Underwater (cowt week 5 - M2, tristezza)
Mar. 14th, 2019 10:23 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Prompt: Tristezza
Missione: M2
Parole: 8103
Warning: au, 18!Dazai, 23!Odasaku
Per Dazai è difficile ricordare la prima occasione in cui ha visto uno dei fili del destino con la piena consapevolezza di cosa fossero. Di certo non da bambino, tanto che se prova ad andare indietro con la memoria, si rende conto di aver forse parlato a sproposito più di una volta riguardo essi, ma di non aver presente l’avvenimento nello specifico. Conoscendosi non si stupirebbe se avesse semplicemente tirato uno di quei fili chiedendo all’adulto di turno cosa fosse, ma il punto è che non lo ricorda.
Come tutto ciò che c’è stato prima dei suoi diciassette anni, d’altronde.
Un giorno Dazai si è risvegliato in un letto d’ospedale. In che modo ci sia arrivato, glielo hanno dovuto raccontare: incidente d’auto, i testimoni dicono di averlo visto buttarsi da un cavalcavia. Un miracolo che sia sopravvissuto, un miracolo che non sia rimasto paralizzato, un miracolo che il punto da dove si è buttato non fosse alto quanto credeva e che sotto di lui non sia passato un autobus o un camion ma un furgone aperto della spazzatura. Ha sentito pronunciare la parola “miracolo” fino alla nausea, non si sarebbe stupito nemmeno se glielo avessero dato come secondo nome, a un certo punto.
E’ rimasto in quell’ospedale per un tempo lunghissimo, considerato quanto ci è voluto a rimetterlo in piedi e in grado di camminare e di badare a se stesso. Parenti non ne hanno trovati: nessuno ha denunciato la sua scomparsa, nessuno è andato a cercarlo. A Dazai non ci è voluto molto per capire di aver cercato di suicidarsi, considerata l’accortezza con cui ha gettato la tessera studenti; sfortunatamente per lui, di mezzi per identificare un essere umano ne esistono fin troppi. Così prima “lo sconosciuto del miracolo” è diventato “Dazai Osamu” e poi è uscito dall’ospedale a pochi giorni dal suo diciottesimo compleanno è stato dimesso; sarebbe potuto rimanere per un paio di anni, quello a dividerlo dalla maggiore età, all’orfanotrofio in cui apparentemente è sempre stato. Tuttavia mettere uno che ha tentato di suicidarsi in mezzo ai bambini non sembrava una grande idea, così Dazai ha dovuto seguire interminabili e tediose sedute con uno specialista, una volta a settimana e rintanarsi in un alloggio per studenti che cade a pezzi ma che è, tutto sommato, più di quanto gli servirebbe davvero.
A diciotto anni Dazai non si ricordava nemmeno perché avesse avuto tanta voglia di morire, perché buttarsi giù con la speranza di ammazzarsi in un secondo fosse sembrata una buona idea. Il terapista gli ha chiesto più volte - in maniera più o meno enigmatica a seconda dei casi - se avvertisse di nuovo il desiderio di porre fine alla sua vita, o se gli fosse tornato in mente qualcosa.
Dazai è rimasto in silenzio tante volte, fino a che un giorno ha guardato la mano dell’uomo e il suo anulare sinistro, con una bella fede al dito, di quelle semplici ma che ci si è chiaramente impegnati a scegliere.
«Sua moglie che lavoro fa?»
Il terapista lo ha guardato perplesso dalla domanda, ma in evidente entusiasmo per avergli tirato fuori dalla bocca qualcosa che non fosse imboccata a forza da lui stesso.
«L’insegnante alle medie. Dazai-kun, stai pensando a quale lavoro fare?»
Dazai ha scosso la testa, aggiungendoci un’alzata di spalle.
Il filo rosso del suo terapista era collegato alla segretaria.
Quando è stato dimesso e ha capito, con i mesi di terapia, che quei fili li vedeva solo lui a Dazai non ci è voluto molto per decidere cosa fare dell’informazione intanto che un tedioso, ultimo anno di liceo scivolava lento giorno dopo giorno verso una fine che Dazai si augurava avrebbe messo un punto tra sé e i suoi compagni di classe. Niente di personale, ma anche per un adolescente normale sarebbe stato difficile inserirsi per bene in una classe dove in parecchi erano già amici e il resto si conosceva almeno di vista.
Dazai non è mai stato (nell’unico anno di vita che ricorda) normale.
Prima ha fatto una prova su se stesso: ha seguito con lo sguardo un filo rosa partendo dal proprio dito e ritrovandolo legato a una studentessa della classe accanto; ha studiato sia quello che lei per qualche giorno, e notato una cosa simile a un interesse nei propri confronti. Così lo ha tagliato, e a partire da quell’istante in lei non c’è stata quasi più coscienza della sua esistenza.
Ha ripetuto quell’esperimento un’altra volta, con fili di diverso colore - ce n’erano così tanti gialli, di recente, da non sentire certo la mancanza di uno o due - e constatato come al taglio del filo corrispondesse la perdita di un legame. Da lì il passo è stato semplice e breve: i pettegolezzi proliferano in pochi luoghi come nei corridoi di un liceo, e lui lo ha sfruttato a proprio vantaggio. In brevissimo tempo la voce di qualcuno che taglia i legami del destino per un compenso irrisorio si è sparsa, e Dazai si è ritrovato una paghetta tra le mani senza nemmeno troppo impegno. All’inizio forse con qualche piccolissima difficoltà dovuta allo scetticismo, ma è stato sufficiente aiutare due o tre ragazze e via, la voce ha finito con lo spargersi come una macchia.
Di fili alle sue mani non ce ne sono mai stati in abbondanza da quando ha riaperto gli occhi in ospedale, ma mentre taglia quello della sua ultima cliente per dividere il suo destino da quello di un ragazzo che continua a farle una corte indesiderata, non può fare a meno di sorridere.
«Cosa c’è?» lei sembra guardinga, e solo per quello si accorge di essersi quasi fatto scappare quell’espressione.
«Nulla. Il filo è scomparso.» assicura, vedendola rilassarsi.
Forse se tagliasse tutti quelli che vede collegati alle proprie dita, riducendosi a essere qualcuno completamente slegato dal mondo, allora in un certo senso sarebbe un po’ come morire.
Quando a contattarlo sul proprio indirizzo mail “di lavoro” è qualcuno che si firma come uomo, Dazai è inizialmente abbastanza perplesso. Non perché non sia più che pronto ad accettare clienti di qualsiasi sesso, quanto perché non gli è quasi mai capitato fossero uomini o ragazzi a rivolgersi a lui - d’altronde la storia del filo rosso del destino è più famosa tra le ragazze che altro.
Ciò nonostante dà appuntamento a lui come ha fatto agli altri, a eccezione del luogo che in questo caso è per forza di cose esterno alla scuola, trattandosi di un adulto almeno secondo quanto scritto nella mail. E’ un linguaggio non troppo formale, quindi Dazai esclude si tratti di qualcuno di troppo grande rispetto a lui, e le frasi sono piuttosto brevi e con quasi la totale assenza di fronzoli oltre la normale buona educazione degli adulti per bene.
Si firma Heigo, e assicura - in risposta al suo breve messaggio con indicati luogo e ora dell’incontro - che sarà riconoscibile grazie a un libro intitolato Discourse on Decadence.
Dazai non commenta oltre, ma lo trova quasi divertente. E’ piuttosto curioso di vedere di che tipo di persona si tratti, quando arriva al locale dell’appuntamento con un certo anticipo; prende posto per primo a un tavolo che gli permetta sia di osservare che di essere in vista dall’ingresso e attende, tra le mani un libro a propria volta. La cameriera gli porta un bicchiere d’acqua, e lui specifica di star aspettando un amico per ordinare.
Quella se ne va e Dazai non deve attendere molto. Legge appena un paio di pagine, prima che con la coda dell’occhio non individui qualcuno vicino al proprio tavolo. Mentre alza lo sguardo sente dire «No longer human?» con un po’ di perplessità a cui è abituato, visto che non molti alla sua età leggono un libro come quello; però anche a Dazai tocca sorprendersi, visto che si ritrova davanti due persone e non una sola come credeva. Sono entrambi senza dubbio più grandi di lui, e a parlare è stato Heigo - quantomeno ha il libro concordato in mano, Dazai lo può vedere senza difficoltà - mentre l’altro sembra non sapere nemmeno perché si trova qui. A Dazai non crea grandi problemi avere uno o due clienti contemporaneamente o avere l’accompagnatore di un cliente con loro, così si premura di mettere il segnalibro tra le pagine e poi dedicarsi a loro.
Sa qual è la prima cosa che l’uomo con gli occhiali sta pensando, perché è cosciente di avere l’aspetto di un ragazzo che subisce violenza domestica a causa delle bende che gli coprono le braccia fino a parte delle mani e che precludono la vista di uno dei suoi occhi. Per tutta risposta, rivolge loro un incurvarsi di labbra senza sbottonarsi oltre.
«Dicono che vedi i cosiddetti fili del destino.» incalza Heigo.
«E li taglio su richiesta, se serve.» replica lui, con tutta la tranquillità del mondo sebbene il suo sguardo sia impegnato a cominciare a scorrere il menù «Devo tagliare o soltanto osservare?» domanda, cercando di inquadrare il tipo di lavoro e il dolce che lo ispira di più.
Ci sono diversi istanti di silenzio che portano Dazai ad alzare lo sguardo su di loro; l’uomo che non ha ancora aperto bocca mantiene comunque lo sguardo su di lui - per essere un giapponese è un po’ strano, con i capelli rossicci e gli occhi di quel colore particolare.
«Vedi un filo a collegare me e quest’uomo?» Heigo attira di nuovo la sua attenzione, costringendolo a chiedersi se non stia perdendo tempo o se invece l’altro sia solo uno di quei clienti molto scettici che lo contattano ogni tanto. Abbassa gli occhi sulle mani dell’uomo, lasciando da parte il menù; Heigo non sembra avere molti amici, ma molte persone a cui è in qualche modo legato per il lavoro o in generale in modo superficiale sì. Tra quel groviglio di fili di poco conto ne cerca uno verde oppure quello rosso - esclude possano avere un rapporto di odio, non gli danno quell’idea, né di gelosia negativa e questo lo porta a escludere nero, blu e giallo. Il rosso lo include perché, dopotutto, il Destino secondo Dazai è complicato e infantile abbastanza da poter accoppiare chiunque se solo lo desidera.
Lo trova poco dopo aver iniziato a cercare, e avvicina due dita alla mano di Heigo. Non sfiora lui, ma prende tra pollice e indice il filo verde: al contrario di quello rosso, che sembra collegato a qualcuno che non è però nelle vicinanze, il verde scivola giù dal tavolo e Dazai lo segue, lo tira leggermente e si sporge un poco sul tavolo finché non vede che sì, è legato a una delle dita dell’altro uomo. Prima che possa dire qualcosa però Heigo parla di nuovo, solo non con lui.
«Cosa ne dici, Odasaku?»
«Li vede.» replica l’altro con semplicità e a Dazai non sfugge cosa significa.
I fili del destino li vedono entrambi.
I due lo stanno studiando, Dazai lo sai e li lascia fare per qualche momento per poi incalzarli; apprezza la curiosità e vuole e aspettare di consumare il proprio ordine prima di prendere e andarsene, ma essere come in uno zoo non lo esalta troppo.
«Devo tagliarlo?» domanda, giusto per capire se quello è mai stato un vero ingaggio; Heigo - ma a questo punto dubito sia il suo vero nome, così come quel “Odasaku” - scuote subito la testa.
«No.»
«Quindi eravate solo curiosi.» sentenzia Dazai di rimando, occhieggiandoli; la cameriera li raggiunge e attira tutta la sua attenzione. Ordina un caffè, sentendo Heigo fare lo stesso per sé e per l’altro e quando la giovane va via il silenzio che cade fra loro è macchiato da una sorta di disagio invisibile e dalle molteplici cause.
«Non capisco bene perché fosse così curiosi, quando il tuo amico li vede come me. O non te lo hai mai detto?»
Li vede guardarsi, ma negli occhi di Heigo non vede la sorpresa di chi non sapeva fino a quel momento. Dazai deduce quindi che non abbiano semplicemente incontrato qualcuno prima di lui e con la stessa capacità - d’altronde dubita che siano in tanti - o che Odasaku l’abbia usata come scusa. Dazai non sa bene cosa si provi a voler o non voler condividere una capacità simile con un amico, né se si possa essere triste o feriti da un rifiuto.
Lui non ci ha mai pensato.
«Non abbiamo mai incontrato qualcuno con la stessa capacità.» è Odazaku a parlare, per la prima volta peraltro, confermando quanto Dazai aveva già ipotizzato e guardandolo dritto in faccia; gli adulti, di solito, non lo fanno oppure lo fanno in maniera tale da credersi discreti. E’ una sorpresa, questa, più di quanto lo sia il vedere i fili che legano le persone.
«E l’unico che conosco» puntualizza Heigo, sistemandosi gli occhiali sul viso «non mette annunci sul saper vedere o sull’essere disposto a tagliare i legami delle persone su richiesta.»
Il tono con cui lo dice ricorda a Dazai una delle prime persone a cui ha offerto il proprio aiuto, una delle sue prime “clienti”. Una di quelle che nonostante sia troppo frenata dalla propria morale per accettare e approvare un atteggiamento, finisce comunque con il cedere se a macchiarsene sono gli altri, mentre a lei rimane solo un manto di ipocrisia a fare da vestito.
«Quindi pensavi che fossi un malintenzionato?» lo prende in giro, abbastanza apertamente perché l’altro lo capisca ma non in maniera così sfacciata da risultare maleducato. Ritira la mano, lasciando andare il filo incriminato e portando lo sguardo fuori dalla finestra; tende sempre a sede in modo che il lato cieco non sia mai quello offerto ai suoi interlocutori, proprio come adesso.
Sente uno dei due schiarirsi la voce, appena appena, e con la coda dell’occhio inquadra il tipo chiamato Odasaku; è in quel momento che la cameriera porta loro le ordinazioni, e Dazai non fa tanti complimenti per bere il proprio caffè, zuccherandolo quanto basta. Ha appena mandato giù una sorsata quando quella che, a quel punto, immagina essere la vera richiesta arriva.
«I fili si possono accorciare, che tu sappia?» domanda Heigo a bruciapelo, in evidente difficoltà sul come dare forma a un pensiero che è chiaro non sappia associare a un’immagine reale, non potendo vedere nulla. Dazai non può non riportare lo sguardo su di lui, celando la sorpresa e il pizzico di perplessità di fronte a quella domanda che non gli è mai stata posta prima, nemmeno da chi si è dimostrato piuttosto interessato all’argomento.
«Accorciare in che senso?»
«Oltre a tagliarli, è possibile che si accorcino se il legame si sta spezzando naturalmente? Oppure essere più corti o più lunghi a seconda del caso.» Heigo cerca di fare di meglio, con la spiegazione di cosa intende. Non ci riesce del tutto ma, a onor del vero, non è colpa sua.
«Non ho mai visto i fili “accorciarsi”. Se il legame si spezza naturalmente, così fanno i fili. In genere li taglio, quindi non ho badato molto a quelli che si interrompono da soli, ma a grandi linee so per certo che non si consumano.» ammette con un totale disinteresse per la cosa. Per notare una cosa simile si sarebbe dovuto interessare dei legami di almeno una persona e controllarli giornalmente, uno per uno, oppure individuarne uno singolo e tenerlo d’occhio. Per lui che, dopo un primo momento di studio, ha deciso di ignorare persino i suoi di fili del destino, è assurdo pensare di essersi potuto preoccupare di quelli altrui. Tuttavia la domanda di Heigo lo pungola nel modo sbagliato: se capisce lo scetticismo negli altri, di fronte al suo “lavoro”, gli riesce molto complesso comprendere l’urgenza che gli sente appena nel tono. A discolpa dell’uomo, Dazai è convinto che chiunque altro non ci avrebbe fatto troppo caso.
Purtroppo per Heigo, però, lui non è chiunque altro sebbene non sappia poi con esattezza chi sia stato e - di conseguenza? - chi lui sia ora.
Heigo e Odasaku si scambiano un’occhiata in silenzio, ma quest’ultimo a Dazai non sembra particolarmente preoccupato. L’occhio gli cade senza grande discrezione sulle mani dell’uomo: un po’ come Dazai, i suoi fili non sono molto, ma gli sembrano a posto e meglio distribuiti. Oltre al verde che lo collega a Heigo ce ne sono un altro paio - un uomo con pochi amici ma buoni, è chiaro -, di giallo non molto, di nero niente (un uomo benvoluto, quindi) e diversi rosa che sono sempre un po’ complessi da distinguere tra affetto dei parenti e degli amici da un interesse romantico di qualcuno. Nessuno di quei fili è molto lungo, ma niente che a Dazai faccia scattare chissà cosa.
Poi nota il filo rosso, e di norma non si cura di seguirne il percorso fino all’altro capo a meno che non gli venga espressamente richiesto, ma in questo caso è indipendente dalla sua volontà: il filo rosso di Odasaku fa un paio di giri attorno al suo anulare sinistro, come succede per tutte le persone, ma lì dove dovrebbe poi proseguire è già spezzato. La lunghezza non arriva nemmeno ad attraversare l’intero palmo di mano dell’uomo.
«...»
«Lo hai visto.» quella di Heigo, stavolta, non è una domanda.
«Mi chiedo come lo sappia tu.»
«Me lo ha detto Odasaku. Io non vedo nulla.» replica, forse indispettito abbastanza da lasciarselo sfuggire in una sfumatura del tono di voce. Dazai sospetta che non lo disturbi il non vedere una manciata di fili attaccati alle mani della gente come se fossero tutti marionettisti, ma non riuscire a vedere quelli di Odasaku nello specifico.
Dazai tace, rifugiandosi in un generoso sorso di caffè dalla propria tazza, tenendo lo sguardo sulla mano dell’uomo per un lungo istante e ponderando. Di possibile causa gliene salta in mente una sola, a essere sincero, e sebbene nessuno lo paghi per avere tatto con gli altri non è sicuro che quell’individuo che ha pronunciato una sola frase da quando sono lì sia pronto a sentirsi dare l’unica spiegazione plausibile.
«Se vuoi posso osservare i fili per un periodo.» propone «Vedere se, guardandoli a intervalli regolari, noto qualche differenza e la causa dello stato di quello rosso.» spiega meglio le sue intenzioni - a dire il vero lo incuriosisce: sarà davvero quello l’aspetto del filo rosso di qualcuno la cui anima gemella è già morta?
Perché è quella l’unica opzione che a Dazai sembra possibile.
«Non ho mai offerto un lavoro a lungo termine, ma non è un problema e possiamo concordare il compenso.» assicura con un sorriso costruito, imparato guardando business men che si possono incontrare ovunque per le strade, mentre si va a scuola.
Heigo e Odasaku si guardano per un attimo, e quest’ultimo sospira. Heigo invece torna con l’attenzione su Dazai, fino a che non allunga una mano sul tavolo. offrendogliela. Dazai gliela stringe, convinto di star sigillando un accordo, ma Heigo gliela trattiene.
«Ango.» pronuncia, sistemando con l’altra mano gli occhiali in quello che Dazai ormai ha classificato come un gesto meccanico.
«Cosa?»
«Sakaguchi Ango è il mio nome. Heigo è un alias.»
«Dazai Osamu.» si presenta a sua volta, perché non ha niente da perdere a dire il proprio nome reale: chi sarebbe così stupido da rivelarlo quando farlo significa quasi sempre ammettere di aver creduto che una persona potesse vedere fili invisibili al resto del mondo?
«Bene, Dazai-kun. Abbiamo un accordo allora.» pronuncia Ango, lasciandogli la mano e bevendo il proprio caffè in un solo sorso, per potersi poi alzare in piedi: «Darò io a Odasaku il tuo indirizzo mail, ora purtroppo siamo di fretta entrambi.» rivela, portando la mano nella tasca interna della giacca e tirandone fuori una busta semplice che allunga sul tavolo, perché Dazai possa prenderla. Non ha bisogno di chiedere per sapere che dentro ci sono i soldi dell’incontro di oggi, sia perché non vede cos’altro potrebbe dargli Ango, sia perché è un uomo facile da inquadrare almeno nel suo fare troppo serio e troppo formale.
Dazai si limita a un’alzata di spalle e un cenno della testa - non gli tange molto che lui e Odasaku si scambino ora gli indirizzi o tramite una terza persona. Anche lui si è alzato, ha bevuto il caffè in un paio di sorsi e ora lo osserva.
Ango fa per voltarsi e andarsene, ma Odasaku mantiene lo sguardo su Dazai e alla fine si decide a pronunciare una domanda che Dazai, nel sentirla, sospetta si sia tenuto finora.
«Per quelle hai bisogno di aiuto?» domanda, accennando alle bende.
Dazai vorrebbe ridere: Odasaku avrebbe potuto chiedere in maniera molto più invadente a cosa fossero dovute - una rissa, violenza domestica, un incidente - o cosa nascondessero, e invece l’unica cosa di cui sembra preoccuparsi è come aiutare un minorenne appena conosciuto in maniera anche vagamente losca.
E’ apprezzabile, sì, perciò decide di premiarlo con una cosa rara da parte propria: la verità.
«No» pronuncia con un sorriso affabile a incurvargli le labbra «ho cercato di uccidermi, ma non ha funzionato.» minimizza, sapendo bene nel momento in cui lascia scappare quelle parole quale effetto esse possano avere sugli altri.
Ango si irrigidisce, ma poi sembra analizzarlo per cercare di capire quanto sia vero quello che sta dicendo - Dazai lo capisce perché hanno un modo di studiare gli altri non troppo dissimile, lo ha capito subito.
Odasaku invece lo guarda, in silenzio, e quasi sembra non aver avuto reazioni.
Escono entrambi dal locale poco dopo, lasciandolo solo al tavolo. Fuori ha cominciato a piovere a dirotto, senza alcune preavviso come spesso succede durante la stagione.
Dazai guarda fuori, lasciando libera la sua testa di farsi affollare di pensieri.
Ho cercato di uccidermi ma non ha funzionato.
Non ricorda nemmeno perché ci abbia provato, ma a volte pensa sia una gran seccatura aver fallito.
Lui e Odasaku finiscono per incontrarsi più di quanto lui creda, e in generale il suo lavoro di osservatore diventa più lungo del previsto. Uno dei pochi motivi per cui nessun cliente ha mai avuto di che lamentarsi riguardo Dazai è che lui non ha mai reso più complesso del previsto un lavoro solo per guadagnare più soldi. Anche con Odasaku se potesse troncherebbe di netto la cosa passando al prossimo lavoro, non importa che Ango sia estremamente puntuale con i pagamenti - la cifra non è mai stata chissà quanto alta, visto che di bisogni non ne ha di così impellenti da necessitare l’arricchirsi, d’altronde.
In questo caso, però, davvero non sa bene come definire la situazione. Si vedono in media una volta a settimana, qualche volta due compreso uno dei giorni del weekend; la compagnia di Odasaku è migliore di quella di molti altri che hanno provato a passare del tempo con lui, di questo Dazai gliene ha dato atto fin dal primo incontro senza Ango presente. Odasaku non è tanto più grande di lui, a conti fatti, ed è un avido lettore cosa che a Dazai fa piacere per due motivi: preferisce la compagnia di un libro a quella delle persone, quindi avere qualcuno con cui fare due chiacchiere in merito non è male, e soprattutto possono passare la maggior parte del tempo insieme in silenzio, senza dover per forza instaurare un dialogo di qualche tipo destinato a rivelarsi del tutto superficiale e indesiderato.
Quando parlano, è su qualche impressione sui libri che tengono tra le mani ma ogni tanto Dazai concede anche un argomento un pelo più personale; non gli dispiace che Odasaku sia il tipo di persona riservata abbastanza da non voler essere invadente con gli altri, ma al tempo stesso lo incuriosisce che esista una persona così. Prima di dirigersi da qualche parte e prima di separarsi, Dazai ha sempre tenuto d’occhio quel filo rosso - ma anche tutti gli altri - per constatare la presenza o meno di cambiamenti di qualche tipo.
Sono quasi tre mesi che si incontrano, quando Odasaku finalmente oltrepassa un confine probabilmente autoimposto e che, a essere sincero, Dazai avrebbe preferito non superasse.
«Non si stanno avvicinando gli esami di ammissione, per gli studenti del liceo?» gli chiede di punto in bianco, tanto da portarlo ad alzare lo sguardo dai caratteri sulle pagine e puntarlo su di lui, quasi cercando di capire dove sia l’inganno. Quella è la tipica domanda che Dazai si aspetterebbe da uno come Ango, non da Odasaku che sembra a stento interessato alla sua persona o a qualsiasi altra cosa - a volte lo irrita persino. Farebbe qualcosa in merito se non temesse di vederlo trasformarsi in una adulto come il suo responsabile di classe, che continua a trattarlo come il figlio che non ha mai avuto e soprattutto come se Dazai desiderasse un padre sopra ogni altra cosa.
«Direi di sì.» commenta mantenendosi vago e neutrale, lasciando che sia Odasaku a fare la fatica, se proprio ci tiene a conversare su un argomento tanto inutile.
«Possiamo vederci meno. Per lo studio, intendo.»
«Perché pensi che debba fare gli esami di ammissione all’università?» lo incalza Dazai, sbirciando nella sua direzione ma assicurandosi che Odasaku se ne accorga. A ben pensarci, quando ha scoperto che “Odasaku” non era un nome inventato come “Heigo”, ma il modo in cui i suoi pochi amici lo hanno sempre chiamato - Oda Sakunosuke, Odasaku va bene, gli ha detto la prima volta - se ne è stupito. Lo ha aiutato a inquadrarlo con grande facilità ma, al tempo stesso, qualcosa ha suggerito a Dazai che non potesse esistere una persona più distante da lui.
Odasaku alza un sopracciglio, chiaramente perplesso: «Sei intelligente.»
«E questo significa che devo per forza proseguire gli studi?»
«No.» osserva Odasaku «Ho solo pensato fosse un peccato.»
«La vita è breve, Odasaku.» e detto da lui fa così ridere che non riesce a non sbuffare divertito, sebbene sia certo che nessuno lo trovi divertente quanto lui «La mia è più lunga del previsto, chi ti dice che io abbia voglia di arrivare a laurearmi.»
Cade il silenzio tra loro per diversi attimi, tanto che Dazai a un certo punto si convince di aver chiuso la questione con insospettabile velocità. Odasaku forse sta riorganizzando i pensieri, o magari sta solo lasciando cadere il discorso, non lo sa e non sa nemmeno quale opzione preferisca - non ama essere interrogato e doversi esporre, tant’è che riesce a evitarlo sempre con facilità e spesso senza impegnarsi però una parte di lui prova disappunto e fastidio nei confronti di quell’uomo capace di interessarsi alle cose sbagliate e, con altrettanta velocità, a lasciarle andare.
Dazai voleva (lo voleva?) lasciar andare tutto, dalla sua vita al resto del mondo, e adesso gli resta in mano un mondo che se lo è tenuto stretto e che lui deve imparare a conoscere di nuovo da zero, perché in cambio ha avuto solo un buco nero di sedici anni e mezzo sulle spalle.
Ma Odasaku non sta facendo scivolare via nulla, in verità.
«Pensi di riprovare a ucciderti?» domanda con una pacatezza quasi fuori luogo. Questo a Dazai non dispiace, ma solo perché non sarebbe stato in grado né invogliato a sopportare una reazione isterica sull’argomento; d’altronde, nemmeno la prima volta che lo ha menzionato Odasaku è sembrato particolarmente turbato, non nel modo in cui lo sono gli adulti di solito.
«Sto studiando il modo migliore. Non so cosa ne pensavo prima, ma ho deciso che il dolore non mi piace, quindi devo trovare la tecnica perfetta per morire in fretta e non soffrire.»
Odasaku lo studia, forse per cercare di capire se lo stia prendendo in giro oppure no. Dazai non può dargli torto, sull’avere quel dubbio; in tre mesi Odasaku ha già capito che in lui non deve cercare un diciottenne ormai prossimo al diploma e pieno di curiosità e speranza per il futuro, di preoccupazioni normali e banali, di interesse romantico per l’amica di sempre e il sogno di un lavoro e una strada da percorrere che sta appena iniziando a scoprire. Dovesse lui, Dazai, elencare cosa si potrebbe trovare in lui non avrebbe una lista pronta. Si sente come un buco nero, niente di quello che si avvicina rimane lì a lasciare traccia di sé.
«Non sai cosa ne pensavi prima.» ripete l’altro, non come domanda ma come constatazione. Dazai lo percepisce, nel suo tono, che Odasaku sta facendo due più due.
Chissà quanto può spingersi oltre prima che lui ceda.
«L’unica cosa che mi sono portato dietro dall’ultimo tentativo è una tabula rasa in testa, quindi mi dispiace ma chiedermi perché io ci abbia provato è inutile.»
«Le bende.»
«Mh?»
«Una tabula rasa e le bende, sono quello che ti sei portato dietro?» lo interroga Odasaku, e Dazai ammette che per una volta non capisce dove il discorso stia andando a parare. O meglio, non riesce a capire se l’altro stia cercando di portarlo all’ammissione di qualcosa o se le sue siano solo osservazioni casuali. Alza un sopracciglio e lo fissa per una manciata di secondi, prima di annuire lentamente; non intende entrare nel merito di come le bende, ormai, non nascondano più ferite fresche. Dà per scontato che anche Odasaku ci abbia pensato.
«Mh.» pare l’unico commento con cui Odasaku sembra intenzionato a sbilanciarsi. Dazai riporta lo sguardo sul libro, ma è dopo nemmeno tre righe lette che sente la voce al suo fianco parlare ancora una volta.
«Credo che sotto le bende sia rimasto qualcosa ancora.»
«Nah» quasi lo canticchia, inquadrando quel lungo silenzio per la preoccupazione di qualche cicatrice, forse «non c’è nessuna cicatrice sotto, ma mi donano, no?» scherza su.
«Non le cicatrici» riprende Odasaku, ma il suo sguardo sta tornando sul libro che stava leggendo prima «tutto il resto. Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.»
Lui non è solito ammutolire, ma un po’ per scelta e un po’ per colpa di Odasaku lo fa; si sente montare nella bocca dello stomaco un sentimento a cui non sa dare nome, niente di positivo, un mix di cose che non ci tiene a riconoscere ma che si traducono in un filo blu che ora lo lega a Odasaku, così, per prendersi gioco di lui - un filo blu per la paura e la tristezza e tutti quei sentimenti umani che Dazai non sa mai riconoscere, incolpando della cosa l’assenza di memoria.
Si morde l’interno della guancia, scaricando lì parole e accuse che ricaccia indietro, giù per la gola.
Non puoi essere solo quello che si vede, Dazai.
Perché, c’è qualcosa oltre quello che si vede?
Quando si salutano , Odasaku lo guarda con una briciola di apprensione nello sguardo e gli offre di mangiare insieme, una cena leggera, dopodiché lo riaccompagnerà a casa.
Dazai odia essere sfiorato più di quanto odi essere toccato - quando lo toccano, non che ci abbiano provato in molti, può scrollarsi la mano di dosso e mettere in chiaro che non è un gesto gradito. Ma le persone che sfiorano gli altri senza un contatto vero perché hanno paura di spezzarlo sono quelle alle quali non può scacciare la mano perché tempo di voltarsi verso di essa, e quella non è più lì.
Così quando la gentilezza di Odasaku cerca di farsi appena percepire, Dazai si scosta nell’unico modo possibile che conosce: ferisce.
«Non preoccuparti per me, Odasaku. Non so se è la persona a essere stata dall’altra parte del tuo filo rosso a essersi uccisa, ma io e lei siamo due cose distinte.»
Una volta a casa, una stanza stretta appena sufficiente a esistere senza soffocare, gli occhi gli cadono per caso sul filo blu e si aspetta di trovarlo giallo - il colore della gelosia, ma anche quello del disprezzo e dell’antagonismo in generale, uno di quelli che gli è più familiare.
E’ ancora blu.
Questo non sa come lo faccia sentire, ma di sicuro non è felicità.
Lo sorprende vedere Odasaku contattarlo di nuovo, ma lo sorprende ancora di più accettare di incontrarsi ancora, sebbene all’inizio ipotizzi che potrebbe anche essere la scissione di un contratto che in fin dei conti è solo verbale. Mentre si dirige al luogo dell’appuntamento si prepara persino a trovare Ango, e di certo non per complimentarsi con lui del lavoro svolto finora.
Invece Odasaku è da solo, sulla panchina del parco, a dare attenzioni a un gatto randagio ben accomodato accanto a lui.
«Ti piacciono così tanto i randagi, Odasaku?» gli scappa di bocca al posto di un saluto e prima che possa tenerselo per sé - non è così grave, Dazai non si è mai preso la briga di avere tatto nei confronti degli altri o di privarsi di rendere chiara la cruda realtà così come lui l’ha sempre vista dal risveglio in ospedale. Il suo modo di fare è in bilico tra il desiderio di ferire per vedere le reazioni degli altri, e la speranza di riscoprire in quelle stesse reazioni qualcosa di familiare che gli ricordi come si fa a essere umani, persone normali. Non perché brami la banalità che vede negli altri, ma perché forse più di un anno a farsi studiare il cervello con domande su domande e a osservare gli altri con l’avidità di chi del mondo non sa niente gli sono bastati per capire di essere un contenuto vuoto. E qualcuno ha detto, o magari anche scritto, che un recipiente vuoto tende sempre al riempimento.
Odasaku lo guarda e sospira, quasi rassegnato, prima di tornare con lo sguardo sul felino; quello pare più interessato a fissare Dazai, quasi a giudicarlo, ma lo lascia stare presto per alzarsi e andarsene via.
Quasi fosse una ripicca, Dazai si siede al suo posto con uno sbuffetto tra il divertito e il soddisfatto.
«Quello che hai detto la volta scorsa» comincia subito Odasaku, senza aspettare oltre o introdurre l’argomento in modo più soft «non credo sia corretto.»
«Perché?» domanda, provocatorio. Ovvio che non è stato corretto, gli ha praticamente sbattuto in faccia di non fare l’errore di sovrapporre lui alla figura della persona che un tempo è stata dall’altra parte di un filo del destino spezzato e per cui non esiste riparo, al contrario di quelli degli altri legami. Di anima gemella ce n’è una sola, d’altronde.
«Perché non ho mai avuto una persona che potesse essere dall’altra parte del filo rosso.» ammette con un candore che nemmeno Dazai può ignorare e che lo sorprende al punto da non permettere alla sua solita poker face di ingannare il suo interlocutore in merito all’interesse che la cosa gli susciti. Più che interesse specifico, quello di Dazai è dovuto a un unico fattore: non pensava potesse esserci qualcuno dell’età di Odasaku il cui filo, non ancora connesso, somigliasse a uno tranciato di netto.
«...Mi stai dicendo che potresti essere un caso di persona senza anima gemella?» lo interroga, guardingo - forse la sua anima gemella non è ancora nata? Impossibile, ci sarebbe un esagerato divario di età a renderlo impossibile. Forse è morta prima che Odasaku nascesse, o prima che si rendesse conto di cosa significava quel filo? La differenza in quel caso non sarebbe altrettanta, per quanto sarebbe… insoddisfacente. Crede.
«Questo dovresti dirmelo tu, Dazai.» replica Odasaku con un mezzo sorriso, il gomito poggiato sul proprio ginocchio e la mano a sostenerne il volto mentre se ne sta voltato verso di lui a osservarlo «Sei tu l’esperto.»
«Beh, però quello strano sei tu, Odasaku.» rimbecca «Hai il mio stesso potere, ma non lo utilizzi e non te ne sei mai interessato. Ho capito subito, quando vi ho visti, che è stato Ango a insistere per incontrarmi e non tu. Poi non hai mai avuto un’anima gemella, il tuo filo è interrotto non come quando non è ancora collegato ma come quando viene spezzato, eppure tu dici che è sempre stato così.» sciorina tutte le proprie motivazioni, bravo come un libro che non ha mai bisogno di essere corretto perché dice solo cose giuste.
«Un filo rosso come il tuo non l’ho mai visto.»
«Persino il tuo è collegato, Dazai?» sembra genuinamente sorpreso dalla cosa, e Dazai non può dargli torto. Però, contro ogni aspettativa, si lascia sfuggire la pura e semplice verità - per quanto sia conscio che, a dire certe cose nel modo in cui lo fa lui, come se non fossero affatto importanti, lascia sempre il dubbio agli altri se stia mentendo o meno.
«Io non ce l’ho.»
«...» Odasaku tace, e in quel silenzio a Dazai sembra di sentire delle scuse incerte, un’indecisione di base su come comportarsi ora, su cosa dire.
«E’ possibile?»
«Direi di sì.» replica, con una sfumatura di ovvietà nella voce, alzando la mano incriminata e mostrandogliela: pochi fili, di colori diversi tra loro, ma nemmeno l’ombra di uno rosso.
«Non avevo mai visto qualcuno senza.»
«Allora forse siamo in due.» sottolinea «Ho immaginato fosse perché avevo il potere di vederli, ma forse non è così visto che tu lo hai, per quanto malconcio.»
Rimangono entrambi in silenzio, Odasaku ancora con gli occhi sulla mano senza filo rosso, Dazai a guardare lui.
I silenzi di Odasaku sono sempre duplici: lo fanno sentire rilassato come di rado accade per la presenza di un’altra persona, ma sono anche estremamente pericolosi. Quell’uomo di solo qualche anno più grande di lui ha la capacità di parlare poco e cogliere sempre nel segno, una qualità che Dazai apprezza più dell’ipocrisia ma che mina troppo a tutta quella parte di sé che è al pari di una tavolozza che nessuno - lui per primo - vuole prendersi la briga di riempire con qualche colore o anche solo una bozza di qualcosa.
«Ti rende triste?» domanda così, dal nulla, riconfermandosi una mina vagante pronta a esplodere in territorio nemico in ogni istante.
Ci pensa, per un attimo, anziché minimizzare subito; non è tanto il desiderio di aprirsi quanto il pensiero di dover forse concedere un pezzetto per averne indietro un altro, qualcosa che lo aiuti a districare la matassa di misteri che si concentrano in quell’unico, incomprensibile filo.
La risposta però è più difficile da trovare di quanto sembri. Lo rende triste? Da quando si è risvegliato nel letto di ospedale, senza poter muovere nemmeno un muscolo senza sentire dolore, era triste di essere vivo? Triste per aver provato a uccidersi? Triste di non ricordare nulla?
E’ triste quando guarda la propria mano e realizza che forse nemmeno il karma ha avuto il coraggio di unire la sua vita a quella di un’altra persona?
«Si può essere tristi per qualcosa che non si ha mai avuto?» replica, ma non è una provocazione questa volta il suo farlo con un’altra domanda. Torna a guardare davanti a sé, abbassando la mano e posandola mollemente sulla propria gamba, lasciandola lì perché Odasaku la guardi pure, se preferisce. A volte, quando lascia vagare la mente si accorge di guardare sempre più in fondo, sempre più verso l’orizzonte e di cercare di superarlo, quasi avesse piena coscienza della presenza di qualcosa al di là ma non riuscisse a vederla.
Non c’è mai niente da vedere davvero, però.
«Voglio dire, non so nemmeno se ho mai avuto questo filo prima. Se c’erano persone, prima. In ogni caso, se c’erano, non sono venute a cercarmi.» non lo dice con amarezza, non è il tipo. Crede, almeno, di non essere il tipo. In ogni caso di questo è abbastanza sicuro: parlare di come sia solo e rendersi conto di non avere nessuno - o almeno, nessuno che abbia deciso di tornare a riprenderlo in ospedale - non lo fa sentire distrutto dal dolore.
Nostalgico nemmeno, si ha nostalgia di qualcosa che si aveva un tempo e che ora manca.
«A te fa sentire triste, averlo così?»
«Non proprio.» ammette Odasaku, sebbene non si sbilanci di più «Forse ti senti solo.»
Sbuffa divertito, Dazai, non può non farlo perché la solitudine è una cosa che veste come una seconda pelle e con piacere: «Solo mi piace.»
«Non ho detto che non ti piace.» sottolinea Odasaku, la spalla che tocca quella di Dazai «Ma il fatto che ti piaccia, non significa che “solo” è una cosa che non senti distante da te?»
«Odio come usi le parole, Odasaku.» lo interrompe - forse cerca di distogliere la sua attenzione dall’argomento - ed è un grande complimento perché Dazai con le parole ci gioca spesso (sempre).
«Beh» dice l’altro, divertito, tanto che non sembra nemmeno stiano parlando di argomenti seri ed esistenziali «è un bene che non sia mai finito a fare lo scrittore.»
«Vuoi fare lo scrittore?»
«Da bambino. Ormai ho lasciato stare.»
«Non muori certo domani, Odasaku. Potresti.»
«Morire domani?»
«Fare lo scrittore. I tuoi libri sarebbero insopportabili, ma penso sarebbero anche belli.» gli concede, continuando a guardare con insistenza davanti a sé. Percepisce lo sguardo di Odasaku addosso ma finge di no, conscio di averlo sorpreso perché ha stupito anche se stesso - con Odasaku scopre di avere ancora qualcosa dentro di sé, qualcosa che non si vede in superficie forse. Magari l’altro aveva ragione.
«Penso che tu riconosca bene le emozioni degli altri, Dazai.» riprende l’uomo come se non avessero mai affrontato la parentesi di cosa volesse fare da ragazzino, quando cercava di immaginarsi adulto.
«Le mie no?»
«Mh. Credo di no. Penso che non esista una sola persona al mondo che sarà mai in grado di riconoscerle per te e tu le neghi, le mascheri come un ragazzino della tua età non dovrebbe saper fare e per questo… forse nemmeno tu riesci a vederle.»
Cade di nuovo il silenzio tra loro, ma non è di quelli scomodi. Dazai si lascia scivolare con la schiena contro la panchina e lo sguardo sale verso l’alto, abbandonando in parte l’orizzonte o qualunque cosa cercasse oltre esso. Sente Odasaku imitare la sua posizione, perché la spalla dell’uomo si allinea di nuovo alla sua.
«Quindi» riprende abbandonando ogni filo logico possibile di quella conversazione, sempre se ne sia rimasta almeno l’ombra «mi sento solo e questo mi rende triste?»
«Non lo so. Ti fa felice? O vorresti non essere solo?»
«...Non lo so.» si rintana dietro tre parole per non dire che, in fondo, se l’alternativa alla solitudine fosse Odasaku potrebbe non essere tanto male.
L’altro lo sta di nuovo guardando, lo percepisce.
«Vieni a mangiare da me.» propone infine, ma non aspetta la sua risposta «Puoi anche restare a dormire, per una notte.»
Fa fatica a capire perché dovrebbe e perché il suo rapporto di lavoro ormai è un legame indefinito e basta; però l’idea non gli dispiace e già questo è sorprendente.
Essere qualcosa di diverso da “solo”. Chi lo avrebbe mai detto.
Sto portando Odasaku in ospedale.
Le parole di Ango gli rimbombano in testa mentre esce di casa, prende la metro, sbaglia strada e deve chiedere informazioni - e per fortuna se ne accorge abbastanza in fretta, o perderebbe ore. Forse minuti. Ma quanto è grave il motivo per cui Odasaku è in ospedale?
C’è stato un incidente. Diceva che avevate un appuntamento.
Sì, il solito della settimana. Dazai muove un passo dietro l’altro: sostenuto, poi più veloce, poi sta correndo e non ha davvero la preparazione fisica per fare uno sforzo simile dopo appena un anno di riabilitazione completa ma a quell’ospedale ci arriva.
E’ difficile inquadrare subito chi si sta occupando della reception e chiedere di Odasaku, perché quando dice il suo nome l’infermiera controlla e gli dice che non c’è nessuno lì - Dazai fa schioccare la lingua contro il palato, Oda Sakunosuke, si corregge.
Lei gli chiede se è un parente, lui scuote la testa: sta per dire che è un amico anche se non è vero - cosa sono lui e Odasaku? - quando Ango appare dal nulla come un cavaliere dall’armatura scintillante, non fosse per il solito completo da impiegato triste e la faccia bianca come un cadavere, l’espressione grave in viso.
E’ lui che si prende la briga di parlare con l’infermiera, di spiegargli; Dazai non sa cosa gli dica ma ottiene di farlo passare, poi gli posa una mano sulla spalla per guidarlo come se Dazai non fosse in grado di camminare da solo. Appena girano l’angolo, l’uomo comincia a vomitare parole e spiegazioni che Dazai fatica a cogliere tutte insieme. Gli parla di incidenti, di Odasaku, di macchine, di incontri, di appuntamenti, di lavoro, di lui che corre, di come sembra che anche Dazai abbia corso.
Gli dice di no, ma si sente a metà quando lo dice.
La sala operatoria è ancora chiusa, la luce rossa accesa fuori segnala che è tutto in corso - Dazai detesta non avere risposte, ma detesta ancora di più il panico che si sente dentro e che è di sicuro colpa di Ango e della sua agitazione.
Non muori certo domani, Odasaku.
Glielo ha detto sul serio ma non ci credeva, era una battuta come la maggior parte di ciò che gli esce di bocca, fatto di ironia, una punta di sarcasmo a volte e zero consapevolezza del domani. Come fa uno che si è buttato da un cavalcavia per ammazzarsi ad avere la presunzione di sapere cosa aspettarsi il giorno dopo?
Non voleva nemmeno avercelo, un giorno dopo. Anche se non sa ancora perché. Però mentre si siede fuori con Ango, spera che Odasaku un domani ce l’abbia.
La luce fuori dalla sala operatoria si spegne e Ango salta in piedi come se gli avessero dato la scossa. Dazai rimane seduto, registra quel cambiamento luminoso con qualche secondo di ritardo.
Quando il medico esce e si toglie la mascherina, chiedendo ad Ango se sono solo loro due lì o se la famiglia è in arrivo, Dazai capisce che Odasaku è morto.
Potrebbe pensare “qualcosa è andato storto”, oppure “c’è stata una complicazione ma lo hanno salvato” invece l’unica possibilità gli pare quella. Non riesce a pensare al positivo, alle tante cose che potrebbero essere andate storte rimanendo comunque un’opzione migliore della morte.
Mentre Ango parla con il medico, Dazai non ha nemmeno bisogno di alzarsi per saperlo.
Oda Sakunosuke è morto.
«Vado a firmare le carte.» pronuncia Ango, senza sfiorarlo nemmeno. Il loro unico contatto è stato in quel breve momento di panico interiore per entrambi, ma ora tutto sembra tornato a un’asettica normalità.
Dazai sente a stento la porta chiudersi alle sue spalle, lo sguardo fermo sul corpo di Odasaku sotto un lenzuolo bianco. Quando è sicuro che Ango non stia per tornare dentro, lo scopre: il volto è più pallido, ma non è passato abbastanza perché sembri già morto piuttosto che in un sonno profondo e niente di più.
Allunga una mano e gli sfiora una guancia; la ritrae, la porta più giù, e gli tocca la mano.
Non muori certo domani, Odasaku.
Il filo rosso di Odasaku è ancora lì, spezzato tra fili ancora integri ma che si stanno allentando. E’ la prima volta che Dazai vede il progressivo venire meno dei legami con gli altri, e non si aspettava fosse così - eppure ora lo vede con chiarezza: quel filo non si è mai legato non perché l’anima gemella di Odasaku sia già morta, ma perché lui era destinato a morire prima di incontrarla.
Un conato di vomito gli risale dallo stomaco alla gola, l’acido della bile a grattare per uscire. Lo trattiene, portando una mano alla bocca: c’è qualcosa che lo sta mangiando da dentro e non capisce cosa sia - forse la rabbia, perché che senso ha una persona come Odasaku morta in un letto di ospedale, Odasaku che vuole (voleva) fare lo scrittore mentre uno come lui, come Dazai, che non desidera niente e non ha niente si ritrova con il peso di dieci, cento, mille domani ancora. E l’unica volta che ha provato a toglierseli di torno non ci è nemmeno riuscito.
Ti rende triste?
Gli si rivolta lo stomaco, non in senso letterale, però; le viscere gli si stringono in maniera dolorosa e gli si forma un nodo in gola, così stretto che Dazai pensa di non star più respirando nel modo giusto. La mano su quella di Odasaku si stringe, tiene la sua.
Ha sempre pensato di essere vuoto, di essere quel tipo di assenza che attira solo altra assenza, quel recipiente che tende al riempimento senza però riuscire a farcela. Non ha mai percepito né accostato a sé il vuoto che ora sente di fronte a un corpo senza vita, di fronte a Odasaku che non si sveglierà mai più.
Si è immaginato la morte come qualcosa che un se stesso a lui sconosciuto aveva cercato e desiderato, mai come una cosa immobile e triste.
Ti rende triste?
Stringe la sua mano fino a che le nocche non sbiancano, si morde l’interno della guancia a sangue, ma non lascia sfuggire un solo suono tra le sue labbra.
Forse, ormai quasi due anni fa, ha desiderato di non sentire più nulla.
Non muori certo domani, Odasaku.