Fandom: Haikyuu!!
Prompt: time travel + memory loss (m4)
Parole: 4466
Pairing: Tsukishima/Hinata
Warnings: death!characters, assoluta mancanza di basi di fisica nel concetto di time travel, pseudo kagepro!au (ma proprio vaga eh) il che significa che se si arriva alla fine chiedendosi "wtf" ho fatto bene il mio sporco lavoro.
C’è un momento preciso in cui Tsukishima sente di uscire da una sorta di gelo interiore che gli ha paralizzato corpo e mente e quando succede si sente soffocare: le urla gli riempiono le orecchie, il dolore fisico gli avviluppa ogni muscolo di cui ha coscienza e lo piega in due, le ginocchia che cozzano contro il pavimento lasciando che un mugolio sofferente scivoli tra le sue labbra contro la sua volontà. Sente gli occhi pizzicare ma non delle lacrime bagnargli le guance, mentre un nodo gli blocca in gola il fiato per unirsi alle grida che sente e un bruciore divampa sotto pelle come se il suo corpo fosse soggetto a uno sforzo troppo grande per essere sopportato. Nella sua testa qualcosa gli dice di non voltarsi; quando lo fa si maledice, e il nodo in gola improvvisamente si scioglie – un conato di puro acido spinge per svuotargli lo stomaco, le mani che vanno una contro il pavimento nel tentativo di sorreggerlo e l’altra a coprire la bocca per ricacciare la bile indietro.
Corpi. Corpi senza vita di persone con cui, volente o nolente, ha instaurato legami. Non riesce nemmeno a pensare che Oikawa e la sua fastidiosa abitudine di provocare il prossimo se lo siano meritato.
Non mentre sente la voce di Yachi penetrargli nelle orecchie urlando ancora e ancora nomi di persone che non respirano più e che rivuole indietro – con la coda dell’occhio scorge Azumane provare a darle conforto in un modo in cui non crede nemmeno lui, entrambi davanti al corpo di Sugawara dove l’unica cosa viva è il calore che ha ancora la sua pelle. È orrendo vedere lo sguardo vitreo di chi invece ha sempre avuto la sfumatura gentile e il calore negli occhi.
A un certo punto Yachi singhiozza il suo nome come se fosse l’unica preghiera a cui può appellarsi. Tsukishima non sa bene cosa sia ma qualcosa, dentro di lui, spinge per uscire fuori; è come se gli dicesse “è il momento”, quasi avesse aspettato un’eternità intera solo per quel singolo, vitale istante.
Lui si volta di nuovo, cerca nella mano ancora sul pavimento una risposta che non può essergli rivelata così e la stringe, quasi si conficca le unghie corte nel palmo della mano; poi torna a cercare con lo sguardo quello di Yachi, e dentro di sé stavolta qualcosa grida ma è troppo tardi: gli occhi della ragazza sono rossi, e pieni di lacrime e c’è una supplica che si confonde a ricordi che non pensava neanche di avere – “promettimi che non dimenticherai quello che è successo”.
Quello che avverte non è descrivibile a parole, perché non esiste un modo di far comprendere a qualcuno così tanto dolore.
Sente un verso graffiargli la gola e l’attimo dopo è di nuovo curvo verso il pavimento, vomitando mentre troppe immagini e troppi ricordi gli sovraccaricano la mente al punto di essere sicuro di dover solo aspettare, presto sarà così piena da esplodere e lui avrà pace. Quasi ci spera. Tutto è meglio di ciò che sta vedendo.
*
“Tsukishima, che colore ha la felicità secondo te?”
È un giorno afoso quello in cui Kei si ritrova a guardare il soffitto della propria stanza, rendendosi conto davvero di ciò che sta facendo. Somiglia a quando si sta sott’acqua troppo a lungo e quando finalmente si riemerge, all’improvviso l’aria invade di nuovo i polmoni e sembra di essere al mondo ancora una volta, o di esserci per la prima, senza averci creduto davvero. L’effetto è lo stesso, anche se la sua stanza ha l’odore di chiuso molto diverso da quello dell’esterno, un caldo mitigato solo dal condizionatore che gli permette di indossare una maglietta a maniche lunghe senza che il sudore gli incolli il tessuto alla pelle. Il soffitto è bianco e potrebbe essere qualunque posto: l’infermeria della scuola, per esempio.
Lo detesta. Il bianco gli è insopportabile, la luce troppo forte gli è insopportabile, la sveglia che anima con clic leggero allo scattare del minuto una stanza altrimenti nel completo silenzio; non è mai stato un suono percettibile e invece ora è così forte che gli sembra gli rimbombi nelle orecchie, è come uno stridio fastidioso, come una voce troppo alta per essere apprezzabile.
Si gira d’istinto con il viso verso il muro, trovando lo stesso biancore e il nulla che anche il soffitto gli ha offerto. Aggrotta le sopracciglia, infastidito; la sveglia sul comodino scatta di nuovo. Non ha idea di che ore siano, non ha controllato – con un gesto stizzito alza la testa, sfila il cuscino da sotto di essa e lo porta a coprire l’unico orecchio che la posizione su un fianco offre ai suoni della stanza. Spera che quello scattare si senta meno. A ben pensarci, però, non ci sono altri rumori in casa. Nessuno che oltrepassi la barriera della porta della sua stanza, chiusa da quelle che non sa se considerare ore o giorni.
Clic. Scatta un altro minuto e lui fissa ostentatamente lo sguardo verso il muro.
Clic. Si augura che le pile di quella stupida sveglia si scarichino, per poi ricordare che forse è attaccata alla corrente; spera ci sia un calo di tensione.
Clic. Chi diamine ha avuto l’idea di regalargli una sveglia che scatta ogni minuto di ogni ora, tutti i giorni?
A pensarci bene gli torna in mente una zazzera dal colore fastidioso alla vista quasi quanto la forma-non-forma scompigliata che ha sempre avuto. Giusto. Hinata Shouyo. Chi altri mai poteva pensare a un regalo di compleanno così fastidioso.
Clic. Il movimento con cui si volta di scatto, mettendosi a sedere e dando un colpo alla cieca a ciò che c’è sul comodino mandando a terra la sveglia che si stacca dal filo per lo strattone improvviso è un picco d’isteria tanto improvviso quanto per nulla raro nell’ultimo periodo.
Detesta la stanza, detesta la sveglia, detesta non avere più cognizione del tempo, detesta il ricordo di Hinata. Ma poi, questo “Hinata Shouyo”, chi è?
«Kei, va tutto bene?»
«Sta’ tranquilla mamma, ci penso io.»
A volte è grato che Akiteru risparmi a lui le domande piene di premura di sua madre, a cui non vuole rispondere.
Però ogni volta che gli sente aprire la porta come promesso, e lo vede scivolare nella sua stanza con lo sguardo di chi vorrebbe aiutarti ma non sa come fare, in quel momento lo detesta.
«Tutto a posto? Ti sei mosso nel sonno?» domanda con premura e un accenno di sorriso.
Si morde il labbro. Dormire? Non ricorda nemmeno l’ultima volta che ha fatto una dormita decente.
Sente la pressione di un peso sul materasso, ad avvisarlo che suo fratello si è seduto, rendendo vano il suo guardare la sveglia a terra come se Akiteru non si trovasse nemmeno nella camera: «Kei, non c’è niente di male se fai dei sogni agitati.» lo sente cominciare «Forse dovresti solo provare a parlarne. Quando vuoi.» aggiunge.
C’è stato un tempo, forse, in cui raccontare i suoi incubi infantili a suo fratello maggiore o sgattaiolare nel suo letto quando condividevano la stanza era utile. Tutto improvvisamente era meno spaventoso e meno reale. Andrebbe bene se i suoi brutti sogni fossero popolati da mostri terribili o killer furiosi che tentano di ucciderlo; invece la sua dimensione onirica è fatta di ricordi e sorrisi troppo luminosi e voci che lo chiamano in continuazione e gli ripetono quanto bello sia un mondo che non conosce più, non nella sua interezza.
Fa schioccare la lingua contro il palato, sentendo l’amaro in bocca, quello del veleno più che quello delle delusioni.
Si alza scomposto, quasi deambulando verso la porta, e gli risuona nelle orecchie la versione roca della propria voce che manda al diavolo suo fratello e lo deride – c’è una frase che gli suona terribilmente simile a un “fai resuscitare le persone? Sei diventato Dio?” con una cattiveria e derisione di cui non è mai stato capace nemmeno quando si impegnava a risultare antipatico agli altri o a esternare la propria non sopportazione per le persone che non gli andavano a genio.
Ora è facile come sbattere la porta con rabbia.
I suoi incubi sono pieni di Hinata. E parlare, come sognare, non riporta indietro i morti.
A volte sogna dei giorni di scuola. In alcune occasioni si tratta di momenti normali, dove il dettaglio sempre identico è la presenza di Shouyo: la prima volta che si è presentato davanti al banco di Kei implorandolo di spiegargli matematica in vista degli esami di recupero imminenti, quando lo ha trascinato a fare la prova al club di pallavolo nonostante non avesse alcuna voglia di impegnarsi così tanto in un club scolastico, lo stupido sorriso rivoltogli quando ha condiviso una scatola di pocky con lui di ritorno dall’allenamento, almeno fino all’incrocio dove le loro strade si sono sempre divise. Ogni tanto ci sono stralci di conversazione che rivive in quei sogni, mentre alcuni sono privi di voci o di rumori di qualsiasi tipo; quando si sveglia, a volte, gli sembra di sentir pronunciare il suo nome e si odia, si tappa le orecchie con forza finché non preme così forte che gli sembra di sentire lo stesso fastidio di quando l’acqua di mare entra nelle orecchie e tutti i rumori arrivano lontani, ovattati. Solo allora azzarda a scoprirle: la scia di una voce che non può più sentire non c’è, ma la morsa allo stomaco non diminuisce mai.
E mai, mai, mai c’è un viso ad accompagnare quei sogni. Non è la più grande presa in giro che la sua mente possa rivolgergli? Pare dirgli “tieni questi ricordi, tienili incompleti, ti do indietro tutto quello che ho preso tranne il dettaglio più importante”.
*
Kei non crede ai miracoli e non crede alle seconde possibilità. Quando fa i controlli periodici, interminabili minuti in un tubo mentre un macchinario gli mappa il cervello perché un medico possa dirgli che è tutto a posto, la memoria tornerà piano piano, non crede la sua amnesia guarirà mai del tutto; quando passa ore sul divanetto di uno sconosciuto che ormai vede più del suoi genitori, a raccontargli di sogni mai davvero completi, a volte violenti e a volte incredibilmente normali e della frustrazione o del tremore che gli lasciano, pensa che anche se la memoria tornasse non cambierebbe niente; quando si sente dire dal suo psicologo che sta andando meglio, rispetto al primo incontro in cui non hanno parlato, ecco, Kei non crede alle seconde possibilità se non quelle che può procurarsi da solo.
Lui è una mente razionale, da quanto la sua memoria fatta a pezzi gli fa presente lo è sempre stato - glielo assicura suo fratello con gli album di fotografie in cui sono bambini e Kei è sempre attaccato a qualcosa di scientifico, glielo conferma Yamaguchi che lo segue dall’infanzia - e non esistono preghiere che possano riportare in vita i morti. Però il Paese in cui è nato è costruito sulle leggende, sulle tradizioni, su una moltitudine di cose senza basi reali. Se Kei deve immaginarsi un viaggio nel tempo, lo fa con un macchinario e soggetto a regole impossibili persino da elencare tutte, lo figura pieno di leggi intoccabili e ripercussioni destabilizzanti e di proporzioni così colossali da aver reso il viaggio nel tempo, il piegare lo spazio al proprio volere, niente più di un sogno per chi crede nella scienza e sogna lo stimolo di tutta una vita.
«Tsukishima-kun» lo richiama alla realtà lo psicologo che lo segue da ormai tre mesi «stai facendo grandi progressi.» gli dice conciliante.
Ma quali progressi?, vorrebbe sputargli in faccia. Invece si limita a guardare il suo sorriso ottimista; in una piccola, minuscola parte della sua testa, gli sembra di sentirsi ripetere la domanda con cui si è svegliato.
Sa che è Hinata, ormai. Ma chi è, Hinata?
Tsukishima, cos’hai pensato quando ti ho preso la mano?
Quale mano. Quando è successo. Perché, perché sta ricordando lentamente tutto ma non il suo viso.
«Hai subito un forte trauma e lo stress post traumatico non si può superare in un batter d’occhio. Potranno sembrarti frasi fatte, ma devi avere pazienza. Stai andando davvero bene, Tsukishima-kun. Hai appuntato qualcosa sui sogni di cui abbiamo parlato l’ultima volta?»
Kei ripensa al quaderno nella sua borsa, a quanto sia leggermente più fino - sebbene in maniera impercettibile a occhio nudo e senza aprirlo - per colpa delle pagine che ha strappato quella mattina, piene solo di un nome scritto e poi cancellato con rabbia.
«Niente di che.» mente «Solo qualcosa sulla scuola.»
«E su Hinata-kun?»
«No.» ribatte secco. Sembra bastare per mettere a nudo davanti allo psicologo tutte le sue bugie quando quello, pacato, gli dice di prendersi il suo tempo, che va bene così, che non c’è fretta.
Quando esce dalla seduta, dalla clinica, dal quartiere che la ospita la sente per la prima volta: una voce sconosciuta, forse nella sua testa, che gli dice “ma se ci fosse, un modo per tornare indietro?”
*
Da quel giorno, Kei non la sente di continuo ma abbastanza da renderla non più sconosciuta: le sue notti sono occasionalmente prese d’assalto dagli incubi di quello che ormai ha in parte ricostruito come l’incidente riportato da così tanti giornali e notiziari da avere il vomito di come i giornalisti lo abbiano raccontato a ripetizione con parole più o meno sensazionalistiche. Le sue ore diurne, invece, sono alternate tra i preparativi per riprendere una vita normale e le sedute dallo psicologo; in questa routine che fa da conto alla rovescia per il suo rientro a scuola, ogni tanto quella voce si insinua tra le mura della sua stanza o attraverso le cuffie che ha preso l’abitudine di mettere su fingendosi intento ad ascoltare la musica anche quando non lo sta facendo. Gli sussurrano quella piccola tentazione irrealistica, facendola sembrare fattibile come alzarsi e andare a comprare il latte al minimarket vicino casa.
Non cambiano mai le parole, fino al giorno in cui torna a scuola - una volta la Karasuno era famosa per aver, dopo anni, riconquistato il proprio posto alle nazionali ora invece è una delle scuole coinvolte in uno dei più grandi e tragici incidenti che il Giappone ricordi dopo i tremendi terremoti che hanno scosso le vite di una popolazione conosciuta dal mondo come quella che, più di moltissime altre, nella propria storia ha dimostrato di sapersi rialzare da un disastro con grande dignità e forza di spirito.
Kei ha messo in conto gli sguardi degli altri studenti, le parole gentili di alcuni senpai, la riservatezza di altri, le raccomandazioni dei docenti; si è mentalmente preparato all’effetto di guardare verso la palestra, al sentire di nuovo i rumori tipici dell’edificio scolastico, all’idea di infilarsi di nuovo in una routine fatta di compiti, orari precisi, pause pranzo. E’ persino riuscito a riprendere lo studio mentre era ancora diviso tra riabilitazione e tutto il resto.
Ma non è pronto ai rumori improvvisi, non è pronto al grido dalla classe accanto quando questo rumore forte arriva, quando lo stress post traumatico gli gioca il brutto scherzo di far cozzare insieme un suono irrilevante alle immagini di una tragedia. Non è pronto a sentirsi gelare seduto sulla sedia, a chi lo chiama per sincerarsi delle sue condizioni.
Non si stupisce quando sente che, nella classe accanto, Yachi Hitoka - una delle sopravvissute, come definiscono anche lui - ha avuto un attacco di panico ed è stata portata in infermeria.
Quasi si aspetta, invece, la voce nella sua testa: perché non provi ad aggiustare le cose?
Se la creazione del Giappone può essere affidata a due dèi nelle leggende, in linea teorica chiunque può scegliere di credere a qualsiasi storia circoli tra i paesini di campagna o le pagine web di persone dalla fantasia troppo fervida.
Così mentre sente il sudore freddo scendergli lungo il collo, e a stento percepisce l’insegnante chiamarlo, le immagini confuse di corpi stesi a terra gli affollano la mente e Kei - contro ogni cosa, persino se stesso - decide di credere alla voce che gli sussurra “tornare indietro è facile: esaudisco io il tuo desiderio, se mi dai qualcosa in cambio.”
*
Kei apre gli occhi e la palestra che li ospita è piuttosto grande per quello a cui sono abituati, bene illuminata tra luce esterna e faretti, pulita, sistemata per il match e soprattutto intera. Deve fare uno sforzo di memoria per capire se tra i ricordi riacquisiti dopo l’incidente ci sia anche un qualche dettaglio che abbia preannunciato il crollo del soffitto e tutto ciò che ne è conseguito. Deve anche ignorare la nausea lì pronta a bloccargli lo stomaco e l’istinto di fuggire, cercare di razionalizzare di essere nel passato - in un sogno? Per davvero? Non ne ha idea - per muoversi e fare qualsiasi cosa quella voce gli abbia offerto.
Lui non crede nei miracoli e nelle seconde possibilità, ma solo uno stupido non ne approfitterebbe ritrovandosene una tra le mani e lui non è uno stupido, nemmeno nei sogni, se quello lo è.
«Tsukki!» la voce di Yamaguchi lo chiama mentre lo affianca, palla alla mano mentre si avvia nella fila degli attaccanti per finire il riscaldamento prima della partita vera e propria «Hai parlato con Hinata…?»
Una maledizione, quel nome, ecco cos’è. Kei fa schioccare la lingua contro il palato, seccato, e sembra la reazione giusta per la situazione che non ricorda affatto; poco importa a cosa sia davvero dovuto il suo fastidio, Yamaguchi sembra interpretarlo nel verso corretto per quella realtà. Kei lo vede sospirare, posare lo sguardo su Hinata; Kei lo imita e si aspetta di guardare per l’ennesima volta una figura dal volto irriconoscibile e indefinito, come in una foto sfocata, e invece viene colpito in pieno da tratti chiari, puliti. Lo stomaco gli si contorce mentre Oikawa - ah, giusto, si dice, c’era anche la sua squadra - chiama Hinata da sotto rete, lo provoca e subito si sente rispondere perché, ora Kei non sa secondo quale logica ma lo ricorda bene, Hinata non è capace di capire quando lo provocano volutamente per bearsi delle sue reazioni.
Stranamente, però, Shouyo non si trattiene lì troppo e invece punta proprio verso Kei. Al proprio fianco, sente Yamaguchi dirgli «Scusati prima della partita, Tsukki.» con il tono rassegnato di chi conosce bene il proprio amico e, proprio per questo, tende a fargli notare gli errori e ad avere un occhio di riguardo per lui al tempo stesso. Hinata li raggiunge, scambia due parole con Yamaguchi, poi si avvicina; ci sono pochi passi tra loro e Kei non sa nemmeno dove guardare: una parte di lui avverte il bisogno viscerale di studiare quel viso agognato per mesi nei minimi dettagli, fino a imprimerselo nella memoria al punto di non dimenticarlo mai più; l’altra parte di lui è mossa da un principio di panico, dalla consapevolezza di cosa deve avvenire, dall’urgenza di capire come evitare un disastro che razionalmente sa essere impossibile da evitare davvero.
Ma se la voce gli ha dato una seconda occasione, deve essere perché qualcosa da fare c’è, giusto? Sarebbe troppo crudele per qualsiasi leggenda dargli l’illusione di poter cambiare le cose quando non è vero.
«O-Ohi, Tsukishima.» la voce di Hinata lo distrae, non riesce a guardare dove dovrebbe, a cercare un segno, qualsiasi cosa; eppure alle sue orecchie ora persino quel modo di chiamarlo, di farsi avanti quando bisogna scusarsi e chiarire e Hinata sa di dover essere il primo a sbottonarsi, gli è familiare tanto da fargli pensare “come ho fatto a dimenticarlo?”
«Potrei… potrei aver esagerato un po’, okay? Un pochino. Tanto così!» fa un gesto con le mani «Ma anche tu hai esagerato, sì?» rimbrotta, perché ha ragione e perché a modo suo alleggerisce le situazioni pur rimanendo fedele al suo vizio di dire sempre la verità senza averne paura. Così diverso da Kei, a cui la verità fa male se detta e fa ancora più male quando nascosta - all’improvviso si ricorda persino di quanto sia stato insopportabile non riconoscere il loro rapporto, forse persino più insopportabile dell’onta di riconoscerlo, in effetti.
Non saprebbe dire l’esatto momento in cui tutto fluisce di nuovo nella sua testa come un fiume, ridandogli i ricordi rincorsi per mesi da quando si è risvegliato dall’incidente: a un certo punto, semplicemente, succede e Hinata Shouyo non è più uno sconosciuto né un qualcuno senza volto ma con un ruolo nella sua vita che Kei non può individuare. In un preciso istante, Hinata torna a essere il compagno di squadra, il ragazzo a cui ha permesso un avvicinarsi diverso da quello concesso a Yamaguchi insieme al privilegio di un’amicizia selettiva. Si ritrova a voler allungare le mani e a volerlo avvicinare fino a sentirlo contro il proprio corpo, una prova tangibile di un’esistenza che non sapeva più dove cercare se non negli incubi. Sta per farlo, per cedere, ma quando si muove nota delle scarpe da ginnastica ai propri piedi, sposta lo sguardo e vede le gambe nude fin sopra le ginocchia e poi incontra la divisa da partita e capisce - è il se stesso del passato e al tempo stesso non lo è, deve cercare qualcosa da cambiare, un dettaglio infinitesimale che può mutare il corso degli eventi.
La terra trema e poco dopo cade tutto e c’è solo un rumore assordante, delle grida. Quando riapre gli occhi, Yachi sta urlando dietro di lui e nel voltarsi la vede di nuovo, la scena che lo ha tartassato per mesi dopo l’incidente: Azumane le sta vicino, il corpo di Sugawara senza vita (di nuovo), corpi incoscienti o ormai cadaveri a terra (di nuovo), tra di loro e a poca distanza da lui c’è Hinata, gli occhi sbarrati.
Kei sente un conato, si piega verso il pavimento, vomita fino a sentire solo l’acido in gola e la disperazione di un fallimento.
La voce nella sua testa si fa strada tra il ronzio: puoi tornare indietro, puoi cambiare le cose, gli dice.
Kei inspira forte dal naso, si sente svenire e sa che si risveglierà in un letto di ospedale, sa cosa sentirà su mille notiziari e leggerà su centinaia di giornali; sa che ci vorrà riabilitazione, uno psicologo e non servirà a niente fino al giorno in cui quella voce non gli proporrà di nuovo di tornare indietro, di riprovare.
Sarà pronto, si dice. La prossima volta sarà pronto.
*
Ripete quel tentativo una seconda volta, una terza, una quarta. A un certo punto anticipa anche i respiri di Hinata nel breve tempo in cui si parlano prima del crollo e non ha più bisogno di ascoltare parole imparate a memoria e cerca febbrile qualcosa, un metodo efficace per uscire - e poi capisce, alla fine, che la voce nella sua testa non ha mai parlato di salvare tutti, ma di cambiare qualcosa e quel qualcosa è il fato di Hinata.
Quando se ne rende conto Kei sorride senza gioia, perché avrebbe dovuto immaginarlo: tutte le storie inverosimili di miracoli narrano di un sacrificio immenso per un solo desiderio esaudito. Così torna di nuovo indietro con la consapevolezza di dover scegliere e rendersi carnefice, in qualche modo, o Hinata o un altro, o qualcuno e non Hinata. In ogni caso può salvare una sola vita e poi conviverci per il resto della sua.
Kei sente Yamaguchi parlargli e annuisce senza ascoltarlo davvero, poi vede Hinata avvicinarsi e per un istante qualcosa dentro di lui lo detesta, una parte della sua mente gli dice che potrebbe arrendersi o potrebbe ucciderlo con le sue stesse mani, tanto varrebbe. Ma l’altra parte di lui ha vissuto il futuro senza Hinata abbastanza da non volerne sapere mai più e così, alla fine, Tsukishima sceglie.
Sceglie Hinata - lo prende per il braccio, lo trascina fuori dalla palestra ignorando i richiami del capitano e di Shouyo stesso, cammina come se avesse un mostro a corrergli dietro e in fondo forse è un po’ così. Si sono appena affacciati sulla strada quando un boato alle loro spalle avvisa Kei che di nuovo è crollato tutto, presto Yachi urlerà (ma chissà se da fuori la sentirà) e Azumane le sarà vicino, e Sugawara sarà a terra senza vita e—
Hinata è gelato sul posto e, oh, Kei lo sa bene cosa si prova.
La voce nella sua testa ride, gli dice ce l’hai fatta e Kei sa che a questo punto deve solo pagare la sua parte di debito.
*
«Tsukishima-kun?»
La voce del medico lo richiama, portandolo a scostare lo sguardo dalla finestra e riportarlo su di lui; sua madre e suo fratello sono nella stanza con lui, le espressioni gentili e pazienti. Il dottore torna a parlare, a spiegare la situazione, il responso degli esami: tutto nella norma, può riprendere le sue attività normali, rientrare a scuola. Gli incontri con lo psicologo stanno andando bene e fisicamente non ci sono più problemi. Kei lo ascolta distrattamente, sono cose che in parte ha già sentito dal suddetto psicologo che vede due volte alla settimana - grande positività e ottimismo verso i suoi progressi, l’amnesia non è sparita del tutto ma potrebbe migliorare ancora, deve essere paziente.
Quando possono finalmente uscire percorrono a ritroso corridoi che è riuscito a memorizzare, a dispetto di quanto la sua memoria in generale sia stata un discreto colabrodo fino a un paio di mesi fa; in sala d’attesa Yamaguchi e un altro paio di membri della squadra - chi è rimasto, chi ce la sta facendo - sono ad attenderlo, di sicuro avvisati da sua madre del suo venire dimesso dall’ospedale. Le stampelle sono fastidiose, ma dovrà tenersele dietro ancora un po’, finché il fisioterapista non gli darà il via libera: gli sfugge completamente come abbia fatto a farsi male, nonostante fosse il più distante di tutti dal crollo. C’è chi ha ipotizzato fosse andato a recuperare qualcosa di dimenticato - che ironia -, chi ha sostenuto di essere abbastanza sicuro di averlo visto andare fuori con un’altra persona, ma di cosa si vuole essere certi nelle ricostruzioni frammentarie di studenti sottoposti al fortissimo stress e trauma di un crollo che ha ucciso persino alcuni dei loro compagni?
Nel vederlo Yamaguchi gli sorride felice, lo avvicina, «Tsukki!» esclama e poi gli dice «Il capitano, Hinata e Kageyama sono venuti con me.» gli fa presente, accennando ai tre ragazzi poco distanti.
Kei fa un verso stizzito mentre tra le labbra si fa scappare un «Grandioso.» riferito a Kageyama, ma poi si focalizza sugli altri due, aggrotta le sopracciglia confuso. Yamaguchi lo nota, segue il suo sguardo e non capisce, torna su di lui: «Non ti senti bene?»
«Hinata chi?» gli chiede.