Mar. 16th, 2023

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: tutti dentro
Missione: M4 (week 4)
Parole: 10070
Rating: mature
Warnings: omegaverse, mention of drugs, mental health






«Scusa in che senso sei in aeroporto a vedere se c'è posto all'ultimo secondo su un volo per New York?» sente chiedere dall'altro capo del telefono, la voce di Hanamaki sconvolta. Iwaizumi non crede di potergli dare torto. Si mantengono in contatto per lo più via messaggio, lui, Hanamaki e Matsukawa; da quando la vita li ha portati su strade diverse è stata l'unica scelta possibile. Una volta avevano una chat di gruppo, poi Oikawa è sparito e hanno smesso di usarla. Hanamaki e Matsukawa hanno avuto la maturità e il buon senso di abbandonare il gruppo, dopo mesi di inattività. Lui è ancora dentro, mentre la chat è finita - inesorabile - in fondo all'elenco di conversazioni attive.


Per un attimo, Hajime pensa di dare una risposta; poi si rende conto che sarebbe del tutto inutile. Se c'è qualcuno che ha chiamato prima del posto di lavoro per chiedere dei giorni di permesso, quelli sono stati gli unici altri due che avrebbero potuto avere informazioni su quell'imbecille. Se nemmeno Hanamaki ha idea di cosa stia parlando quando gli sente nominare New York, non ha nemmeno senso aspettarsi che sappia di Oikawa più di quanto sappia Iwaizumi stesso - nulla. Da dieci merdosi anni.


«Mi hanno chiamato, ne so quanto te.» commenta con una nota rabbiosa che per un istante sembra farli tornare agli anni del liceo, in cui Oikawa lo faceva incazzare un giorno sì e l'altro pure. Se non altro, all'epoca, Hajime sapeva sempre dov'era: «Senti, mi affaccio al desk della compagnia. Vi scrivo appena ci capisco qualcosa.» afferma, non per tagliare corto ma è già un miracolo quello che sta cercando di compiere senza rimettere tutto lo stipendio in biglietto aereo, farlo con una mano occupata dal cellulare non è utile.


Sente Hanamaki sospirare rassegnato dall'altra parte e vorrebbe fare lo stesso.


«Va bene, ma almeno scrivi anche quando stai partendo e quando atterri, okay? Numero di volo, anche. Non sparire nel nulla anche tu, per favore. A Mattsun prende un infarto sul serio, stavolta.» pronuncia Hanamaki, facendogli se non altro abbozzare un sorriso non visto.


*


Iwaizumi deve ringraziare il suo lavoro per averlo portato a dover approfondire l'inglese per studio prima e per mansione poi, perché altrimenti atterrare su suolo americano e passare i controlli sarebbe stato un inferno peggiore di quello che si è comunque rivelato - problema principale: non aver chiuso occhio per quasi tutte e dodici le fottute ore di volo. O quante sono state, a un certo punto lo schermo sul corridoio tra una fila di posti e l'altra continuava a dire "state sorvolando l'oceano" e Hajime ha seriamente pensato di essere finito in un loop spazio-temporale.


Una volta ritirato il bagaglio gli ci è voluto un po' per focalizzare in quale direzione guardare alla ricerca dell'uomo con cui ha parlato e che si è proposto di andare a recuperarlo in aeroporto. Digita un messaggio veloce per Hanamaki, certo che lo girerà direttamente a Matsukawa; nel rialzare lo sguardo, intravedere un foglio con il proprio cognome, tenuto in mano da un uomo che non avrà più di una cinquantina d'anni. Quello lo adocchia e, quando Hajime si sta ormai dirigendo inequivocabilmente verso di lui, si vede rivolgere un sorriso amichevole e un cenno della mano.


«Hajime Iwaizumi?» domanda, con quell'abitudine straniera di dire prima il suo nome e poi il cognome, a cui Hajime dubita si abituerà mai. Annuisce comunque, rivolgendogli un inchino prima di poterci riflettere e tornando dritto quando ormai è fatta, per offrirgli la mano da stringere. L'altro non sembra toccato da quel saluto di certo per nulla usato in America e non perde tempo in convenevoli. Gli si presenta come Raymond Evans, lo stesso che lo ha contattato telefonicamente facendogli perdere più anni di vita di quanti Hajime fosse disposto a lasciar andare così presto. Evans lo guida verso l'uscita dell'aeroporto con qualche domanda classica e chiacchiera di poco conto - com'è andato il viaggio? Deve essere stanco. Una macchina privata li aspetta fuori. E' tutto già sistemato per il suo soggiorno, vista la difficoltà della situazione.


La situazione, come l'ha definita anche al telefono, innervosisce Hajime in un modo indescrivibile. Nonostante questo, lo segue fino a salire sull'auto, anche se la sua schiena implora pietà e vorrebbe che stesse in piedi per almeno mezz'ora anziché prendere la forma dell'ennesimo sedile.


A giudicare dal fatto che Evans non specifichi a chi guida la direzione da prendere, Hajime suppone si tratti di qualcuno che lavora con lui. Per quanto lui vorrebbe essere più gentile possibile, né la stanchezza né la preoccupazione del poco che è riuscito a evincere dalla loro telefonata glielo permette. Gli toccherà essere la vergogna della propria patria per i prossimi due minuti.


«La chiamata che mi ha fatto,» prende quindi il discorso, senza girarci così tanto intorno «ha detto di avermi chiamato perché ero il numero di emergenza di...?»

«Tooru Oikawa.» risponde prontamente l'uomo «Sono sicuro la cosa l'abbia sconvolta abbastanza.» aggiunge, anche se Hajime vorrebbe dirgli che non ne ha la minima idea. Il numero su cui Evans lo ha contattato - l'uomo non può saperlo - è rimasto attivo solo perché lui è un idiota sentimentale. Risale agli anni del liceo, cambiato dopo l'università quando si è reso necessario averne uno per il lavoro. Solo che alla fine il telefono su cui lo hanno contattato i suoi colleghi e i suoi capi è diventato quello tenuto sempre acceso, sempre sotto carica, e per evitarsi il tedio di doversi preoccupare di due cellulari, Hajime ha semplicemente unito l'utile al dilettevole girando il nuovo numero a tutti. Tooru compreso.


Lo stronzo, però, era già sparito e non ha mai risposto né mandato un messaggio. Così Hajime aveva dato per scontato che volesse comunque uscire del tutto dal loro giro - o dalle loro vite. Dopo l'ultimo anno di università senza sentirlo, per non parlare dei primi due dopo aver trovato un lavoro e quando persino la madre di Tooru non era più in grado di dire a Hajime dove fosse finito suo figlio... si è arreso. Che altro avrebbe dovuto fare?


La storia che si racconta Hajime sul non aver disattivato il vecchio numero è che non avrebbe dato problemi a nessuno seppure fosse rimasto attivo. Forse ha solo lasciato una inutile scappatoia ai silenzi di Oikawa, ritrovandosi invece dieci anni dopo con una chiamata dall'altra parte del mondo a dirgli che era un numero di emergenza. Non i genitori di Tooru, non qualche amico o collega con cui se non altro parla. Nessuno, tranne Iwaizumi.


«Mi dica, signor Iwaizumi,» Evans lo distrae da quei pensieri, portandolo a sbattere un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco «lei cosa sa della compagnia Cleyster?» si sente domandare a bruciapelo. Deve fare un immenso sforzo mentale per non cedere a tutta la stanchezza che ora, nel tepore della macchina mentre vanno spediti lungo la prima strada non troppo trafficata da quando sono partiti, minaccia di crollargli addosso tutta insieme.


«Ricordo che di recente è stata oggetto di uno scandalo piuttosto grande.» ammette, perché è stato un titolo su qualsiasi sito di notizie flash così come in qualche giornale più specializzato sugli avvenimenti internazionali anziché solo su quelli del suolo nipponico: «E' una ditta farmaceutica?»


«Non proprio.» lo corregge Evans «Diciamo un centro di ricerca.»

«Immagino lei non lavori per loro e che non sia lì che stiamo andando... dovrebbe aver chiuso, giusto?» 

«Corretto.» replica Evans con un accento così americano che Iwaizumi ogni tanto deve ricordarsi di mantenere il massimo della concentrazione per distinguere tutte le parole - anche se, sospetta, l'uomo non sta parlando al massimo della velocità che forse manterrebbe con un madrelingua americano. Lo vede lanciargli un'occhiata di sottecchi, forse per accertarsi di avere ancora la sua attenzione prima di continuare a parlare: «Vorrei entrare nel dettaglio di come questo si colleghi nello specifico al signor Oikawa, ma credo sia una conversazione complessa che non possiamo avere adesso, quando lei ha più di dieci ore di volo alle spalle e una stanchezza visibile. Per adesso le dico che il signor Oikawa è in cura con noi, supervisionato da una equipe specializzata e non è in pericolo di vita.» gli dà le informazioni che qualsiasi parente pretenderebbe prima ancora di voler sentir parlare di riposo o di vedersi rimandare al giorno dopo per le spiegazioni più dettagliate.


Hajime fa per parlare, ma alla fine Evans stesso lo anticipa: «Facciamo in questo modo: ora la stiamo accompagnando all'hotel dove alloggerà per questa notte. Domani mattina verrò io stesso a prenderla, dal momento che la sede in cui lavoro è fuori città e non arriveremmo prima di notte, quando l'orario di visita è già passato. Durante il viaggio le darò tutti i dettagli e risponderò a tutte le sue domande. Crede si possa fare?» lo chiede con il fare conciliante che a Iwaizumi ricorda i medici esperti, quelli che hanno dovuto affrontare le famiglie dei propri pazienti troppe volte e quasi mai con buone notizie per non sapere come trattarli affinché non diano di matto o facciano richieste ingestibili. E capisce, quasi subito, che se anche si impuntasse non ne tirerebbe fuori molto di più. Senza contare quanto si senta davvero incapace di capire un discorso più complicato di un paio di indicazioni stradali, al momento. Così non gli resta altro da fare se non accettare, sospirare buttando fuori tutta l'aria che non si era accorto di star trattenendo e annuire.


«La ringrazio per la comprensione.» si limita a dire Evans, mentre la macchina - allo scatto del semaforo verde - svolta a destra immettendosi su un'altra strada piuttosto larga di cui Iwaizumi nemmeno si spreca a guardare il nome sul cartello che superano quasi subito.


*


Evans mantiene la sua promessa: alle dieci del mattino sono già nella hall dell'albergo, Iwaizumi ha già fatto colazione ed è pronto a muoversi. Su indicazione dell'uomo non porta granché con sé e partono senza troppi indugi. Sono in macchina da dieci minuti e una telefonata di sì e no trenta secondi quando Evans comincia a spiegargli nel dettaglio di cosa si occupa e come questo, insieme alla chiusura della Cleyster, sia collegato a Tooru - e, per riflesso, al suo essere partito col primo volo disponibile per New York.


La Cleyster, spiega Evans, ha sviluppato un farmaco sperimentale e diverse persone si sono affidate a loro per offrirsi come volontari, qualcosa che alle orecchie di Hajime suona più cavie pur senza farlo presente. Come ogni farmaco di quel genere gli effetti collaterali non sono pochi ma, secondo una serie di termini medici che Hajime non crede di riuscire a capire appieno, non è qualcosa di cui i piani alti della Cleyster si sono preoccupati. Non fin quando qualcuno non li ha denunciati - «il partner di una ragazza che si era affidata a loro.» gli rivela Evans senza dettagli sulle loro identità - e la polizia se ne è occupata da vicino al punto da portare a galla quanti rischi abbiano corso i pazienti.


La clinica dove Evans lavora, la St. Micheal, è stata assemblata con i maggiori esperti in campo medico per controllare, curare e gestire gli effetti collaterali in questione. Oikawa è loro paziente da meno di due mesi.


«Quello che adesso le voglio dire, signor Iwaizumi, è la parte più complicata. Cerchiamo di spiegare alle persone vicine ai pazienti la situazione in modo più trasparente possibile, ma tanti - se non quasi tutti - non sono al corrente di... molti aspetti, diciamo pure così.» Evans spiega con la calma che si potrebbe avere con un bambino troppo spaventato, irrazionale e ignorante per capire parole difficili e concetti complessi. Hajime è quasi irritato, sottopelle, fin quando Evans non gli chiede in modo molto più diretto: «Lei sapeva che il secondo genere del signor Oikawa è quello di Omega?»


Per un istante, Hajime si rivede da ragazzino quando hanno fatto i test. Si rivede a casa di Oikawa un pomeriggio sì e l'altro pure, si vede negli spogliatoi a scuola, sul campo di pallavolo - e a ognuno di questi momenti accosta quello che altri non hanno mai né saputo né visto: Tooru piangere il giorno in cui hanno ricevuto il risultato del primo esame sul secondo genere, dicendo che non avrebbe avuto più amici adesso che era un omega; Tooru a scuola, imbottito di inibitori fin quando Hajime non ha scoperto la sua piccola scorta assunta prima di entrare in classe, perché sua madre non sapesse che ne prendeva di più pur di non fare assenza quando in calore. Per non insospettire gli altri.


Tooru, negli spogliatoi dopo una partita in cui l'adrenalina lo aveva spinto al limite e il suo corpo l'aveva appena tradito nel peggior modo possibile: non permettendogli di stare al passo con la sua mente, con il suo desiderio di vincere, con il suo orgoglio di giocatore.


Certo che Iwaizumi lo sa. Lo ha sempre saputo e per quanto fosse contrario a tenerlo nascosto, per quanto credesse che non nasconderlo sarebbe stato molto più salutare, alla fine ha sempre rispettato il volere di Tooru. Forse, si dice mentre sfrecciano lungo l’asfalto verso l'uscita della superstrada, avrebbe dovuto insistere fino allo sfinimento e fino a convincerlo. 


Si tiene comunque quei pensieri per sé e annuisce, mentre riporta lo sguardo su Evans. E' difficile leggere quell'uomo e le sue espressioni, ma Hajime immagina che saltare quell'ulteriore spiegazione non gli dispiaccia troppo. Lo vede guardare fuori dal finestrino, quasi a sincerarsi che la direzione presa dall'auto sia corretta. Dopodiché allunga una mano verso un fascicolo tenuto sulle gambe fino a quel momento: per un attimo, Hajime si aspetta un riassunto della situazione clinica di Oikawa. Invece, quando apre la cartellina anonima, capisce quasi subito che non lo è.


Prima che possa fare domande, Evans lo precede: «In parole semplici e senza avventurarsi in tecnicismi farmaceutici, signor Iwaizumi, questo è ciò che la Cleyster ha proposto: uno studio su un farmaco la cui somministrazione avviene in due fasi con diverso dosaggio.» comincia a spiegargli mentre gli occhi di Hajime provano a scorrere sui fogli, saltando le percentuali e i nomi medici di cui capirebbe ben poco ma cercando un riscontro con quello che l'americano gli sta dicendo.


«Nella prima fase c'è un massiccio utilizzo di quello che è, a conti fatti, un mix di sostanze presenti nella maggior parte degli inibitori attualmente sul mercato.» prosegue «La seconda fase è una stabilizzazione. Non ci sono mai arrivati.»


Hajime alza lo sguardo in quel momento, inarcando un sopracciglio: «Non è una buona cosa?» domanda confuso. Evans, nel ricambiare la sua occhiata, ha un'espressione indecifrabile.


«Nella misura in cui un altro farmaco poco sicuro non è stato somministrato, forse.» replica con una sfumatura di scetticismo di chi non si accontenta di un "meno peggio" solo perché non può avere il "meglio": «Ma per il resto la prima fase di questo "studio", se così lo vogliamo definire, era quella peggiore per l'organismo dei pazienti. Il dosaggio massiccio e quasi per nulla differenziato in base ai parametri del singolo hanno causato ben più di un tipo di squilibrio ormonale e di dipendenza. Senza considerare il danno psicologico. Lei è un beta, giusto?»


Talmente non si aspetta di essere interpellato che, quando l'uomo lo fa, Hajime deve sforzarsi per annuire: «Ha mai desiderato qualcosa di diverso? Di essere un alfa, per esempio.» lo incalza Evans.


«A dire il vero no.»

«Allora è molto fortunato.» replica l'americano «Tuttavia ogni paziente che si è affidato alla Cleyster è un omega a cui è stata promessa una vita diversa: niente più pregiudizi di una società dalla mentalità ancora troppo chiusa, niente permessi quando sono in calore, niente più ormoni a pilotare la loro vita. Molti li biasimano o non lo capiscono, ma è la fortuna dei privilegiati, se posso dire la mia.» si espone, forse per la prima volta. Hajime quasi lo preferisce all'uomo che finora gli ha parlato con la stessa inflessione emotiva con cui si potrebbe parlare di vini anziché di persone.


«L'unica cosa che hanno ottenuto, invece,» riprende mantenendo lo sguardo fuori dal finestrino «è di dover restare tutti chiusi dentro una clinica, senza sapere se e quando ne usciranno. O in quali condizioni.»


*


Quando sono ormai a meno di mezz'ora dalla clinica, gli torna in mente come uno di quei ricordi che si è convinti di aver dimenticato finché non si ripresentano con la stessa potenza di quelli più freschi. Tra mille giorni tutti uguali durante gli anni scolastici, Hajime si ricorda all'improvviso di quella volta in cui in classe stavano parlando durante la pausa pranzo - i test medici erano stati consegnati da tempo, ormai, e anche se nessuno lo sapeva Oikawa era già a conoscenza di cosa fosse. Nella loro classe una sola ragazza era risultata omega e lo aveva detto fin dall'inizio, senza nasconderlo in nessun modo.


Era raro avere commenti sgradevoli, ma ogni tanto capitava; Hajime aveva preso l'abitudine di troncarli sul nascere, che la loro compagna fosse presente o meno, e laddove tutti avevano preso a considerarlo un bravo ragazzo lui si sentiva un impostore, perché quando metteva a tacere quei commenti cretini era nel timore che da un momento all'altro Oikawa entrasse in classe e li sentisse, finendo per assimilarli come qualcosa che riguardava anche lui.


Hajime, però, era solo un adolescente come tutti. E solo ora, a distanza di più di dieci anni, si ritrova in una macchina fuori New York City, a pensare a quando Oikawa entrò nella stanza e sentì ridere qualcuno mentre diceva: «Se fossi un maschio e un omega morirei di vergogna!»


La cosa terribile è che Hajime si ricorda tutto - lo spintone dato all'idiota che aveva parlato, le esatte parole sbraitate per coprire troppo tardi quelle dette con tanta leggerezza, il vociare intorno a lui dopo la sua reazione, il vago senso di imbarazzo di chi realizza la stupidità e la cattiveria gratuita detta quando ormai non può più ritrattare.


Si ricorda tutto, tranne l'espressione di Oikawa in quel momento.


*


Evans lo guida fino alla sala d'attesa, poco oltre la reception all'ingresso. E' una stanza piuttosto grande, illuminata praticamente a giorno da enormi finestre che occupano in fila quasi un'intera parete. Al posto di sterili sedie da ospedale ci sono poltroncine e divanetti, con bassi tavolini in legno tra due o più sedute; prima di congedarsi, Evans gli ha indicato dove trovare la caffetteria interna qualora volesse prendere un caffè nell'attesa, assicurandogli di chiamarlo non appena Oikawa avrà finito la seduta di non ha capito bene cosa. Sempre ammesso che quell'idiota accetti di incontrarlo oggi, così a sorpresa.


Per essere una clinica, Hajime ammette che ha visto di peggio. Dà molto più l'idea di una casa di cura di quelle che simulano l'ambiente accogliente di una casa qualsiasi con una famiglia qualunque, salvo poi essere quello che sono se ridotte ai minimi termini. Se non altro, non ci sono sbarre né nulla che faccia pensare a una prigione; a quello ci aveva già pensato il modo di esprimersi di Evans nel dirgli che non tutti i pazienti è detto riescano a essere dimessi. Questo, se accostato all'immagine di un Oikawa molto più giovane - come se lo ricorda lui per forza degli eventi, d'altronde -, gli causa un'agitazione sotto la pelle che Hajime non è sicuro di poter gestire.


Così come è convinto di non poter gestire un incontro amichevole con Oikawa quando sente chiamare da una voce femminile: «Signor Iwaizumi?» e si ritrova davanti una ragazza giovane, gli abiti a tradirne la mansione di infermiera. Lei gli comunica che Evans e Oikawa lo stanno aspettando nello studio del primo e lo accompagna fino a lì, bussa alla porta socchiusa e fa cenno a lui di entrare. Hajime è abbastanza certo di rivolgerle un sorriso storto in risposta a quello caloroso di lei, ma è già oltre la soglia quando quel pensiero raggiunge il cervello.


Lo studio di Evans è uno studio. Questo è il massimo della considerazione che riesce a dargli quando i suoi occhi inquadrano la figura di Tooru e qualcosa gli si spezza dentro - sollievo, preoccupazione, euforia, rabbia. Paura.


Oikawa sta seduto sulla sedia con le gambe incrociate, come se questa fosse un'intervista dell'ennesimo giornalista sportivo dopo un match di pallavolo dove lui ha fatto la differenza, e neanche avesse addosso un capo firmato e un'assistente di una troupe si fosse assicurata che i suoi capelli siano perfetti e il trucco sul viso più naturale possibile pur mascherando qualsiasi eventuale imperfezione. Invece il Tooru davanti a lui indossa una tuta di quelle con cui si sta in casa quando non si aspettano visite; i capelli sono appena più lunghi di come Hajime se li ricorda, ma meno brillanti di quanto quell'idiota se ne occupava quasi dovessero avere vita propria; il viso ha le ombre di un mancato sonno e di una salute tutt'altro che ottimale. Il sorriso che una volta Hajime avrebbe minacciato di prendere a pugni a vista è tirato, ombra di una maschera un tempo impossibile da distinguere dal vero Oikawa Tooru se non per pochi eletti.


Si gira a guardarlo e gli rivolge un incurvarsi di labbra così falso da tradire come lui non si impegni a nascondere un pensiero che risuona, come urla, nel silenzio della stanza: preferirei essere ovunque tranne che dove sei anche tu.


«Si accomodi, signor Iwaizumi.» lo incalza Evans, sbloccando la situazione di stallo tra di loro. Con la stessa cautela che userebbe entrando nella gabbia di un animale selvaggio, Hajime si chiude la porta alle spalle e azzera la distanza fino a prendere posto sulla sedia accanto a quella di Tooru, entrambi di fronte a Evans comodamente seduto dietro la sua scrivania.


All'inizio Hajime si aspetta una qualche comunicazione, un input di qualsiasi genere da parte dell'americano. Quando questo non arriva, sposta lo sguardo su Oikawa che sembra del tutto a suo agio anche nel loro completo, imbarazzante silenzio.


«Non-» comincia ma, neanche Tooru stesse aspettando di sentire la sua voce, lo anticipa quasi bruscamente: «Non saresti dovuto venire, Iwa-chan.»


Incredibile come, a distanza di così tanto tempo e quando ormai si pensa una persona non possa più scatenare in nessuna maniera un'emozione, si ritrovi a incazzarsi come quando avevano entrambi sedici anni. Immediato, quasi Tooru avesse appena lanciato un fiammifero su una tanica piena di benzina. Hajime trattiene il respiro, stringe i pugni sui braccioli; vorrebbe farlo lontano da sguardi indiscreti, però scende subito a patti con il fatto che non sia possibile. Forse la cosa peggiore è vedere la totale assenza di reazione sul viso di Oikawa - lo sa, che il bastardo ha calcolato ogni singola parola di proposito. Altrimenti, considerato come siano entrambi oltre quella che per tutti e due è stata l'amicizia che pensavano sarebbe durata tutta la vita, non avrebbe avuto nessun motivo di chiamarlo Iwa-chan.


«Potevi non mettermi come numero di emergenza, allora.» ribatte secco, non riuscendo a impedire a se stesso una risposta istintiva. Spera che Evans non lo abbia invitato con la speranza di mettere un adulto responsabile di fianco a Oikawa Tooru, perché prima di quello Hajime ha tutta l'intenzione di fargli mangiare ogni singolo giorno in cui non si è nemmeno degnato si alzare il telefono per poi rifilargli questa sorpresa.


Invece sia lui che l'americano si ritrovano a guardare Oikawa scoppiare a ridere, il ritratto di un ragazzino spensierato a cui hanno appena rifilato la battuta più divertente del mondo. Così si stende in parte sulla sedia, contro lo schienale, butta la testa indietro e si mette persino una mano all'altezza dello stomaco. C'è una millimetrica precisione in ogni suo gesto, la stessa di un attore navigato che ha imparato a memoria persino i movimenti da associare alle sue battute per una resa migliore di fronte al suo pubblico.


«Hai ragione, hai ragione!» dice, sventolando la mano libera in un blando e assolutamente non sentito gesto di scuse «Mi sono dimenticato, okay? Lo avrò registrato più di dieci anni fa! Sono quelle cose che fai quando tua mamma insiste per stare tranquilla, ma chi se lo ricordava! Se avessi saputo che volevano chiamare il numero registrato gli avrei detto che non era più lo stesso e avrei fatto chiamare direttamente a casa, insomma.» spiega, fin troppo allegro per uno che - a sentire le spiegazioni di Evans - dovrebbe essere alla stregua di un drogato in piena crisi di rigetto e senza alcuna certezza di riuscire a essere riabilitato.


Hajime non sa se gli faccia più rabbia o più paura, vedere che a dispetto della prontezza delle sue battute, non sembra esserci la lucidità di una volta nello sguardo di Oikawa.


«Ora però tutto risolto, giusto? Niente più malintesi!» quasi trilla con quella voce fastidiosa che nella testa di Hajime sarà sempre di un Tooru che, guardando quello seduto al suo fianco adesso, non sa se tornerà mai: «Puoi tornare a casa e alla tua vita, Iwa-chan. Sono sicuro tu abbia di meglio da fare che perdere tempo qui, no?» lo sente aggiungere e lo vede di nuovo, quel sorriso.


Si alza prima ancora di accorgersene, registrando con un istante di ritardo il grattare delle gambe della sedia contro il pavimento in parquet. Tooru lo segue con lo sguardo, senza scomporsi minimamente - e forse anche Evans sta osservando, alla cerca di cosa di preciso Hajime non ne ha idea.


«Come se uno sparito per dieci anni sapesse un cazzo, della mia vita.» gli sputa in faccia, prima di uscire dallo studio.


*


A dispetto del primo istinto di Hajime di andarsene e lasciare l'idiota a cui è stato dietro fin dall'infanzia, è ancora lì la sera quando Evans gli propone una sistemazione momentanea in clinica per evitare l'inutile avanti e indietro dall’hotel. Ed è ancora lì quando, la mattina dopo, nella caffetteria interna trova molti più visi di quanti abbia visto il giorno precedente. La maggior parte di loro, nota mentre una tazza di caffè americano cerca di affogare ogni sua discutibile scelta di vita, non sono nemmeno vestiti in un modo che ricordi vagamente i pazienti di una clinica.


Deve aspettare un'ora e l'incontro concordato con Evans, stavolta da solo, per scoprire che è perché una parte di loro in effetti non lo è. L'americano lo guida in un corridoio su cui si affacciano non solo il suo studio, ma molti altri: porte in legno ognuna recante una targhetta metallica con il nome di un diverso medico. Prima di fermarsi e considerando entrambi i lati, Hajime ne conta sei.


Quella alla quale Evans bussa, reca la scritta "Dr. Wayne". Il suo studio non è così diverso da quello in cui l'ha accolto l'uomo il giorno prima: una scrivania sulla parte sinistra, dietro la quale Hajime riconosce qualche titolo sugli ampi scaffali di libreria come qualcosa di medico, comode sedie di fronte. Il lato destro è tutto dedicato a un divano a due posti, un tavolinetto basso e un paio di poltroncine. La parete di fronte alla porta è per buona parte impegnata da finestre che illuminano a giorno la stanza. Qua e là qualche pianta cerca, con molta probabilità, di dare un approccio meno serio alla stanza. Dietro la scrivania è una donna ad accoglierlo con uno sguardo breve, prima di tornare a scrivere qualcosa di veloce sul primo di una pila di fogli sistemata davanti a lei, come chi non vuole perdere il filo di quello che stava appuntando. Solo un paio di secondi dopo poggia la penna e dedica loro tutta la sua attenzione.


«Il signor Iwaizumi, suppongo.» pronuncia, il tono cordiale mentre gli occhi azzurri lo scrutano senza tante cerimonie. Hajime annuisce, vedendola spostare lo sguardo su Evans: «Grazie, Raymond.» lo congeda con un piccolo sorriso, mentre l'altro si limita a un annuire lieve prima di chiudere la porta alle spalle di Hajime. Quasi nello stesso momento, la dottoressa gli fa cenno di accomodarsi, ma verso le poltroncine così lui devia appena sulla destra e vi si sistema. Lei lo raggiunge in una manciata di passi, ma senza sedersi subito.


«Caffè?»

«No, grazie.» replica «Ho già bevuto una tazza nella caffetteria.» confessa, vedendo solo ora la parte di stanza nascosta dalla porta aperta in precedenza - un lungo mobile con sopra diversi oggetti tra cui una classica macchina per il caffè veloce. La brocca è già mezza piena e la dottoressa si limita a versarsene una generosa quantità nella tazza prima di raggiungerlo e prendere posto sulla poltroncina libera. Hajime sospetta non sia molto più grande di lui, anche se i capelli scuri legati in uno chignon la fanno sembrare forse più austera e, di riflesso, con qualche anno in più sulle spalle. La mano libera aggiusta il camice perché non tiri, ma non sembra preoccuparsi di lasciar vedere il completo scuro ma non troppo formale che indossa sotto.


«Io sono Marian Wayne,» si presenta, allungando la mano verso di lui «sono una degli psicologi di questa clinica. Tra i vari pazienti di cui mi occupo, c'è anche Tooru.» spiega, usando il nome senza troppe cerimonie. Hajime immagina, mentre le stringe la mano, che se lei e Oikawa parlano debbano essere arrivati a un punto in cui le formalità sono venute meno.


«Ho saputo da Evans che ieri il vostro primo approccio non è andato benissimo.»

«La sorprende?»

«Francamente no.» replica lei senza mezzi termini, né un sorriso a far pensare che voglia essere simpatica. Questo lascia intendere a Iwaizumi che è solo brutalmente schietta: «Tooru non è il tipo felice di ricevere aiuto quando non lo chiede.» aggiunge, prendendosi un sorso di caffè. Hajime la osserva, cercando di carpire non sa nemmeno lui cosa - magari il motivo per cui è stato chiamato a dodici ore di volo da casa sua se nessuno si aspetta possa fare qualcosa.


La dottoressa sembra intuirlo, o magari è solo un dubbio lecito che avrebbe chiunque: «Raymond le ha detto a grandi linee il problema per cui i pazienti arrivano qui, ma immagino non ci sia stato il tempo né di dirle tutto nel dettaglio, né di spiegarle i metodi nello specifico o di fare riferimento a chi sta qui in clinica pur non essendo un paziente.» prosegue lei, neanche Hajime avesse ogni singola domanda scritta in faccia. Si limita ad annuire, per adesso, rimpiangendo di non aver accettato altro caffè con cui tenersi occupato mentre se ne sta lì a farsi riempire da quelle che minacciano essere una sequela di informazioni infinite e complicate.


«Trattiamo i pazienti sotto l'aspetto fisico in due modi.» riprende lei «Il primo è disintossicandoli. Non ci girerò intorno, signor Iwaizumi: nessuno di loro al momento può gestire un periodo in calore fuori di qui. Ognuno aveva raggiunto un grado di cura con il farmaco sperimentale diverso ed è inutile dire che più a lungo sono stati sotto somministrazione, peggiore è la situazione adesso. Ce la fa a sentirmi andare nel dettaglio?» domanda, occhieggiandolo. E' un medico strano, la donna davanti a lui: il tono con cui parla è conciliante, ma non sta indorando la pillola in alcun modo. E' una psicologa, o così ha compreso Hajime, eppure sembra del tutto priva di tatto ed empatia. Anche chiedergli se senta di poter gestire quel carico di informazioni ora suona più una prassi che una sua reale preoccupazione.


Annuisce comunque, perché cos'altro potrebbe fare?


Lei sembra piuttosto colpita da qualcosa, ma di cosa si tratti lui non ne ha la minima idea.


«Il farmaco in questione prometteva di rendere gli omega dei beta. Alla base, la differenza tra questi due generi è solo una: andare o meno in calore, poter o meno concepire un bambino. Il farmaco, quindi, aveva uno scopo principale, ossia azzerare gli ormoni così da far venire meno una serie di caratteristiche peculiari. Ovviamente, non potendo certo far sparire gli organi interni che permettono la gestazione anche agli omega uomini, l'unica cosa su cui era concretamente possibile agire erano gli ormoni. Ora» continua, adocchiandolo di tanto in tanto, forse per rendersi conto se la stia seguendo o meno «gli inibitori ormonali sono soggetti ad attenta prescrizione per un motivo. Bombardare un corpo con un mix di tutti quelli sul mercato potrà anche portare il paziente a non andare più in calore a lungo andare, ma di certo non lo mantiene in salute. Non si finisce in modo così diverso da qualcuno che per tanto tempo assume una droga. Solo che la dipendenza non è data dall'assumerla o meno in sé, in questo caso, ma dalla reazione quando il periodo di calore torna.» continua, prendendosi un altro sorso di caffè, seppure breve.


Hajime si sente già la testa scoppiare e sospetta che il discorso non sia nemmeno lontanamente vicino alla fine. La dottoressa Wayne, di suo, non sembra avere fretta di arrivarci: «Quando un omega che ha seguito un simile trattamento va di nuovo in calore, quello è il momento di crisi più grande. A volte è fisica, e cercano gli inibitori come si cercherebbe l'eroina.» elenca lei «Altre si rendono conto di non avere più controllo sul loro corpo, che gli ormoni adesso sono di nuovo liberi di alterare le loro percezioni, peggio di quando la natura di omega si affaccia per la prima volta. E poiché qui ogni medico, infermiere e inserviente è un beta e di certo non può avere rapporti sessuali con un proprio paziente, soffrono come un contraccolpo dello stesso periodo di calore che in condizioni normali era difficile ma non ingestibile. In casi estremi, sfociano nella depressione e nell'istinto di autodistruggersi non riconoscendo più il corpo che pensavano di aver cambiato.» conclude con crudezza, eppure solo ora a Iwaizumi sembra di sentire una sfumatura più morbida nella sua voce. Come se nemmeno lei riuscisse a mantenere l'asettica professionalità di fronte a questo - Hajime si chiede se abbia visto pazienti non superare affatto quelle crisi. Quanti ne abbia visti.


Non è sicuro se il silenzio in cui la donna si chiude sia per dargli tempo o per decifrare quanto sia ancora in grado di sopportare. Hajime si accorge solo in un secondo momento di come la propria mano stia stringendo così tanto il bracciolo della poltroncina ma tenere in tensione tutto il braccio.


«...Tooru dov'è? Intendo, in quale fase è?» domanda, sentendosi la bocca secca. La dottoressa non sospira rassegnata, il che è un buon segno immagina.


«Tooru è come ogni persona che sperava di cambiare la parte di sé che odia, quindi disperato. Per sua fortuna, è anche troppo orgoglioso per distruggersi al cento per cento, il che ci dà margine per lavorare, ma...» la vede fermarsi, aggrottare appena le sopracciglia: «ma i percorsi psicologici sono complessi, signor Iwaizumi. Per questo permettiamo ai compagni dei pazienti, quando li hanno, di soggiornare qui per affiancarli nel percorso di riabilitazione.»


Hajime non fa in tempo a sospirare di sollievo, nel sentire che almeno la situazione non è irrecuperabile, che qualcosa nelle parole della donna stride. I compagni. Ah.


«Io e Oikawa non siamo compagni.» corregge il malinteso. Lo sguardo che la donna gli rifila non sembra quello di una persona convinta di quanto appena sentito, ma immagina sia tipico di uno psicologo non negare né affermare qualcosa al cento per cento prima che il paziente lo faccia per primo. Tralasciando come Hajime non sia affatto un paziente.


«Però è il suo numero di emergenza.»

«Perché si è dimenticato di cambiarlo, apparentemente.» commenta seccato e, per la prima volta da quando è entrato, la sente sbuffare l'accenno di una risata. Quando riporta lo sguardo su di lei, la dottoressa Wayne sta accavallando di nuovo le gambe e ha le labbra incurvate in un sorriso. Quello di chi ha appena visto un bambino con la faccia sporca di cioccolato negare di averne presa un po' di nascosto dal barattolo.


«Se c'è qualcosa che nelle mie sessioni con Tooru ho capito con molta facilità, signor Iwaizumi, è che le persone come lui non dimenticano una cosa del genere. E sa perché?» gli domanda, aspettando con pazienza di vedere Hajime scuotere la testa.


«Perché quelli come Tooru le persone o le cancellano del tutto, o non le cancellano mai.»


*


«Quindi Oikawa è in ospedale.» pronuncia la voce di Hanamaki al telefono, ma Hajime può tranquillamente vedere sia lui che Matsukawa nello schermo dello smartphone grazie alla videochiamata: «In America-- beh questo comunque è la cosa che mi sorprende di meno.» ammette in aggiunta, mentre l'espressione di Matsukawa rimane indecifrabile anche quando si accoda all'altro domandando «Non ti hanno detto i dettagli?»


«Non molti.» Hajime detesta mentire, specie a loro due. Tanto quanto lui sono stati preoccupati dalla sparizione di quell'imbecille di Tooru e Hajime sospetta che Matsukawa, più di tutti, si sia incolpato della cosa per parecchio tempo essendo l'unico alfa del loro gruppo del liceo. Nonostante questo, Hajime è anche abbastanza sicuro che dirgli del farmaco, del perché Oikawa si sia affidato a una cosa sottobanco, non è qualcosa che vorrebbe nessuno di loro. Hanamaki e Matsukawa meritano entrambi che sia Tooru a dirglielo e, per quanto le mani di Hajime prudano ancora al pensiero, non farebbe mai davvero il torto al suo... amico d'infanzia, se così può definirlo dopo così tanti anni.


Difficile capire se gli altri due ci credano, ma è grato del loro non indagare oltre. Oltre il proprio telefono, invece, inquadra la stessa infermiera che ieri lo ha guidato verso lo studio della dottoressa Wayne; lei gli fa un cenno e lui annuisce.


«Devo andare, comincia l'orario di visita.»

«Aggiornaci, okay?» rimbrotta Hanamaki, chiudendo la chiamata solo dopo l'annuire di Hajime. Si alza, a quel punto, mettendo il telefono nella tasca posteriore dei jeans e raggiungendo l'infermiera.


Orario di visita è un modo carino per evitare di dire vado a fare un'imboscata a quel coglione di Oikawa durante la sua ora di terapia. Non ne è stato molto convinto quando la dottoressa lo ha proposto - presenziare alle sedute con lei e, se e quando Tooru glielo permetterà, sostenerlo durante la riabilitazione fisica - ma andarsene non gli sembra una soluzione alternativa migliore.


Capisce quanto pessima sia l'idea quando, un quarto d'ora dopo, Tooru apre la porta dello studio della dottoressa e posa lo sguardo prima su di lei, poi su di lui; Hajime si stupisce di non vederlo girare i tacchi e andarsene, a essere onesto, ma non gli sfugge come si lasci scivolare sul divano accanto a lui spazientito o come incroci le braccia al petto, sbuffando neanche avesse cinque anni.


Segue le indicazioni della dottoressa, rimanendo silenzioso spettatore per buona parte dei primi dieci minuti di seduta in cui una serie di domande di rito su condizioni odierne rispetto al loro ultimo incontro gli dicono tutto e nulla, non avendo idea di cosa si possano essere detti in precedenza. Tooru risponde con la saccenza di chi ci tiene, a far notare quanto sia offeso dalle condizioni in cui è costretto a portare avanti l'incontro; la dottoressa Wayne, di contro, sembra adattarsi a lui con professionalità e naturalezza. Lo stuzzica in alcuni momenti, gli parla conciliante in altri, attende pazientemente in silenzio quando Tooru sembra non essere intenzionato a rispondere.


«Signor Iwaizumi,» lo richiama a tradimento «possiamo darci del tu?» domanda, osservandolo. Preso alla sprovvista annuisce prima di rendersene conto, ma non ha tempo di ritrattare prima che arrivi una vera e propria domanda: «Dimmi, com'era Tooru a scuola?»



Hajime non è mai andato da uno psicologo in vita sua, se si esclude una singola chiacchierata fatta con uno esterno venuto il giorno dei risultati del primo test sul loro secondo genere e quello, qualche anno dopo, presente al test definitivo. Non ha idea di come dovrebbe rispondere: sincero? Più pacato per evitare reazioni inaspettate in Oikawa? Esiste, poi, una risposta giusta che metta d'accordo tutti?


«Non serve pensarci così tanto.» lo incalza lei, ma non in modo brusco «Basta anche solo il primo aggettivo che ti viene in mente.»


Insopportabile. Sbruffone. Arrogante. Con più dedizione verso la pallavolo di chiunque altro. Una forza della natura. Piagnucolone. Forte. Fragile.


«Testardo.»

«Ah!» esclama subito Oikawa, stringendosi ancora di più nelle spalle «Non sono io a essere rimasto in una clinica dove non ho nulla da fare.» commenta, occhieggiandolo quasi per sfidarlo a ribattere.


«Perché di quello ne parlano gli adulti, i bambini non hanno voce in capitolo.»

«Iwa-chan sei insopportabile anche da vecchio!»

«Almeno il mio cervello è cresciuto!»

«Il tuo--»

«Per quanto questo scambio sia quasi affascinante,» comincia la dottoressa e non sembra per nulla ironica «non credo sia un dialogo funzionale. Tooru, perché non pensi che Hajime dovrebbe restare?» domanda a bruciapelo, del tutto in contrasto con la voce pacata e l'espressione imperturbabile che offre.


Lui sposta lo sguardo su Oikawa nello stesso momento in cui Tooru lo devia sulla dottoressa. Lo vede osservarla come se dovesse trovare la soluzione prima di cadere inesorabilmente nella trappola e sciogliere appena l'intreccio delle braccia contro il petto, rilassando le spalle. Quando apre bocca, l'espressione è stanca, seria e rassegnata insieme.


«Perché non ne ho bisogno.»

«Del suo aiuto o che veda la tua situazione?» lo incalza la donna, facendolo irrigidire di nuovo. Agli occhi di Hajime è come un tira e molla che non crede Oikawa possa in alcun modo vincere e per uno abituato a non perdere, non deve essere la situazione ideale per aprirsi. O forse la dottoressa ha capito prima di altri che la chiave di lettura di Oikawa Tooru non è certo lasciarlo crogiolare nella convinzione di farcela sempre e comunque.


Inaspettatamente, Tooru si gira a guardare lui, però; quando gli sorride con la stessa arroganza dell'adolescenza ma senza che quel sorriso raggiunga gli occhi, Hajime sa che non può in alcun modo essere un buon segno: «Lo so cosa ti hanno detto.» comincia «Di quanto sia difficile quando vado in calore. Invece, non è così difficile. Certo, l'ideale sarebbe avere un alfa ma cosa credi, in una clinica piena di omega pensi non si faccia niente oltre ad aspettare un partner che non arriverebbe comunque? Facciamo tra noi.» butta lì quasi fosse una questione di poco conto, qualcosa da cui non potrebbe mai essere nemmeno sfiorato.


«Perciò la vita qui non è la prigione che ti avranno raccontato. I dottori la fanno così tragica! Invece, davvero, non c'è bisogno tu rimanga anche perché... voglio dire. Iwa-chan, tu sei solo un beta. Sei in assoluto quello che potrebbe aiutarmi di meno con il sesso! Quindi--»

«Quindi ti sta bene l'idea di restare per sempre in clinica con tutti gli altri, come dei drogati, senza mai essere riabilitato?» lo interrompe bruscamente, cercandone con insistenza lo sguardo «E gli altri omega cosa ne pensano? Tutti qui dentro a raccontarvi cosa, di essere in vacanza? A fare un sesso che non sono nemmeno sicuro ti ricorderesti comunque?»


Lo schiaffo che gli arriva gli fa girare la testa leggermente di lato, ma non gli impedisce di vedere Tooru uscire come una furia dallo studio. Quando prova a occhieggiare la dottoressa Wayne, per capire se sia il peggior risultato possibile, lei posa la cartelletta con una calma quasi irreale e alzandosi dalla poltroncina si limita a dirgli: «Caffè?»


*


Il giorno dopo è Evans a suggerirgli di approfittare del weekend per svagarsi, offrendosi di indirizzarlo verso i registri di uscita e le opzioni di spostamento a disposizione di chi, essendo ospite come lui lì alla clinica, può ovviamente andare a New York City se vuole e tornare in giornata per dormire lì dove hanno una propria stanza a disposizione. Hajime si fa spiegare l'iter, ma passa buona parte del venerdì e del sabato a vagare per gli spazi comuni della clinica, oltre che per l'ampio giardino.


Vede Oikawa una sola volta, senza essere notato. A osservarlo da lontano, seduto su una panchina con un ragazzo di qualche anno più giovane a ridere rilassato, sembra più di vedere due amici al parco, non due pazienti.


Hajime non ci dà più peso del necessario finché quello stesso ragazzo non lo approccia in caffetteria, con un amichevole: «Aspetti Tooru? Posso sedermi?» che lo sorprende più che altro perché arriva in un perfetto giapponese. Alza lo sguardo su di lui, trovandolo tutto sorridente; gli fa cenno di sedersi, vedendolo poggiare sul tavolo un piatto con un paio di sandwich al formaggio. Hajime non deve aspettare poi molto per sapere con chi sta parlando, data la naturalezza con cui il ragazzo pronuncia un «Sei Iwaizumi-san, giusto? Hinata Shouyo!» e, a dispetto del giapponese utilizzato, è comunque una stretta di mano che gli offre d'istinto. Tradisce il fatto che, probabilmente, è in America da abbastanza perché gli venga più naturale di un classico inchino. Hajime spera che quella lunga permanenza su suolo straniero non sia stata tutta in clinica.


«Tooru mi ha parlato di te!» riprende subito lui, senza dargli il tempo di decidere come approcciarlo «Cioè, siccome anche io giocavo a pallavolo ne abbiamo parlato e poi mi ha descritto un po' la sua squadra al liceo e mi ha detto di te.» chiarisce, con una parlantina invidiabile e un'energia che Hajime definirebbe caotica in modo ben diverso dal Tooru dei suoi ricordi adolescenziali. Hinata, comunque, non sembra preoccupato dal suo silenzio stordito, considerato come continui a parlare senza problemi: «Poi ieri era arrabbiato e quando sta così girato meglio se lo lascio stare qualche ora. O tutto il giorno.» si corregge con il sorrisetto furbo di chi ha già provato a fare diversamente e ha capito sulla propria pelle quale sia, invece, la strategia migliore. E' strano, per Hajime, perché da una parte riconosce l'amico d'infanzia di cui è stato l'ombra per anni ma, allo stesso tempo, è come ascoltare di un gap a cui non ha assistito e che non pensa potrà recuperare mai davvero. Specie se non riescono a dialogare.


«Quindi giocavi a pallavolo.» decide di approcciare l'argomento più semplice, ritrovandosi a guardare l'espressione di Hinata mutare in un broncio infantile: «Non stai per dirmi che sono troppo basso, vero?»


Hajime lo guarda, confuso per una manciata di secondi e poi ride. Di norma sarebbe molto scortese, lo sa, ma qualcosa nel ragazzo di fronte a lui rende difficile pensare al modo giusto di interagire con uno sconosciuto. D'altronde è già surreale pensare di essere in una clinica a non sa nemmeno quante miglia di distanza da casa, dopo aver preso un volo all'improvviso solo perché contattato e venuto a conoscenza che Tooru fosse in ospedale. Cosa importa se non segue l'etichetta, per una volta.


«Non ci stavo pensando, davvero.»

«Oh, ecco. Altrimenti avrei dovuto-- oh, Tsumu-san!» Hinata si sporge appena di lato, iniziando a sbracciarsi in un saluto verso qualcuno alle sue spalle. Ci vuole poco perché nel campo visivo di Iwaizumi rientri un uomo alto, biondo e dall'aria di un classico attore americano. Peccato che chiunque abbia seguito un po' di pallavolo professionistica, come ha fatto lui, conosca Miya Atsumu. Un alzatore dalla tecnica e dall'estro incredibili, oltre che con l'abitudine di giocate azzardate a cui molti del suo stesso ruolo nemmeno penserebbero. Per diverso tempo Hajime ne ha seguito ogni partita universitaria, oltre che post laurea quando Miya ha prevedibilmente continuato come giocatore professionista. Un vero peccato si sia poi ritirato quando--


«Oh.» si fa scappare mentre Miya Atsumu si piega in avanti, circonda le spalle di Hinata in un mezzo abbraccio e gli lascia un bacio sulla tempia come se Hajime non fosse neanche lì. O come se, più scontato, all'ex giocatore non interessasse tanto quanto dimostrare affetto al ragazzo seduto. Hinata ridacchia divertito, la mano a dare un paio di colpetti leggeri sul braccio altrui; Hajime distoglie lo sguardo, sentendosi in dovere di lasciargli la loro privacy nonostante non sia colpa sua se non ne hanno di partenza.


«Tsumu-san, Tsumu-san» Hinata lo richiama come se fosse un bambino in cerca dell'attenzione dell'adulto di turno «guarda! E' Iwaizumi-san, Tooru ne ha parlato un sacco di volte!» sposta l'attenzione proprio su Hajime che, a quel punto, non può fare altro se non tornare a guardarli entrambi. Miya non sembra particolarmente convinto - o forse solo molto poco interessato - ma occhieggia comunque Hajime come se dovesse vagliare la possibilità di essere infastidito. Gli basta questo per capire che ha un'alfa davanti, oltre al fatto che è diventato di dominio pubblico quando Miya ha sfondato nella prima squadra giapponese, e questo lo confonde rispetto alle parole di Tooru durante la seduta con Wayne.


Miya si limita infine a un cenno del capo; sembrerebbe tutto d'un pezzo e il campione a cui Hajime è abituato dalle interviste in tv se non perdesse di credibilità nel momento in cui si lamenta come un ragazzino di dover andare per lavorare. In effetti, il trasferimento in America che ha tanto fatto scalpore quasi un anno fa...


E' quando se ne va, non senza un altro bacio - stavolta sulle labbra - e una serie di smancerie che Hajime preferisce non guardare che Hinata ride.


«Tutto bene, Iwaizumi-san?» lo prende un po' in giro e Hajime sospira, non volendo nemmeno immaginare come debba essere avere Hinata e Oikawa entrambi di buon umore e nella stessa stanza. Gli viene mal di testa solo a pensarci: «Sì, sì, tutto bene...» si limita a commentare lui con un gesto veloce della mano. Hinata invece addenta finalmente uno dei suoi sandwich, lasciandoli nel silenzio finché non è proprio Hajime a romperlo chiedendo nel modo più discreto possibile: «Credevo gli alfa non potessero entrare.» che fa alzare lo sguardo a Hinata. L'espressione confusa che gli vede assumere è già una risposta quasi sufficiente.


«In che senso?»

«Così ha lasciato intendere Oikawa alla seduta con la dottoressa Wayne.» pronuncia Hajime con una vaga alzata di spalle, non potendo né volendo scendere nel dettaglio di cosa l'altro abbia detto in quella che dovrebbe essere una seduta privata. Per quanto lui sia stato ammesso a presenziare dalla psicologa e benché sia quasi certo Tooru gli abbia rifilato una bugia.


«Mmmh» mugugna Hinata, grattandosi il naso mentre ci pensa su: «beh, non entrano al piano delle camere.» decreta infine «Ma certo che entrano. Seguono i compagni durante le sedute dagli psicologi, oppure alcuni dei test fisici. E quando ci sono le crisi, per un omega che ha formato un legame... come potrebbe senza alfa? Non si farebbe comunque toccare da nessuno.» osserva infine con uno sbuffetto leggero. Non è che Hajime non ci avesse pensato... ma l'irritazione alle parole e alle insinuazioni di Oikawa è stata talmente forte da averlo reso irrazionale. A rifletterci bene era una bugia così ovvia che quasi si vergogna ad aver perso la pazienza in meno di un minuto. Se fosse solo affonderebbe la faccia nel cuscino e ci urlerebbe dentro.


Riporta lo sguardo su Hinata solo quando vede il suo indice entrare nel proprio campo visivo, mentre picchietta sul tavolo dove lui può vederlo così da attirarne l'attenzione. Quello che Iwaizumi si ritrova a vedere è un sorrisetto divertito: «Tooru non ti ha parlato di me, giusto?» lo incalza e Hajime evita di dirgli che Tooru non gli parla, punto. Non lo ha fatto per dieci anni, improbabile lo faccia dopo dieci minuti dall'essersi rivisti. Hinata sembra intuirlo senza bisogno che lui lo dica ad alta voce e questo rende molto più semplice la loro conversazione.


«In pratica ci ha fatti conoscere Wayne-sensei.» comincia a raccontare «Perché sono un recessivo.»


Hajime ne ha sentito parlare, per lo più quando erano a scuola e le lezioni di educazione sessuale sul secondo genere li menzionavano brevemente, ma sa anche quanto sia incredibilmente raro che la condizione si presenti. Così raro da rendere molto difficile sentir dire a qualcuno di aver incontrato una persona con quel gene - uno che ha portato da un secondo genere assodato e ottenuto come risposta ai test standard a uno completamente diverso, in età avanzata. Il ragazzo seduto di fronte a lui, per quanto ne sa dai pochi articoli sull'argomento che ha avuto modo di leggere in passato, potrebbe aver vissuto come un beta fino all'anno scorso ed essere ora in una clinica come omega.


«Sono l'unico qui non per il medicinale ma perché, insomma, è un casino quando non ti sei abituato a tutte quelle cose a cui adesso devi fare attenzione.» ammette con uno sbuffo leggero. Eppure è proprio quella leggerezza a sembrare strana agli occhi di Hajime, chiedendosi cosa mai possa essere uscito fuori dalla prima seduta in cui la dottoressa Wayne ha presentato lui e Oikawa. Quanto si può ottenere dal mettere a confronto un ragazzo che dovrebbe essere molto più turbato dal ritrovarsi omega all'improvviso, ma sembra invece averla già superata, con uno che è stato omega per tutta la sua vita e altrettanto a lungo ha cercato un modo per smettere di esserlo?


Se si parlasse dell'Oikawa che conosce, Hajime non esiterebbe a dire che deve essere stata catastrofica: se al Tooru dei suoi ricordi avessero messo davanti qualcuno che aveva ottenuto, senza apparente sforzo né turbamento, qualcosa che lui desiderava fortemente e che non riusciva ad avere nemmeno con tutto l'impegno del mondo, Oikawa l'avrebbe detestato con tutto il cuore. Non ci avrebbe di certo fatto conversazione su una panchina in giardino.


«Mi sorprende abbastanza siate diventati amici.» commenta, deciso ad alzarsi per recuperare qualcosa da mangiare o, forse, solo per sottrarsi a una conversazione che comincia a credere non dovrebbe avere. In un posto in cui, a dire il vero, non sarebbe dovuto venire.


«Beh, a me non tanto in realtà.» ammette Hinata, sorprendendolo di nuovo in poco tempo. Quando lo guarda, Hajime lo vede scrollare le spalle: «Tooru una volta mi ha chiesto: non maledici mai quello che sei adesso? Credo sia una cosa molto triste da dire. E ho capito che forse possiamo essere amici proprio perché agli occhi di Tooru io ho perso quello che lui voleva e mi sono ritrovato con quello che ha sempre avuto. Non sono granché con i ragionamenti complicati eh, ma magari se sono io a dirgli che si può sopravvivere pure a questo, ci crede di più. Magari Wayne-sensei ha pensato di vedere se riuscivo a farglielo capire.» conclude Hinata, per poi dare un morso al suo sandwich.


Hajime, mentre lo guarda esterrefatto, avverte un pensiero intrusivo disturbarlo con un brivido inaspettato lungo la schiena - Tooru vuole che qualcuno lo salvi o vuole che qualcuno lo condanni?


*


Non saprebbe dire di preciso se ci arrivi per un filo di pensieri così intricato da farlo finire anni indietro ma, come un fulmine a ciel sereno, Hajime si ricorda dell'unica volta in cui ha toccato, guardato e trattato Oikawa non come si fa con un amico. In modo così diverso da come aveva sempre fatto dall'infanzia da venirne stordito.


Da quando gli aveva rivelato del proprio secondo genere, Hajime non si era mai dovuto preoccupare che Oikawa prendesse le sue medicine. Semmai, si era sempre dovuto assicurare che non esagerasse, pur essendosi reso complice del fatto che l'altro ne prendesse più di quanti prescritti. Mai delle quantità allarmanti, ma Hajime preferiva comunque tenerlo d'occhio. Se il mondo avesse dovuto scommettere sul secondo genere di Oikawa, non una sola persona avrebbe scelto qualcosa di diverso da "alfa". E mentre lo guardavano vincere ed essere la colonna portante di una squadra, tutti vedevano anche lui - Hajime, un beta - e gli associavano la figura dell'ago della bilancia immaginaria che manteneva l'equilibrio di Tooru.


Finché non era andato in calore. Finché lo spogliatoio, per fortuna ormai del tutto svuotato tranne che per loro, non si era riempito dell'odore dei ferormoni di Tooru al punto da averli non solo resi percepibili anche per Hajime, ma avergli fatto pensare per la prima volta quanto pericoloso sarebbe stato se al suo posto ci fosse stato Matsukawa. Se, in quel momento, fosse passato qualcuno.


Oikawa si era accasciato contro gli armadietti, facendo un rumore metallico all'urto del proprio corpo contro lo sportello, e aveva digrignato i denti e soffiato fuori un «Cazzo.» che Hajime non aveva saputo dire se fosse più sofferto, arrabbiato o eccitato. Eppure all'inizio aveva pensato di poterlo comunque gestire, perché si era preparato per questo da quando Tooru aveva pianto dicendogli di essere un omega - Hajime aveva studiato, aveva fatto qualche ricerca quando aveva potuto, sbirciato tomi medici troppo costosi e che non avrebbe comunque capito nella loro interezza nella biblioteca della città. Si era tenuto pronto, nascondendo un inibitore nella borsa anche se a lui in quanto beta non serviva. Aveva creduto sarebbe stato sufficiente e invece Oikawa si era mosso verso di lui e gli aveva afferrato un braccio, lo aveva tirato fino alle docce, lo aveva spinto dentro uno stallo.


Hajime aveva battuto la testa contro le mattonelle e aveva imprecato a mezza bocca, alzando lo sguardo verso Oikawa per dirgli «Che cazzo fai» e invece se lo era ritrovato vicino, troppo per come l'altro lo aveva abituato durante i periodi in cui andava in calore: pochissimo contatto, per lo più messaggi. Ogni tanto accettava che Hajime andasse a casa sua, salisse le scale e gli parlasse da dietro la porta. Ma erano occasioni rare. Di certo Oikawa non lo aveva mai voluto più vicino di quanto un muro tra loro gli permettesse; eppure, in quel momento, non c'era neanche un metro a dividerli.


«Ho un inibitore nella cartella.» aveva soffiato, non osando parlare più forte «No, anzi, possiamo andare all'infermeria e--»

«Dove vuoi che vada... così.» aveva sentito mormorare a Tooru mentre la sua mano prendeva quella di Hajime in un gesto poco amichevole e di certo per nulla romantico, la guidava verso un'eccitazione evidente sotto i pantaloncini d'allenamento. Aveva sentito Oikawa farsi sfuggire un mugolio di piacere e l'aveva poi visto mordersi a sangue l'interno della guancia, per punirsi.


Hajime vorrebbe poter dire di aver avuto la lucidità di spingerlo via per tutto il tempo in cui l'istinto aveva guidato Oikawa a cercare di avere da lui il sesso che Hajime non avrebbe mai sopportato dargli in quel modo, sapendo quanto Oikawa si sarebbe sentito male una volta passato il calore, senza più l'istinto e il bisogno ad avere la meglio sul suo cervello. La verità però è che alla fine lo aveva toccato - solo toccato -, l'aveva fatto venire come Oikawa aveva fatto con lui, la mano sul suo membro e i tocchi impacciati di chi era spezzato a metà tra un desiderio irrazionale e il volere che finisse prima possibile.


Tooru non glielo aveva mai rinfacciato. Semplicemente avevano entrambi raggiunto l'orgasmo, Oikawa si era accasciato sfibrato di ogni forza e Hajime aveva se non altro avuto il tempo di recuperare l'inibitore e portarglielo, aspettare che facesse effetto e poi sciacquarsi velocemente e aspettare che l'altro facesse lo stesso. Senza offrirsi di aiutarlo, consapevole più di chiunque quanto qualcosa che molti adolescenti facevano a prescindere dal loro secondo genere avesse sbriciolato un'altra parte dell'orgoglio di Oikawa, quanto avere un aiuto avrebbe fatto il resto.


Così Hajime aveva aspettato nello spogliatoio. Per un'ora, prima di sentire l'acqua della doccia iniziare a scorrere e quasi due per vedere finalmente Oikawa ricomparire vestito con la divisa scolastica e un sorriso tirato sulle labbra. Gli aveva letto nello sguardo la muta preghiera di fingere che non fosse mai successo. E lui l'aveva accontentato.


Ripensandoci ora, mentre sdraiato sul letto fissa il soffitto di una stanza sconosciuta in una clinica in cui tutti i pazienti restano chiusi perché fuori non riuscirebbero ad avere una vita normale, si chiede: cos'avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto fare, di diverso?


Hajime non è mai stato la persona dei "forse" o dei "se", eppure se non avesse permesso a Oikawa di dissimulare, se lo avesse affrontato con più forza quando aveva preso il vizio di prendere "solo qualche pastiglia in più", se gli avesse detto che poteva essere magari non qualsiasi cosa desiderasse ma quantomeno felice a prescindere dal risultato di un test... forse, adesso, non sarebbe lì a chiedersi se lo vedrà uscire mai da quella clinica. Forse Tooru avrebbe fatto scelte diverse e ora non sarebbero lì, lontani da casa, a cercare dopo dieci anni di ritrovare l’uno nell’altro l’unica cosa familiare che ricordano.


Forse ci sarebbe meno senso di colpa a inchiodarlo su un letto. Forse Tooru sarebbe lì, a dargli una cuscinata per farlo alzare perché ha deciso di voler andare da qualche parte proprio adesso, ridendo in quel modo insopportabile che però è uno dei ricordi migliori che Hajime ha di lui.

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