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Tomoya ama il suo lavoro: ha studiato con entusiasmo per arrivare a poterlo fare, con i colleghi di lavoro si trova bene - Kiryu-senpai pur essendo burbero di primo impatto ha un modo tutto suo, e per lo più efficace, di rapportarsi ai bambini della loro classe. Hajime, che conosce dal liceo, è una persona che Tomoya non saprebbe immaginare a fare un mestiere diverso da quello. Certo, forse alla sua prima assunzione non si aspettava già di essere assegnato a una classe “problematica”, per così dire, ma non c’è niente di davvero impossibile da gestire.
A parte un bambino.
«Tomoya-kun?» la voce di Hajime, colma di preoccupazione e del tentativo di fargli forza, lo richiama alla realtà; se non fosse che l’amico ha già troppe cose per le mani di cui occuparsi, Tomoya quasi prenderebbe in considerazione di fingersi svenuto perché non è sicuro di avere la forza di seguire e stare al gioco del bambino che gli si è appena attaccato a una gamba.
«Ce la fai da solo?» domanda, abbozzando un sorriso che un po’ è di scuse e un po’ è una muta richiesta di aiuto inconscia; Hajime annuisce più volte, ma non ha il tempo di parlare perché una voce infantile lo fa al posto suo. Tomoya sposta lo sguardo, inquadrando Itsuki Shu davanti al collega, seduto composto, intento a versare del tè invisibile in tazzine riempite con una fantasia invidiabile.
«Mashiro-sensei» lo chiama come un adulto richiamerebbe all’ordine un figlio o un proprio pari particolarmente fastidioso «Io e Shino-sensei stiamo prendendo il tè. Non è educato stare lì in piedi mentre facciamo le cose importanti.» decreta, tutto d’un pezzo nella serietà buffa di un bambino che si atteggia a persona grande, ma Tomoya non ha nessuna intenzione di ridere. L’ultima volta che non ha preso sul serio Itsuki le urla si sono sentite letteralmente fino alla classe che si trova all’inizio del corridoio.

Si limita ad annuire, cercando di sembrare più solenne possibile mentre Hajime assicura a Shu che tornerà subito a concentrarsi sul loro tè, deve solo finire di dire una cosa; nel mentre, lo sguardo di Tomoya scivola dal lato opposto a dove si trova Shu, ossia dietro la schiena di Hajime: un silenzioso Natsume - un bambino che, davvero, alterna momenti di pura follia infantile ad altri di calma totale. Tomoya ancora non dimentica il momento in cui Sakasaki ha promesso di esaudire un desiderio di Hajime se l’altro fosse diventato una ragazza magica. Non ha voluto insistere su quali programmi quel bambino non dovrebbe assolutamente guardare in televisione e, per adesso, si accontenta di vederlo tutto concentrato sulle ciocche di capelli di Hajime, lunghi anche se tenuti legati in un’ordinata coda bassa. Natsume sembra star cercando il modo migliore di replicare una complessa treccia che avrà visto chissà dove, le piccole mani che si passano le ciocche tra di loro senza risolvere granché, per ora.
«Davvero, Tomoya-kun, qui ce la faccio da solo. Shu-kun e Natsume-kun mi stanno tenendo compagnia.» assicura, con quel modo gentile che ha di gratificare i bambini sempre e comunque. Tomoya annuisce, abbassando lo sguardo sulla piccola piovra che continua a tirargli la gamba e cerca di muoversi con delicatezza, senza che camminare risulti in un far male al bambino.
Pochi passi e a raggiungerlo è proprio la voce di Kiryu-senpai, appena rientrato nella stanza: basta guardarlo per vedere che deve star facendo una certa fatica. Una mano è stretta in quella piccola di Shinkai, un bambino sempre sorridente e abbastanza tranquillo se non fosse che tende a scappare e sparire con il solo scopo di buttarsi in acqua in qualsiasi situazione e a prescindere dalla stagione in corso. Tomoya non ha bisogno di chiedere per sapere che, probabilmente, Kiryu-senpai deve averlo recuperato in qualche bagno e vicino a un lavandino a giudicare da quanto Kanata sia fradicio. Almeno uno dei due ha l’aria divertita.
«Kiryu-senpai»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun,»
«posso aiutarti a cambiare Shinkai-kun prima di-»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun, Tomoya-kun»

«prima di» perde il filo per un momento «di uscire per...»
«Tomoya-kun!»
«Non preoccuparti Mashiro. Ce la faccio.» Kuro deve aver appena avuto pietà di lui, il che è tutto dire se si considera che deve aver recuperato Shinkai con in braccio Sakuma, il bambino che è ancora appiccicato a lui, tenuto su da un braccio, e ancora intento a mordicchiare la guancia di Kiryu. Tomoya lo ammira per come riesce a restare impassibile, anche quando sente Sakuma dire «Kiryu-sensei adesso sei un vampiro anche tu!», perché lui da parte sua è sicuro che se sente di nuovo chiamare il suo nome impazzirà e basta.

Fa un respiro profondo, prima di abbassare lo sguardo sul suo aguzzino: Hibiki Wataru è un bambino fin troppo energico che, a guardarlo, sembra un angelo. Se stesse fermo continuerebbe a sembrarlo, invece purtroppo non solo è sempre in movimento, ma pare avere una fissazione palese per lui. Il modo in cui continua a tirarlo verso la porta finestra che collega un lato della loro aula al giardino è solo uno, dei tanti modi, in cui cerca di dimostrarlo. Tomoya inspira, per poi allungarsi a recuperare il necessario per coprirlo bene; si piega sulle ginocchia, così da essere grosso modo alla sua stessa altezza e vede negli occhi di Wataru la meraviglia di chi ha appena saputo che Babbo Natale passerà per ben due volte dalla sua casa.
«Possiamo andare fuori, ma solo se ti copri per bene, Wataru-kun.» pronuncia, vedendolo mettersi ben dritto, impettito in un modo che ricorda vagamente Shu, le braccia tese pronto a farsi vestire. Tomoya sospira - un po’ è rassegnato, un po’ è sollevato - mentre gli infila il cappotto una manica alla volta, si assicura di avvolgergli bene la sciarpa intorno al collo e di fargli indossare i guanti di lana. Lo guarda, incerto se provare a mettergli almeno un paraorecchie, ma Wataru non sembra in grado di contenere tutta l’energia che ha in corpo ancora per molto, così Tomoya si veste a propria volta e finalmente lo guida fino alla finestra, aprendola il necessario a uscire e richiudendola una volta che sono fuori, così da non far entrare l’aria gelida all’interno della classe. Il giardino è del tutto coperto di neve e c’è un silenzio innaturale che Wataru spezza in un secondo con un «Uaaaaah» a pieni polmoni mentre già corre e zompetta in maniera goffa nella neve. Tomoya rabbrividisce, ma mai tanto quanto fa nel vederlo buttarsi di schiena sulla neve e cominciare a fare l’angelo, muovendo le braccia e le gambe. Non vuole rovinargli il divertimento, ma non vuole nemmeno che prenda un raffreddore, così un attimo dopo è lì che lo tira su diventando il peggior cattivo delle storie per bambini. Wataru ha un broncio ad arricciargli le labbra, gonfia le guance mentre Tomoya gli toglie la neve dalla schiena e dai capelli.
«Tomoya-kun sei noioso.»
«Tomoya-sensei» lo corregge, pur sapendo di star dando aria alla bocca. Dal suo primo giorno in quell’asilo Hibiki non lo ha mai chiamato con il giusto suffisso se non forse in un saluto corale offerto dall’intera classe.
«Facciamo qualcosa insieme! La lotta con la neve! Corriamo e scivoliamo fino all’albero!» propone, mentre nella mente di Tomoya si forma l’orrenda immagine di loro due che vengono fermati dall’albero. Non è sicuro di voler spiegare perché un bambino sia finito a sbattere contro un tronco.
«Wataru-kun… perché non mi insegni a fare un pupazzo di neve?»
E’ un pretesto come un altro quello di fingere di non essere in grado di farcela da solo, ma il modo in cui gli occhi gli si illuminano lo sorprende; non ci aveva creduto nemmeno per un istante che una cosa così semplice lo avrebbe distratto dai suoi propositi un po’ suicidi, invece anche Hibiki alla fine si dimostra per quello che è: solo un bambino. Chiude la mano in un piccolo pugno e la batte contro il petto, come a suggerire di lasciar fare a lui prima di trotterellare poco distante da lì a prendere un bastoncino.
«Tomoya-kun tu puoi prendere le cose che servono per fare le braccia, il naso, gli occhi e la bocca del pupazzo di neve!» decreta pieno di entusiasmo e Tomoya decide di assecondare tutta quella voglia di fare. Si piega di nuovo sulle ginocchia, un gomito poggiato su una di esse e la mano a sorreggere il viso: «E cosa si cerca per fare queste cose?» domanda cercando di fingersi del tutto ignorante in materia.
«Per le braccia possiamo usare i bastoncini! E anche per il naso! Gli occhi...» sembra dubbioso mentre si guarda intorno e d’altra parte la neve ha ricoperto tutto il terreno, perciò ogni possibile suggerimento è nascosto sotto di essa.
Tomoya si porta le mani nelle tasche, alla ricerca di qualcosa di utile: ci trova due caramelle e le porge a Wataru, ancora incartate. La sua idea in realtà è offrirgliele per mangiarle, ma il più piccolo ha ben altri progetti.
«Sì sì sì» ripete come una cantilena, mentre le posa per terra insieme al rametto che ha trovato; poco dopo Tomoya viene tirato per la manica in giro per il giardino, finché tutto l’occorrente non è finalmente radunato - con qualche buca qua e là nella neve e un povero cespuglio sacrificato per un bene superiore.
Wataru non perde tempo, si mette subito all’opera: comincia a spiegare ma si distrae subito, troppo concentrato nel fare la sua palla di neve gigante perché il pupazzo abbia un corpo solido; ha affidato a Tomoya l’importantissimo compito di creare la testa e lui si adegua, facendo tutto con più lentezza del dovuto, per dargli modo di essere il primo a terminare. Non lo disturba nemmeno, stupendosi come sempre di quanto quel bambino sappia essere incredibilmente silenzioso, quando vuole.
Ci mettono fin troppo tempo a finire, ma quando riescono Wataru brilla di luce propria di fronte a un pupazzo di neve forse un pochino storto e non proprio proporzionato al massimo, ma che almeno si regge e ha tutto al posto giusto. Wataru ha il naso e le guance arrossate dal freddo, e Tomoya era deciso a rientrare già prima di sentire un paio di fiocchi bagnargli la punta del naso; alzando lo sguardo vede che la neve ha ripreso a cadere, e non è davvero il caso di restare fuori oltre.
Sperando che Wataru non cominci a correre ovunque facendo i capricci.
«Wataru-kun, torniamo dentro.» propone con cautela, ben conscio di come imporre qualcosa a quel bambino significhi ottenere esattamente l’opposto - e non per cattiveria, no, a Hibiki sembra sempre tutto un gioco, Tomoya questo lo ha capito quasi subito. Wataru lo guarda, come se stesse soppesando cosa sia più importante tra la neve e Tomoya, e alla fine (dovrebbe sentirsi lusingato da questa cosa…?) sceglie lui e si avvicina, tutto sommato docile.
Lo guarda per un momento, prima di chinarsi di nuovo perché tra loro non ci sia troppa differenza. Si toglie i guanti, più freddi di quanto lo siano le mani che hanno riparato dal contatto diretto con la neve, e posa queste ultime sulle guance del bambino. Le mani di Tomoya sono tiepide, il viso di Wataru è freddo, il che dovrebbe rendere il contatto piacevole e a giudicare da come - dopo un momento di iniziale e genuina sorpresa - Wataru socchiude gli occhi e sorride beato, deve essere così.
Tomoya si lascia scappare uno sbuffo divertito; un’ultima occhiata al loro pupazzo che Wataru già sciorina mille idee per nomi improbabili.

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