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[personal profile] hakurenshi

Prompt: messaggi in bottiglia
Missione: M2 (week 6)
Parole: 3199
Rating: pg13
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Shun non sa se sia perché è diventato uno scrittore, ma negli anni ha notato di aver associato delle parole o dei concetti - o, più raramente, dei luoghi - alle persone. Non a tutte, ma a quelle più importanti, per affetto o per l'impronta lasciata nella sua vita. Un'impronta che, in alcuni casi, si sarebbe risparmiato più che volentieri.


Non sono sempre associazioni poetiche. Sua nonna, per esempio, gli riporta alla mente un costante odore di buon cibo nell'aria. Ai suoi genitori accosta la neve dell'Hokkaido, ma anche l'immagine di una casa fredda - può sembrare ingiusto, specie ora che hanno riallacciato i rapporti, ma non crede riuscirà mai a cambiare questa cosa.


A Mio, in modo assolutamente prevedibile, pensa ogni volta che vede il mare e si ricorda di quel giovane studente seduto su una panchina, da solo, con lo sguardo perso verso l'orizzonte. E' in tutto ciò che il mare gli offre: è nell'odore della salsedine, nella sabbia fresca sotto i piedi nelle ore meno calde. E' nell'acqua fredda che gela le caviglie quando Mio lo trascina a fare passeggiate fuori stagione, perché il mare avrà sempre un pezzo di lui. E' nel suono delle onde, quando di notte lo ha ascoltato dopo aver fatto per la prima volta l'amore con lui, chiedendosi se non lo avesse appena condannato a una felicità incompleta. Quando, egoisticamente, si è chiesto anche se non stesse ponendo le basi della sua stessa sofferenza - perché, dopotutto, presto o tardi Mio si sarebbe reso conto del suo errore e sarebbe andato avanti con la sua vita lasciandolo indietro, giusto?


Shun ha il sospetto che a Mio il mare manchi più di quanto ammetta; ogni tanto pensa di proporgli di tornare a Okinawa, ma c'è sempre qualcosa a mettersi tra lui e le sue intenzioni: la stesura di un nuovo libro, la salute dei suoi genitori, la fase ribelle di Fumi. Non che non possano visitare l'oceano anche con un semplice viaggio che non implichi l'aereo o treni e navi per evitare la paura di volare di Mio... ma non sembra mai essere il momento giusto. O forse è solo lui a cercare una perfezione che - dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro - non esiste.


*


Alla fine, una volta riescono a prendersi un momento per loro e si allungano fino all'oceano. Shun, non sa bene neanche lui come, si ritrova a farsi uscire dalla bocca la parola "matrimonio".


Ho sempre pensato, se il matrimonio fosse una possibilità, "voglio sposarlo".


Mio gli risponde: «Anche io.» con il sorriso di chi lo vorrebbe davvero, ma sa anche di non poterlo avere. Shun non saprebbe spiegare come o perché, ma anziché provare la felicità di chi ha appena fatto una proposta di matrimonio che è stata accettata, sente un vuoto allo stomaco. Come se lo avessero appena derubato di qualcosa di importante.


*


«Andiamo a Okinawa.» gli dice a un certo punto, mentre sono uno seduto al tavolino basso del salotto, sul quale sono sparse quelle che si suppone siano reference, e l'altro a metà strada tra la cucina e lo stesso salotto. Mio lo guarda, entrambe le mani occupate da tazze di caffè, l'espressione di chi non sa se si trova di fronte a un'effettiva proposta o a un momento di follia da stress. Shun lo guarda e non gli dà tempo di chiedere perché o come, né di cominciare un discorso logico e razionale al quale poi sarebbe difficile ribattere.


«I miei stanno entrambi bene.» comincia a dire, mentre le dita giochicchiano con uno dei fogli su cui dovrebbe prendere appunti delle reference «Fumi è grande abbastanza da non avere bisogno della balia. Tanto più che nella sua crisi adolescenziale non ha voglia di averci in mezzo alle scatole.» gli fa notare con un'alzata di spalle, mentre Mio poggia entrambe le tazze di caffè sul tavolino e gli si siede di fianco. Shun sente il suo sguardo su di sé, ma non lo ricambia finché non sente la voce di Mio pronunciare un «Lo sai che per il mare non serve Okinawa?» che ha l'inflessione di chi ha capito che c'è qualcosa di non detto.


«Non è la stessa cosa» pronuncia Shun, testardo «Non è una vera vacanza.»


Mio lo studia, anche mentre beve il suo caffè; alla fine gli sorride e Shun sa - perché lo conosce - che è probabile sia ancora perplesso eppure, nonostante tutto, preferisca accontentarlo.


*


Una volta che sono arrivati, ci vuole più tempo del previsto ad avere dei momenti solo per loro. Il primo giorno sono così stanchi dal viaggio che, a parte sistemare i bagagli e la vecchia stanza dove sono stati quando vivevano lì da sua nonna, non combinano granché. Il secondo, invece, Eri e Suzu piombano lì la mattina quando Shun non ha ancora abbastanza caffeina in coirpo per poter sopportare così tante interazioni sociali. Inevitabilmente si trattengono per buona parte della giornata.


Il terzo giorno lo passano sull'isola principale, perché gli amici drag di Mio... beh, non si possono rifiutare in eterno. E perché Shun sa che l'altro ci tiene a parlare con loro più possibile - lui, d'altronde, ne approfitta per chiamare Eri al telefono quando Mio è troppo preso per sentire di cosa voglia discutere con lei.


Solo la sera riesce ad avere un po' di tempo per portare Mio sulla spiaggia. In verità è una passeggiata breve considerando che si tratta solo di attraversare la strada rispetto a casa di sua nonna, ma c'è comunque un che di rilassante nel farlo quando è buio e la spiaggia è deserta. Entrambi tengono i sandali in mano, i piedi ad affondare nella sabbia fresca. Se ne stanno per lo più in silenzio e solo ogni tanto scambiano qualche chiacchiera di poco conto.


A un certo punto, poco prima di decidersi a tornare verso casa, si tengono per mano; è un contatto semplice, abitudinario. Eppure - sarà il luogo in cui si trovano, o sarà che gli sembra passato un secolo dall'ultima volta che si sono scambiati una piccolezza come quella - Shun si sente stringere lo stomaco.


E' una cosa così stupida.


*


«Shun! Shun, svegliati!» riconosce solo vagamente la voce di Mio mentre viene strappato dal sonno. Si sente scuotere e apre un occhio infastidito, sbottando d'istinto con un «Cosa c'è?!» che sembra provenire dall'oltretomba. Nell'aprire gli occhi e focalizzare la figura dell'altro, registra vagamente che è vestito e non in pigiama. La sua mente però è ancora troppo rallentata per formulare delle ipotesi. Mio, imperterrito ed entusiasta come se all'improvviso avesse di nuovo cinque anni, gli sorride e cerca di tirarlo leggermente per farlo uscire dal letto: «Vieni, ho trovato una cosa in spiaggia, devi vederla anche tu!» esclama. Sebbene a Shun venga in mente una sola cosa che possa farlo elettrizzare a quel modo - ossia un granchio così enorme da sfamarlo a pranzo e cena per una settimana - si arrende da subito alla possibilità di andare di nuovo a dormire.


Cinque minuti dopo ha messo addosso giusto una felpa leggera e sta uscendo con i sandali aperti, facendosi prendere in pieno dall'aria frizzante che lo fa rabbrividire e lo sveglia più di quanto abbia fatto lo scuoterlo di Mio. Ora che ha gli occhi del tutto aperti gli basta guardare davanti a sé per rendersi conto dei colori chiari del cielo, delle sfumature che non hanno ancora lasciato del tutto spazio al giorno rispetto alla notte. Il mondo sembra ancora dormire e, per questo, gli viene istintivo guardare Mio e chiedergli: «E’ l’alba… cosa ci fai già sveglio? Perché eri in spiaggia?»


Mio lo guarda con lo stesso sorriso divertito di un bambino e fa scivolare la mano nella sua, con semplicità, cominciando a tirarlo verso la spiaggia; oltrepassano la strada deserta e la panchina dove si sono conosciuti, mentre gli dice: «Mi sono svegliato e ho pensato di vedere l’alba, mi è passato il sonno.» quasi sbrigativo, non dando troppa importanza alla cosa evidentemente, non rispetto a quello che lo ha convinto ad andare a svegliare anche Shun e trascinarselo dietro. Appena inizia la spiaggia sente i granelli di sabbia infilarsi nei sandali ma ci bada poco, preoccupandosi di non inciampare mentre Mio lo tira verso la riva; quando sono abbastanza vicini lo vede abbandonare le proprie calzature e lasciargli la mano, arrivare fino al bagnoasciuga dove l’acqua si mangia un po’ di sabbia in movimenti lenti e quasi impercettibili, vista la calma piatta del mare. 


Shun lo osserva mentre si libera dei sandali alla meno peggio, vedendolo chinarsi per raccogliere qualcosa - per un attimo, in modo del tutto irrazionale, quasi crede di vederlo girarsi con delle semplici conchiglie chiedendogli di raccoglierle insieme. Invece Mio torna a guardarlo e tra le mani ha una bottiglia di vetro. 


«…Eh?» se ne esce Shun, perplesso. Non vorrà mica darsi alla raccolta rifiuti a quest’ora?!


«Guarda, Shun! Ci sono dei fogli dentro! Sono messaggi in bottiglia, ci credi? Non ne ho mai visti, l’acqua l’ha portata a riva stanotte probabilmente. Non sei curioso di leggerli?»


Veramente no, è il primo pensiero istintivo di Shun, ma lo mette a tacere quasi subito. Se ci fosse Eri, lo prenderebbe in giro dicendogli che è un debole incapace di dire no al suo fidanzato storico, ma la verità è che Shun non riesce a togliere gli occhi da quella bottiglia ancora tra le mani di Mio. 


Ci sono state due occasioni in cui i messaggi affidati alle onde grazie a una bottiglia hanno sfiorato i suoi pensieri: il primo è stato quando era piccolo e condizionato da una delle tante storie che aveva sentito raccontare da chissà quale adulto. Fantasticava su come il suo messaggio avrebbe raggiunto parti del mondo inesplorate, di come sarebbe stato raccolto da un bambino come lui che pur non parlando la sua lingua avrebbe miracolosamente capito comunque il messaggio e gli avrebbe risposto. Shun sognava e lo faceva in grande, da bambino, e tutto gli sembrava possibile. 


La seconda occasione risale, invece, a quando era adolescente. A un certo punto si ricorda di aver davvero scritto, anche se solo una riga, di aver guardato il foglio per giorni - di averlo strappato, riscritto, cancellato, scritto di nuovo, odiato e poi alla fine preso e messo con mano tremante dentro una bottiglia recuperata da una birra bevuta da suo padre. Ricorda di aver sciacquato quella bottiglia con cura, quasi dovesse diventare l’abituazione lussuosa di un segreto importante e di una speranza; poi il biglietto lo aveva messo dentro ed era uscito di casa avvisando sua madre che sarebbe andato a fare un giro, e si era spinto fino all’oceano. Avrebbe potuto lanciare la bottiglia in acqua in qualsiasi momento, invece era stato ore a fissarla tenendola tra le mani e più passava il tempo, più si era sentito stupido. 


Alla fine, aveva buttato la bottiglia vuota e affidato lo stesso biglietto all’acqua, solo senza qualcosa a proteggere il foglio e il contenuto. L’inchiostro era colato e le parole diventate indistinguibili. Solo in quel momento Shun ricorda di essersene andato via, dopo aver dato le spalle a quell’immensa distesa di acqua che lo aveva fatto sentire piccolo, insignificante e stupido per aver avuto il coraggio di scrivere un messaggio in una bottiglia che nessuno avrebbe mai raccolto, figurarsi leggerne il contenuto. 


«Non pensavo esistesse davvero qualcuno che potesse scriverne uno!» pronuncia Mio, strappandolo dai suoi pensieri e da ricordi che non pensava sarebbero mai davvero riaffiorati. Shun focalizza l’attenzione sulla bottiglia e vede Mio con gli occhi che brillano, ora sul reperto e ora su di lui: «Apriamola, Shun!» lo sente esclamare, prima di vederlo indietreggiare abbastanza da non rischiare di bagnarsi e poi sistemarsi lì, seduto alla meno peggio sulla sabbia. 


Shun sospira, prima di sedersi di fianco a lui. Mentirebbe se dicesse di non avere un pizzico di curiosità: quale persona al giorno d’oggi fa una cosa simile?


Osserva Mio assicurarsi che non ci sia acqua che potrebbe finire inavvertitamente nella bottiglia una volta stappata, rischiando di rovinare il messaggio, e solo quando sembra esserne assolutamente certo la stappa. L’interno forse è un po’ umido, ma a vederlo a Shun non dà l’idea di essersi bagnato fino a fare danni. Mio inclina la bottiglia, fino a riuscire ad agguantare il foglio con l’indice; deve fare un po’ di manovre per riuscire all’effettivo a tirarlo fuori ed è solo allora che esclama un: «Ma sono due!» stupito. 


Quello, in effetti, fa aggrottare le sopracciglia anche a Shun: addirittura due fogli diversi? 


Mio si intestardisce a voler tirare fuori l’altro, ma Shun preferisce srotolare quello già tratto in salvo e provare a leggere. Quasi subito si rende conto che il testo è in inglese. Per quanto se la cavi, è una fortuna che il messaggio non sia troppo lungo né con vocaboli particolarmente difficili. Mio, che si è interrotto solo per sbirciare perché troppo curioso, risale con lo sguardo fino al suo viso con un: «Lo riesci a leggere, Shun?»


«Più o meno…» pronuncia lui, non volendo alzare troppo le aspettative. Così segue prima il breve testo con gli occhi, per accertarsene, e poi pronuncia un: «A te, che potresti non leggerlo mai: vorrei averti scelto quando potevo.» 


Rimangono entrambi in silenzio, sebbene per poco. Mio fa un verso soddisfatto nel riuscire finalmente a tirare fuori l’altro pezzo di carta. Shun non ha idea del perché sembri un po’ più bagnato dell’altro, ma diventa più semplice ipotizzarne la ragione quando lo aprono e la calligrafia è del tutto diversa. L’inglese non è molto buono, Shun lo intuisce pure senza essere un madrelingua; ne comprende il motivo quando l’occhio gli cade sulla firma in basso a destra, che recita “Yuko”. 


«Lascio di nuovo questo messaggio al mare. Forza! Non ti arrendere! Raggiungi la persona per cui è stato scritto!» legge Shun, perché anche Mio possa capirlo. Lo vede stringere appena le labbra e non si stupisce quando, poco dopo, gli sembra di vedere le sue mani tremolare appena. Quella è il classico livello di sentimentalismo capace di farlo piangere come un bambino - così Shun gli si accosta un poco, per quanto cerchi di camuffarlo come un movimento casuale. Gli piace quel modo di fare di Mio che spera non cambi mai, così vicino all’infanzia nella maniera più bella possibile, quell’aspetto che di solito negli adulti sparisce molto velocemente. Ama come gli brillano gli occhi e come si metta a piangere per le cose più banali, per una festa di compleanno a sorpresa e del buon riso al curry quando non se lo aspetta per cena, ad esempio. 


Mio sorride e lo guarda, prima di poggiare la testa contro la sua spalla e spostare di nuovo gli occhi sulla bottiglia con i messaggi: «E’ incredibile, eh? Qualcuno che affida un messaggio così al mare, quando c’è una possibilità su milioni… o forse anche di più, che arrivi dove deve.» mormora piano, lasciando che le sue parole si mescolino al rumore placido del mare mentre il cielo si rischiara sempre di più a vista d’occhio. Shun vorrebbe dirgli che a volte si fa, si è disperati abbastanza, tristi più del sopportabile; che si cerca l’espediente più difficile perché è modo di difendersi dalla delusione in caso di insuccesso. Perché dire qualcosa a una persona e vedersi rifiutare, non ascoltati, non capiti fa male; affidarlo a una bottiglia di vetro senza alcuna certezza - se non quella di non ricevere mai risposta - fa pensare era troppo difficile, chiunque avrebbe fallito


Ed è una consolazione, per quanto magra.


Vorrebbe dirgli di averci pensato, di averlo quasi fatto. Poi, però, forse Mio gli chiederebbe di raccontargli di più di quello Shun che non ha mai conosciuto. Ogni tanto si chiede come sarebbe stato, se tra loro ci fosse stata meno differenza di età e se Mio fosse stato un suo compagno di liceo. Se, nel sentire con lui dal corridoio altri ragazzi deriderlo mentre ipotizzavano che fosse omosessuale, li avrebbe colpiti con un libro senza nemmeno pensarci un secondo. Oppure se, nel vederlo andarsene via e correre per la strada fino a fermarsi con un senso di nausea terribile, gli sarebbe andato dietro e gli avrebbe messo una mano sulla spalla dicendogli “Mi dispiace”, anche se non era colpa sua.


Sarebbe stato bello, crede. 


«Shun?» si sente chiamare, ritrovandosi il viso di Mio più vicino di prima «A cosa pensi?» gli domanda lui e Shun non dice nulla, limitandosi ad avvicinarsi per colmare la distanza e posargli un bacio sulle labbra. Si concede solo un contatto lieve, perché sebbene nessuno andrebbe volutamente in spiaggia a quell’ora, non riesce a essere troppo sfacciato dove sa di poter avere un passaggio di persone non indifferente - specie le vecchine amiche di sua nonna. 


Mio sembra stupito, in un primo momento, ma poi ridacchia quasi fosse di fronte a qualcosa di buffo. Shun abbassa lo sguardo sui messaggi della bottiglia portati dal mare e sospira. Muove il braccio, fa scivolare la propria mano verso quella di Mio, intreccia le loro dita quasi fosse un primo tentativo e temesse di non sentire quella stretta ricambiata. Invece, come tutte le volte, Mio ricambia con la semplicità e la naturalezza di chi non riesce a prendere in considerazione di fare altro. 


«Se dovessi mandare un messaggio così, cosa scriveresti?» gli domanda a bruciapelo, ma l’altro si presta a questo tipo di cose e anche in questo caso si perde subito a soppesare la risposta. Quando gli risponde: «Forse un messaggio per mia madre.» Shun gli stringe un poco di più la mano. Mio non lo ringrazia, ma si limita a rigirargli la domanda.


Lascia che sia il rumore del mare a riempire il suo silenzio, quello spaventato, testardo e imbarazzato in cui si lascia affogare per una manciata di istanti prima di dire: «Mi vuoi sposare?» e sentire Mio ridere e rispondergli «Ma non arriverebbe mai!» prima di tacere, capire, alzare lo sguardo e la testa di scatto.


«Aspetta, mi stavi facendo una proposta?!»
«Beh…»
«Ma… ma quella volta all’oceano hai detto–»
«Lo so.» lo interrompe lui, lottando contro ogni suo istinto - dissimulare, rimangiarselo, scappare via e dire che non importa anche se non è vero: «Ma c’è un sistema di partnership. In Hokkaido.» mormora «Non è proprio come un matrimonio, certo… però…» lascia cadere, arrivato al limite di imbarazzo che sente di poter sopportare. Giusto prima di avvertire Mio tirare su con il naso.


Quando lo guarda, gli sta colando del moccio ed è così anticlimatico e così poco romantico - ma anche così da Mio - da farlo scoppiare a ridere.


*


Shun ha diciassette anni mentre guarda il suo messaggio in bottiglia venire mangiato dall’acqua, fino a rendere irriconoscibile le poche parole scritte sopra. Sta lì a osservare fino a quando l’inchiostro cola come sangue e la carta, troppo appesantita e zuppa, e affoga come il corpo di un disperso in mare. Poi, gli volta le spalle per tornare a casa e fingere che questa bambinata non ci sia mai stata.


Chi mai leggerebbe un messaggio di due sole parole? E, se anche raggiungesse qualcuno, chi mai potrebbe rispondere a qualcosa di così stupido chiuso in una bottiglia insieme a una piccola, minuscola speranza.


Scegli me. 

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