante possibilità quando si può piegare una cosa enorme come il tempo eppure lui è lì, come il più piccolo degli esseri umani, inerme e solo.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Kiss my boyfriend

Missione: M2 (week 5)
Parole: 789
Rating: teen up
Fandom: Uraboku

Warnings: //




Una cosa che hanno sempre rimproverato a Senshiro, per quanto non ci abbia mai dato alcun peso, è quanto tenda a viziare Hokuto. Ogni volta che glielo fanno notare, lui non riesce a far altro che abbozzare un sorrisetto di scuse o a sbuffare una risata leggera, di chi non se ne preoccupa troppo perché forse di partenza non vede cosa mai ci sia da preoccuparsi in merito alla cosa. Se glielo chiedessero in un momento in cui sente di voler condividere nel particolare la motivazione dietro il suo comportamento ma, soprattutto, se la persona in questione avesse la sua totale e completa fiducia, Senshiro gli spiegherebbe che la sua adorazione per Hokuto non è per certi versi poi così diversa da quella che ognuno di loro prova nei confronti di Yuki. La differenza è che per quest'ultimo, ad animarlo c'è un sentimento di devozione come quella che si potrebbe provare per un personale Dio benevolo; nei confronti di Yuki, Senshiro non ha mai provato alcun istinto se non quello forte e totalizzante della protezione, del pregare per la sua felicità come il più puro dei bambini farebbe in modo disinteressato solo perché vuole molto bene a qualcuno.


Hokuto è diverso. Hokuto è quella persona per cui Senshiro desidera la felicità e per cui sarebbe capace di macchiarsi le mani anche del sangue di innocenti se fosse necessario - non senza sacrificare se stesso, la propria indole e la propria morale né sperando poi di non vivere una vita di incubi, ma lo farebbe. A Hokuto concederebbe qualsiasi cosa perché nessuno lo ha fatto prima e perché se non lui, chi? Se non fosse nemmeno in grado di garantirgli qualche momento di pace, in quella vita e dopo tutto ciò che ha sofferto, come potrebbe considerarsi il suo partner? Per non parlare di come, a quel punto, non avrebbe diritto a nient'altro.


Senshiro è perfettamente consapevole che il suo modo di ragionare non sia poi così comprensibile per tutti o che addirittura forse potrebbe non esserlo per nessuno. Non proverebbe nemmeno a spiegare perché per lui abbia perfettamente senso la situazione in cui si trovano ora - lì, nell'intimità di una stanza, a osservare Hokuto tra le braccia di un altro uomo.


Hokuto, restio all'inizio per quell'imbarazzo e quella convinzione di non meritarsi nulla che gli hanno sempre impedito di godersi qualsiasi cosa - oltre ad aver fatto aspettare a Senshiro secoli prima di accettarlo come partner in ogni senso possibile - ha infine ceduto di fronte alla gentilezza e all'affetto sinceri di Tsukumo. E' tutta lì, la chiave: non concederebbe il proprio ragazzo a nessuno, se non l'altro Zweilt, perché consapevole di quanto i sentimenti di Tsukumo non vengano mai davvero macchiati dalla crudeltà o dalla falsità. Quel giovane, fin dalla prima volta, gli è sempre sembrato in un certo senso diverso dagli altri e con il tempo passato insieme ha compreso perché: il modo in cui Tsukumo ha sempre osservato in silenzio Hokuto, il modo disinteressato in cui gli ha mostrato gentilezza, sono sempre stati il riflesso di un affetto profondo che non ha pretese. Non che non ha desideri, semplicemente Tsukumo non ha mai preteso che Hokuto vi rispondesse. Questo, per Senshiro, è stato l'unica prova di cui aveva davvero bisogno per concedere a Tsukumo di tentare e a Hokuto di darsi la possibilità di accettare qualcosa di bello.


Osserva in silenzio e senza gelosia il modo in cui Tsukumo ha una mano posata contro il collo di Hokuto, in una carezza leggera ma presente, mentre le labbra sono sulle sue e si schiudono un poco; la lingua sfiora quelle di Hokuto che sembra tentennare un istante prima di socchiuderle appena, incerto, lasciando che quel bacio diventi più di un casto sfiorarsi di bocche. Tsukumo non è aggressivo, non è frettoloso: tratta Hokuto come il più fragile dei tesori, lo bacia con calma, lo stringe a sé abbastanza da farlo sentire amato ma non con la possessività di chi non accetta l'altro possa allontanarsi se e quando vuole.


Senshiro lascia che si prendano tutto il tempo del mondo per scoprirsi, per piacersi in quella veste che non si sono mai concessi - e forse non si sarebbero mai concessi se non li avesse messi nella condizione di farlo senza giudizio. Hokuto è il primo ad allontanarsi, Senshiro riconosce in un istante il principio della timidezza farsi spazio sul suo viso, lo ritrova facilmente nel modo in cui gli occhi di Hokuto cercano i suoi nella muta richiesta di dargli qualcosa che conosce meglio e che sopprima il crescente senso di colpa che intravede nelle iridi ambrate.


Sospira, si avvicina di più a loro sul quel letto dove sono solo seduti e accoglie Hokuto e il suo bacio perché non potrebbe fare altro, mai.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: originale

Warnings: //


Il lato negativo di avere un'abilità rara è non avere un predecessore che insegni quanto necessario. Poi c'è anche il non avere ability user di nessun tipo nei paraggi, se non il proprio più o meno migliore amico che è una merda peggiore di quanto potrebbe mai essere lui, Tatsuya.


Così, semplicemente, Jin continua a sfidarlo a fermare il tempo degli oggetti lanciati mentre sono ancora a mezz'aria, lì affacciati alla finestra.


«Che succede se mentre fermi il tempo di palpo il culo, Tatsu?»


Il poveretto a cui finisce in testa il suo succo di frutta non è divertito quanto Jin.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: originale

Warnings: //


La prima volta che Tatsuya capisce di avere un potere ha sei anni e la fantasia dei bambini, capaci di sognare di poter essere supereroi anche senza che qualcosa di genetico glielo permetta davvero.


E' nel giardino di una casa troppo grande e troppo vuota, arrabbiato con un padre assente e con ai propri piedi il vaso di un bonsai irreparabilmente rotto. Il suo è il desiderio infantile di far tornare tutto com'era prima, quello che gli adulti sostengono sempre sia impossibile - perché tutto ha delle conseguenze.


Eppure il Tempo si piega al suo desiderio e lui capisce: può controllarlo.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: originale

Warnings: //



A volte i modi di dire degli uomini mortali erano estremamente divertenti, non poteva far altro che pensarlo ogni volta che dal mondo mortale gli arrivavano queste o quelle voci. 


Lì, seduto sul trono, con vesti leggere perché dopotutto il tempo meteorologico era pur sempre suo fratello, il sovrano guardava di fronte a sé con aria divertita; il volto poggiato morbidamente sulla mano, il gomito sul bracciolo in oro massiccio.


«Sentito cos'hanno detto, fratello?» si rivolse proprio a Meteo, il cui sorriso più discreto era comunque divertito.


«Il Tempo è tiranno.» pronunciò, ghignando «Non hanno idea di quanto sia vero.»


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: //


Dazai non crede alle favole, alle cose poco concrete, alle fantasie. Non importa che viva in un mondo in cui esistono persone capaci delle cose più incredibili - controllare la gravità, vedere pochi secondi nel futuro o far galleggiare una balena nel cielo.


Eppure si è concesso un istante di debolezza, con un corpo ancora caldo tra le braccia e il desiderio infantile di una macchina del tempo che potesse permettergli di riavvolgere lo scorrere dei minuti, delle ore, degli anni abbastanza da salvare l'unica persona di cui il mondo (lui) non può fare a meno.


Ancora non se lo perdona.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: Genshin Impact

Warnings: //



C'è chi dice le fasi del lutto si affrontino tutte e poi, alla fine, si riesca a fare pace con se stessi e ciò che si ha intorno.


Diluc ha passato anni a cercare di elaborarle, fase dopo fase, ma non gli basterebbe tutto il tempo del mondo per farsene una ragione. Quel che c'è di peggio è che posare lo sguardo su Kaeya gli ricorda il passato, quanto abbia incrinato il presente e reso improbabile un futuro che prima sembrava normale; quando Kaeya lo bacia, invece, Diluc sente che il tempo potrebbe fermarsi ma, alla fine, questo non succede mai.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: Wind Breaker

Warnings: //



Sakura si è sentito ripetere mille volte "il tempo cura tutte le ferite" e fino a un certo punto ci ha persino creduto. Dopotutto, da bambini, il tempo sembra un concetto complicato e lunghissimo: lo si immagina come un saggio, vecchio signore che potrebbe fare qualsiasi cosa mentre benevolo osserva lo scorrere la vita degli altri.


Ora di tempo ne è passato a sufficienza - più di quanto Sakura consideri sopportabile - ma se le ferite di una rissa ci mettono pochi giorni a guarire, c'è qualcosa che ancora lo logora dentro e scava con violenza inaudita.


Quanto tempo è "abbastanza" per guarire del tutto?


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: Pandora Hearts

Warnings: //



Era davvero uno scherzo di cattivo gusto e figlio di sicuro di un individuo - o un'entità? - con un'ironia terribile, aver concepito come monito di un contratto illegale il tatuaggio di un orologio in cui le lancette nel loro avanzare segnavano un tempo inesorabilmente vicino alla fine.

Tic. Tac. Tic. Tac.

Più il disegno diventava completo e più la morte avanzava inesorabile.

Tic. Tac. Tic. Tac.

Quasi sembrava di sentirlo nelle orecchie, peggio di un ronzio, disturbante come solo gli orrori sapevano essere. Non c'erano suoni reali eppure, guardandosi allo specchio, l'orologio sembrava volergli dire: "Sto arrivando".


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: gen
Fandom: Genshin Impact

Warnings: //



Rex Lapis non ha mai davvero considerato nulla di diverso dall'essere una divinità. Pur osservando i mortali che abitano le sue terre, non ha mai sentito la mancanza di uno scorrere del tempo più impattante, né la necessità di avere un tempo definito per la propria esistenza per poter apprezzare le cose intorno a sé.


Forse è perché il tempo è un concetto a cui non ha mai davvero dato una reale forma - tranne quando, di tanto in tanto, Barbatos si presenta senza annunciarsi e si trattiene senza invito. In quelle occasioni, il tempo sembra incredibilmente troppo poco. Non sa perché.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tempo

Missione: M3 (week 5)
Parole: 100
Rating: teen up
Fandom: originale

Warnings: //


«Che tempo di merda!» sbotta Elias, scansando l'ennesima pozzanghera al contrario dello stronzo in auto che l'ha appena presa in pieno, alzando un mini tsunami che ha dovuto prendere quasi in pieno perché l'alternativa sarebbe stata prendere un palo di faccia.


Lo sguardo segue l'autista, che ha pure il coraggio di suonare il clacson come a dargli la colpa.


«SONO SUL CAZZO DI MARCIAPIEDE SPERO CHE QUESTO TEMPO DEL CAZZO TI FACCIA SCHIANTARE CONTRO UN ALBERO.» gli urla dietro, mentre l'acqua del diluvio universale in corso ormai gli ha fradiciato persino le mutande. Che odio.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Confused Lady

Missione: M2 (week 5)
Parole: 3298
Rating: gen
Fandom: originale

Warnings: solo il nonsense dell’annuale fic celebrativa di squadra.




Il covo degli Archivisti era un luogo su cui le dicerie erano tante quanti i loro archivi - e una delle leggende in questione, dopotutto, parlava proprio di questi ultimi: labirinti di scaffali, scaffali, scaffali... al punto tale che si diceva qualcuno si fosse perso nella profonda cultura che si respirava anche solo stando lì. La Storia, quella con la S maiuscola. E come le più Marzulliane domande... era forse l'attesa dell'archivio l'archivio stesso?


Eppure, c'erano anche voci sinistre su quel luogo. C'era chi avrebbe potuto giurare fosse in continua mutazione e a un certo punto le storie che si raccontavano su quel posto erano talmente tante che era divenuto impossibile distinguere la verità dalla menzogna. A onor del vero non si trattava sempre di elementi sinistri: per esempio c'erano Arricciaspi-- Arrostici-- Arciaruspici tra cui serpeggiavano ricordi di corgi dalle corte zampe ma dal grande cuore. Corgi coraggiosi, partiti per un road trip che li aveva portati ai confini del mondo (o alla fine di una storia, nessuno ormai lo sapeva più con certezza). Testimonianze ormai perdute nel tempo, senza che nemmeno un Archivista (o quasi) potesse più risalire a quelle fonti, riportavano di mucche bionde la cui capigliatura al vento avrebbe rappresentato un segnale di buon auspicio.


Tuttavia, c'erano anche infausti episodi indissolubilmente legati a queste figure. La piccola Rya non ne aveva sentite molte fino ad allora, specialmente quando aveva firmato per unirsi a uno degli organi di Alorea - qualcuno, quando la sua assegnazione era stata annunciata, aveva sussurrato incauto "povera ragazza... dopo l'incidente dei pescipene, così giovane..." - ma forse la caparbietà, forse l'incoscienza della gioventù, forse ancora il non sapere cosa mai fosse un pescepene (beata innocenza!)... o forse l'aver ormai firmato col sangue e dato in pegno un pezzo di anima, non si era fatta scoraggiare.


Così, ora, si trovava di fronte alla porta della sede degli Archivisti. A un primo sguardo, l'edificio dall'esterno sembrava sorprendentemente normale: ampio, il che non stupiva se davvero conteneva un labirinto di scaffalature, dall'aria pulita e curata. Uno spazioso giardino, con alberi potati e fiori lì lì per sbocciare ora che la primavera era arrivata. Il lato opposto a quello di entrata, per quanto non si vedesse del tutto da lì, sembrava ospitare una... torre. Rya non fece in tempo a interrogarsi sulla natura di quella costruzione che la porta si aprì, mostrando una persona.


«Ah! Tu sei quella nuova, sì?» si sentì chiedere dalla donna davanti a lei, sebbene fosse molto difficile mantenere l'attenzione completamente sulla sua espressione a giudicare dal catboy che le stava attaccato alla gonnella. Silenzioso, un po' timidino, ma di sicuro non dall'aspetto minaccioso. Rya non poté fare a meno di chiedersi se fosse una mascotte o l'animale domestico degli Archivisti - o forse ognuno poteva avere il proprio? Avrebbe dovuto indagare.


«Sì, sono Rya» si presentò «è la prima volta che mi unisco a una causa come questa, spero di fare del mio meglio.» aggiunse, incontrando il sorriso rassicurante della donna mentre questa si faceva da parte e le rispondeva con un entusiasmo: «Ma sì, ma sì, vedrai! Io sono TheUnlikelyOne, prima del suo nome, 42ShadesOfHyena, nata dalla polvere di stelle di Cigno, mezza Hyoga e mezza Xena.» si presentò. Dovette capire dallo sguardo confuso (disperato? Perplesso?) di Rya che forse, ma solo forse, era un po' troppo lungo da chiamare. Se fosse servito per salvarla dalla caduta da un dirupo? Avrebbe fatto in tempo a resuscitare e cadere due volte per essere salvata la terza.


«42 o Shades andrà benissimo.» aggiunse dandole una pacca sulla spalla una volta che Rya ebbe varcato la soglia, chiudendole la porta subito dietro. Quella cigolò, come nei peggiori film horror, ma Shades le fece l'occhiolino: «Tranquilla, è per fare scena. Così sembriamo un covo figo.» commentò, iniziando a farle strada.


La prima area dove la portò fu la cucina, forse per darle modo di bere qualcosa dopo il lungo viaggio: nella stanza, molto spaziosa e luminosa, c'erano due persone. Intente a parlottare tra loro con la stessa pacatezza con cui due amiche potevano prendere insieme tè e biscotti - cosa che era effettivamente presente al tavolo della cucina - Rya colse uno stralcio della loro conversazione: «Ma quindi» stava chiedendo una delle due, un poco confusa «ho capito che Shinichi e Kaitou sono cugini e quindi adesso arriverà la polizia di twitter sotto tutti i profili di quelli che li shippano... ma in Giappone non è un problema.» specificò, con l'aria stanca delle persone che hanno vissuto troppe battaglie e adesso sono troppo vecchie dentro per prendervi ancora parte.


«Eh!» esclamò l'altra, chiaramente sulla stessa lunghezza d'onda «Ma poi io ho i vecchi millenari ma uno sembra un ragazzino di quindici anni. Che vuoi che siano due cugini.»

«Comunque ancora non riescono ad andare in trend come la Odazai ogni tre mesi.» confermò l'altra con aria saggia, bevendo un sorso di tisana o tè che fosse quello nella piccola teiera di ceramica poco distante.


Fu in quel momento che Shades si inserì: «Morale è bello ma lercio è meglio, ragazze, io lo dico sempre!» esclamò, indicando alle due Rya quando portarono entrambe lo sguardo sulle due sulla soglia della cucina: «Lei è la nuova Archivista! Le sto facendo fare il giro, sapete, per conoscerci e vedere com'è il posto e soprattutto insomma, con le voci che girano...» lasciò intendere il resto.


Rya, un'anima candida, la guardò fraintendendo il senso di quella frase lasciata a metà: «Non vi preoccupate, io non ascolto troppo i pettegolezzi...» tentò di risollevare il morale, sebbene fosse un po' confusa, non capendo se fossero effettivamente dispiaciute della fama che precedeva il loro gruppo oppure no. Shades rise: «Ah ma sono tutte vere eh! Ma siamo anche normali ogni tanto.» assicurò come se non ci fosse proprio nulla di cui preoccuparsi.


«Io sono Sidra» si presentò l'Archivista con in mano la tazza con la tisana «lavorando qui ogni tanto potresti avere un gatto che ti dà testate alla mano... è tutto normale. Vuole partecipare.» assicurò pacata, aggiungendo un «Ogni tanto una mano in più fa bene.»


«Vuless 'a maronn.» commentò l'altra ragazza, annuendo con aria quasi solenne, prima di presentarsi a propria volta «Io sono Shiroi! Di solito mi occupo delle tabelle.» spiegò, sebbene Rya non avesse idea di quali tabelle fossero. Immaginò si trattasse di qualcosa che nel suo ruolo di Archivista avrebbe appreso presto e quindi si limitò a un cenno affermativo del capo, ascoltandole parlottare un po' tra loro e accettando il tè con i biscottini quando le venne offerto.


Stava giusto iniziando a capire in quali credenze fosse il cioccolato, quando una figura ammantata dalla bandiera francese apparve sulla soglia della cucina; un quaderno sottobraccio, una penna in mano, era chiaro fosse venuta per una tra Shiroi e Sidra, ma la sua attenzione fu catturata proprio dal nuovo viso tra quelli presenti.


«Bonjour!» salutò prima di cominciare a riportare alle altre: «Allora, ho quasi mille parole di M2, poi ne ho scritte anche duemilaseicento, mille e quattrocento, seimila e cinquecento...» iniziò a elencare, sfogliando febbrilmente le pagine del quaderno «Poi sto lavorando a un'altra piccola... poi ho fatto seicento parole ma forse aumento... ah già. Poi ho quasi quattordicimila.» concluse, osservandole «E' che stamattina mi hanno interrotta.» aggiunse, mentre Rya sembrava aver in viso un'espressione che da sola voleva dire "pensa se non l'avessero interrotta".


La nuova figura la osservò, mentre le altre sembrarono accogliere il tutto con entusiasmo e senza nemmeno apparire troppo sorprese o allucinate: «Ah, io comunque sono Europa» si presentò anche lei, osservando Rya come se dal solo aspetto potesse carpire un'incredibile quantità di informazioni. Sebbene un po' confusa, la giovane Archivista pensò che forse era una capacità degna del ruolo che adesso avrebbe finalmente ricoperto anche lei e qualcosa che forse un giorno sarebbe stata in grado di fare.


Fece un solo, unico errore: «Io sono Rya... come mai hai una bandiera della Francia addosso?»


Un bisbigliato oh no che non avrebbe saputo dire se provenisse da Sidra o da Shiroi la raggiunse, ma ormai la domanda era stata posta e gli occhi di Europa brillavano di luce propria. Le portò un braccio attorno alle spalle e le sorrise: «Mia cara, hai un momento per parlare dei nostri signori i Francesi di Bungou Stray Dogs?» chiese, meglio dei fanatici religiosi pronti a rivelarti l'intero Verbo in una sola giornata.


Shiroi tossicchiò, forse per attirare l'attenzione «Ma gli altri?» chiese e questo sembrò ridestare la Francese, il cui volto improvvisamente si incupì. Un'espressione grave - la Francia aveva perso ai mondiali? - la portò ad abbassare lo sguardo per qualche istante come se il quaderno con tutte quelle -mila parole potesse anche contenere la risposta a una domanda in apparenza semplice.


«Le tabelle...» disse, come nei migliori film pieni di cliffhanger «sakurai e Sed sono alle tabelle.»


Dal repentino cambio di mood anche in Shiroi e dal modo in cui cominciò a muoversi a passo spedito, Rya comprese che forse era arrivata in un momento caldo in cui avrebbe capito subito cosa potesse significare un momento di crisi tra le fila degli Archivisti. E se fosse peggio o meglio di pescipene di cui ancora non sapeva abbastanza.


*


Shades, Europa, Sidra e Shiroi la guidarono lungo i corridoi dell'edificio e poi giù per le scale. Più si addentravano in un'ala che era chiaramente poco in vista per gli ospiti che non venivano indirizzati per bene o per coloro che non appartenevano agli Archivisti, più si respirava l'odore di mistero. Di segreto. Di proibito, quasi, nell'accezione più ampia del termine. Rya scese le scale, svicolando subito sulla destra con Sidra a chiudere la fila mentre Europa con la sua bandiera francese le guidava; roba che guide turistiche "seguite la mano" levate proprio.


A un certo punto, prima che raggiungessero quella che doveva essere la reale meta, una figura che Rya non aveva ancora mai incrociato si palesò nella penombra: appollaiata su una sedia ergonomica come un goblin, o come uno Smigol che ce l'ha fatta, in una posizione che nessun essere umano avrebbe dovuto considerare comoda e la luce acquarellosa dello schermo di un tablet tra le mani. Il viso sembrava provato e per un fugace istante Rya si chiese se le cinque tazze di caffè sulla mensola poco distante da lei dovessero essere segnale di qualcosa. Oltre che di una vita discutibilmente sana.


«Lei...» tentò, richiamando l'attenzione di Shades; prima che quest'ultima potesse rispondere, l'altra giovane alzò di scatto gli occhi su di loro, facendo sussultare l'Archivista più giovane: «Ssssh...» pronunciò piano, un indice sulle labbra «disturberai il flusso.» aggiunse in un mormorio basso. Solo allora Rya si accorse di come, tendendo l'orecchio, fosse possibile cogliere un suono a cui non riusciva a dare effettiva collocazione non soltanto nello spazio ma anche in generale. Le ricordava qualcosa - un rito satanico? - ma al tempo stesso non riusciva a distinguere le parole. La ragazza che aveva parlato, le indicò poco distante: una porta aperta faceva scivolare fuori dalla stanza una luce fioca, ma visibile.


Rya, un po' incerta, osservò le altre ma fu proprio Sidra a piegarsi leggermente verso di lei e sussurrarle all'orecchio: «Non preoccuparti, lei è Cain» presentò la giovane che intanto si era rimessa a disegnare o appuntare qualcosa sul tablet, come se l'interruzione non ci fosse mai stata.


«Cosa sta facendo?» chiese la giovane Archivista «Sembra... impegnata.»

«Sta disegnando. Molto.»

«E non può fermarsi...?»

«Potrebbe» disse Sidra «ma non lo farà. Inoltre, di solito si occupa anche di Sed.» aggiunse, risvegliando la curiosità di Rya. Quest'ultima non fece in tempo a chiedere, confusa, chi fosse quest'altra persona appena nominata e perché mai dovesse avere qualcuno a "occuparsene" che dalla stanza fiocamente illuminata arrivò una forte, improvvisa esclamazione che la fece sobbalzare.


«VULESS 'A MARONN»


Le presenti tacquero. Poco dopo, dalla stanza uscì un giovane ma Rya non potè fare a meno di accorgersi del suo vestito: era inequivocabilmente quello di un cardinale. Lui le vide e sembrò scorgere in loro la Luce, l'Altissimo e tutta una sequela di figure di cui era andato evidentemente in cerca finora - o forse era solo in cosplay.


«Shiroi» la chiamò, avvicinandosi un po' come se dovesse darle l'estrema unzione, serio in volto «ho bisogno di te. Tua moglie» calcò la parola con gravità «ha bisogno di te. Sai che io purtroppo sono esperto di due cose: Conclave e i dinosauri. Eppure nessuna pittura rupestre mi ha parlato.» affermò scuotendo la testa neanche fosse un insulto personale, questa gravissima mancanza di comunicazione.


Rya non riuscendo a capire appieno quanto serio fosse il ragazzo, si voltò verso Shades che era stata la sua guida dalla porta d'ingresso, in pratica. La osservò, certa di avere un'espressione decisamente confusa ma non potendoci fare molto: il mondo degli Archivisti sembrava molto più complesso di quanto avrebbe mai potuto credere.


«Ma... è il vostro prete personale?» chiese in un sussurro, mentre il catboy di Shades che li aveva seguiti fino a quel momento in silenzio arrotolava la coda intorno alla gamba della... madre? Padroncina? Creatrice? Decise di dover chiarire un dubbio alla volta. La donna scosse la testa: «No, Sed è solo un entusiasta.» spiegò l'Archivista più grande «Per certi versi si potrebbe dire abbia un suo culto... ma sarebbe meglio te ne parlasse lui, ecco. Quello per i dinosauri non lo so, invece, sai? Lui e Cain un giorno sono arrivati qui, da non ho capito bene quale situazione... ma quello che conta è che ora siano Archivisti.» chiarì, dando a Rya la sensazione che una volta dentro, non contava da dove si veniva.


Come in una famiglia. Come in una setta.


«Cos'è che è la cosa dei dinosauri di Sed?» chiese Shades, forse perché ora le era rimasto il pallino. Attorno a lei, tutti assunsero un'espressione pensosa - l'unico che avrebbe potuto rispondere era impegnato a parlare con Shiroi della situazione dentro l'altra stanza da cui era uscito.


«Passione?» ipotizzò Sidra «Fissazione?» fece eco Cain, ancora appollaiata sulla sedia, ancora intenta a disegnare, ancora evidentemente persa nel contratto col Diavolo che prevedeva altri dieci disegni e mani con le piaghe «Fetish?» la buttò lì Europa, perché tutto poteva essere. Poi, come un cerchio che si chiudeva, Shades le guardò tutte esclamando convintissima «CIUCHINO!»


Il silenzio di tomba cadde nel corridoio, mentre paia di occhi su paia di occhi si soffermavano sulla figura di Shades. Lei rise: «Scusate» disse subito «è che il bricchetto più piccolo è nel suo periodo Shrek.» fu l'unica spiegazione che diede e l'unica che - decisero in silenzio e all'unanimità - si sarebbero fatti bastare. Definito che il problema di Sed con i dinosauri sarebbe in realtà sempre rimasto indefinito, Rya spostò lo sguardo su lui e Shiroi di nuovo intenti a scambiarsi informazioni. Quest'ultima soprattutto sembrava capire ma, al tempo stesso, non capire affatto. Era come se le mancasse un pezzo fondamentale del puzzle.


«Devi sapere» spiegò Shades «che l'ultimo Archivista che ti manca di conoscere è sakurai, la moglie di Shiroi. Nessuno sa di preciso quando si siano sposate o come, o almeno sakurai non se lo ricorda. E' un'unione platonica nata dal cowt


«Nata da cosa?» fece eco Rya con un sopracciglio inarcato: «Il cowt. La leggenda narra che un tempo dei titani si affrontassero in una sfida all'ultima parola... all'ultimo sangue... all'ultimo porno.» pronunciò solenne Europa, anche se in realtà non ci credeva troppo nemmeno lei nella solennità del tutto.


«E cosa significa cowt

«Clash of Writing Titans, così era un tempo in antichità.» spiegò prontamente Sidra, veterana di guerra «Oggi, con le nuove generazioni e le interferenze linguistiche siamo in pochi a ricordarlo. Qualcuno suggerisce "Cataclisma Oratorio Weramente Truculento.»

«Ma "weramente" si scrive con la--» iniziò Rya, ma un'esclamazione improvvisa proprio dalla sala da cui era uscito Sed la interruppe bruscamente.


Quella voce racchiudeva disperazione e frustrazione in uguale misura.


«'STI CAZZO DI NUMERI MALEDETTI.»


Ma racchiudeva anche un po' di romano coatto.


Shiroi corse subito dentro la stanza, di certo preoccupata di quali atrocità si stessero verificando all'interno. A giudicare dall'atteggiamento degli altri, non doveva essere la prima volta che questo dramma si consumava e tutti dovevano avere grande fiducia nel fatto che lei avrebbe potuto salvare la situazione. Rya, incerta se fosse il caso di entrare o meno, si rivolse alle senpai esperte lì presenti mentre Sed conferiva con Cain - o forse cercava di staccarla dalle grinfie del Demonio con cui doveva avere un patto per cagare fuori art con più frequenza delle polemiche fandomiche su quanto dei personaggi 2D si possano offendere se li shippi con persone di ben due anni più grandi di loro. E le polemiche erano molte.


«E' una cosa grave?» chiese Rya con un cenno verso la stanza. Shades le diede una spintarella, per incitarla a entrare e vedere con i suoi occhi, mentre Sidra - con ancora la tisana in mano, comunque - prendeva parola: «Devi sapere che uno dei grandi Signori del cowt ha un potere terribile» disse, facendo una pausa a effetto che rendeva l'idea prima di aggiungere «la matematica.»


Europa rabbrividì, stringendosi nella sua bandiera francese; Shades poggiò una mano sulla testa del suo catboy, terrorizzato; Sed si fece il segno della croce, mentre Cain iniziò a dondolare sulla sua sedia. Si vedeva che l'unico motivo per cui Sidra riusciva a mantenere i nervi saldi era solo per la grande esperienza.


«Ogni anno promette che non ci sarà matematica... o che ce ne sarà meno.» continuò «Ma alla fine succede sempre che si debbano fare le tabelle di excel... perché possano contare al posto nostro.» chiarì, muovendosi con tutte le altre fino alla soglia della stanza. Lo spettacolo era terribile: sul muro di fronte alla porta d'ingresso era proiettato su schermo gigante quello che il portatile sulla sinistra mostrava più in piccolo. Un grande file di excel con almeno quattro fogli di calcolo, tabelle di colori diversi, X e W e numeri; parole come "prompt" e "fill" e negativi, insieme ai nomi di tutti gli Archivisti che fino a quel momento gli erano stati presentati.


Seduta a terra, quella che doveva essere sakurai: l'aria di una persona a metà tra lo scegliere la violenza come unica soluzione e la crisi di pianto. Shiroi, al suo fianco, le teneva la mano sulla spalla mentre lo sguardo confuso continuava a stare puntato sullo schermo gigante. Rya quasi poteva vedere formule matematiche aleggiarle davanti al viso, come la proiezione di ciò che doveva star esplodendo nella mente dell'Archivista - senza saperle comunque capire, le formule, ma intanto c'erano. A peggiorare i suoi incubi, forse.


«Parlami, moglie» la chiamò Shiroi «lo supereremo insieme.»

«Abbiamo tre missioni.»

«Sì...»

«E dobbiamo tenere il conto della media.»

«Sì...»

«E la media è un numero f-fratto» incerta su quella parola amena «un altro numero. Giusto?»

«Bravissima.» si complimentò Shiroi facendole una carezzina sulla testa, un po' come ai bambini, un po' come al Labrador che pensa di essere un pincher e vuole appallottolarsi sullo zerbino con la pretesa di starci come dimensioni.


sakurai fece un verso frustrato: «E' TUTTO SBAGLIATO.» ribadì «NON SCALA LA MEDIA COME DOVREBBE.» aggiunse, sempre più confusa.


Gli Archivisti si guardarono. Guardarono Rya. Lei guardò loro. La perplessità di chi non ha soluzione regnava sovrana.


Poi shiroi osservò il foglio proiettato; aggrottò la fronte, in un chiaro sforzo di comprensione.


«Moglie» la chiamò «manca l'uguale della formula.»


Quel giorno Rya comprese subito l'iscrizione che aveva notato all'ingresso ma dalla quale era stata distratta troppo in fretta per chiedere subito.


Cosa diciamo al Dio della Matematica?

NON QUEST'ANNO.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: They’re the same picture

Missione: M2 (week 5)
Parole: 628
Rating: gen
Fandom: originale

Warnings: //



La cosa stava senza alcun dubbio sfuggendo di mano.


Non c'era altro a cui potesse pensare Heise mentre la tragedia si consumava nell'ampio salotto di casa Sievert. Avrebbe voluto poter dire che in fondo non succedeva mai, che dopo i pasti consumati rigorosamente insieme - su espressa richiesta di Xylia, giustificati a non presenziare solo per cause di forza maggiore (la morte?) - ci fosse solo la calma del riposo pomeridiano. Invece la dura realtà era che in casa Sievert Heise difficilmente assisteva a quella calma, specie agli orari dei basti o subito dopo, proprio perché essere tutti nella stessa stanza evidentemente creava dei grossi squilibri nel karma o qualunque altra Forza aleggiasse intorno a loro.


Seduto sul divano, Lawrence Hamilton con il suo sorriso allegro e l'espressione contenta di chi anche a quarant'anni passati si sentiva un ragazzino dentro, sembrava il ritratto del relax: tranquillo nella postura, giusto un poco incuriosito nel tenere gli occhi verdi sulla figura dell'uomo di fronte a lui che non sarebbe potuto essere più diverso. Freyr Sievert non era famoso per la calma, quanto più per la sua ansia e i suoi traumi esistenziali; narravano le voci di corridoio che niente più di un trauma radicato avrebbe mai potuto convincere altrimenti una persona sana a prendersi un pappagallo urlante come Jack. Fuori dalle sue crisi, tuttavia, Freyr era un uomo capace di grande pacatezza, forse di indole un po' timida perfino; minore di due - ah no, tre - fratelli, non era la prima volta che Lawrence metteva la sua calma a dura prova.


Non si trattava di cattivo sangue a scorrere tra i due, no. Il problema era che Lawrence, spirito libero e anima candida, spesso andava fin troppo con il flow perché un uomo angosciato come Freyr potesse tollerarlo. 


«Allora» riprese Freyr, massaggiandosi un poco le tempie prima di recuperare i due fogli che aveva in mano prima e che per disperazione aveva posato, ponendoli di nuovo all'attenzione dell'inglese: uno dei due raffigurava l'immagine di un cucciolo di pastore tedesco, un batuffolo di carineria che nemmeno la persona più brutta del mondo - e in quella stanza ce ne erano diverse a poter concorrere per il titolo - avrebbe potuto non considerare adorabile. L'altro foglio invece era chiaramente una foto di qualche anno fa, ma la faccia da cazzo di Siegfried Sievert sarebbe stata impossibile da confondere con quella di chiunque a parte lui - soprattutto per non offendere nessuno. 


«Voglio che le guardi» continuò Freyr, cauto «bene.» calcò un poco la parola «Possibilmente con gli occhi quelli veri, non con gli occhi del tuo affetto assolutamente mal riposto.» aggiunse esasperato «E vorrei che mi dicessi la differenza tra questa» e alzò appena la foto con il cucciolo «e questa.» conclude alzando un poco quella con Siegfried. Lawrence le osservò di nuovo, prendendosi il suo tempo come se quella non fosse la terza volta che succedeva questo teatrino nell'arco di venti minuti. Alla fine sorrise contento: «Nah» decretò «sono la stessa.»


Un verso frustrato uscì tra le labbra di Freyr; Irina si cappottò quasi dalla poltrona, mentre Jack si univa al disagio cominciando a svolazzare urlando per il salotto. Siegfried nemmeno era presente, ma Heise sentì uno sbuffo al proprio fianco e nell'inquadrare la figura di Leon si rese conto che sorrideva e guardava non i due interessati, né chi faceva casino intorno a loro. Seguendo la linea del suo sguardo si accorse di Tatsuya e del suo far il segno "okay" con il pollice all'indirizzo di Lawrence, rimanendo comunque alle spalle di Freyr per non essere visto.


Quando sentì Leon sussurrare un divertito «Che pezzo di merda.» quasi fosse invece un complimento, Heise capì. Ed ebbe un po' di pena per Freyr, in effetti.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Three Headed Dragon

Missione: M2 (week 5)
Parole: 597
Rating: gen
Fandom: originale

Warnings: //






«Tanto per cominciare» pronunciò snervato «io vorrei capire a chi cazzo è venuto in mente di fare questa cosa.» sbottò Elias, mentre per poco non si ammazzava infilandosi un calzino - meno male che doveva pure essere antiscivolo, sennò come minimo sarebbe morto in uno dei modi più stupidi del mondo dopo lo strozzarsi con la propria saliva e pochi altri. 


Al suo fianco, anche Rikiya non sembrava per nulla entusiasta: «Senti bro» cominciò «non sono più felice di te, okay? A parte che comunque non ho capito perché io dovrei fare proprio la testa stupida delle tre!» obiettò, infilandosi la manica mancante così da concludere parte della sua vestizione e tirare su la zip all'ultimo quando sarebbe stato quasi ora di "andare in scena". Guardò gli altri due, come anche le persone presenti per aiutarli a vestirsi nel momento in cui il costume stesso avrebbe reso difficile usare bene le mani, aspettandosi che qualcuno gli desse man forte; gli sguardi su di sé gli suggerirono che forse tutti sapevano esattamente perché fosse toccato a lui: «EHI.»


«Comunque» Elias gli parlò sopra senza troppa grazia, puntando gli occhi chiari su i due Sasahara intenti uno ad aiutare Nikolai che tutto contento si stava persino facendo sistemare i capelli con una forcina a forma di drago e l'altro in procinto di recuperare i copricapo per tutti e tre. Quest'ultimo - Jun, il maggiore di tutto quel branco di fratelli - sorrise serafico in risposta, aspettando che Elias finisse: «Posso dire "che idea di merda"? CHE IDEA DI MERDA.»


Jun non diede segno di essere troppo sconvolto ma, d'altronde, non lo era mai. Sembrava davvero che nemmeno la sfuriata più aggressiva del mondo potesse davvero farlo sentire minacciato o farlo arrabbiare di riflesso. Anche in questo caso si limitò a sorridere dicendogli: «Per rispondere alla tua domanda del perché abbiamo pensato di farlo: perché così i bambini si divertono.» diede come semplice risposta, recuperando il copricapo per Elias e piazzandoglielo in testa senza troppe cerimonie e un «Su, zio Elias.»


*


Avrebbe voluto urlare, con quella puzza di gomma bruciata nel naso e il sudore a imperlargli la fronte... ma doveva dare atto a Jun che si sarebbe sentito una persona orrenda a far piangere uno dei bimbi Sievert - o forse temeva che se lo avesse fatto, poi Xylia lo avrebbe ucciso. Dolorosamente.


«Signor drago, signor drago...!» lo chiamò uno dei bambini e a questo punto se doveva calpestare la sua dignità sarebbe stato il cazzo di drago migliore del mondo. O almeno: la testa di drago migliore del mondo.


«Giovanotto!» fece la voce grossa, piegandosi in avanti «Ti sembriamo uno?»

«Ooooh...» il coro dei bambini quando anche le altre due teste iniziarono a muoversi «Ebbene siamo tre, ma siamo uno.» commentò la testa di Nikolai «Ma siamo pure tutti diversi eh!» aggiunse Rikiya, quasi a volersi discostare da questo disagio. Nel pezzo di costume condiviso, Elias gli pestò il piede, ottenendo un ululato poco dragonico, ma... succedeva. Il bello della diretta.


«Io sono Lai» improvvisò Nikolai «la testa intelligente!»

«Io sono Sal, la testa del coraggio!» lo seguì Elias, giusto per reggere un copione che era già morto dieci righe fa; Rikiya, dopo aver smesso di ululare, cercò di riprendere il filo chinandosi in modo che da davanti la sua faccia di drago stupida fosse più vicina ai bambini: «Io sono Riya! La testa buffahAHAHAHAHAH» 


Elias avrebbe voluto dirgli che al massimo era una testa di cazzo (dragonico), ma sospettò di non voler essere la ragione della prima parolaccia pronunciata in gruppo dai bambini. Non con Xylia presente, almeno.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Disaster Girl

Missione: M2 (week 5)
Parole: 691
Rating: gen
Fandom: originale

Warnings: //



Era vero che ad avere il nemico in casa, senza sapere che fosse all'effettivo un nemico, si finiva con il dimenticare le cose basilari. Importava poco essere stati addestrati - e non nel più gentile dei modi, a dirla tutta - a saper riconoscere alcuni segnali evidenti all'occhio di un assassino esperto: la violenza, la propensione all'uccisione e alla distruzione, non erano qualcosa che si acquisiva del tutto randomicamente e da un giorno all'altro. Si trattava di indole, di qualcosa che in realtà si poteva insegnare solo fino a un certo punto: la grande differenza tra chi assassino nasceva e chi era solo addestrato per diventarlo, era proprio come gestiva il dopo. Il dolore, la disperazione, il senso di colpa.


I Sievert avrebbero dovuto essere perfettamente in grado di riconoscere il caos in terra quando lo avevano di fronte, eppure i Sasahara erano particolari: cinque fratelli e una sorella che non sarebbero potuti essere più distanti dal loro ambiente di assassini - o di ability user, anche, considerato come ben quattro su sei ne fossero del tutto sprovvisti. I loro caratteri per lo più pacati e socievoli, oltre al loro modo incredibilmente sano di essere una famiglia unita, aveva messo in secondo piano dettagli che sfuggivano se non li si teneva volutamente in testa: Hiyori, che pur essendo un medico - o forse perché medico? - aveva dimostrato di poter paralizzare una persona con la semplice pressione sui punti giusti del corpo. Oppure Jun, che nessuno credeva potesse essere più forte di Hiyori nel combattimento corpo a corpo finché non gli era stato dimostrato.


Eppure... nessuno aveva mai sospettato di Tarja, l'unica sorella.


«Tar...» chiamò piano Hiyori, osservando lo spettacolo assurdo che si stagliava davanti agli occhi di tutti loro. Gli altri fratelli, come anche alcuni dei Sievert, osservavano piuttosto increduli - almeno emotivamente, loro e le poker face non richieste - quella casa in fiamme dove i vigili del fuoco stavano prontamente agendo, cercando di domare le fiamme più velocemente possibile. Il lungo idrante giallo si srotolava fino alle mani degli addetti ai lavori, puntato verso la costruzione. 


«Ma quando è successo, esattamente.» pronunciò Elias, sebbene la sua espressione non fosse del tutto turbata, ma più un mix che sembrava dire al tempo stesso "non ho capito ma bel fuoco" e "lo voglio davvero sapere? No", rimasto scottato - pun intended, avrebbero detto alcuni - da esperienze passate da cui l'unico insegnamento possibile da cogliere era che a volte non fare domande era meglio.


Tarja guardava la casa a sua volta, difficile capire dal suo viso cosa le stesse passando per la testa in questo momento: «E' stato improvviso.» cominciò poi a parlare, guadagnando in un attimo l'attenzione di tutti gli altri, chi vicino e chi alle sue spalle «Stavo tornando dalla spesa con Kaoru. Voglio dire, Xylia mi chiede di darle una mano, chi sono io per dirle ma di no? E poi a me fare la spesa piace.» puntualizzò «Comunque» riprese il filo del discorso «questi tipi si avvicinano no. Palese volevano rimorchiare. Che va bene, cioè, io lo capisco: io e Kaoru siamo tanta roba.» disse, senza falsa modestia. Non che nessuno se la sentisse di contestare: i Sasahara dovevano avere un evidente patto genetico col diavolo e quello era assodato.


«Ma a parte che fischi a tua madre» continuò Tarja, con la delicatezza che la contraddistingueva sempre «però come ti permette di toccare il culo a mio fratello. E sapete cosa mi hanno risposto?! "Pensavo fosse una ragazza". Cioè e quindi scusa, se te ne accorgevi palpavi solo il mio?!» sbottò guardandoli tutti per un attimo prima di tornare poi alla casa in fiamme «Ringraziasse che non avevo niente per tagliargli la mano.» borbottò offesa.


Tutti si scambiarono un'occhiata, ma solo Elias ebbe il coraggio di chiedere ciò a cui tutti stavano pensando: «Sì, okay, ma nel senso... tu non hai un'abilità di fuoco. Cos'è, gli hai acceso un fiammifero sotto le fondamenta e gli hai bruciato casa a mani nude?» ironizzò. Poi la vide: Tarja che si voltava lentamente, le fiamme alle sue spalle, le labbra piegate in un sinistro e soddisfatto sorriso.


Mai. Fare. Domande.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Three Spidermen

Missione: M2 (week 5)
Parole: 631
Rating: gen
Fandom: originale

Warnings: //



Akemi doveva ammettere almeno a se stesso - e a Izumi, forse, gli altri potevano tutti implodere se avessero anche solo osato chiederglielo - di avere un trigger piuttosto importante riguardo le persone con lo stesso aspetto. Dopotutto la sua storia personale, di cui erano al corrente solo Izumi in quanto migliore amico e Reiji in quanto boss del gruppo, non era stata generosa in questo senso. Se però lasciava da parte il proprio vissuto, non poteva non rispondere alla situazione attuale esattamente come stava facendo: abbarbicato sulla poltroncina del salotto del ritrovo dei Sohma, con le gambe penzoloni da uno dei braccioli morbidi e la schiena poggiata contro l'altro - e non senza un comodo cuscino nel mezzo - e per finire una fantastica scatola di cioccolatini poggiata ad altezza stomaco. Continuava a prendere un bonbon alla volta, gustandoselo, muovendo di tanto in tanto la mano per andare a recuperare la tazza di tè sul tavolino basso poco distante.


Lo spettacolo offerto? Tutto merito dei gemelli (a ben pensarci gli pareva sempre più evidente che il karma lo stesse prendendo per il culo, ma decise di lasciar stare), ma soprattutto di Kei. La piccola bastarda - con affetto, sempre - e il suo stramaledetto potere illusorio avevano appena creato la situazione più esilarante di tutte: Shinya, vittima sacrificale perfetta perché troppo pura per potersi davvero arrabbiare, guardava basito un altro Shinya... che guardava quasi annaspando un terzo Shinya. Per il bene della propria psiche, Akemi decise che li avrebbe chiamati Shinyan, Shinyap e Shinyahahah. Ma solo perché lui era ancora più stronzo di Kei, che almeno lo faceva per dell'ingenuo divertimento.


Dopo la prima comparsa a tradimento, la situazione che si era creata e ancora non accennava a cambiare era una di stallo: i tre continuavano a guardarsi, un po' nella disperazione di chi non capisce perché tutto ciò stia succedendo e un po' perché forse a furia di guardare altre persone identiche a sé una crisi esistenziale veniva per forza. Se non si era abituati o se, come Shinya(n) si era composti per il novanta per cento di pura ansia - personale, sociale, Akemi supponeva l'altro avesse fatto un po' l'en plein. 


Kei in tutto questo ridacchiava, assicurando al povero Shinya(n) che «Ma guarda che ci sono un sacco di lati positivi! Per esempio» iniziò e Akemi capì che questo punto specifico non voleva davvero perderselo «un giorno vuoi stare a riposo dal lavoro? Ci pensa uno di loro.» sottolineò, incredibilmente pragmatica. Hotaru, suo fratello, stava cercando forse di suggerirle che se non avesse fatto venire meno l'illusione al poveretto sarebbe venuto un colpo - beh, pensò Akemi, in quel caso sparirebbero comunque e sapremmo chi era l'originale


Ebbe la decenza di non dirlo ad alta voce.


L'unica vera incognita a cui nessuno aveva pensato, purtroppo, era Shinobu nella sua totale follia incomprensibile persino per Akemi. Capì che era troppo tardi quando lo vide bloccarsi sulla soglia, notare i tre Shinya e sorridere come se gli avessero appena messo di fronte una montagna di giocattoli e lui avesse cinque anni - Akemi sosteneva strenuamente che il suo cervello non fosse molto più grande di età rispetto all'impressione che dava quella sua faccia in quel momento, ma Reiji non sarebbe stato entusiasta di sentirglielo dire.


Shinobu si avvicinò, piazzandosi in mezzo ai tre e senza alcun preavviso, passò da uno all'altro per posare loro un bacio sulla guancia; prima che potesse farlo anche col terzo, quello si accovacciò a terra piazzandosi le mani in faccia con un «Aaaaaaaaah» di evidente morte interiore.


Akemi sbuffò: «Che noia, così è troppo facile. Fallo di nuovo con Rokuya.»


Il medico, dall'angolo della stanza, si limitò a un sorriso mite che ad Akemi ricordò più quello di un assassino pronto a sgozzarti: «Ripensandoci, no.»


hakurenshi: (Default)

Prompt: Singolarità

Missione: M2 (week 3)
Parole: 7677
Rating: teen up
Fandom: Bungou Stray Dogs

Warnings: spoiler Stormbringer!




Il vago rumore di dita a picchiettare sulla tastiera del computer era l'unico a riempire effettivamente la stanza, se si escludeva il canticchiare distratto e a mezza bocca che di tanto in tanto scivolava tra le labbra di uno dei fratelli su cui quell'organizzazione sembrava basare buona parte del suo lavoro o quantomeno dei suoi obiettivi. Dazai non era particolarmente amante del restare in quella stanza se non per il tempo necessario a raccogliere, silente, le informazioni di cui aveva bisogno. A quanto sembrava, tuttavia, quella era una delle diverse e bizzarre regole sotto cui bisognava sottostare per scelta di Deus ed era probabile che se a Jane fosse toccato un altro turno ferma nella stanza non sarebbe stato particolarmente costruttivo. Persino Jun era sembrato preoccupato abbastanza da decidere di seguire la ragazza quando quella aveva sbraitato di non avere intenzione di stare lì al posto di altri, per poi uscire sbattendo la porta.


Dazai non lo reputava così drammatico; tediante, forse, ma non drammatico, specie nella misura in cui per scelta non avrebbe condiviso lo spazio con nessuna delle persone con cui aveva finito con il ritrovarsi in quella convivenza forzata. Se poi avesse dovuto indicare un buon motivo per accettare di restare oggi, più che in altre occasioni, sarebbe stata la presenza dell'unica vera incognita in quel gruppo. A sentire Jane, diversi di loro lo erano, ma Dazai era di un'opinione ben diversa. Tra tutti quelli che aveva avuto modo di osservare finora, c'erano solo diversi livelli di mistero tra loro ma non avrebbe mai potuto dire credendoci che fossero addirittura delle incognite.


Per cominciare, Jun era in realtà piuttosto semplice da inquadrare e - per quanto a lei di certo non sarebbe piaciuto sentirselo dire - lo era anche Jane: entrambi avevano qualcosa che volevano a tutti i costi recuperare e questo li rendeva prede estremamente semplici e alla mercé di Deus, il cui mezzo di coercizione era il ricatto. Quanto più le persone mostravano cosa desideravano in maniera aperta e autentica o erano solo incapaci di nasconderlo abbastanza bene, tanto più per quell'uomo le cose si facevano a dir poco semplici. Cosa desiderassero, poi, per Dazai non era un mistero rilevante fin dall'inizio: non gli importava e ora come ora non gli serviva nemmeno a qualcosa conoscerlo.


I fratelli erano una curiosità, più che una vera incognita: non ci era voluto un genio a coglierne la co-dipendenza e quello aveva reso tutto abbastanza semplice. C'erano solo due possibilità, dopotutto, entrambe piuttosto banali dal suo punto di vista e da tenere in considerazione solo perché come tutte le situazioni in cui due persone legate erano nella stessa missione quello poteva sovvertirne le sorti da un momento all'altro a seconda di cosa potesse succedere all'uno o all'altro. Ma che si trattasse del desiderio di entrambi di riavere indietro qualcosa di importante per tutti e due o che fosse solo ottenere qualcosa per il bene di uno dei due, il risultato finale non cambiava poi di molto.


L'uomo seduto a un angolo della stanza, ecco, quella era l'incognita la cui osservazione da parte di Dazai non aveva ancora dato i frutti che sperava desse o che erano stati anche troppo semplici da raccogliere con gli altri. A vederlo era senza alcun dubbio il più grande di loro, sui quaranta, forse quasi cinquant'anni. Dazai non riusciva a dargli una collocazione anagrafica precisa perché quell'uomo si trascinava addosso senza alcun dubbio la stanchezza di chi ha vissuto una vita troppo lunga al punto da portare a chiedersi se fosse davvero giovane come i lineamenti suggerivano o se ci si dovesse invece basare sul carico emotivo che sembrava portarsi dietro. L'altro aspetto curioso era proprio che quel carico emotivo non veniva mai trasmesso dalle espressioni facciali ed era stata questa la prima cosa a interessare Dazai. Nell'ambito della Port Mafia non era così strano trovare persone capaci di mascherare le proprie emozioni al punto tale da sembrare incapaci di provarne: in alcuni casi era una scelta fatta per proteggersi, per mettere un muro tra la propria sensibilità e quello che il mondo racchiuso nel lato oscuro di Yokohama portava a fare. In altri, c'era un pizzico di follia - a volte, Dazai doveva ammetterlo, anche di psicopatia - nelle persone che si incontravano in quello stesso mondo e dunque non stupiva troppo che il loro modo di provare e mostrare qualcosa fosse piuttosto singolare. Quell'uomo, invece, sembrava solo un guscio vuoto e stanco a cui era stata tolta persino la personalità, almeno in apparenza. Ed era questo a incuriosire Dazai: perché l'istinto e la capacità di osservazione gli suggerivano con insistenza che non fosse una mancanza di personalità reale ma che servisse solo scavare.


Un verso a mezza bocca lo distrasse dalla figura dell'uomo per portarla su Wilhelm, intento a stiracchiarsi con le braccia verso l'alto e a brontolare qualcosa su quanto fosse tediante continuare a monitorare durante i momenti fermi come quello. Dazai lo vide alzarsi, dare un colpetto a suo fratello per svegliarlo e - una volta ottenuta la sua attenzione - proporgli di andare a mangiare qualcosa perché a stomaco vuoto era impossibile continuare a fare qualcosa di utile.


«Tanto finché Deus non ci porta altro materiale da J, c'è poco che possiamo fare.» borbottò Wilhelm infastidito, facendo schioccare la lingua contro il palato e lanciando un'occhiata proprio a Dazai quasi stesse vagliando se minacciarlo di non osare toccare il suo computer o evitare per questa volta. Alla fine, come era già capitato in un'altra occasione, fu il fratello Jacob a mediare dando un colpetto sulla spalla del fratello e indirizzandolo verso la porta. Dazai lo sentì persino rivolgergli un: «Vi portiamo da mangiare?» ignorando i borbottii del fratello che, Dazai poteva scommetterci, gli avrebbe portato volentieri qualcosa con almeno del lassativo dentro. Anche per questo si esibì nel proprio miglior sorriso da schiaffi, prima di replicare con un: «No, non vorrei mai che poi il povero Wilhelm rimanesse con il cibo sullo stomaco per avermi fatto una gentilezza.» tanto per versare benzina sul fuoco e irritarlo per il semplice gusto di farlo. Chi l'avrebbe mai detto che si sarebbe ritrovato con la probabile versione venticinquenne - o poco più - di Nakahara e che sarebbe stato comunque così divertente e fastidioso al tempo stesso.


Un cenno di Jacob fu tutto ciò che ottenne prima che l'attenzione si spostasse brevemente sull'altro uomo, di cui dopo giorni Dazai sapeva ancora solo il nome - Antonio - e, una volta che i fratelli furono usciti, anche che forse non si fidava nemmeno lui a farsi portare del cibo non controllato da lui stesso. Oppure non era abbastanza affamato, ancora.


Rimasti soli, Dazai non perse particolare tempo a osservarlo più che in altre occasioni, se non in modo sommario e quasi annoiato: Antonio era un uomo dal modo di vestire piuttosto distinto, mai visto fino a ora senza giacca e cravatta, un modo di vestire che gli aveva ricordato vagamente quello di Mori per un'associazione mentale immediata e forse viziata dall'ambiente in cui si era sempre mosso. I capelli raccolti in una crocchia il cui senso estetico non era particolarmente spiccato - e, Dazai sospettava, non fosse in cima alle priorità dell'uomo - era la carnagione un poco più scura degli altri ad attirare forse di più l'attenzione in un luogo come il Giappone dove la diversità razziale non era esattamente all'ordine del giorno.


Dazai aveva notato, piuttosto, che i movimenti di Antonio erano sempre essenziali e tradivano, in alcuni aspetti, un'educazione di un certo tipo e adatta all'alta società o ad ambienti che dovevano esservi quantomeno collegati. Il modo in cui sedeva, per esempio, mostrava una compostezza particolare che sarebbe dovuta essere associabile alla rigidità e invece risultava fin troppo naturale nel linguaggio del corpo dell'uomo. Oppure anche quando era capitato di mangiare insieme nello stesso spazio, per quanto non necessariamente allo stesso tavolo, Dazai si era accorto di come i movimenti delle mani fossero sempre minimi, necessari e mai tanto per fare: anche una cosa semplice come tagliare della carne se il cibo era più occidentale o il modo di tenere le bacchette quando quanto offerto era tipicamente nipponico, avevano un'eleganza semplice.


Si era chiesto, Dazai, se quelle fossero le mani di un assassino esperto contro ogni possibile sospetto o se invece si trattasse di una natura diversa. Quello di cui era sicuro, invece, era che non gli fosse ancora chiaro al cento per cento quale fosse il ruolo di un uomo che non sembrava desiderare nulla e quindi non sarebbe dovuto essere particolarmente ricattabile.


«Cos'ha Deus su di te?» chiese quindi, perché tanto valeva capire quanto potesse spingere prima di rischiare di superare un limite pericoloso. Vide Antonio alzare lo sguardo su di lui, con la lentezza di una preda inconsapevole - o di un predatore pigro. Occhi dalla sfumatura carminia che, ancora una volta, sembravano incapaci di focalizzarsi davvero su ciò che vedevano e le labbra piegate in una linea di indifferenza. Dazai sapeva distinguere il disinteresse dall'insensibilità, di norma, ma con Antonio il confine sembrava talmente labile che l'ex - ex? - membro della Port Mafia non avrebbe saputo dire con esattezza da quale lato pendesse in quel momento e questo gli causò un vago moto di fastidio. Lo stesso che avrebbe provato nel cercare di trattenere la sabbia in un pungo e sentirsela comunque scivolare tra le dita, granello dopo granello.


«Nulla.» replicò l'altro, in modo piuttosto prevedibile. Dopotutto, Dazai non aveva mai pensato che avrebbe potuto avere da lui una risposta precisa solo per aver chiesto in modo educato in un momento in cui ingannare il tempo nell'assenza degli altri due. Inoltre, Antonio gli aveva dato la sensazione di una persona intelligente abbastanza da capire da solo che non fosse certo un caso che la domanda fosse stata posta solo quando si erano ritrovati da soli. Dazai gli dava almeno atto di sembrare parecchio più sveglio della media e se avesse dovuto scommettere su chi tra gli altri oltre lui avrebbe potuto cercare di mettere i bastoni tra le ruote a Deus... quello sarebbe stato Antonio, con molta probabilità.


«Apprezzo il tentativo» pronunciò Dazai, sistemandosi meglio sulla sedia, il gomito sul tavolo e il volto poggiato alla propria mano così da poterlo continuare a osservare in tutta comodità «ma spero non mi consideri il tipo di ingenuo capace di crederci.» insinuò senza farsi poi tanti problemi. Non era mai stato famoso nel suo ambito per rendersi amabile nemmeno alle persone a cui teneva - ed erano così poche da far sì che in un conteggio sulle dita di una mano ne avanzassero diverse -, perciò era pressoché impossibile si facesse remore in un contesto simile e con degli sconosciuti che era quasi scontato sarebbero stati nemici il giorno dopo. O che lo fossero già adesso.


Vide Antonio dedicargli un'occhiata più lunga, attenta. Nonostante la provocazione fosse lì alla luce del sole - o delle fastidiose lampade di quel posto - Dazai capì di non aver nemmeno scalfito la corazza in superficie. Il che lo rendeva particolarmente interessante e, al tempo stesso, fastidioso.


«Tu daresti a me la stessa informazione?» sentì domandare all'uomo, il tono profondo di qualcuno dava la buffa idea di aver parlato a bassa voce per tutta la sua vita, senza sentire il bisogno di farsi notare o forse avvertendo quello opposto: passare inosservato, lasciare che il mondo si dimenticasse di poterlo vedere. La mente di Dazai correva veloce, assimilando tutte le informazioni che gli arrivavano ora dalle risposte verbali di quel mistero chiamato Antonio e associandole a quanto aveva solo avuto modo di osservare.


Sorrise, seppure non con il fare allegro di un ragazzino di sedici anni incuriosito da qualche strano meccanismo incomprensibile. Era il sorriso di chi aveva davanti un enigma e aveva tutte le intenzioni di risolverlo, senza che farlo implicasse necessariamente delle soluzioni "pulite". O moralmente accettabili: «Oh-oh, touché.» commentò, alzando solo la mano libera in falso segno di resa senza scomodare l'altra, rimanendo quindi nella nella stessa posizione di osservazione. Un'ennesima provocazione, forse. Quello sarebbe dipeso dalla percezione dell'uomo ma in ogni caso Dazai avrebbe avuto - da quella stessa reazione - una risposta in più su di lui.


«Ah, forse dovremmo cominciare dalle presentazioni per bene?» pronunciò con un pizzico di falsa innocenza, quasi ci avesse pensato solo ora e avesse collegato in automatico la reticenza altrui alla mancanza di un dettaglio inutile come nome e cognome: «Dazai Osamu.» aggiunge, facendo un gesto verso di lui per invitarlo a condividere a propria volta. L'iniziale silenzio gli fece ipotizzare che forse non avrebbe avuto alcuna risposta neanche a questo, ma alla fine lo vide sospirare leggermente e poi tornare ad abbassare lo sguardo sul blocco che aveva avuto davanti agli occhi da quando Dazai era entrato nella stanza.


«Antonio Salieri.»


Salieri, si ripeté mentalmente Dazai, assaporando quel cognome quasi già così potesse ricavarne qualcosa. Europeo, senza dubbio. Del tutto sconosciuto nell'ambito della mafia e questo da un lato allargava il campo - perché se fosse stato un nome conosciuto nel suo ambiente Dazai era certo che non sarebbe stato possibile non risultasse in nemmeno un file della Port Mafia - ma dall'altra lo rendeva ancora più caotico. Insensato, quasi. Era evidente che Deus si fosse circondato di persone con abilità speciali di soli due tipi: quelli facili da controllare per qualcosa di cui avevano bisogno, come Jane e Jun, oltre presumibilmente a Dazai stesso; oppure quelli che al di là di cosa desideravano, erano anche persone dalla morale dubbia. Capaci di cose che altri avrebbero considerato terribili pur di raggiungere il loro scopo e il cui peso delle proprie azioni non era grande abbastanza - né lo sarebbe stato - tanto da distoglierli dall'obiettivo. Se Antonio Salieri non rientrava in questa casistica e non aveva nemmeno qualcosa con cui Deus poteva ricattarlo... per quale motivo era lì?


Dazai si alzò, muovendosi senza troppe cerimonie per avvicinarsi al tavolo su cui si trovava seduto l'altro, una delle scrivanie vuote di quell'ufficio che sembrava più il quartier generale e operativo di un'organizzazione improvvisata come in fondo era quella di Deus. Non ebbe il dubbio neanche per un attimo, sul fatto che Antonio avesse subito inquadrato il suo movimento con la coda dell'occhio, ma il fatto che non si stesse spostando o che il suo linguaggio del corpo non comunicasse alcun intento di impedirgli di avvicinarsi incuriosì Dazai ancora di più. Lo rese anche attento abbastanza da decidere, tacitamente, di non osare più del necessario e di considerare la persona davanti a sé come avrebbe considerato una bestia ferita nell'infilarsi in una gabbia dello zoo. Nessuno poteva dire quale gesto lo avrebbe fatto sentire minacciato, scatenando una reazione inaspettata.


Una volta accanto a lui, posando lo sguardo su quel blocco, Dazai dovette ammettere di essere stupito: aveva ipotizzato diverse possibilità, alcune meno fattibili di altro o che quantomeno gli sarebbero suonate molto strane. A cominciare dalle probabilità che si trattasse di un documento ufficiale lasciato da Deus per qualche incarico, non così strano di per sé ma di certo poco intelligente da tenere dove chiunque avrebbe potuto spiare anche solo qualche parola. Poteva essere un documento personale, ma dato quanto riservato sembrasse essere quell'uomo, Dazai aveva escluso la questione quasi subito dopo averla presa in considerazione. Qualcosa per passare il tempo era sembrata quella più esatta, per il semplice fatto che fino a quel momento non aveva mai visto Antonio Salieri muoversi senza che Deus gli desse un preciso ordine o lasciasse intendere che ce ne fosse stato uno dato in privato.


Per essere "personale", quel blocco doveva esserlo, solo non nel modo scontato che chiunque - compreso lui - si sarebbe aspettato: benché i fogli non fossero pentagrammati, Antonio aveva disegnato il pentagramma da solo e lo stava riempiendo di note. Non c'era alcun titolo e Dazai non avrebbe saputo leggerlo correttamente, quindi non aveva idea se si trattasse di un brano già esistente o di qualcosa che l'altro stesse componendo in quel momento a tempo perso. Di sicuro era peculiare pensare che un potenziale assassino, o qualunque cosa facesse per conto di Deus quando spariva, avesse anche la sensibilità artistica di un compositore.


Dazai aveva appena deciso di non punzecchiarlo sulla cosa, o almeno di non farlo per il momento, quando fu proprio Antonio ad alzare lo sguardo e puntarlo su di lui pronunciando un: «Quale risposta ti sei dato, Dazai?» sottintendendo, forse provocatoriamente per la prima volta, di aspettarsi ci fosse stata una domanda alla base di quello sguardo prolungato al foglio e alle note musicali che ospitava. Nonostante il tono fosse privo di inflessioni particolari, Dazai era certo che in quella richiesta ci fossero così tanti sottotesti che sarebbe stato divertente segnarli tutti proprio su un foglio come se fosse un compito in classe e chiedere poi al diretto interessato di controllare di averli azzeccati tutti. Invece Dazai si limitò a sostenere il suo sguardo, rivolgendogli un sorriso sbieco, tra il divertito e l'infastidito - piuttosto consapevole di saper rendere la prima emozione preponderante al punto da nascondere molto bene la seconda.


«Nessuna interessante, per il momento.» replicò, spostando la sedia opposta a quella di Antonio senza chiedere il permesso e prendendovi posto, facendo aderire la schiena alla seduta e incrociando mollemente le braccia al petto. L'occhio non coperto dalla benda non avrebbe abbandonato la figura di Salieri, ora come ora, nemmeno se glielo avessero imposto con una pistola puntata alla tempia - non che sarebbe stata la prima volta che qualcuno lo minacciava con un'arma, in ogni caso.


Salieri sostenne il suo sguardo per un po' e poi, decidendo che non ne sarebbe venuto fuori nulla fin quando Dazai non si fosse deciso a parlare di nuovo, lo portò ancora una volta sul blocco; Dazai lo vide impugnare la penna - il che gli suggerì, vista anche l'assenza di cancellature sul foglio, che l'altro si sentisse sicuro abbastanza delle sue conoscenze musicali da non temere di sbagliare e dover correggere - e riprendere a scrivere.


Una, due, tre note. O almeno gli sembravano tre, ma il punto ora non era imparare a leggere un pentagramma: era imparare a leggere Antonio Salieri.


«E' un peccato che Deus non ci abbia lasciato almeno un mazzo di carte: sono curioso di vedere come giochi, Salieri-san.» buttò lì, osservando l'uomo tenere lo sguardo basso per finire la sequenza che stava scrivendo. Dazai non era certo se fosse più corretto considerare quel tipo di atteggiamento come il disinteresse che in parte gli aveva già associato oppure se fosse un aspetto ancora più contorto nella sua semplicità: il non sentirsi affatto minacciato né fisicamente, né psicologicamente. Per l'esperienza di Dazai, se quell'ultima opzione fosse stata il caso di Salieri, avrebbe significato che la persona di fronte a lui era così al di sopra delle capacità di chiunque nella stanza - non solo ora che erano soltanto in due, ma anche quando erano tutti lì insieme - da non essere facile per lui considerare degno di attenzione chiunque altro.


Proprio mentre questo pensiero affondava le radici nella sua mente, Dazai lo vide alzare lo sguardo e puntare gli occhi su di lui: «Mi aspettavo più che proponessi gli scacchi, Dazai-kun.» pronunciò Salieri e per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Dazai poté osservare le labbra dell'uomo incurvarsi nell'accenno di un sorrisetto. Notò subito che non si estendeva affatto agli occhi, risultando l'espressione di un divertimento vuoto, quasi di riflesso. Quasi non fosse in grado di provarlo davvero.


Sentì un brivido percorrergli la schiena, in maniera non così diversa da quando - raramente - trovava di fronte a sé qualcuno di abbastanza interessante o che potesse essere un degno avversario. Aveva la sensazione di aver provato la medesima sensazione in un momento specifico e in una situazione particolare, eppure ancora non riusciva a mettere insieme tutti i pezzi al punto da capire con precisione chi gli ricordasse quell'uomo. Aveva però tutto il tempo per capirlo, se necessario.


«Perché no?» lo incalzò, osservandolo con tutta l'intenzione di lanciargli una sfida.


Se Antonio Salieri voleva una partita a scacchi per passare il tempo, chi era lui per non concedergliela?


*


Trovare una scacchiera non era stato difficile né lo aveva sorpreso scoprire che fosse il tipo di oggetto che fosse quasi scontato trovare in un luogo voluto e arredato da un uomo come Deus. Salieri, nel vederlo tornare con quella tra le mani, aveva sospirato piano spostando di lato il blocco e chiudendolo, così da non lasciare più alla mercé di chiunque quelle note musicali annotate lì sopra fino a poco prima. Dazai gli aveva lasciato scegliere se muovere i bianchi o i neri e Antonio non aveva fatto altro che rispondere con totale disinteresse che non gli importava; così Dazai gli aveva lasciato i bianchi, perché potesse muovere per primo e per vedere in che modo un uomo simile dava inizio a una partita.


Non c'era stata la fretta delle partite professionistiche, né Dazai aveva cercato qualcosa che potesse sostituire l'orologio utilizzato nei tornei ufficiali. Avevano continuato a fare le mosse con i propri tempi, a volte dilatati da qualche chiacchiera, perché per lui gli scacchi erano come bere qualcosa con qualcuno: c'erano infiniti dettagli che si potevano cogliere e lui non aveva intenzione di farsene sfuggire nemmeno uno. Sebbene, doveva ammetterlo, Salieri era un uomo complesso da inquadrare. Talmente silenzioso da rendere un'impresa titanica più il tirargli fuori le parole che interpretarle o leggervi davvero qualcosa più del semplice significato linguistico.


«Tutti sembrano essere arrivati qui in coppia, a parte il famigerato J.» pronunciò Dazai dopo aver mosso un pedone sulla parte laterale della scacchiera, in un gesto di poche pretese «Jane e Jun. I due fratelli. Tutti tranne te.» sottolineò.


«E te.» fu la replica di Salieri, mentre gli occhi si spostavano pigramente sulla scacchiera per decidere la propria mossa successiva. Dazai sbuffò appena: «Forse questo ci accomuna, ma non credo ci renda uguali.» sottolineò, osservandolo muovere un pedone dalla parte opposta rispetto a quello della propria ultima mossa. Di nuovo, Salieri non alzò subito lo sguardo ma rimase in silenzio per qualche istante prima di restituire il contatto visivo a Dazai.


«Non lo siamo, infatti. Sarebbe strano se un adolescente fosse sullo stesso piano di uno come me.» osservò l'aspetto più scontato, eppure l'executive della Port Mafia capì che non era casuale o tanto per porre l'attenzione sulla differenza di età. Comprese che nelle parole altrui non ci fosse un significato superficiale dal modo in cui Salieri lo guardò. Per questo attese qualche istante a rispondergli, soppesando la cosa: «Su quale piano è uno come te, quindi?»


Salieri sbuffò piano, di nuovo un'espressione che non si estese allo sguardo. Dazai trovava quel particolare interessante e più degno di attenzione di quanto forse lo avrebbero considerato altri. Il fatto che qualche emozione ogni tanto stesse iniziando a riflettersi almeno nel modo di parlare, significava che l'altro non era una persona anaffettiva o incapace di provare le cose; il modo in cui però non si appropriasse neanche una volta di tutto il viso, invece, dava a Dazai segnali contrastanti. Era abbastanza sicuro che non fossero emozioni simulate, quindi doveva esserci qualcosa di più profondo. Cosa o se fosse un aspetto che sarebbe riuscito a svelare con un'unica partita a scacchi, questo Dazai non avrebbe ancora saputo dirlo.


«Pensavo ti piacessero gli enigmi, Dazai-kun. E' l'idea che mi hai dato finora.»

«Dipende, alcuni sono tremendamente noiosi e io mi annoio molto facilmente.» rimbeccò, consapevole di suonare arrogante e non che gli interessasse nemmeno troppo l'opinione di gente che sembrava essere stata messa insieme solo perché erano un gruppo di disadattati - lui compreso, a seconda dei punti di vista. Era ancora piuttosto convinto che Deus avesse preso un grosso abbaglio con lui, sebbene si fosse ben guardato dal farglielo notare visto che era tutto a proprio vantaggio, ma almeno a uno sguardo superficiale non aveva alcun dubbio su come quel gruppo costruito dal nulla e senza quasi nessuna base solida potesse apparire.


Comprendendo che non avrebbe avuto subito una replica, Dazai si concentrò sulla mossa da fare. Un'occhiata alla scacchiera gli suggerì che per quanto avessero già fatto più di qualche azione a testa, non ci fosse ancora troppo per evincere della personalità di Salieri. Era come se in fondo si stessero studiando alla lontana, per decidere come colpire più forte possibile. Con un sorrisetto, decise di muovere il cavallo portandolo leggermente verso il centro della scacchiera rispetto alla posizione di partenza.


L'uomo sembrò in qualche modo colpito dalla cosa, per quanto fosse una reazione più tiepida di quella che avrebbe avuto una persona normale. Lo vide soppesare la cosa, con un pizzico di interesse in più rispetto a quanto mostrato finora; Dazai stesso riportò lo sguardo sul gioco, chiedendosi quale filo di pensieri potesse star seguendo l'altro per aver trovato proprio quella mossa - e nessuna delle altre precedenti - degna di qualcosa di più di un volto impassibile. Forse l'aggressività? Eppure Dazai era ben consapevole di essersi trattenuto.


«Dobbiamo davvero farci domande da chiacchiere in un bar?» lo punzecchiò, attirando la sua attenzione e vedendolo distoglierla dal gioco. Capì quasi subito che stavolta non lo stava studiando come si sarebbe potuto fare con un avversario, né lo stava studiando in generale - non come stava facendo Dazai, di sicuro. Era più come se Salieri avesse davanti un bambino in cui vedeva qualcosa, ma non una minaccia, né un mistero da svelare, solo una giovane mente che per ovvie ragioni poteva solo approcciare e pensare in modo del tutto diverso dalla sua. Per quanto Dazai non amasse particolarmente l'idea di essere sottovalutato per l'età, dal momento che era abituato proprio al contrario, si astenne da commenti di sorta per non troncare a metà una eventuale risposta dall'altro. Una che impiegò un po' ad arrivare, ma senza diventare assente ingiustificata in una conversazione che per quanto fosse bravo non poteva continuare a portare avanti da solo.


«Qual è il tuo più grande talento, Dazai?» chiese Salieri, non senza colpirlo un poco. Non aveva chiesto "pensi di avere un grande talento" o "quale credi possa essere un tuo talento". Aveva posto quella domanda dando per scontato che dovesse per forza essercene uno e Dazai sospettava non fosse solo una questione di associazione al suo essere stato scelto da Deus. In una certa misura era ovvio che ognuno di loro fosse utile alla causa di quell'uomo, ma quello era da ricercarsi nelle loro abilità speciali. Non era un caso, dopotutto, che ne avessero tutti una. Salieri tuttavia l'aveva posta in un modo che a Dazai era suonato leggermente diverso, uno che esulava da quel tipo di capacità. Lo portò a chiedersi, forse per la prima volta, se avesse il tipo di talento che Salieri andava cercando in lui in questo momento tanto da sembrare dimentico di dover fare la propria mossa. O forse l'aveva appena fatta con quella domanda.


«Nessuno degno di una persona decente.» replicò «Tutti piuttosto affini a chi ha fatto scelte che molti non farebbero.» aggiunse, osservandolo. Salieri non sembrava colpito: la totale assenza di rifiuto per qualcosa che andava contro la morale diceva già tutto. Era una persona che, come avrebbero amato dire i più romantici, aveva guardato l'Abisso in fondo abbastanza da aver rischiato di perdersi dentro di esso e di non poter raccontare di essere stato fissato di rimando.


Salieri si limitò a un «Mh.» iniziale, decidendosi finalmente a fare la propria mossa - un ulteriore avanzare di uno dei pedoni, mangiandone uno dei suoi - per poi riportare lo sguardo sulla figura di Dazai: «Quindi non hai nessun interesse oltre quello che fai per sopravvivere.» decretò, ma non c'era giudizio nel suo tono di voce. Suonava solo come un'osservazione, una deduzione logica da quanto ascoltato fino a quel momento e Dazai non sentiva di potergliene fare un torto. Se l'uomo davanti a lui sembrava più che capace di celare le emozioni, Dazai era sicuro di essere bravo quanto lui a lasciare nascosto ciò che voleva restasse celato. Perciò non avendo fatto altro che dirgli e mostrargli solo ciò che sarebbe stato deducibile per chiunque, non era una sorpresa che fosse giunto a quella conclusione - non era nemmeno sbagliata, oltretutto.


«Immagino tu intenda cose come la musica» pronunciò Dazai con un cenno del capo verso il blocco spostato di lato in precedenza, fissando Salieri con l'insistenza di chi non aveva alcuna intenzione di perdersi una reazione, soprattutto quando era certo ne avrebbe avuta una «quindi no, non ne ho.» aggiunse più blandamente, come se fosse un in più poco importante rispetto al resto. Salieri non sobbalzò di sorpresa, non si mise sulla difensiva, non lo guardò con l'astio di qualcuno colto in flagrante e in fondo non aveva fatto nulla per nascondere quel blocco pentagrammato a mano fin dall'inizio. Eppure quel che Dazai vide formarsi sul viso dell'uomo lo lasciò più confuso di quanto avrebbe fatto qualsiasi di quelle altre reazioni prevedibili. Per la prima volta e proprio quando non pensava nemmeno di essersi sforzato particolarmente per ottenerlo, Salieri mostrò un vero cambio di espressione: i suoi lineamenti adulti si piegarono fino a mostrare un'espressione sulla quale Dazai non avrebbe mai scommesso.


Quella era un'espressione di pura adorazione. Dazai non avrebbe saputo se accostarla più alla devozione di un fedele per il suo Dio o a quella di un uomo per l'unica persona che reputi degna tra tutte quelle di cui ha incrociato il cammino. In entrambi i casi, comprese che Salieri era più pericoloso di quanto chiunque potesse aver pensato e forse anche più di quanto lo stesso Deus avesse immaginato: perché un uomo con quella devozione avrebbe fatto qualsiasi cosa per l'oggetto della sua adorazione. Anche tradire chi gli aveva promesso ciò che desiderava di più, salvo che quel desiderio non fosse la persona stessa.


Perché di quello Dazai era certo al cento per cento, ora: non poteva essere solo la musica. Doveva essere un mezzo, un tramite, qualcosa che gli ricordasse la persona in questione o la rappresentasse in un modo che Dazai avrebbe potuto solo cercare di indovinare - ma le possibilità erano molte più di quanto potesse sembrare a una prima analisi.


Non poté fare a meno di offrire un piccolo vantaggio su di sé anche lui, mostrando a Salieri un'espressione molto meno pura: quella di una persona che aveva appena visto qualcosa di estremamente sgradevole ma anche esilarante. Dopodiché, senza apparente senso, scoppiò a ridere.


Anche Salieri dovette esserne sorpreso, perché la sua espressione tornò più simile a quella di sempre - una da cui non si tirava fuori un solo pensiero dell'uomo - ma con una vaga sfumatura di confusione o curiosità. Era difficile distinguerli.


«Non è la risata di una persona sinceramente divertita.» gli sentì sottolineare, seppur senza astio o accusa di alcun tipo. Dazai, che si era portato una mano al viso per celare un poco la risata pur senza preoccuparsi di farlo completamente, abbassò la mano per avere di nuovo completa visione dell'uomo: «Oh, ma io sono divertito!» assicurò «E' solo così inaspettato che proprio tu abbia una cosa del genere!»


Salieri fece un'altra cosa che non aveva mai fatto prima: sospirò, ma con al rassegnazione più sostenuta di un adulto con un bambino, consapevole di non poter pretendere un atteggiamento diverso da quello a cui sta assistendo ma senza davvero condannarlo. Diede a Dazai l'idea che fosse abituato a essere con persone più giovani o che forse lo fosse stato fino a prima di unirsi al gruppo di Deus: «Tocca a te.» pronunciò invece, accennando alla scacchiera.


Dazai, senza nemmeno degnare più di qualche secondo di attenzione l'oggetto, allungò una mano spostando un alfiere in una mossa ancora più aggressiva della precedente senza che questa decretasse ancora alcuno scacco. La partita non poteva né doveva essere così corta, dopotutto.


«Non mi domandi cosa intendo?»

«So bene cosa intendi.» replicò Salieri senza farlo attendere, benché gli occhi stessero analizzando come procedere dopo quell'attacco da parte dell'alfiere «Aspetto solo che tu pronunci un'affermazione diretta. Supponendo tu ne sia più che capace, quando la persona davanti a te non ti sta privando delle risposte, il che significa non avere alcun bisogno di indagare come fai con tutti gli altri.» chiarì l'uomo e Dazai non poté che inclinare le labbra in un sorriso ferino. Quindi il signor Salieri non era così disattento, proprio come aveva supposto dall'inizio. Se si sentisse a suo agio con uno come Dazai perché abituato o perché si sentisse al di sopra non gli era ancora del tutto chiaro ma, mentre la sensazione di aver già avuto a che fare con qualcuno del genere si faceva ancora più pressante, aveva intenzione di scoprirlo entro la fine di quella partita.


Fischiò con ammirazione, quasi a complimentarsi per averlo notato: «E pensare che cercavo di essere sensibile e avere tatto» mentì, senza alcuna pretesa di essere creduto visto quanto poco si stesse impegnando a risultare credibile «mi domando come mai nessuno lo apprezzi mai, considerando quanto sia raro io lo faccia.» commentò, senza che fosse davvero importante e Salieri sembrò non farsi distrarre da quel breve, inutile sproloquio.


Dazai puntò l'unico occhio non coperto dalla benda in quelli dell'uomo, sorridendogli di un'affabilità piuttosto falsa; era più la voracità di chi aveva davanti la preda perfetta e l'unico motivo per cui non la divorava era che fosse fin troppo divertente continuare a giocarci per privarsene così in fretta: «Quale persona si merita la devozione di un uomo che non mostra la minima emozione di fronte a nulla? Non di fronte a ragazzini che sono stati portati qui contro la propria volontà» iniziò a elencare, facendo un cenno vago verso la scrivania più vicina alla porta d'ingresso, quella dove in genere si fermavano Jane e Jun durante i loro "turni" «non di fronte a due fratelli con evidenti problemi di connessione con la realtà che di sicuro non fanno nulla di sano tra il sonno di uno e la veglia dell'altro» continuò, con un cenno stavolta verso i computer dai quali si erano allontanati Wilhelm e Jacob «senza menzionare il misterioso J, a cui basta passare vicino una volta per sentire quanto puzzi di cadaveri.» concluse, osservandolo e sicuro del fatto che Salieri non avrebbe frainteso la frase sui cadaveri come una semplice offesa per il cattivo odore di qualcuno, ma come la precisa indicazione di come Dazai stesso sapesse che qualunque cosa facesse quel dottore non era su persone vive. O che sarebbero rimaste vive alla fine del trattamento.


Salieri lo osservava, forse aspettandosi qualcosa; Dazai lo apprezzò, perché non aveva finito: «Ma soprattutto perché la persona a cui sei devoto non è abbastanza da evitarti di sottostare a qualsiasi cosa Deus abbia in mente, va oltre la mia comprensione per il momento.» una specifica necessaria, anche solo per principio «Sono indeciso: ti ha promesso di fartela incontrare di nuovo e per questo gli fai da cagnolino, oppure ti ha minacciato di farle qualcosa se tu non avessi fatto da cagnolino? Illuminami, Salieri-san. Spero la risposta mi intrattenga più della partita a scacchi che stiamo facendo.» concluse, lasciando la mossa a lui proprio come nella partita che dubitava avrebbero finito.


L'uomo non aveva ancora battuto ciglio da quando Dazai aveva cominciato a parlare con affermazioni ben più decise e pressanti di prima. Eppure, si concesse uno sbuffo divertito e uno scuotere lieve della testa - ma quel divertimento non era dato dall'ilarità. Era il divertimento arido di un disperato.


«Nessuna delle due cose, Dazai.» replicò in un primo momento «Non ho nulla da guadagnare, come non ho nulla da perdere. Nulla che abbia a che fare con la mia devozione, come la definisci tu.» precisò, abbassando gli occhi sulla scacchiera e muovendo la torre. Dazai occhieggiò la mossa con interesse, perché era come aver appena visto un coniglio togliersi di dosso il costume e rivelarsi una volpe. Non mosse a propria volta, preferendo tornare a scrutare il volto di Salieri.


«Quelli come me, dopotutto, sono raramente fortunati abbastanza da avere quello che tu definisci "una possibilità". Poco importa questa sia di rivedere qualcuno di perduto o di evitare di perderlo in prima battuta.» disse Salieri, spostando gli occhi cremisi verso il blocco pentagrammato.


Dazai tacque. Sapeva riconoscere un indizio quando gliene presentavano uno e sapeva anche che poteva essere la chiave di svolta per individuare quella fastidiosa sensazione di avere di fronte qualcuno di già visto, già conosciuto. Continuava a sfuggirgli in modo a dir poco irritante, perciò se Salieri gli stava offrendo una soluzione più o meno su un piatto d'argento, Dazai non aveva intenzione di farsela sfuggire.


Passò mentalmente in rassegna le persone con cui aveva avuto modo di interagire, escludendo da principio chiunque avesse incrociato il suo cammino prima della Port Mafia e, subito dopo, tutti quelli che non avevano lasciato questa grande impressione al punto da ricordarne almeno il nome senza uno sforzo di memoria. A rimanere erano ben pochi individui e di sicuro sentì di poter tenere fuori anche i pochi che aveva conosciuto al di fuori del proprio ambiente, certo che la "fortuna" di cui l'altro parlava non sorridesse a chi faceva scelte di vita capaci di portare qualcuno ben lontano da un cammino "nella luce" anziché nell'ombra.


Il suo primo pensiero andò a Mori Ougai. Un uomo che aveva mostrato un cinismo che si discostava poco dalla follia eppure rimaneva appigliato alla genialità senza mai sfociare in modo definitivo nell'alternativa. Salieri però non aveva granché di ciò che distingueva Mori, a cominciare dal fatto che la sua devozione aveva una connotazione incredibilmente pura di cui dubitava il suo ex boss sarebbe mai stato capace. Subito dopo, ebbe una veloce immagine di Nakahara e per quanto ci fosse qualcosa che glielo ricordava molto vagamente, era come il sentore che Salieri potesse essere stato simile a lui in qualcosa... ma almeno vent'anni, forse trent'anni prima addirittura. Era l'ombra di una gioventù che non c'era più, di una inconscienza tipica di una persona senza esperienza e senza granché da perdere - per quanto lo stesso Salieri si fosse definito come qualcuno a cui Deus non poteva togliere chissà cosa, Dazai aveva il sentore che non fosse proprio la stessa cosa. Nakahara era il più grande concentrato di rabbia e istinto che avesse avuto la sventura di incontrare sul proprio cammino, mentre Salieri sembrava tutto tranne che in grado di lasciarsi andare alle proprie emozioni o di sicuro non con quella frequenza e facilità. Sembrava anzi estremamente equilibrato, persino più di un normale adulto.


Dazai, osservandolo, aveva avuto in un paio di occasioni la percezione che l'equilibrio raggiunto da Salieri fosse uno artificiale, ossia uno guadagnato con le esperienze e piegando un carattere altrimenti diverso. E per quanto spesso si preferisse pensare il contrario, Dazai era piuttosto certo ci fossero poche esperienze davvero capaci di piegare un'indole al punto da renderla quasi l'opposto di ciò che era in principio: qualcosa di così totalizzante da rendere inermi, quasi paralizzati. La perdita, aveva imparato guardando morire più persone di quante potesse ricordarne, era l'emozione che insieme al terrore aveva reso più immobili i suoi avversari e i nemici della Port Mafia. Non importava quante cose si fossero fatte, quanti combattimenti o scontri si fossero affrontati, qualsiasi uomo di fronte alla giusta perdita o al giusto moto di paura diventava semplice da uccidere come un bambino. Quel tipo di emozione divorava qualsiasi altra cosa - il coraggio, la forza, persino la crudeltà.


Salieri doveva aver subito qualcosa del genere. Anni prima, molti anni prima, perché sembrava al tempo stesso ammantato della rassegnazione che solo chi ha già fatto tutto quanto in suo potere senza ottenere risultati poteva accogliere senza opporsi alla ricerca di un'ultima, vana speranza.


Se solo Dazai avesse avuto un ultimo indizio, quell'ultimo ma imprescindibile pezzo di puzzle...


«Dazai» lo richiamò Salieri, nonostante non fosse davvero necessario visto che non aveva mai smesso di guardarlo dalla sua frase precedente. Fu certo, già solo guardandolo, che non fosse un richiamare la sua attenzione come se avesse il dubbio di averlo perso tra mille ragionamenti. Salieri lo esortava a osare, a pronunciare un verdetto che Dazai sentiva di avere ma non nella sua totalità «eppure tu, più di tutti, non sei stato altro che circondato da quelli come me nell'ultimo anno. Così diceva Deus.»


Qualcosa lo gelò, per quanto non lo diede a vedere, imponendosi di mostrare solo uno sguardo indagatore. Non il fatto che Deus potesse avere informazioni su di lui al punto da dire a qualcuno con chi avesse avuto a che fare, perché era una cosa piuttosto scontata: nessuno avrebbe riunito persone che non si conoscevano tra loro e che non avevano una storia comune, per renderli parte del proprio grande piano, senza prima conoscerli nella misura necessaria a controllarli o almeno a farlo più possibile. Se poi Deus si fidava di Salieri al punto da rivelare alcuni dettagli, la cosa rientrava ancora nella misura di ciò che Dazai aveva se non dato per assodato, almeno previsto o ipotizzato. No, il gelo di Dazai in quel momento fu dovuto alla comprensione. A quel tipo di illuminazione che i saggi dicono di raggiungere a un certo punto della loro vita, quella capace di cambiare intere esistenze come un'apparizione.


L'ultimo anno, era un'indicazione temporale incredibilmente specifica e purtroppo per lui non lasciava spazio a molti dubbi. Nell'istante in cui se ne rese conto, fu come se uno specchio buttato a terra con rabbia e spaccato in miliardi di schegge di vetro impossibile da rimettere insieme si fosse appena riformato sotto i suoi occhi come per magia, rimandandogli indietro un'immagine perfetta con la propria superficie riflettente. Purtroppo l'immagine che gli rimandava indietro non era la propria e meno ancora quella di qualcuno di gradito - non era nemmeno quella di qualcuno, ma di qualcosa. Una creatura che chiunque avrebbe definito mostro anche solo guardandola, una potenza al pari di un cataclisma naturale che era quasi impensabile fosse racchiusa anche solo per un secondo nel corpo di un unico uomo.


Dazai non poté ricacciare indietro abbastanza veloce le parole che aveva sentito pronunciare una volta come se venissero pronunciate dalle viscere della terra stessa - lascia che mostri loro l'odio di una creatura non umana, il vuoto di un essere nato senza la benedizione di Dio. Gli mostrerò l'inferno assopito nel profondo del mio vero essere, nella mia stessa essenza-- e nel profondo della mia anima.


Lunghi capelli biondi in una treccia a poggiare morbida sulla spalla, occhi chiari come il cielo e un fetore putrido al proprio interno, ormai rinchiuso in un luogo simile alle segrete di un castello e che altro non era che la prigione autoimposta di un sotterraneo.


«Paul Verlaine.» pronunciò Dazai, fissandolo. Salieri non sorrise soddisfatto, non storse il naso, non mostrò il piacere di sentir pronunciare un nome che per forza di cose doveva essergli almeno un minimo familiare. Eppure quel silenzio fu comunque una conferma.


Dazai capì che la sensazione avuta fino a quel momento era quel brivido vago di chi si rende conto a livello inconscio di avere vicino una bomba pronta a esplodere, l'esperimento proibito che nessuno dovrebbe mai compiere e che a quanto sembrava non era stato portato avanti una volta, non due, ma ben tre.


Di fronte a lui, c'era la terza Singolarità che il mondo non sapeva nemmeno cosa fosse e che se anche lo avesse saputo, non avrebbe potuto contrastare in alcun modo. E lui, Dazai, non poteva far altro che chiedersi quanto folle e studiato fosse il piano di Deus o il suo obiettivo se teneva un uomo che da solo avrebbe potuto distruggere il mondo intero anche solo per capriccio come se fosse un innocua compagnia per i momenti di noia.


«E' uno dei nomi con cui so essere stato conosciuto uno come me.» confermò Salieri, facendo grattare la sedia indietro e alzandosi. Dazai non degnò di uno sguardo la scacchiera, comprendendo che la partita non era mai stata destinata a essere conclusa fin dall'inizio e che forse era stato oggetto di studio più di quanto pensasse quando si era seduto per propria scelta di fronte all'uomo. Lo vide recuperare il blocco e la penna, capendo che cercare di trattenerlo al momento sarebbe stato inutile e forse andava bene così: aveva bisogno di raccogliere le informazioni, per capire cosa farne e soprattutto come considerarle singolarmente e nella loro interezza.


Lo osservò allontanarsi, senza alcuna parola di congedo.


Proprio quando pensava che avrebbe semplicemente sentito la porta aprirsi e richiudersi, Salieri lo richiamò con un ennesimo «Dazai?» che gli fece alzare lo sguardo. Finì per incontrare quello duro di chi avrebbe potuto distruggere chiunque e qualunque cosa sul suo cammino in quel preciso istante e comprese che l'unica cosa a muovere quell'entità che gli stava di fronte era una disperazione così cupa da aver fatto più che logorarlo.


Aveva divorato qualsiasi briciola di umanità una cosiddetta Singolarità potesse avere.


«Il cammino che percorri ha solo una fine. Da quella non si torna indietro e tutti quelli come me l'hanno già percorso.» fu l'unica cosa che Salieri pronunciò prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle lasciandolo solo. Del vociare all'esterno gli suggerì che i fratelli stessero tornando.


Abbassò lo sguardo sulla scacchiera e pensandoci, Dazai comprese che c'era molto di più del piano di Deus.


Se la distruzione indiscriminata avesse avuto un volto, quello sarebbe stato senza dubbio il volto di una Singolarità e il suo nome sarebbe stato Antonio Salieri.

Profile

hakurenshi: (Default)
hakurenshi

April 2025

S M T W T F S
  1234 5
6789101112
1314151617 1819
20212223242526
27282930   

Syndicate

RSS Atom

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated Jun. 2nd, 2025 04:13 pm
Powered by Dreamwidth Studios