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 Mochi lo tocca così piano che Apostasia a tratti non è nemmeno sicuro lo stia facendo davvero. Sembra assorto in mille pensieri contemporaneamente, e la maggior parte di essi si riflette del tutto nel suo sguardo. D’altronde non dovrebbe stupirsene, pensa mentre resta immobile a guardarlo e lasciargli il tempo di tante considerazioni che lui non farebbe mai: Mochi è sempre stato il più umano tra loro tre, in un modo quasi incomprensibile tanto per Apostasia quanto per Arme. Al contrario di loro non è capace di distaccarsi dalle emozioni degli altri, tutt’altro; ha sempre bisogno di preservarle, di tenerle al sicuro con la stessa cura riservata alle cose importanti. Per Mochi ferire qualcuno è forse una delle cose più deplorevoli che si possano fare e, distrattamente, ad Apostasia viene quasi da ridere se pensa a quanto sia strana la vita, per avergli dato un fratello come lui che non si è mai preoccupato troppo di ferire gli altri come non si è preoccupato di ferire se stesso, o di accusare chi ci sia riuscito nel tempo – a sua discolpa, buona parte delle sofferenze emotive che gli sono state inferte sono state causate dal suo modo di portare avanti la propria esistenza, e sarebbe stato abbastanza ironico preoccuparsene a danno fatto. Quanto all’altra causa, che per quanto non sopporti ammetterlo risiede in Arme, è certo Mochi non reggerebbe l’idea di mettersi dalla parte di uno o dell’altro, ritrovandosi comunque a dover voltare le spalle a uno dei due fratelli.
Ogni tanto ci pensa: se Mochi non fosse stato suo fratello, o se la vita fosse stata così ironica da renderli compagni destinati nonostante la parentela, forse Apostasia avrebbe potuto accettare anche il peso di essere un Alfa o un Omega. Se fosse stato con Mochi, così attento persino all’idea di doverlo solo sfiorare, Apostasia crede sarebbe stato tutto sopportabile e ne ha una conferma quando finalmente la punta delle dita di suo fratello gli sfiora l’eccitazione, titubante e più delicato di quanto sarebbe necessario. Ci vuole qualche tocco incerto perché Mochi inizi a masturbarlo, così Apostasia allunga le braccia e gli cinge il collo, avvicinandolo a sé per sopperire con un gesto a frasi che una persona più eloquente di lui pronuncerebbe senza sforzo.
Mochi lo guarda stupito per un attimo, e gli sorride impacciato quello dopo, come un ragazzino colto in flagrante mentre ruba qualcosa dalla dispensa; muove ancora la mano, su e giù, e Apostasia affonda il viso contro il suo collo, alla ricerca di un odore che non può sentire, perché nessuno di loro ha quel qualcosa di particolare che fa impazzire il mondo e suggerisce alle persone con chi dovrebbero passare il resto delle proprie vite.
Sente il respiro di Mochi farsi più veloce, insieme alla sua mano; lo sente poggiare le labbra contro il proprio collo, lasciando baci leggeri, succhiando appena la pelle per lasciare un segno, ma niente di doloroso – nulla di permanente. Si scosta da lui, e Mochi lo guarda cercando un errore, qualcosa di sbagliato, ma Apostasia si limita ad appropriarsi delle sue labbra, a baciarlo come si deve, senza “sei mio fratello” o “e se ci scoprono” a frapporsi tra di loro. Sente Mochi lasciarsi scappare un gemito direttamente nella sua bocca e lui muove il bacino per andargli incontro, per avere ancora più frizione tra i loro sessi.
«Mordimi.» è un imperativo pronunciato a mezza bocca, coi respiri che si mescolano, e significa una cosa precisa, impossibile da fraintendere; capisce dallo sguardo di Mochi che ha compreso – la richiesta, non il motivo, ma va bene comunque.
L’altro lo lascia andare per il tempo sufficiente a farlo voltare, la mano che gli scosta i capelli lunghi per liberare quella porzione di collo che non significherà mai davvero qualcosa per nessuno di loro due, non influenzerà irrimediabilmente le loro vite. Ma Mochi ha capito molto più di quanto un semplice ordine abbia voluto dirgli: gli bacia la pelle, la lecca, la bacia di nuovo – e poi morde, un punto preciso che rende Apostasia di qualcuno per la prima volta.
Lui che, dopotutto, non è sicuro nemmeno di essere mai appartenuto a se stesso.
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La società ha inculcato in tutti loro una stratificazione così forte, tra Alfa, Beta e Omega, che sapere di non essere parte di nessuno dei due estremi aveva reso l’infanzia di Apostasia migliore di quanto sarebbe mai potuta essere altrimenti. Alfa lo avrebbe obbligato a eccellere, affossandolo ancora di più nel senso di inadeguatezza che già lo caratterizzava abbastanza – quando si è il più piccolo di tre fratelli, un Alfa perfetto sotto ogni aspetto e un Beta capace di piacere a tutti comunque, si era per forza destinati a questo: l’inadeguatezza come presenza costante nella propria vita.
Omega avrebbe comportato una sottomissione che lui non sarebbe mai stato in grado di sopportare, fosse stata anche solo concettuale e guidata dal pregiudizio. Perciò nel momento in cui era stato classificato come Beta, Apostasia aveva sospirato di sollievo. Anche perché nessuno si aspettava niente, dai Beta.


Arme lo guarda con quell’espressione che non tradisce mai – quasi mai – le sue emozioni, quella che Apostasia ha sempre temuto da bambino e detestato crescendo; avere di fronte un foglio bianco implica lo sforzo di capire come riempirlo, quale connotazione dargli, e farlo con suo fratello maggiore è sempre stato odioso. Arme non tradisce emozioni, se le prova non le lascia alla mercé di nessuno, come se chiunque fosse un suo nemico. Apostasia si è sentito questo fin da bambino: un nemico della concezione del mondo che Arme ha, un nemico della famiglia per la sua inadeguatezza, per il suo non eccellere, per essere sempre stato quello che preferiva chiudersi nella propria stanza e non esprimersi rispetto al mettersi nel mezzo di una competizione che non avrebbe mai vinto comunque.
Guarda Arme e si immagina di leggere nel suo sguardo il disgusto, perché ha imparato negli anni che se si aspetta il peggio e il peggio avviene, allora si è meno feriti perché lo si era messo in conto. Così è più facile infilare le dita tra i suoi capelli e tirare, anziché carezzare, così come è molto più semplice mordere piuttosto che baciare con la dolcezza dell’amante che non è, del compagno per la vita che non sarà mai.
Ha sentito spesso di persone che si sentono riconosciute con il sesso, perché è un ruolo come un altro, si è indispensabili anche se per un periodo di tempo limitato al raggiungimento dell’orgasmo. Ad Apostasia non pesa il pensiero di essere questo: una parentesi fisica di cui ci si può dimenticare facilmente poco dopo e di cui si perde ogni traccia senza nemmeno doversi impegnare. Sentirsi niente, e tornare a essere niente dopo un assaggio di qualcosa. A volte pensa che una cosa come quella, la storia delle anime gemelle, di un compagno unico per tutta la vita deciso da un morso siano concetti così stupidi da doverci ridere sopra.
Arme lo morde forte, tanto che lui per ripicca gli affonda le unghie in una spalla, eppure nessuno di quei segni significa nulla; Arme non è gentile nel modo in cui affonda le dita dentro di lui, ma considerato che potrebbe anche saltare quei preamboli tutto sommato c’è da sentirsi fortunati. Apostasia suppone che Mochi direbbe che è una premura, il modo di Arme di dimostrare che conta qualcosa, che è e sarà sempre suo fratello perché – se davvero non gli importasse nulla – non si curerebbe di ferirlo nel fisico e nella mente, se fosse altrimenti.
Apostasia non è certo di voler pensare di contare qualcosa. Gli sembra una sfera troppo complicata da gestire, quando a lui basta sentire Arme dentro di sé e poco importa che non ci sia la premura per un amante o la delicatezza di una prima volta insieme, l’attenzione per rendere il ricordo una cosa bella a cui pensare con affetto. C’è solo eccitazione, quella senza troppe implicazioni emotive che tanto nessuno dei due saprebbe gestire.
Arme non chiama il suo nome. Lui non chiama quello di Arme. Lo sente solo mormorare qualcosa, mentre viene, e lui lo stringe senza l’affetto o l’amore di una coppia, solo per un riflesso del proprio corpo.
Forse, se si fossero parlati, le cose sarebbero state diverse.
Arme apre la bocca per dire qualcosa, almeno quel suo modo di fare un istante prima di parlare Apostasia ha imparato a riconoscerlo; d’istinto gli copre la bocca con la mano, forse anche un po’ troppo bruscamente, per impedire anche solo a un fiato di uscire.
«No.»
Una sillaba che si è sempre, sempre sentito rivolgere – nella sua testa, soprattutto – dall’uomo che ha di fronte. Non aggiunge niente, ma Arme (no, l’Alfa, non c’è parentela tra loro in questo istante) lo guarda in silenzio e nel suo sguardo, per la prima volta, Apostasia riconosce ogni singolo pensiero.
Si volta di lato. Non sa se quello che sente è colpa della nausea, o di ciò che per tutta l’infanzia avrebbe voluto saper fare e ora, proprio ora che non la vorrebbe, se la ritrova fra le mani: la capacità di capire e il privilegio essere capito.

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