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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 100
Rating: gen
Warnings: //





Shouto non ha mai rimpianto così tanto di aver letto il messaggio di Midoriya che annunciava la riunione con i vecchi compagni di liceo e di aver accettato di esserci. Non è sicuro che Shinsou sia davvero ubriaco, ma poco importa quando la sua mano è sul fianco di Shouto e le sue labbra stanno lasciandogli baci sul collo. Specie quando i suoi unici pensieri in sequenza sono: non sembrare disperato. Non cedere alla tentazione di fare qualsiasi cosa non si possa fare in pubblico. Controlla il fuoco, le riunioni come questa non sono fatte per scatenare un incidente in un locale.

 
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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 100
Rating: gen
Warnings: spoiler brothersong





Carter ha pensato sarebbe stato diverso: avrebbe seguito quell'idiota con la sindrome dell'eroe fino a trovarlo. Si sarebbero guardati, urlati dietro, minacciati. Ma avrebbe provato un senso di sollievo enorme, lo avrebbe abbracciato, avrebbe ammesso cose imbarazzanti pronto a negarle poi in futuro fino alla morte. E sarebbero tornati a casa. Lo ha sognato così quando stava diventando troppo dura e Kelly gli mancava da morire.


Apre gli occhi, il fuoco nel camino accoglie il suo risveglio. Ai piedi del letto un lupo nero finge di dormire. Sono fisicamente riuniti, ma è come se non si fossero ritrovati mai.

 
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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 100
Rating: gen
Warnings: spoiler quest ‘we will be reunited’, aether pov





Aether guarda davanti a sé senza riuscire a credere ai suoi occhi. La sorella che ha cercato per tutto questo tempo in un mondo sconosciuto, piegandosi all'idea di dover cercare ogni singolo Archon pur di riaverla indietro è davanti a lui, uscita da un portale come per magia, dopo uno scontro quasi fosse il premio designato. E lui non potrebbe desiderare di meglio.


Lumine però lo guarda come se non fosse ciò che si aspettava, fosse troppo presto. Riescono finalmente a riunirsi ma ad Aether basta incrociare il suo sguardo per carpire parole non dette che lo uccidono: non ancora.

 
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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 100
Rating: gen
Warnings: original





Il silenzio è quasi totale. L'unico rumore, oltre il ticchettio dell'orologio, è quello dei suoi passi mentre cammina avanti e indietro. Sa di avere parecchi occhi su di sé, soprattutto di Hiyori - non può dargli torto, visto che è stato lui a portare un ragazzino lì e che ha affermato di essere il fratello che non ha mai conosciuto.


A Tatsuya non piacciono le sorprese, non piacciono le riunioni improvvise e a cui non ha avuto scelta se decidere di prendere parte oppure no. 

Miyuki Kaede lo guarda in faccia come la presa in giro da parte di un padre morto.

 
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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 200
Rating: gen
Warnings: original





Presenziare alle riunioni della yakuza è qualcosa che ha fatto per anni, parte di un summit da cui è uscito ed entrato con una facilità di forma - rischiare di rimanerci secco ha richiesto parecchio del suo impegno, invece. Quando ha deciso di andarsene in Germania, di chiudere con un gruppo a cui stava solo facendo rischiare più del necessario, era convinto se le sarebbe potute risparmiare. Moriguchi Jin, che per sua disgrazia è il suo migliore amico, ha deciso diversamente quando al telefono gli ha detto: «Dobbiamo decidere cosa fare con il cambio di vertice.» che gli ha impedito di dire "no grazie".


Jin è già seduto, mentre si lamenta di non essere amato abbastanza, e lui si è preso già il suo tempo per osservare i nuovi boss presenti: Reiji è un uomo che eviterà la follia nel summit, forse. Soen uno che presto rimpiangerà di avere Jin come collega. Lui, Tatsuya, è lì solo per forma alla fine. Il ritardatario è poco più di uno studente di liceo e apre la porta, occhieggia il tavolo della riunione, punta la sedia. Sbadiglia e il suo saluto è: «Incredibile, non c'è Bennett? Sentite come suona bene 'non c'è Bennett'?»


Jin scoppia a ridere come una iena, ed è il caos.


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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 200
Rating: gen
Warnings: original


Ha sentito parlare delle riunioni del summit così tante volte nella sua vita da aver sempre pensato che, quando sarebbe stato il suo turno, niente avrebbe potuto stupirlo. Si è aspettato per anni di arrivare, sedersi e doversi far valere di fronte a persone troppo vecchie per abbandonare i sogni di gloria di una mafia fatta di sola violenza e poca furbizia - la yakuza dell'onore è un concetto perso, almeno su questo suo padre aveva ragione.

Guarda il tavolo a cui è seduto, volti conosciuti a cui non affiderebbe una pianta, figurarsi le scelte che coinvolgerebbero il suo gruppo. Due dei cinque boss più anziani si guardano come se stessero aspettando un solo gesto per saltarsi alla gola a vicenda o vedere chi uccide prima l'altro e in quel momento la porta si spalanca. Prima che chiunque possa dire qualcosa i bodyguard di ogni singolo boss presente sono già con arma alla mano e a meno di un passo dalla porta d'ingresso, compreso il suo; Saburou Asagiri gli lancia un'occhiata di sottecchi e Tatsuya scuote la testa. Un istante dopo Moriguchi Jin sta varcando la soglia della stanza, la sua risata da iena a risuonare alta mentre li guarda.



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Prompt: Land is always on the mind of a flying bird
Missione: M2 (week 4)
Parole: 1648
Rating: gen
Warnings: missing moment, heartsong spoiler



He has spent most of his life going from one pack to another. Temporary has been his mantra, because it was easier, especially when it came to saying goodbye. He has never been good at it, but he tried his best. When he realised that he was going to leave sooner or later, he gave himself small rules and habits, almost unnoticeable; they were important to him because they helped him to stay grounded.


Robbie learned constellations while stargazing. When most of his temporary packs were asleep or busy doing something else he tried to find a quiet place, especially close to trees and stayed there. Under so many stars, everything seemed more bearable— not okay, but less painful or hard. He counted them, but most of the time he just stared at them and it was strangely calming and comforting. Not much, but not so bad either.


There was something else, though. During the day, when he didn’t have to contribute to the pack activities and he had some time to himself, he searched for birds in the sky; nothing extraordinary showed up, usually, but there were rare cases with birds he didn’t know or hadn’t seen before. As a child, he was simply curious about them. As a boy, he tried to figure out their routes, even studied some of them. After growing up, though, when the temporary pack thing started, Robbie only looked at them while feeling a strange familiarity with them.


He remembers a member of one of his former packs finding him in a small clearing as he was staring at a tiny bird on a branch. Robbie had noticed the guy coming closer, of course, yet he had kept his eyes on the bird. After enough time in complete silence, Robbie had given up and switched his attention to the boy next to him.


“Did you need something?” 


He will never forget how the other shook his head and told him “You spend so much time looking at them. I heard you won’t stay with us, so I thought you kind of resemble them.”


His heart sank because he couldn’t be more different from a bird: they usually flew to go back to their nest, sooner or later. He kept flying away from every single one he found.


*


He ran and ran and ran. Wind through his hair (his fur), the feeling of freedom in his feet (his paws) and sometimes it felt like flying. He wondered if the time to stop and finally settle in a land he could call home would come. 


He wished birds could teach him. 


*


It’s been years since he joined Ox’s pack and, looking back at how it used to be, Robbie is amazed by what he can call his own now. It wasn’t easy to obtain, of course, but he would do the same all over again if he had to. 


Habits are hard to die, though. Despite not running from pack to pack like he used to, he still finds himself counting the stars and observing birds flying in the sky. The first one who noticed it was Ox because it couldn’t have been anyone else but him. At some point, Robbie knew that Ox’s gaze would follow him during the full moon only to find him staring at the sky when he wasn’t running at his side before Joe came back. Ox, though, never asked him anything. As if to give him space to be by himself when he needed to.


After him, it was Kelly and it surely didn’t come as a surprise. 


Kelly’s scent is there before Robbie can actually notice him with his other senses. He can’t help but move his gaze from the sky to the man who is sitting next to him. Kelly offers a small smile, and without speaking a single word his hand is holding Robbie’s. He remembers the first time they did this— they were finally getting where they are now with their relationship and, at the same time, they were not there yet.


It’s one of his favourite memories. One he’s glad to have back after everything they have been through.


*


Robbie knows that when he gets lost in his thoughts while looking up at the sky he also loses track of the time and to the point of forgetting everything else. More than once Ox called him back when it was time for dinner— but now they are more than before and Robbie is getting used to them, someone (Gordo) more than others (Joe), and in some cases, he’s trying very hard to look remotely cool. Sometimes failing in a funny way (with Carter who is very touchy for someone who clearly knows he has a thing for his brother). When it matters the most, Robbie fails spectacularly and makes a fool of himself (namely: in front of Kelly Bennett).


Kelly Bennett, yes. Lately, he thinks things are better and he’s trying his best to… get to know him. Date him. Potentially date him. This is so hard.


What he doesn’t expect is Kelly’s scent to be so close. The moment he notices it, Robbie suddenly turns his head towards the house and Kelly imperceptibly jumps on the spot, no more than three or four steps from him. Robbie realizes that he must look like a scared deer— meaning, a total idiot.


“Sorry,” Kelly says, unsure, just standing where he stopped, “I didn’t want to intrude,” he adds. It would be awesome if a branch of the tree he’s sitting under fell on his head and made him faint to spare him this moment. Nothing happens, so the tree is a traitor.


“You are not,” Robbie assures, trying to not sound as if he physically needs to hurry and deny the concept of Kelly’s presence doing something different from being very welcome. Not to mention that, if he has to be honest, the only coherent thought in his mind is that Kelly should absolutely intrude whenever he wants. 


Why it’s so hard to have some dignity is beyond Robbie’s comprehension.


Luckily, Kelly closes the distance and Robbie is smart enough to gesture him to sit if he wants. When Kelly does it, he’s close enough for their shoulders to brush against each other and Robbie has to focus on the sky as if his life depends on it to avoid sniffing him. He feels quite good when Kelly accommodates himself better, which probably means Robbie doesn’t look or move or behave like some sort of maniac.


Conversations are still quite the hard hurdle sometimes. It’s true that they talk more and on more occasions, that Kelly once went to Gordo’s to pick him up after work and it made Robbie so happy he barely heard Carter making fun of him. They have had a couple of lunch dates, which were really cool with him despite the fact that he spent one of them in almost complete silence and the other one desperately trying not to embarrass himself too much. Since Kelly has asked him out to see a movie together, after that, he must have managed somehow.


Yet here, in a clearing he can now call home, in a territory with so much magic and while doing such a private and intimate thing as to watch the sky… he has never explained it to someone before. He feels like he should tell Kelly, though. Even if he didn’t ask.


“Ox said you do this sometimes,” Kelly says instead of asking directly, “that you have been doing it since you joined the pack.”


Robbie looks at him, long enough for Kelly to stare back, ready to listen to whatever Robbie has to say. This is such a small thing, obvious even, but it does magic. Robbie has never told anyone because nobody asked him or maybe he thought nobody would really care. Kelly is so different.


“Since I was a kid,” he admits with a tiny, sheepish smile. His eyes wander towards the sky again and his gaze stops on a nest. He points at it so that Kelly can see it, “I thought they were cool, always flying in the sky. I felt like we were similar, at least until I left the first pack that took care of me.”


Kelly doesn’t pressure him to keep talking. He just stays there, next to him, and waits. Robbie wants to tell him so many things and how important it is for him to be able to talk about this slowly.


“But when I left,” he says, as the bird leaves the nest again and another comes, male or female Robbie doesn’t know, “I thought we were very different, in fact. That most of the birds leave the nest but then go back to it in the end. It might take a long time, but they do because they have a place. I wondered if when they were flying they were happier to be in the sky or if the land they could see from there made them nostalgic.”


He can feel Kelly’s eyes on him and that makes him shy, conscious. 


“Sorry,” he blurts out and tries to laugh it off, “it sounds stupid. I was just a kid,” he says despite the fact that he wasn’t, that he isn’t. Kelly’s silence is still there but so is the weight of his head on Robbie’s shoulder. Before he realises it, Kelly’s little finger is brushing against his, not as much as holding hands but this is so big Robbie feels like crying.


“You have a nest too,” Kelly says and it’s so, so green. 

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Prompt: Bagnasciuga, Luna piena, Malinconia, Maglietta strappata, Essenza, Senza tregua, Sandali, Acqua Fresca
Missione: M1 (week 4)
Parole: 3841
Rating: explicit
Warnings: sesso, teasing kink (implicito e menzionato)






Lo sorprende che Edmond abbia accettato così di buon grado di concedergli quasi una mezza giornata di relax prima di tornare alla casa dove ormai, altare dopo altare, gli inquilini non fanno che salire di numero. Eiden è certo che il cavaliere sappia bene come sia riuscito a portare dalla loro parte un uomo pio come Olivine - perché non differisce poi troppo da come sia riuscito a convincere lui - ma non ha commentato molto, forse per rispetto di un uomo che pensa sia stato circuito. Certo Edmond non può immaginare che Olivine sia stato tutto fuorché costretto la notte passata.


Alla fin fine, comunque, quanto conta davvero è aver potuto approfittarne per proporre a Olivine di trattenersi un giorno ancora, tra un ultimo saluto ai suoi fedelissimi e un'occasione da non sprecare per mostrargli almeno una piccola parte di quella che è stata la sua realtà negli ultimi anni. Eiden potrà essersi avvicinato a lui per una missione e potrà essere finito nel suo letto, ma questo non significa non ci tenga. Così come ha ascoltato di buon grado Olivine parlare dei suoi fratelli più piccoli con l'affetto sincero nello sguardo, allo stesso modo ha trovato piacevole scoprire di più di lui attraverso i posti da vedere. E sarebbe stato sciocco non approfittare di una serata con una luna piena alta nel cielo, privo di nuvole, per una passeggiata così vicina all'acqua.


Il mare - o l'oceano, Eiden non ha ancora presente tutta la geografia di quel mondo a dire il vero - è calmo e il ritmo delle onde rilassante. Ha lasciato che Olivine lo guidasse ora per quelle vie secondarie che hanno ignorato la mattina, quando hanno avuto bisogno di recuperare dai mercati tutto ciò che sarebbe potuto servire una volta tornati a casa. Strade che forse non ci si aspetta vengano battute da uno come lui, eppure Eiden in un certo senso le ha comunque trovate adatte al pensiero di Olivine pronto a prodigarsi per chiunque e, al tempo stesso, bisognoso di momenti di pace lontano da chi vede in lui solo un uomo pio che ha seguito ciò che la famiglia ha voluto per lui.


La figura di Olivine è difficile da smarrire come anche da ignorare: un corpo scultoreo che, se non lo avesse conosciuto nel suo ruolo, Eiden non avrebbe mai associato a un uomo di chiesa. La veste blu è stata lasciata più aperta, rivelando la semplice maglietta candida sotto di essa; l'aria non è troppo fredda, complici le temperature miti della stagione, e lo stesso Eiden si è liberato del giacchetto che indossa di solito e che per ora porta sottobraccio. L'altro cammina pochi passi avanti a lui ed è rilassato, lo sguardo rivolto verso il mare mentre lasciano impronte sul bagnasciuga. L'acqua è fresca, più di quanto Eiden vorrebbe visto che sente i piedi non apprezzarla quanto farebbero di giorno e con il sole, ma non è così male se basta a far incurvare le labbra di Olivine in quel sorriso quasi infantile che ha ora.


«Grazie,» lo sente pronunciare e la sua attenzione si sposta su di lui quando lo vede fermarsi e voltarsi in parte in sua direzione: «avevo bisogno di allontanarmi e imprimermi nella mente alcuni posti a cui mi sono abituato negli anni.» ammette, come se questo fosse un addio ed Eiden gli avesse concesso una grazia. Lui impiega pochi passi a raggiungerlo e gli si affianca, lo sguardo verso il mare.


«Non vieni via con noi per non tornare mai più.» gli fa presente, occhieggiandolo e rifilandogli un sorrisetto divertito «In caso tornassero i tuoi fratelli o tu volessi andarli a trovare e poi passare da qui.» porta come esempio, ma non gli sfugge la malinconia negli occhi verdi altrui. Questo è un aspetto suo che lo affascina, ma nella misura in cui non riesce a comprenderlo del tutto: c'è un sentimento costantemente riflesso nello sguardo di Olivine, simile ad altri che in parte Eiden comprenderebbe anche - la nostalgia dei fratelli, la confusione di fronte ai propri desideri recentemente compresi appieno, la tristezza di lasciarsi indietro un posto che ha chiamato casa. Eppure questi sembrano tutti incompleti, paiono mescolarsi tra loro fino a tirarne fuori quella malinconia che a tratti Eiden pensa non sarà mai in grado di cancellare. Quasi facesse parte di Olivine e fosse destinata a rimanere per sempre, alla stregua di un tratto caratteriale o di un segno fisico particolare. La rabbia prorompente e così mitigata di Yakumo, per dire, o l'incapacità di Edmond di esprimersi con onestà se non messo alle strette.


Olivine lo guarda, sorride malinconico senza nascondergli nessuna delle cose che prova come invece ha fatto per tutta la vita, e scuote appena la testa: «Tornerò o accoglierò i miei fratelli se vorranno venire a trovarmi e se sarà possibile.» lo dice quasi timidamente, forse perché quello di casa è un concetto per lui ancora astratto quando si parla dell'abitazione dove Eiden si è risvegliato tra le braccia di Aster e Morvay. Come se fosse un ospite che non potrà mai dire di appartenere a quel luogo di cui non conosce ancora le fattezze.


«Però... è comunque un distacco.» aggiunge. Eiden capisce quella sensazione di lasciarsi indietro qualcosa a cui si finirà per ripensare, nel tempo. Per quanto lui sia molto cambiato, l'orfanotrofio torna prepotente nella sua mente ogni volta che si ritrova a fare i conti con cosa sia diventato o dove la vita lo abbia condotto. E' una malinconia radicata in entrambi, forse dovuta a una mancanza che nessuno potrà colmare mai. Questo - al contrario della fede cieca - Eiden può capirlo e gli viene naturale far scivolare la mano in quella di Olivine e stringerla. Avverte la sorpresa nel modo in cui indugia un momento prima di stringergliela di rimando, sebbene avvenga prima di quanto si possa credere.


«Perciò» riprende Olivine, con sua sorpresa; quando lo guarda nota l'imbarazzo sul suo viso e l'impegno con cui sta fissando il mare. L'acqua fresca, mentre le onde fanno avanti e indietro sul bagnasciuga, gli bagna i piedi ma a farlo rabbrividire è la domanda che Olivine fa scivolare dalle sue labbra: «non sei turbato da quello che è successo ieri? Dallo... stato poco consono in cui ero?»


Eiden quasi non crede alle sue orecchie ed è difficile trattenere una risata che, però, sospetta non verrebbe interpretata nel modo giusto dall'altro. Pensava di essere stato già molto chiaro il giorno prima, riguardo il non essere disturbato dai desideri carnali di Olivine ma - al contrario - di essere ben contento ci siano e che sia stato lui ad approcciarlo per primo riuscendo dove molti hanno sicuramente tentato ma fallito. Invece c'è una purezza d'animo di fondo in lui, non tanto quanto in Yakumo forse, ma non troppo dissimile. Gli stringe di più la mano, mitigando l'accenno di risata in un sorriso rassicurante prima e più divertito poi.


«Non userei né la parola "turbato" né "dispiaciuto" per lo stato in cui ti ho visto ieri.» gli fa notare, un occhiolino complice e decisamente allusivo. Nonostante non ci siano aspetti del linguaggio del corpo di Olivine a tradirlo, qualcosa gli attraversa il corpo come una scarica, ma molto più mitigata e per nulla dolorosa. Da quando è arrivato in quel mondo, con il suo cristallo al collo, Eiden ha appreso con sempre maggiore chiarezza cosa significhi il concetto di Essenza. Se dapprima era piuttosto aleatorio, man mano che è entrato in risonanza con le persone a cui è stata donata quella del Mago che tutti pensano sia una sorta di suo antenato - o di cui lui comunque pare essere il discepolo -, Eiden ha capito quanto sia difficile opporglisi. L'essenza magica li ha guidati gli uni verso gli altri, gli ha permesso di riconoscersi anche solo a livello inconscio, li ha legati e li ha portati a condividere più di quanto molti di loro si sarebbero aspettati. Persone così diverse la cui Essenza e scambio di essa ha avvicinato come non sarebbero altrimenti mai stati in grado di fare. Ed è quella a riverberare tra loro, adesso, attraverso le mani stretta l'una all'altra ma anche nell'aria, come se non potesse fare altro che avvolgerli quando entrano così in sintonia.


Se l'Essenza sia anche la causa del desiderio bruciante Eiden non lo sa, così come non ha idea se sia il motivo per cui lo sguardo di Olivine si fa più arrendevole, forse intuendo che entrambi vogliono la stessa cosa. La spiaggia non è delle più comode, ma può essere romantica a sufficienza da far dimenticare la sabbia che dovrà fare loro da letto e il rumore delle onde. Oppure...


«L'acqua è troppo fredda?» domanda, apparentemente senza motivo. Olivine, senza nascondere del tutto la confusione, guarda verso i propri piedi con ancora indosso i sandali nonostante non si sia preoccupato di farli bagnare. Scuote la testa, quando i suoi occhi incontrano di nuovo quelli di Eiden.


*


Hanno abbandonato buona parte dei vestiti poco più in là, dove possono stare sicuri non si bagneranno. Eiden non si è fatto troppo pregare per liberarsene, notando ancora un imbarazzo di fondo in Olivine tanto da impedirgli di spogliarlo con la stessa decisione e urgenza che lui invece gli ha riservato. Ha cercato comunque di prendersi il suo tempo, come dimostra il fatto che Olivine ha ancora addosso la maglietta bianca che ha scoperto solo l'addome, i sandali e i pantaloni che ormai se ne stanno arrotolati verso le caviglie.


Olivine è puntellato sui gomiti e lo guarda mentre Eiden lascia una scia di baci vicino all'ombelico prima di scendere; ignora completamente la sua erezione ancora non del tutto pronunciata e scende, lasciando qualche schiocco sulle gambe muscolose. Quando incontra la stoffa dei pantaloni la salta del tutto, occhieggiando prima i piedi con i sandali e poi guardando in su verso il suo viso, cercandone gli occhi verdi. Sorride, quasi gli ammicca prima di sfiorare il collo del piede con la punta della lingua. Dalle labbra di Olivine scappa un verso sorpreso, imbarazzato ed eccitato insieme.


«E-Eiden» lo richiama, quasi frettoloso «non è il caso di...!» aggiunge, di certo riferendosi a quell'attenzione non del tutto ordinaria. Ma lui non vede quale danno possa fare, se non un po' del sale dell'acqua di mare sulla punta della lingua. Al contrario, l'espressione sul volto di Olivine è impagabile ed Eiden nel saperlo più che interessato al sesso, non può che avere la curiosità di scoprire quanto in là si possano spingere i kink dell'uomo che è già stato sotto di lui la notte prima. Per questo una mano carezza il polpaccio, mentre l'altra si sposta dietro il tallone. Il leggerissimo tacco del sandalo gli sfiora la pelle così come fa il cinturino quando lui si china di più per mordere appena il collo del piede. Scende, da lì, lasciando baci umidi e brevi, percorrendo tutta la distanza dal cinturino alle dita. Di nuovo un'occhiata a Olivine, trovando la vergogna a tingergli il viso e il piacere a iniziare a farsi strada su dei lineamenti traditori quando la lingua di Eiden guizza tra le dita dei piedi.


Olivine regge molto meno di quanto pensasse, e presto lo implora di smettere - ma non è paura o rifiuto, quanto più il pensiero costante nella sua testa che quanto fatto da Eiden sia qualcosa di sporco. Dal momento che non deve essere una tortura, ma un piacere, accetta la sua richiesta e abbandona il suo piede, lasciando che solo la mano finisca di occuparsi di slacciare i sandali uno dopo l'altro e lanciarli poco lontani da loro e dal bagnasciuga che dovranno abbandonare presto.


«Andiamo in acqua.» gli dice, una proposta a cui gli dà la possibilità di rispondere come preferisce. Olivine, sollevato forse dall'aver visto la propria richiesta accolta e confuso da un piacere appena affacciatosi, annuisce e si libera definitivamente di intimo e pantaloni, abbandonandoli lì a un passo da dove sono. Sta per fare lo stesso con la maglia quando Eiden lo ferma e scuote la testa.


*


La maglietta ha fatto il suo dovere appena sono entrati abbastanza in mare, l'acqua fresca piacevole contro la pelle di entrambi, ora bollente. Si è bagnata in un attimo ed è divenuta trasparente in ancora meno tempo, definendo ancora di più i muscoli di Olivine e lasciando intravedere sotto la stoffa fradicia i piercing ai capezzoli e le catenelle dorate che li legano. Allo stesso modo, la gemma in corrispondenza col suo ombelico è in un gioco di vedo e non vedo.


Nonostante siano più o meno della stessa altezza, Eiden ha fatto passare le braccia di Olivine sopra le proprie spalle e ha tirato su il corpo quasi senza peso, grazie all'acqua, fino a sentire le cosce altrui cingergli i fianchi. Le mani di Eiden hanno tirato su parte della maglietta, scoprendo fino a metà addome o poco di più, e vi ha poi sostituito i denti e la lingua immergendosi a brevi intervalli. Ha tirato su la stoffa piano piano, come in un gioco, sentendo il bacino di Olivine spingersi contro di lui d'istinto, quasi con discrezione, stimolato ma solo in modo superficiale. Al pari della sera precedente, non è stato facile per Eiden aspettare a dargli quello che voleva quando il suo stesso corpo pretendeva di più e subito. Ma è valsa la pena vedere Olivine mordersi il labbro inferiore per ricacciare in gola un verso di approvazione o una richiesta svergognata, vederlo inclinare leggermente la testa indietro quando i denti di Eiden sfioravano la pelle nel tentativo di tirare su il bordo della maglietta.


Però alla lunga era inevitabile che anche un uomo come Olivine cedesse, e così è stato. A un certo punto le sue braccia non sono più rimaste docilmente poggiate sulle spalle di Eiden e una mano ha raggiunto la sua nuca, le dita tra i capelli a tirare appena per dargli un messaggio di riemergere con la testa. Ed Eiden ha eseguito, rifilandogli un ghigno leggero quando lo ha rimesso a fuoco e sentendo le labbra di Olivine appropriarsi a tradimento delle sue. Un bacio urgente, quasi disperato per preliminari veramente troppo lunghi, l'eccitazione palese ora contro lo stomaco di Eiden. Le dita, quasi furtive, sono andate a guadagnare centimetro di pelle dopo centimetro di pelle fino a sfiorare i capezzoli sopra la maglia. Olivine si è lasciato scappare un gemito e, impaziente, ha portato la mano libera a strattonare la maglia per tirarsela via senza però abbandonare con l'altra i capelli di Eiden e anzi facendo una pressione leggerissima - sospetta, lui, anche inconscia - per tenere le labbra sulle proprie.


Si è accorto troppo tardi del rumore di stoffa strappata che lo ha portato poi a ritrovare, una volta allontanatosi appena dalle labbra di Olivine e aperti gli occhi, una maglietta poco utile a essere indossata. Con uno strappo irregolare sul davanti a lasciare quasi del tutto scoperto il petto, è chiaro l'intento dell'uomo nel tirarla fino a ridurla così. Eiden sorride, si appropria di nuovo delle sue labbra per un bacio veloce me affamato, prima di mormorargli un: «Non è da te, Olivine.» che in realtà significa tutto e niente ma, come si aspettava, finisce per scatenare nell'altro la reazione giusta. Lo sente muoversi di nuovo contro di lui, cercare maggiore frizione - e non fatica a crederlo, ha sì e no sfiorato un paio di volte la sua erezione e niente di più da quando sono entrati in acqua - e glielo concede, mentre una mano sale a ciò che resta della maglietta e tira, finendo di strapparla così da averla del tutto aperta sul davanti.


La luna piena è ancora alta sopra di loro ed è l'unica luce a riflettersi nelle acque scure del mare di notte. Illumina poco, ma è così grande e apparentemente vicina - così diversa da come potrebbe apparire in un oceano del suo mondo, distante e pallida - che rende fattibile osservare l'espressione di Olivine. L'imbarazzo per il suo mostrarsi così attaccato ai piaceri terreni, così fuori controllo, la fa di nuovo da padrone sul suo viso e a Eiden piace vederlo in quel modo. Per questo lo accontenta e avvicina le labbra al suo corpo, non indugia troppo prima di andare a mordere e succhiare i capezzoli, a prendere la catenella tra i denti e tirare fino ad avere la risposta che vuole da Olivine. Come la sera prima lo sente gemere di piacere e di quell'accenno vago di dolore che è come una scarica in tutto il corpo, un segno di quanto abbia bisogno di ciò da cui ha sempre cercato di allontanarsi più per imposizione e cieca fiducia che per pudore.


Fa scivolare una mano verso il basso, Eiden, la immerge nell'acqua fino a trovare l'eccitazione di Olivine e dargli un po' di sollievo: carezze lente prima, un poco più velocizzate poi, ma nessun ritmo sostenuto a dargli la possibilità di liberarsi di un piacere sempre maggiore. Non ancora.


Le dita della mano libera possono scivolare lungo la sua schiena, l'acqua complice perfetta per non doversi preoccupare di dover tenere su di peso l'uomo tra le sue braccia. Raggiunge le natiche e dà una strizzata veloce, quasi giocosa, prima di far scivolare due dita sulla sua apertura. Lo sente gemere di sorpresa, forse non aspettandosi subito l'intrusione o magari che non fosse subito con due dita anziché una sola.


Non forza oltre l'intrusione, consapevole che prima di allora Olivine non si è concesso a nessuno, sebbene Eiden sia abbastanza sicuro che in qualche occasione si sia dato del piacere da solo. E' difficile credere che l'altro abbia semplicemente scoperto di punto in bianco, senza alcuno stimolo, di avere dei desideri carnali come chiunque altro. Lo abitua senza urgenza e, anzi, con movimenti anche più lenti di quanto non abbia già fatto la sera prima. Ci è voluto poco, d'altronde, a capire che in Olivine c'è un istinto evidente a subire. Niente di violento, Eiden non apprezza troppo quel tipo di pratiche. Ma un po' di teasing... non sembra male. E nemmeno un po' di dolore, leggerissimo ma presente.


Offrirgli un piacere lento è come una tortura ed Eiden lo ha compreso subito. Per questo anche ora le sue dita si muovono con una lentezza quasi disarmante e ogni volta che le affonda dentro Olivine lo sente tendere i muscoli attorno a esse, il respiro veloce a solleticargli la guancia e qualche gemito riversato vicino al suo orecchio. Fortunatamente per l'altro, Eiden non è così crudele da prolungare eccessivamente la cosa e decide di utilizzare un approccio diverso, di provare e vedere cosa possa piacere di più a Olivine. Sperimentare, perché dopotutto l'uomo tra le sue braccia non ha mai avuto davvero modo di provare con nessun altro prima.


Decide quindi di non limitarsi a inserire un terzo dito dentro di lui, già di per sé apprezzato a giudicare dal suono che scappa tra le labbra di Olivine, ma anche di non dargli nemmeno un secondo di tregua in quanto a stimoli sul suo corpo. Così inizia a muovere il bacino, prima di tutto, l'erezione ormai più che evidente a strusciare contro il corpo altrui. Il risultato immediato è sentirlo stringersi attorno alle sue dita e muovere il bacino contro di lui, cercando una maggiore frizione contro il suo stomaco. Gliela concede, ma solo perché sa che ci vorrà un po' ancora prima di sostituire le dita al proprio membro e vuole - forse - farsi perdonare in anticipo. Così gli lascia trovare un minimo di sollievo, il rumore dell'acqua che si muove intorno a loro in base all'oscillare su e giù di Olivier per quanto riesca da solo e senza la collaborazione di Eiden. Lui, da parte sua, è occupato con ben altro: mentre le dita continuano a stimolare l'altro, la bocca si appropria di quella di Olivine per un bacio troppo breve rispetto a quello di cui forse avrebbe bisogno il suo amante. Volutamente veloce per fargli saggiare qualcosa che invece gli nega di lì a pochissimo, scivolando sul suo collo senza troppi ripensamenti. Lì è un alternarsi continuo e implacabile di labbra, lingua e denti. Percepisce l'insoddisfazione di Olivine nella sua voce, nel modo in cui lo chiama, ma anche nel modo in cui si tende il suo corpo.


Per minuti - che è certo sembrino un tempo molto più lungo all'altro uomo - è tutto lì ciò che gli offre: le attenzioni di un amante sul collo, ogni tanto sulle labbra, e stimolo continuo ai punti più sensibili del suo corpo. Le dita affondano sempre nello stesso modo, il ritmo che non aumenta mai per quanto sia difficile per lo stesso Eiden mantenere tutta quella lucidità. Olivine a un certo punto è talmente inebriato da quel mix letale e al tempo stesso bisognoso di avere quel qualcosa in più che potrebbe permettergli di raggiungere finalmente l'apice, da aver cominciato a straparlare a tratti. Tutto si riconduce ai suoi «Eiden, Eiden, Eiden» che non sono un vero richiamo quanto una supplica di dargli tregua, finalmente.


Vorrebbe, ma attende ancora; sfila le dita da dentro di lui invece, incontrando un verso di abbandono e disapprovazione, oltre a occhi verdi che lo guardano come se Olivine fosse stato appena tradito. In un certo senso lo è stato, torturato per tutto quel tempo e poi neanche premiato per la pazienza di farsi toccare ovunque, farsi stimolare dove ha più effetto, senza tregua e senza alcun riguardo al suo bisogno primario.


Lo bacia, prima. Con più trasporto di ieri notte, più passione, più urgenza. E' come se dovesse rispondere all'istinto di lasciarlo senza fiato e forse ci riesce davvero, a un certo punto. Quando senza alcun preavviso mette fine a quella tortura e si spinge dentro di lui, scivolando con relativa facilità. Sente Olivine inarcarsi e urlare di piacere, un fiotto di calore in netto contrasto con l'acqua fresca contro il suo stomaco. Capisce che è venuto appena lo ha penetrato, iper stimolato com'è stato finora. Non si allontana da lui per commentarlo, però, e non gli dà la possibilità di interrompere il bacio per scusarsi.


Spinge dentro di lui, finalmente libero da ogni intento di sperimentazione. La bocca di Olivine è calda, le sue mani si stringono attorno a lui e a un certo punto Eiden è vagamente cosciente di unghie che affondano appena nella pelle della sua schiena. Vorrebbe poter dire di riuscire a mantenere una calma invidiabile e prolungare ancora di più il sesso, ma la verità è che anche per lui è impossibile restare impassibile di fronte a un corpo come quello di Olivine che non fa altro se non diventare malleabile nelle sue mani con il suo abbandono e la totale fiducia.


Si svuota dentro di lui mentre lo sta ancora baciando, anche se è tutto fuorché un bacio da manuale. Olivine gli si stringe addosso, forte, quasi temesse di affondare se dovesse lasciare andare. Sente il suo respiro veloce sulla pelle bagnata e lo stringe di più, senza ancora scivolare fuori di lui.


Il rumore delle onde sembra placarsi insieme ai loro movimenti, lentamente limitati solo ai respiri. La luna piena, ancora alta nel cielo scuro, sta scivolando piano dietro qualche nuvola rada. 

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Prompt: Biffy Clairo - Space
Missione: m2 (week 3)
Parole: 3308
Rating: gen
Warnings: spoiler archon war, leggere imprecisioni volute (Morax pov), Morax/Barbatos | Zhongli/Venti

 

 

Then slowly one by one
We carried our past and cradled the storm
We tried to conceal the scars we wore
'Cause we couldn't show what we couldn't show

 

Potersi aggirare tra le strade di Liyue Harbor è il privilegio della mortalità. Zhongli ha avuto molti nomi nella sua vita, alcuni dati dal popolo, altri così vecchi da non ricordare con precisione nemmeno lui chi li abbia coniati. Con il tempo il mondo ha imparato a conoscerlo e le leggende hanno formato la sua storia e la sua eredità, rendendolo l’Archon che è stato e non è più, il Dio senza il quale la sua gente sta imparando a vivere. Lo stesso ad aver siglato dei contratti con gli Adepti, ancora oggi impegnati nella protezione di una terra a cui non sarebbero più legati da alcun vincolo se non quello morale e degli affetti. Li capisce, per questo non li libera - non può fare più di quanto ha già fatto: inscenare la sua dipartita, siglare l’ultimo dei contratti a proprio unico beneficio e sperare che il mondo andasse avanti, Adepti compresi.

Tra chi ora incrocia la sua strada nella città dove ha scelto di vivere da mortale, quando si chiede a chi potersi rivolgere per conoscere qualche dettaglio sulla storia, le tradizioni, le leggende quasi tutti dicono alla persona di turno di rivolgersi a lui. A Zhongli non dispiace spiegare ciò che vogliono sapere, raccontare secoli di storia a cui gli altri attribuiscono solo un'immensa passione e un lungo studio quando invece a lui è bastato semplicemente vivere ogni singolo avvenimento. Nonostante questo, ci sono aspetti che giorno dopo giorno ha la sensazione finiranno irrimediabilmente per sfuggire anche ai suoi ricordi. Forse non se ne dovrebbe stupire: seimila anni sono lunghi per chiunque e quando si è rimasti solo in due ad aver visto e vissuto attivamente certe cose.

 

Pensare che in tutto il mondo esiste una sola persona con cui poter parlare di tempi che non torneranno mai più e che, presto, spariranno anche dalla memoria degli umani. Una sola.

 

E' incredibile.

 

*

 

Rex Lapis abbassa lo sguardo, soffermandosi sulla famiglia che sta proseguendo lungo una delle vie mercantili di Liyue, un sentiero appena battuto dove non è comunque consigliabile addentrarsi senza un buon carro e animali da traino che possano sopportare certi tipi di terreno. Forse, per un istante, il bambino lo scorge quando alza gli occhi per seguire il volo di un uccello nel cielo azzurro, ma l'Archon quasi non deve sforzarsi per sfuggire al suo sguardo in un attimo. Liyue è una terra grande e a lui basta un battito di ciglia per poterla attraversare tutta e assicurarsi che nulla stia sfuggendo al controllo che gli spetta, ma per il quale non ha mai forzato la mano sui mortali che abitano quel luogo. Se fosse come loro, forse la chiamerebbe casa. Il suo sentimento però è molto più complesso.

 

«Moooraaax» cantilena una voce alle sue spalle e sente di non poter fare altro che sospirare, le braccia incrociate al petto che si stringono di un poco prima di voltarsi a guardare una figura che è già consapevole troverà. Lì a librarsi a mezz'aria l'Archon Anemo lo guarda divertito, con quel cipiglio eternamente infantile e l'aspetto innocente che non potrebbe essere più fuorviante di così. Rex Lapis non ha qualcosa di particolare contro di lui, ritiene solo di essere incompatibile con lui. E che il suo presentarsi costantemente ubriaco sia di pessimo gusto. E—

 

«Mh?» si lascia sfuggire tra le labbra Barbatos, sporgendosi leggermente oltre la montagna su cui lui è rimasto fino a quel momento; le braccia incrociate dietro la schiena e l'aria incuriosita, si ritrae solo quando gli occhi chiari incontrano la famiglia che poco fa Rex Lapis stesso stava osservando: «Che bravo! Controllavi arrivassero sani e salvi?» lo prende in giro, lo fa sempre. Non ha idea di cosa ci sia di divertente per Barbatos all'idea che lui segua con lo sguardo qualche mortale in momenti di pace come quello. Cos'altro si suppone dovrebbe fare non è una cosa che riesce a comprendere.

 

Sospira piano, Rex Lapis, e scuote appena la testa prima di cominciare a muoversi nella direzione opposta a quella dove Barbatos si è sporto. Lo sente seguirlo, nello stesso modo in cui si percepisce una brezza soffiare quasi stesse dando una spinta leggera contro la schiena di chi cammina. Rex Lapis si è domandato spesso, quando ha sentito qualche mortale parlare di come gli sembrasse di essere incoraggiati dal vento durante un viaggio, al pari delle navi le cui vele si gonfiano d’aria, se qualche volta sia stato davvero Barbatos a dare un piccolo incoraggiamento a qualcuno di loro. 

 

D’altronde anche in questo sono estremamente diversi: Barbatos ha un affetto smisurato per i mortali. Rex Lapis non ne capirà mai il perché - sono ingegnosi, considerato che non possono contare su dei poteri superiori come gli Archon, ma al di là di questo vede in loro quasi soltanto dei limiti.

 

«Penso che se vivessi tra loro,» comincia a parlare Barbatos, incurante dei suoi silenzi, come sempre «li ameresti. Hanno una forza smisurata e una testardaggine niente male nel combattere le cose più grandi di loro.»

Rex Lapis cammina, cammina e solo quando arriva vicino a delle rocce su cui siede durante le ore più calme del giorno osserva in direzione di Barbatos. Si siede, notando che l’altro Archon aspetta a fare lo stesso. La pietra su cui ha preso posto non ha spazio accanto a lui per un’altra persona, ma Barbatos tende a sederglisi sempre di fronte e mai di fianco, perciò non se ne preoccupa. Poggia la schiena contro la parete rocciosa alle sue spalle, una gamba viene piegata e la caviglia posata sul ginocchio dell’altra gamba. E’ una posizione che assume spesso, agli occhi dei mortali sarebbe come un re sul proprio trono con fare assolutamente poco nobile. Barbatos lo guarda e sbuffa divertito, i suoi piedi nudi ancora non toccano l’erba rada.

Si abbassa il cappuccio proprio quando Barbatos si muove verso di lui, lo sguardo vispo di chi sta pianificando qualcosa; non ha nemmeno con lui il solito vino che porta in dono durante le sue visite sempre inaspettate, nonostante poi ne beva una buona parte da solo perché non sa frenarsi. Rex Lapis inarca un sopracciglio, cercando di anticipare le sue intenzioni, ma non riesce finché non se lo ritrova seduto su una gamba.

Per un lungo momento nessuno dei due parla. Poi Barbatos scoppia a ridere, le mani si poggiano sulla sua gamba solo per non rieschiare di cadere all’indietro quando la schiena si inarca appena e il collo si piega leggermente in un movimento naturale ad accompagnare quella risata. E’ un suono cristallino che affascinerebbe i mortali, ma lui ha imparato a riconoscerci anche una nota capace di suscitare una vaga irritazione.

«Scendi.» gli dice, non un’intimazione ma nemmeno una richiesta cortese. Barbatos però, tanto per cambiare, non gli dà ascolto e si limita a offrire scuse assurde come «La pietra è dura, dov’è la tua ospitalità, Morax?!»

Come sempre ciò che esce dalla bocca altrui non ha alcun senso per lui.

*

Dopo la guerra degli Archon è stato come uscire da una bolla di unicità destinata a non ripetersi mai più. Rex Lapis è considerato il dio di moltissime cose, tra cui anche la guerra, e il paragone con uno come Barbatos è sempre stato abbastanza immediato - sarà la vicinanza delle loro terre, divise da un confine immaginario che molti mortali non si rendono conto di aver oltrepassato fin quando non si affacciano ai primi villaggi sporadici e vi riconoscono architetture completamente diverse. O sarà che la natura di Barbatos è completamente diversa dalla sua. 

Tutto dell’altro Archon rispecchia ciò a cui è associato: libertà e vento sono due cose immediatamente associate a lui e Rex Lapis stesso deve ammettere che le vede in lui così come fanno i mortali di Mondstadt, dove si è recato una sola volta per cortesia. E’ sicuro che gli uomini vedano in Barbatos la leggerezza di una brezza tiepida in primavera e la promessa di vivere in piena libertà senza nessuna catena. Non conoscono la devastazione di un vento divenuto uragano, né il prezzo da pagare per poter andare dove si desidera, sempre. 

Se proprio, ai suoi occhi Barbatos è la perfetta rappresentazione di una bilancia priva di equilibrio: uno dei due piatti si eleva verso l’alto e nessuno spreca uno sguardo per quello che pende verso il basso, pieno di macigni per contrapporsi a una piuma. Mondstadt, già dal passato e in un futuro non troppo lontano forse, dovrà smettere di preoccuparsi della guerra, dei tiranni, della paura e sarà perché qualcuno si sarà preso il compito di tenerli lontani. Il sacrificio di un singolo per un bene comune, così totalizzante, è qualcosa che sfugge alla mente di Rex Lapis - lui che è pietra, dura e solida, spesso inamovibile e al tempo stesso è guerra, è denaro, è storia.

Così glielo domanda durante una visita non richiesta, una delle tante. Sono passati anni (forse dieci, forse cento) e Barbatos si presenta ancora con un vino che berrà per lo più da solo, senza che in lui cambi niente, in virtù degli esseri immutabili che sono entrambi. 

Liyue Harbor è più grande di come l’Archon Anemo la ricorda, prende la forma della città portuale più grande di Liyue che sarà in futuro, della tomba di Morax per un contratto di cui ancora nessuno sa nulla. E’ ancora lontana però dalla luce delle lanterne sempre accese come una guida per chi si è perso, così nella tranquillità di una notte stellata senza l’ombra della Jade Chamber a fluttuare in cielo parlano per più tempo di quanto Rex Lapis avrebbe pensato di impiegare in una conversazione con l’altro.

Sorprendentemente si lasciano andare anche a lunghi silenzi, confortevoli momenti in cui concedono alla mente di riposare. 

«Sono incredibili.» pronuncia Barbatos a un certo punto, lo sguardo verso le case dalle luci spente, il sorriso gentile a incurvargli le labbra. Non è la prima volta che Rex Lapis nota quel suo modo di guardare i mortali, a metà tra l’affascinato e il malinconico, come se fossero creature che non possono far altro che dipendere da lui.

«Posso capirne il fascino,» gli fa eco per la prima volta, considerato come di solito lasci senza alcuna risposta quel discorso fin quando Barbatos non si arrende a farlo cadere. Vede una vaga sorpresa nei suoi occhi, sebbene lui lo stia guardando solo di striscio, ma anziché chiedergli cosa lo stupisce si limita ad aggiungere «ma sono fragili. Si consumano fino a morire e lo fanno con velocità. Come l’incenso bruciano inesorabilmente quando vengono accesi e lasciano una traccia di fumo per un istante appena. Tu sei eterno. Come tu possa legarti a qualcosa di così effimero, va oltre la mia comprensione.»

Si aspetta un rimprovero misto a una presa in giro, l’ennesima osservazione di Barbatos su quanto lui sia duro e rigido. Invece si ritrova un’occhiata curiosa addosso e, dopo poco, il sorriso sulle labbra dell’altro Archon si fa quasi dispiaciuto. Lo vede alzarsi da dove sedeva e muovere diversi passi verso di lui - piedi sull’erba, anziché svolazzare come gli piace fare di solito - fino a sedersi più vicino. Non si sono mai seduti a così poca distanza l’uno dall’altro, se non quando Barbatos vuole prendersi gioco di lui e gli si sistema anche addosso. Ha lo sguardo rivolto alle stelle, quando gli parla di nuovo.

«Hai mai provato paura, Morax?»

Prova a pensarci, prima di rispondergli. Ha appreso nel tempo che i mortali la provano di fronte a un migliaio di cose e che solo alcune di queste sono state in comune con gli Archon che ha conosciuto: fallimento. Sconfitta. Morte, sebbene sia qualcosa di molto remoto al di fuori della guerra che hanno combattuto. 

Rex Lapis non ha mai avuto paura di nessuna di queste cose.

«Mai.» ammette quindi con fare laconico, non potendo offrire niente più di questo. Inaspettatamente, però, non segue nessuna frase o rimprovero o presa in giro a quella risposta. Barbatos si limita a guardare qualcosa che, Rex Lapis ne è sicuro, non riuscirebbe a vedere se anche rivolgesse al cielo la stessa attenzione. 

Dopo un tempo difficile da quantificare, sente la testa di Barbatos poggiarsi alla sua gamba come un bambino potrebbe fare sul grembo di una madre. Rex Lapis abbassa gli occhi dorati su di lui, cercando su lineamenti che conosce a memoria la risposta a una muta domanda di fronte a un comportamento privo di logica. Barbatos però si gira su un fianco e socchiude gli occhi, con l’intento di dormire.

Lui conosce l’arte della guerra, ma non questo.

A un certo punto, prima che se ne accorga, Barbatos sembra riuscire a scivolare in un sonno profondo abbastanza da regolarizzargli il respiro e rilassargli i lineamenti. Con le dita Rex Lapis gli sfiora i capelli , quel dettaglio di una fisionomia che non gli appartiene davvero, e si domanda se sia questo che accade quando si comincia a diventare mortali pur essendo esseri immortali.

*

Barbatos diventa fastidiosamente fisico nei suoi confronti. Di per sé non è una grande perdita, non è una ferita che gli impedisce di proseguire la sua esistenza come al solito, specie da quando la guerra non è più tra i suoi affari principali. Rex Lapis non è ancora nemmeno vicino a quando il mondo lo incrocerà lungo la strada chiamandolo con il nome di Zhongli, eppure sente la lentezza data dalla monotonia che quasi lo spinge ad allontanarsi da Liyue con il pensiero mentre pondera se farlo anche fisicamente.

E’ in questo frangente che Barbatos, quando si spinge fino ai suoi territori e lo tedia con una presenza rumorosa alla quale si sta abituando più di quanto si renda conto, dimostra una fisicità nei suoi confronti mai avuta in precedenza. Si tratta per lo più di piccoli gesti, come poggiarsi a lui per dormire o con la spalla contro la sua quando siedono vicini, più di quanto abbiano mai fatto prima di allora. 

Poi, mentre il sole è appena scivolato oltre la linea dell’orizzonte e solo un gioco di luci contro le nuvole ha ancora qualche residuo del giorno prima che l’oscurità della sera finisca di ricoprire il cielo, Barbatos gli prende il viso tra le mani. Rex Lapis alza lo sguardo su di lui, lo punta dritto sul suo viso perché non c’è altro da fare, e inarca appena un sopracciglio cercando di capire quali siano le sue intenzioni senza dover dare voce alla domanda. Barbatos ha gli occhi di un colore che gli ricorda le acque più cristalline e i prati più sconfinati - riconosce nel suo sguardo quasi tutto quello che vi passa attraverso, perché dopo secoli non può essere altrimenti, ma ora c’è qualcosa di incomprensibile.

Barbatos ha le mani più minute delle sue, ma c’è una delicatezza maggiore nel modo in cui gli sfiora la pelle, quasi si aspettasse di scalfirlo con un semplice tocco. Rimangono in silenzio a lungo, più di quanto sia tipico dell’altro forse, finché la bocca di Barbatos è così vicina alla sua che possono respirare insieme.

«Se ne sono andati tutti uno dopo l’altro.» gli sussurra sulle labbra.

Rex Lapis ha visto persino le rocce spezzarsi, ma una persona mai. E non sa come fermarlo.

*

Da quel giorno sono passati anni, secoli. Barbatos ormai si muove tra gli umani con il nome di Venti, esattamente come lui si mescola tra i mortali rispondendo a quello di Zhongli. Si vedono con sempre minore frequenza, per tanti motivi: Liyue è grande, Liyue Harbor ormai il centro nevralgico del Paese; Mondstadt ha i suoi festival, proprio come qualsiasi altra regione di Teyvat, e ha i suoi problemi. A un certo punto Zhongli viene a sapere di Dvalin e si domanda se non dovrebbe recarsi nella regione dell’Archon Anemo per capire come essere di aiuto. Lui che di rado ha toccato il suolo di quella città, così poche volte da poterle toccare sulle dita di una mano.

Non lo fa, alla fine. Manda un messaggio, inequivocabile e con un messaggero d’eccezione, fa sapere di essere ancora lo stesso combattente con cui Barbatos ha lottato fianco a fianco in una guerra di troppi millenni fa ormai.

Barbatos non risponde per diverso tempo e quando lo fa è un messaggio breve. Solo mesi dopo, quando Signora si presenta a Liyue, Zhongli apprende che la stessa gnosi che le sta promettendo come parte di un contratto - perché Liyue è questo e lui è questo, un insieme di contratti che hanno scandito la sua esistenza -, a Barbatos (a Venti) è stata strappata via.

Sono passati quasi duemila anni dalla guerra e per la prima volta da allora Zhongli sente che l’Archon che tutti per anni hanno chiamato Rex Lapis o Morax forse non smetterà mai di esistere. Mentre Signora gli dà le spalle e sparisce tra le vie di Liyue Harbor, un accordo tra loro, Zhongli desidera prendere una vita nel modo in cui un tempo non sarebbe stato un desiderio, ma una semplice ovvietà.

*

Si incontrano di nuovo a ridosso del Rito delle Lanterne, senza invito o preavviso. Le lanterne sono state lasciate da poco libere di librarsi in aria e i fuochi di artificio del gran finale stanno sbocciano in cielo illuminandolo. Il vociare generale è pregno dell’entusiasmo e della gioia, qualcosa a cui Zhongli ha imparato ad abituarsi da quando gli abitanti di Liyue Harbor stanno imparando a vivere con la consapevolezza di non avere più un Archon. 

Hu Tao si allontana con una scusa, ma poco prima di muoversi verso un gruppo di persone lo lascia con una frase enigmatica e un cenno del capo. Ci vogliono pochi istanti perché il posto occupato da lei veda Venti sedersi come se nulla fosse e non avesse fatto altro che assentarsi per qualche attimo. Ha abiti molto diversi da quelli che erano un tempo la sua normalità - più tipici di Mondstadt, tipici del bardo che proclama di essere. Mentre lo osserva godersi lo spettacolo dei fuochi d’artificio, Zhongli si domanda se gli manchi quello che gli è stato sottratto. Se pensi a quanto folle sia stato lui, invece, che se ne è liberato volontariamente.

Lo vede accostarsi con la sedia a lui e sporgersi quanto basta perché quanto gli dice sia udibile nonostante lo spettacolo pirotecnico, ma senza dover urlare cosicché tutti lo sentano.

«Sei vivo.» gli dice, come se fosse l’unica cosa importante. Zhongli è stato razionale per molti anni, incapace di analizzare le cose con l’emotività e concedendo solo alla rabbia e al furore della battaglia di muovere le sue azioni in passato. In questa razionalità ha capito nel tempo che Barbatos ha cominciato a sgretolarsi molto prima della gnosi sottrattae prima persino della fine della guerra degli Archon. Quando, ormai troppo tempo fa, ha creduto che passasse eccessivo tempo con i mortali o a osservarli e che questo lo stesse rendendo debole, lo stesse avvelenando di una fragilità di cui non aveva bisogno ha sbagliato.

Barbatos si è spezzato quando la sua forma non era nemmeno umana e da allora, forse, non è mai stato in grado di tornare intero. Ma non lo ha mai mostrato perché questo sono le divinità e quindi questo sono gli Archon - un immenso potere la cui immagine è somigliante a quello delle persone ma, al contrario dei mortali, non sono in grado di riconoscere da cosa rifuggire e da cosa proteggersi, come preservarsi. Niente se non pochissime eccezioni viventi possono ucciderli e dunque finiscono per autodistruggersi senza quasi accorgersene, più sciocchi delle bestie. Se guarda al passato non vede altro che l’errore ripetersi: Guizhong, Havria, gli yaksha.

Forse una notte di secoli fa, labbra sulle sue labbra, Barbatos ha provato a mostrarsi e salvarsi.

Abbassa lo sguardo mentre le dita di Barbatos sfiorano le sue. Con discrezione le stringe appena, e quello sembra bastare a deformare il lineamenti di un bardo in sollievo, paura e gioia insieme.

Zhongli lo osserva e, oggi come allora, non capisce come proteggere una fragilità così immensa.

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Prompt: //
Missione: M3
Parole: 5436 (507 + 1501 + 3428)
Rating: teen up
Warnings: kissing, making out, (very) vague petting



Il primo anno alla UA non è dei più facili, per Shoto, ma sospetta non sia facile per nessuno. Si sono ritrovati tutti tra le mani un sogno più grande di loro, qualcosa in cui credevano fermamente e la convinzione di poterci arrivare con l'impegno, sì, ma senza avere un'idea precisa di quanto ne servisse. Un po' come tutte quelle cose idealizzate fin da piccoli, in cui si guarda a un obiettivo per cui si è consapevoli di dover lavorare duro ma quando si comincia a farlo si viene schiacciati da quella stessa durezza che si credeva di conoscere appieno.


Si potrebbe dire che la prima volta in cui si accorge di Shinsou sia il festival dello sport, durante il suo scontro con Midoriya, ma più che notarlo si tratta di prendere atto di un'esistenza e poco più; Shouto era troppo concentrato su se stesso e sul dimostrare a suo padre che mai e poi mai avrebbe utilizzato un potere ereditato da lui e che aveva, forse irrimediabilmente, distrutto sua madre e l'intera famiglia per preoccuparsi di chiunque calcasse il ring del festival. Lo nota davvero durante l'esercitazione in cui Shinsou deve dimostrare di avere le qualità necessarie a passare di corso. C'è qualcosa di familiare nel modo in cui non vuole avere amici intorno, o almeno si professa poco interessato a farsene, e come questo è sufficiente a farlo finire circondato da persone mosse dall'intenzione esattamente contraria. Shouto non si definisce uno che non vuole amici, ma immagina di essere sembrato un po' come lui, scostante e disinteressato, quasi freddo. Alla UA, però, essere lasciato in pace è quasi impossibile e non sarà lui a cercare di fermare chi come Midoriya o Kaminari sembra nato per distruggere qualsiasi certezza quelli come lui e Shinsou potrebbero avere.


Sarebbe comunque uno sforzo del tutto inutile. Lui preferisce prendersi più tempo per osservare, cercare in Shinsou somiglianze e differenze, come in un gioco. Riconosce una punta di imbarazzo, intravede il disagio di chi non si sente meritevole o di chi ha un obiettivo troppo grande per concedersi quel tipo di distrazione eppure - al tempo stesso - vorrebbe con tutto il cuore poterselo permettere. Se deve essere sincero, Shouto però vede anche qualcuno schiacciato dal suo passato, dal suo Quirk, da una reputazione di cui è quasi impossibile disfarsi se non impegnandosi il triplo di quanto fanno gli altri e senza nemmeno la certezza di riuscirci. Vede la fatica dell'accettazione. Vede la convinzione che chiunque, letteralmente chiunque altro, sia stato più fortunato di lui. Ogni aspirante eroe è un nemico, l'oggetto dell'invidia: chi ha avuto genitori amorevoli, chi ha avuto un mentore che ha creduto in lui o in lei, chi ha potuto scegliere la sua strada a cuor leggero.


Con il tempo, Shouto ha imparato a non giudicare con superficialità secondo la propria convenienza, ma in cuor suo a volte sente ancora l'invidia spingere forte per uscire e prendere il sopravvento. Per questo, la prima volta che nota davvero Shinsou si riconosce, e questo lo spaventa.


*


In una storia qualunque, Shouto si sarebbe dovuto accorgere di Shinsou tanto da volerlo avvicinare durante la cerimonia di diploma. Quale occasione migliore, se non il raggiungimento di qualcosa di così grande e la svolta da sogno a raggiungimento dell'obiettivo di diventare un Pro Hero a tutti gli effetti? Avrebbe senso avere finalmente quel singolo momento in cui ci si guarda intorno, si abbracciano con lo sguardo le persone con cui in fondo si è cresciuti, con cui si sono condivisi gioie e dolori, successi e fallimenti. La sezione A, nello specifico, è diventata qualcosa di enorme dentro di lui: hanno visto troppe crudeltà che la vita avrebbe dovuto tenere da parte per quando sarebbero stati più grandi, più pronti. Hanno dovuto subire perdite e prendere decisioni impossibili a cui non si riesce mai ad arrivare davvero preparati nemmeno da adulti, neanche dopo anni a combattere il crimine e il male. Avrebbe perfettamente senso trovarsi lì, scattare una foto di classe o di gruppo senza più preoccuparsi di una sezione che ci si lascia alle spalle, e pensare che Shinsou è lì dov'è sempre stato eppure dove lo vede ora per la prima volta, dove si interessa a lui. Sarebbe una storia perfetta.


Invece Shouto si sofferma su di lui un anno dopo, quando una riunione con i vecchi compagni che li vede tutti miracolosamente presenti - per nulla scontato, visti gli impegni di ogni Pro Hero - li porta a sedere intorno allo stesso tavolo e a occuparsi di rimettere in piedi Kaminari dopo troppe, troppe birre.


Lo hanno appena messo in sesto abbastanza da potergli chiamare un taxi e Kirishima si è offerto di assicurarsi che arrivi a casa con le sue gambe, visto che abitano abbastanza vicini. Il chiacchiericcio degli altri, divisi in piccoli gruppi come durante le feste di Natale alla UA, fa da contorno a una notte in cui si gela. Le feste sono alle porte, la prima neve minaccia di cadere da un momento all'altro e le luci del locale dove hanno mangiato accompagnano una serata altrimenti buia ma non abbastanza da rendere facile vedere le stelle, complici anche le luci artificiali della città. Shouto ha le mani affondate nelle tasche del cappotto grigio scuro, la sciarpa color ghiaccio ben sistemata nella speranza di coprire quanto più possibile dal collo in su. A ogni respiro, l'aria abbandona la sua bocca per trasformarsi in nuvolette di condensa.


Kaminari sbraita qualcosa per poi di scoppiare in una fragorosa risata prima e subito dopo in un urletto spaventato che sarebbe preoccupante, se solo non fosse seguito dalle minacce gridate da Bakugou e dalla risata divertita di Mina. Lo sguardo di Shouto, però, vira sulla propria sinistra quando vede con la coda dell'occhio la figura di Shinsou poggiarsi stancamente con la schiena contro la parete del locale. Non è cambiato molto da quel festival sportivo del primo anno, con i capelli più corti che danno l'impressione di essere meno in balia della gravità ma la stessa, identica espressione di sempre. Sta guardando verso il gruppo di Kaminari, le mani nelle tasche del cappotto nero quasi a mimare la posizione di Shouto, un vago accenno di sorriso sulle labbra così lieve che è difficile intuire se sia divertito o se abbia una punta di sarcasmo ben nascosta.


Non parlano lì per lì, ma non sorprende nessuno. Né lui né Shinsou sono mai stati i chiacchieroni della situazione o l'anima delle feste che negli anni hanno organizzato, per quanto gli eventi e i conseguenti umori hanno reso possibile. Ci vuole Kirishima che annuncia l'arrivo del taxi e offre un saluto generale mentre tiene in equilibrio Kaminari a far aprire bocca a Shinsou per dire: «I miei timpani sono salvi.»


E' una frase semplice, ironica, abbastanza tipica di lui o dell'aspetto di lui che Shouto ha visto crescere nel tempo. Al di là dei cambiamenti fisici, che non sono stati molti appunto, di fondo Shinsou non è troppo diverso da come lo ha conosciuto e da come Shouto pensa di averlo inquadrato già la prima volta, quando ha deciso di non voler approfondire perché in un modo complesso e contorto era come guardarsi allo specchio. C'è ancora una perenne punta di ironia nel modo in cui Shinsou parla, quella punta che lo rende odioso a molti ma adorato da tanti altri, specie chi lo ha conosciuto anni fa. C'è la poca propensione all'amicizia di convenienza, ma nel tempo è diventato capace di instaurare legami profondi - pochi, ma duraturi. E' qualcuno di cui si può apprezzare la sincerità, una volta riusciti ad andare oltre l'angoscia di chi ha dovuto sempre giustificarsi per un Quirk destinato ai villain ma capace anche di fare del bene. Shinsou è un'argilla che è stata intaccata da Midoriya e poi rimodellata da Aizawa e dal resto di quelli che hanno voluto dargli e darsi una possibilità.


Shouto pensa di apprezzarlo: lavora bene, non perde tempo, è scrupoloso e attento. Non parla troppo, non urla granché, riesce a stemperare momenti complessi con parole semplici. Ha la consapevolezza di quanto pericoloso potrebbe diventare ma la morale di qualcuno che non lo permetterebbe mai.


Solo che non glielo ha mai detto, e non ha idea di cosa Shinsou pensi di lui.


«Non ho mai capito come uno come te, Todoroki, li incontri una volta ogni due mesi. Per non parlare del fatto che lavorate spesso insieme, giusto?» Shinsou gli chiede, sorprendendolo non poco. Midoriya non ha fatto altro che parlargli di lui, a un certo punto, consigliandogli di approcciarlo di più se gli fosse capitato perché sono certo andreste d'accordo, Todoroki-kun. Lo ha sentito così tante volte, ha annuito, detto che sarebbe capitata l'occasione. Però non l'ha mai fatto, non come intendeva Midoriya probabilmente.


«Il gruppo di Bakugo?»

«Sì. Posso capire Izuku,» pronuncia Shinsou con un cenno del capo. Shouto segue la linea di quel gesto e non si stupisce di trovare Midoriya accanto a Bakugo, forse cercando di evitare che faccia esplodere il taxi da cui Kaminari sta cercando di sporgersi ritardandone la partenza: «so che siete amici. E non è così rumoroso come gli altri. Ma pensavo avessi solo una rivalità a senso unico con Bakugo, almeno a guardarvi alla UA.» aggiunge. E' complesso, per Shouto, focalizzarsi sulla cosa corretta quando il primo pensiero è chiedersi sinceramente stupito quando mai, durante gli anni alla UA, Shinsou si sarebbe preso la briga di osservarlo al punto da avere un'opinione sul suo rapporto con Bakugo.


«Siamo amici. Con Bakugo, intendo.»

«E lui lo sa?» ironizza Shinsou, offrendo un ghigno leggero «E non oppone resistenza?» rincara la dose, facendo scappare un sorriso anche a Shouto. Non c'è dubbio che Bakugo si opporrebbe con tutte le sue forze alla definizione, anche ora che è palese agli occhi di tutti abbiano almeno raggiunto la soglia dell'amicizia. D'altronde, Bakugo ammette a stento di avere dei genitori di cui si preoccupa, a volte.


«Ogni tanto prova.» concede Shouto, riconoscendo la soddisfazione nei lineamenti di Shinsou. Si prende qualche momento per osservarlo, mentre l'altro fa vagare di nuovo lo sguardo verso il gruppo più numeroso.


«Quindi Midoriya te lo ha detto.» dice, abbastanza certo che Shinsou capirà a cosa si riferisce.

«Non ce n'era bisogno,» replica l'altro, incassandosi leggermente nelle spalle «non è che Bakugo sia proprio una persona capace di nascondere le cose. Ci riuscirebbe anche, ma non è discreto su questo.»


Shouto capisce bene cosa intende. Per i più non c'è molto da notare, forse, e per quanto Bakugo possa considerarsi caratterialmente irruento la crescita e le esperienze hanno smussato il suo carattere più di quanto chi non lo conosce potrebbe credere. Però per un occhio allenato, per chi li conosce da quando avevano quindici anni, ci sono cose lampanti; nessuno lo puntualizza, e Shouto lo ha saputo da Midoriya in persona come confidenza di un caro amico, ma il rapporto tra i due Pro Hero più famosi non è un mistero per nessuno della ex 1-A.


«Comunque trovo ancora sorprendente il vostro, di rapporto. Lasciar avvicinare Izuku? E' un conto. Tu, Todoroki?» sottintende qualcosa che invece, stavolta, a Shouto sfugge. Aggrotta la fronte, confuso, cercando di cogliere quella sfumatura che invece gli scivola tra le dita come sabbia. E' un aspetto profondamente legato alla persona di Shinsou, nella sua testa. Alla fine, proprio come in tante altre occasioni, a Shouto non resta altro che dare voce ai suoi pensieri per come sono, confusione compresa: «Io e Bakugo non siamo mai stati insieme...?»


Repentino come se Shouto avesse appena ammesso di essere una spia del peggior villain in circolazione, lo sguardo di Shinsou è su di lui in un secondo; un istante dopo sta disperatamente cercando di non scoppiare a ridere e, di conseguenza, rischiare di attirare l'attenzione.


Mentre gli dice che non era quello il senso delle sue parole e che l'immagine mentale dopo la sua affermazione è terribile e davvero, Todoroki, non voglio mai più immaginarlo Shouto pensa soltanto di non averlo mai visto ridere.


Vorrebbe vederlo ancora, e ancora, e ancora.


*


Di incontri ce ne sono stati tanti altri, dopo quella riunione. Occasioni in cui hanno passato del tempo insieme, hanno parlato e Shouto si è ritrovato a pensare che fosse piacevole stare con Shinsou, per brevi che potessero rivelarsi gli incontri a causa degli impegni di entrambi. Shouto vorrebbe poter dire che sono stati tutti significativi, tutti in virtù di un'epifania che a sentire Midoriya non ha nulla da spartire con la cena a ridosso del Natale di un anno precedente o con le collaborazioni nell'ambito lavorativo - a sentire lui, è qualcosa cominciato molto prima. Shouto non sa quando e non vuole credere a Midoriya quando gli dice è solo una cosa che ho notato, forse al secondo anno?


In ogni caso, Shouto non pensava si sarebbe ritrovato nella situazione attuale: il corpo di Shinsou è contro il suo, sono entrambi al buio e nascosti come ladri in una stanza che Todoroki non sa nemmeno quale sia di preciso. Immagina sia questo che succede a qualsiasi party dove finiscono con l'incontrarsi veramente troppi Pro Hero, situazioni in cui tutti conoscono tutti e ci sono almeno cinque persone che bevono abbastanza da essere brille. Shouto riesce comunque ad apprezzare il fatto che nessuno si sia mai ubriacato tanto da non reggersi in piedi, consapevole della possibilità di poter essere chiamati in qualsiasi momento in caso di necessità e cercando quindi di essere almeno lucidi abbastanza da poter sostenere la cosa. Da quanto ne sa, comunque, non si è mai verificato alcun incidente in situazioni simili.


Dall'altro lato della porta contro cui aderisce la sua schiena, Shouto riesce a sentire lo scalpiccio di chi si muove per cercare qualcosa o qualcuno, che in questo caso assume le sembianze di un Mineta molto ma molto brillo. Una molestia su due gambe e priva di freni inibitori, in pratica. Può quasi immaginare Hagakure e Ashido allearsi per immobilizzarlo appena riusciranno a trovarlo e a non finire colpite dal suo Quirk disseminato qua e là come piccole trappole.


Shinsou lo ha spinto dentro la stanza proprio per evitare una cascata lanciata sicuramente dallo stesso Mineta per fermare i propri inseguitori o catturare qualche collega. La porta socchiusa deve essere sembrata la soluzione migliore tra quelle a portata di mano e Shouto ne è grato, preferendo di gran lunga non avere nulla di Mineta appiccicato al corpo, se può scegliere. Ma nemmeno avere Shinsou contro di lui aiuta - non quando ha bevuto un decimo rispetto agli altri ma quel decimo è sufficiente a renderlo molto più consapevole della situazione di quanto vorrebbe essere. Un braccio di Shinsou è vicino al suo orecchio, poggiato contro la porta; il suo viso non è di molto distante dal proprio, le labbra semichiuse e l'odore di alcolico fruttato che stava bevendo leggero nell'aria che stanno condividendo. Ha gli occhi fissi sulla porta, quasi potesse vederci attraverso, e un mezzo sorriso a curvargli le labbra in risposta alle parole poco signorili che Mina sta pronunciando in mezzo al corridoio.


Shouto è abbastanza sicuro che l'altra mano di Shinsou sia contro la parete, poggiata con più morbidezza di quella consentita se si vuole cercare di reggere il proprio peso, e quello infatti è in buona parte contro il suo corpo e non aiuta molto. Non più di quanto faccia il fatto che Shinsou si sia liberato del maglione quaranta minuti fa, nell'altra stanza, prima che succedesse tutto questo casino e che quindi gli sia rimasto addosso solo un dolcevita scuro. Shouto non ha mai badato troppo né ai vestiti degli altri né ai propri, purché fossero funzionali al lavoro, se non quando ha posato per qualche rivista e altri lo hanno vestito sul set. E' stato meno catastrofico delle interviste solo perché farsi fotografare implica poter rimanere in silenzio. A ogni modo lui non ha mai badato troppo a queste cose ma è quasi felice che con la luce spenta e poca a filtrare dalla finestra grazie ai lampioni su strada non si veda granché. Quel poco che vede lo fa già sentire troppo vicino, troppo a contatto, troppo tutto.


«Possiamo uscire?» domanda, cercando di non suonare troppo disperato o seccato, ma più neutrale possibile. Shinsou sussurra uno sssh e Shouto obbedisce, restando immobile come non crede di essere mai stato in vita sua al di fuori del lavoro. Purtroppo per lui, due cose gli remano contro: fuori non sembrano intenzionati a lasciare il corridoio agibile tanto presto e Shinsou è una persona il cui intuito non ha fatto che acuirsi negli anni. Todoroki ci ha quasi sperato, che il suo essere teso come una corda di violino passasse inosservato.


Avrebbe dovuto immaginare che uno dei migliori amici di Midoriya non potesse farsi scappare un dettaglio simile.


Shinsou si tira leggermente indietro, quanto basta a guardarlo - sempre ammesso lo veda abbastanza - prima di mormorare un: «Okay?» a sostituire un più articolato "è tutto a posto?", probabilmente. Shouto annuisce, forse per non tradirsi, dimentico di dover sforzare le parole nel caso l’altro non si fosse ancora abituato all’oscurità e questa gli impedisca di vedere i dettagli e magari anche i movimenti. Sospira piano, cercando di non sbuffare aria direttamente in faccia all'altro.


«Okay.» replica, sentendo Shinsou lasciarsi scappare un accenno di risata. Non ha nemmeno bisogno di chiedergli spiegazioni, quelle gli vengono offerte su un piatto d'argento da uno scettico «Come no.»


Quelle due semplici parole gli fanno storcere il naso, o magari è lo scetticismo in sé che non riesce a digerire mentre cerca di non sembrare di nuovo un ragazzino di diciassette anni che tenta di ignorare come persino uno dei suoi amici più fidati si sia reso conto della sua cotta adolescenziale. Adesso di anni ne hanno ventuno, e Shouto è meno pronto di quanto era al suo secondo anno alla UA.


«Cosa vuol dire "come no"?» chiede, sistemandosi contro la porta come farebbe su una sedia. Il corpo di Shinsou si scosta un poco dal suo e Shouto deve quasi farsi violenza per non sospirare sollevato in maniera talmente palese da farsi sentire persino da Mineta, ovunque egli sia.


«Izuku lo ha detto più di una volta, che sei difficile Todoroki. Solo non pensavo così tanto.» «Sembra tu non discuta di altro con Midoriya.» commenta, non sa nemmeno lui bene del perché quella nota lievemente piccata accompagni l'affermazione. Se fosse una commedia romantica di quelle che ogni tanto ha guardato con Asui potrebbe affermare, senza dubbi di alcun tipo, che si tratti di gelosia. Ma è difficile vedere in Midoriya un pericolo quando è in una relazione stabile con quello che deve essere stato la sua cotta di sempre e dunque ben lontano dall'avere un rapporto dubbio con Shinsou. E soprattutto, se anche fosse, Shouto non ha diritti di alcun tipo. Nemmeno sull'irritarsi.


«Todoroki, hai bevuto?» arriva la domanda che meno si aspetta, un repentino cambio di argomento che lo confonde un po', lì per lì. Decide di rispondere comunque, non avendo la forza di cercare di aggirare il pensiero di Shinsou e comprenderne anche solo una parte: «Un bicchiere, forse. Mezzo vuoto.»
«Di birra?»
«Di qualcosa versato da Asui. Voleva offrirmelo Ashido, ma è meglio di no.» ammette. C'è qualche istante di silenzio tra loro, quasi Shinsou stesse considerando qualcosa che a Shouto sta del tutto sfuggendo.


«Mi sembra una scelta saggia. Ho bevuto due volte con Ashido in un locale: non ho mai visto nessuno reggere così tanto.» ammette, e a Shouto sembra di vederlo fare spallucce. Non ha mai bevuto con Mina ma ha il sospetto che perderebbe dopo un solo bicchiere. Un po' come sospetta non ci sia filo logico tra le due frasi che Shinsou ha pronunciato finora.


«...Sei ubriaco?»
«Ci vogliono altri tre drink per farmi ubriacare. Ma fingiamo tu lo sia, così posso farti un paio di domande e tu puoi rispondere senza inibizioni, Todoroki.» propone Shinsou, e a questo punto Shouto davvero non sa più quale filo logico ci sia nella conversazione. Il corpo dell'altro, di nuovo contro il suo, non agevola per niente il pensiero critico. L'assenza di risposta da parte sua sembra invece essere letta come una conferma da Shinsou, e mentre lo sente aprire bocca per chiedere Shouto ha la sensazione di starsi già pentendo di non avergli detto che no, non finge di essere ubriaco non avendo mai provato l'esperienza e che non ci sono domande a cui può rispondere solo sotto l'effetto di un alcolico.


Non sa quanto si sbaglia finché non sente la voce di Shinsou domandargli: «Ti piacciono gli uomini, Todoroki?»


Questa è una di quelle domande che nessuno vuole mai sentirsi rivolgere a bruciapelo, specialmente se si è uno dei tre Pro Hero più famosi del momento, si è nell'occhio del ciclone di più o meno qualsiasi news presente in rete e si tiene un minimo alla propria privacy, motivo per il quale non si è sbandierato ai quattro venti di avere un'infatuazione per un ex compagno di scuola. Soprattutto, però, ed è quello a gelare Shouto sul posto, quella è la domanda che lui non vorrebbe mai sentirsi rivolgere. Perché i Todoroki hanno impiegato anni a imparare a parlare dei propri sentimenti senza che questo implicasse fiamme, iceberg giganti e toni rabbiosi. Senza che parlare significasse ferirsi a vicenda, anche se in buona fede, o rinfacciare ferite mai sanate davvero ma solo medicate al meglio possibile. Per quanto suo padre abbia cercato di rimediare, Shouto è cresciuto per dieci anni senza una madre - ma con una bruciatura sul viso a ricordargli di averla avuta e perché non fosse più con lui -, con un padre colpevole e una famiglia distrutta. Per quanto sua sorella ci abbia provato, farlo crescere con la capacità di condividere le proprie emozioni è stato un compito troppo gravoso anche per lei.


Deglutisce, non osando aprire bocca. Shinsou però non sembra intenzionato a lasciar stare e stavolta interpreta il suo silenzio come un dover riformulare, essere più chiaro.


«Intendo dire, visto che non sei sembrato troppo sorpreso di sapere di Izuku e Bakugo né troppo contrario all'idea che pensassi tu e Bakugo aveste avuto una relazione, che forse anche tu—» Shouto lo blocca, la mano contro la bocca di Shinsou prima ancora di riuscire a chiedergli a voce di chiudere la questione e non parlarne, non ora, ma neanche in futuro se possibile. Sente l'imbarazzo salirgli lungo il collo ed è grato per la scarsa illuminazione della stanza, perché significa che anche per Shinsou dovrebbe essere difficile notare quel momento di debolezza. E' ancora più in imbarazzo quando sente le labbra contro il palmo della sua mano, però, perciò allenta leggermente la presa. Shinsou è in silenzio, forse perché non si aspettava di essere zittito in quel modo. Oltre la porta, nel corridoio, c'è ancora del vociare ma sembra essersi fatto più lontano.


Nessuno di loro muove un muscolo, però.


Il silenzio è l'unica cosa a rimanere tra loro e per Shouto non è mai stato scomodo come adesso. Una parte di lui preferirebbe parlare di qualcosa, un argomento semplice, oppure uscire da quella stanza e guardare Ashido vendicarsi di Mineta e riportarlo nella sala principale.


Non si aspetta di sentirsi scostare la mano - o meglio quello sì, perché è stato un gesto improvviso il suo e ha perfettamente senso che Shinsou gli afferri il polso e allontani la sua mano dalla propria bocca - ma, ancora meno, si aspetta di sentire le labbra di Shinsou sulle proprie. Per un momento, una manciata di secondi appena, rimane fermo perché cos'altro dovrebbe fare? Lì contro una porta, con Shinsou addosso, una domanda scomoda rimasta tra loro senza risposta e il ragazzo che ha seguito con lo sguardo per più anni di quanto voglia ammettere lì a baciarlo.


Poi una mano si va a poggiare sul fianco di Shinsou e schiude le labbra, anche se più d'istinto che non come un invito. Si ritrova comunque a rispondere al bacio, anche quando non è più casto ed è invece ben oltre le sporadiche fantasie che si è concesso in dormitorio anni prima, quelle che lo facevano sentire in difetto finché non ha parlato con Midoriya, anche se mai nel dettaglio, mai davvero.


Shinsou è come se avesse aspettato per tutto il tempo un cenno, uno solo ma sufficiente a dargli ciò di cui aveva bisogno per andare oltre una domanda, oltre un dubbio insinuato nell'innocenza di un quesito buttato lì per caso. Non appena sente il tocco della mano di Shouto e non viene respinto, il suo corpo preme di più contro quello di Todoroki e la sua gamba si fa spazio tra quelle di Shouto. La mano libera gli accarezza il fianco, quasi fosse indeciso se provare a far scivolare un paio di dita sotto il suo maglione o restare solo lì, a lasciare qualche carezza. Alla fine Shouto non sa nemmeno più che fine faccia, se la dimentica completamente mentre morde piano il labbro inferiore di Shinsou e si ritrova a rispondere a un bacio dato con ancora più trasporto.


«Aspetta un momento» mormora quando Shinsou si è finalmente deciso a ignorare il tessuto del suo maglione e ad andare ad accarezzargli direttamente la pelle. Lo sente fare un verso di disappunto ma, in un controsenso palese, la sua mano è ferma e la sua gamba anche. Il suo viso si scosta, sebbene di poco, e il suo respiro è più veloce contro la pelle di Shouto.


«E'... okay?» lo chiede confuso, ma Shouto capisce quasi immediatamente che c'è una domanda più specifica in quelle due parole che sembrano buttate lì per caso. Scuote la testa, d'istinto, salvo ricordarsi di nuovo che non è sufficiente.


«Sì, però—» «Cazzo,» sibila Shinsou, scostandosi un po' di più «non sei...? Da come Izuku lo aveva detto e da come guardavi ho pensato—»
«Non è quello.» chiarisce Shouto, più deciso. Non si tratta di non essere omosessuale o di non essere attratto da Shinsou, né di qualche improbabile fraintendimento: «Non sei ubriaco, giusto? Hai detto di no, ma anche Kaminari dice lo stesso quando non riesce a camminare dritto.» fa presente e non vuole ritrovarsi a baciare qualcuno che a stento ha osato seguire con lo sguardo quando era sicuro di non essere visto e scoprire che il giorno dopo non se lo ricorderà. O, peggio, che non voleva.


«...Todoroki ti ho portato dentro una camera buia e senza nessuno, ti ho messo spalle al muro, ti sono addosso da almeno dieci minuti, ti ho chiesto se ti piacciono gli uomini e ti ho baciato. Direi che non devi preoccuparti del fatto che io possa essere mosso solo dall'alcool in circolo. Non sono ubriaco.»


Shinsou glielo dice a chiare lettere e Shouto non ha davvero motivo di non credergli; in verità parte di lui è consapevole che uno come Shinsou difficilmente si metterebbe in condizione di non poter prendere delle decisioni con lucidità. Nonostante questo, però, ha avuto bisogno di chiederlo - perché è da te, Todoroki-kun, direbbe Midoriya che di lui ha questa immagine forse troppo idealizzata. A volte Shouto pensa che tutta la gentilezza e la nobiltà d'animo che Midoriya gli attribuisce non sia davvero lì. La verità è che sì, non vuole mettere le mani addosso a una persona ubriaca (una persona per cui prova qualcosa, soprattutto), ma non vuole neanche Shinsou se lo dimentichi il giorno dopo. O che possa dire di essersi lasciato trasportare, sottintendendo magari che altrimenti, in circostanze diverse, non sarebbe avvenuto.


«Todoroki?» la voce di Shinsou lo allontana dai propri pensieri, insieme alla mano che gli sfiora la guancia con una delicatezza dettata probabilmente dalla stessa preoccupazione che sente nel suo tono di voce, per quanto sia poco più di un sussurro.


«Sto bene.» mormora Shouto in risposta, ma non si sorprenderebbe per nulla nello scoprire che Shinsou non gli crede e, al massimo, si limiterà a fingere di farlo. Per Shouto non potrebbe davvero esserci una situazione peggiore di questa, qui con di fronte l'unica persona che abbia mai avuto voglia di baciare negli ultimi quattro anni e l'idea mai superata di essere destinato al perenne rifiuto. Importa poco che Shinsou lo abbia baciato per primo, che gli abbia detto a chiare lettere di essere perfettamente cosciente di cosa stia facendo - è una piccola voce nella sua testa, quella che di solito diventa la migliore amica di chi ha subito il rifiuto per tutta la sua vita: suo padre, per cui niente sarebbe stato mai abbastanza finché non è cambiato; sua madre, che forse ha visto in lui l'ombra dell'uomo che l'aveva resa incapace di sopportare oltre; se stesso, perché non si è mai perdonato di essere e non essere, di avere il fuoco a scorrergli nelle vene e la capacità di ferire come suo padre e la debolezza di un cuore bisognoso di legami di sua madre. Shouto ha desiderato essere chiunque tranne che se stesso e, quando si è accorto che era impossibile, ha cercato di modellarsi nella versione migliore di sé. O almeno quella che pensava sarebbe stata tale agli occhi di tutti, lui per primo.  Quando si cresce con un tale mostro nell'armadio, non si riesce a sentire il desiderio di qualcuno nei propri confronti e crederci. Nemmeno quando, razionalmente, non c'è altro da fare se non quello.


La mano di Shinsou scivola via, incerta, quasi volesse restare ma stesse lentamente perdendo ogni speranza di instaurare un contatto degno di questo nome. Shouto d'istinto la prende, perché non riesce a fare diversamente, a lasciar andare. L'abbandono è stato forse peggiore del rifiuto e ha capito, anni prima mentre guardava quasi svogliatamente il ring di un festival dello sport, che nessuno lo comprende meglio di Shinsou. Se lo lascia andare adesso, non tornerà. Non farà un altro tentativo.


Lo sente rimanere immobile, a quel gesto. Forse si sta chiedendo se non sia il caso di aprire la porta e uscire in corridoio, ora che non si sentono più né rumori preoccupanti né affermazioni violente da parte di Mina. Se aprono la porta possono raccontarsi che non è successo niente, possono fingere non ci sia stato nulla di particolare in quella stanza se non mettersi al riparo da qualsiasi cosa Mineta abbia tentato di fare. Fuori dalla porta c'è la possibilità di tornare a come sono sempre stati negli ultimi quattro anni: due persone che hanno spesso combattuto il crimine insieme, cresciuti tra gli stessi banchi e formati dalle stesse esperienze o quasi. Amici di Midoriya. Chissà, magari con il tempo amici a prescindere da lui.


Shouto fa una delle cose più difficili che abbia mai dovuto fare, quando si sporge in avanti e cerca un po' alla cieca il viso di Shinsou prima e le sue labbra poi. Ha baciato in più di un'occasione, anche se non con eccessivo trasporto, ma di certo mai qualcuno che gli piacesse come gli piace lui. Ha cercato di non focalizzarsi su Shinsou ma alla fine è sempre tornato al punto di partenza, e c'è in lui l'insicurezza data dalla consapevolezza di tutto ciò che può andare storto. Sente lo stupore dell’altro sulla sua bocca, la rigidità del suo corpo sotto la mano che ancora sosta sul suo fianco.


Dal suo punto di vista è quasi un miracolo sentirlo rilassarsi e ricambiare quel bacio goffo, che è più un tentativo disperato che un flirt degno di essere definito tale. E tutto si aspetta, Shouto, tranne un passaggio repentino e al tempo stesso naturale come quello che avviene quando Shinsou non si limita più a rispondere a quel contatto titubante ma a comunicargli in ogni modo possibile che lo desidera, tanto quanto lo fa Shouto - quanto lo ha fatto per più tempo di quanto abbia mai voluto ammettere a se stesso.


Le mani di Shinsou sono la prima cosa che sfugge al suo controllo: un attimo prima sono ad accarezzargli il viso e quello subito dopo sono una sul suo collo e una sotto la sua maglietta, dove ha provato a intrufolarsi fin dall'inizio. Si sente sfiorare l'addome con le dita mentre Shinsou lo bacia come se si fosse trattenuto per anni, proprio come ha fatto lui; gli succhia il labbro inferiore, glielo mordicchia leggermente e intrufola una gamba fra le sue proprio quando decide di allontanarsi dalla sua bocca. Sembra aspettarsi il verso di apprezzamento che sfugge tra le labbra di Shouto (ecco, si dice, questa è una cosa che per ora fingerò non sia avvenuta) e coglie il momento per sentirlo. Shinsou sbuffa divertito e non cerca nemmeno di nasconderlo, prima di affondare il viso contro il suo collo e lasciare qualche bacio distratto, qualche morso leggero.


Shouto non sa se questo li sta portando da qualche parte. Dovrebbe chiederglielo, ma per ora non lo fa.


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Prompt: punto di non ritorno
Missione: M1 (week 2)
Parole: 2171
Rating: gen
Warnings: spoiler manga (personaggi), confession







Se anni fa gli avessero chiesto se pensava avrebbe frequentato l’università, Sigma avrebbe risposto che era stato già abbastanza fortunato da avere un tetto sopra la testa per poter pretendere una cosa simile. D’altra parte è sempre stato abbastanza convinto che sarebbe potuta andare molto peggio a qualcuno che, come lui, è stato figlio di nessuno da quando ha memoria. Poi, come se un orfanotrofio con una direttrice pronta a tutto per i suoi ragazzi non fosse stato abbastanza, Sigma ha esaurito tutta la sua fortuna - o almeno lui crede - quando Atsushi è entrato nella sua vita. 


Si ricorda bene quando Atsushi è arrivato, un corpo minuto di neanche nove anni che si portava dentro più terrore di quanto avrebbe dovuto. Sarebbe dovuto essere difficile per entrambi fidarsi a sufficienza da potersi avvicinare, senza passato uno, con anni di abusi alle spalle l’altro - invece si sono ritrovati con una naturalezza inaspettata a condividere un letto prima, una stanza poi e ogni più piccolo segreto senza accorgersi di quel miracolo.


Sigma ha impiegato cinque anni a capire di provare un sentimento romantico per lui. A Gogol sono bastati cinque minuti. A volte è grato di averlo conosciuto non appena iniziata l’università; altre pensa sia un tentativo dell’universo di ricalibrare il suo flusso karmico. 


«Ah, Sigma, Sigma. Mio adorabile amico.» pronuncia Gogol scuotendo la testa nell’apprendere che no, Sigma non si è dichiarato. Non ancora. Ma se è per quello Sigma crede di non aver nemmeno deciso se voglia davvero farlo.


Gogol gli ha dato appuntamento alla caffetteria meno affollata delle tre che gravitano intorno all’università. E’ un posto carino e accogliente, luminoso e ben arredato, un locale in cui persone come Gogol sembrano essere sempre e immancabilmente a loro agio, come se fossero nate per stare in una sala a sorseggiare tè. La treccia gli scivola morbida sulla spalla sinistra e l’abbigliamento è impeccabile. Irradia una sicurezza nei suoi mezzi che per uno come Sigma è impensabile. 


Da quando Gogol lo ha avvicinato senza che Sigma potesse davvero impedirglielo hanno avuto diverso tempo per conoscersi e, arrivati a questo punto. Sigma crede di essere quantomeno riuscito a individuare delle implicite regole di sopravvivenza fondamentali. 


Primo: è del tutto normale, a volte, avere la sensazione che Gogol voglia ucciderti nel sonno. A dispetto di ciò, non si sporcherebbe mai i vestiti e, se volesse commettere un crimine, forse cercherebbe di nasconderlo. Spera. In questo caso restare in posti mediamente affolati dovrebbe essere sufficiente.


Secondo: Gogol si infastidisce e irrita facilmente. Un momento prima sembra entusiasta di qualcosa che, l’attimo dopo, lo ha già annoiato ed è una ragione di irritazione. In quelle fasi Sigma ha imparato a modellarsi sull’umore di Gogol perché stare dal suo lato buono è decisamente meglio che stare da quello cattivo. La vendetta di una persona può avere conseguenze negative, ma quella di Gogol teme potrebbe essere terrificante. 


Terzo: a discapito del punto due, Gogol ha fissazioni che possono durare mesi interi. Ad esempio, il suo interesse per la presunta situazione romantica di Sigma. Da quando se ne è accorto non c’è stato un giorno in cui non si sia informato riguardo quella dichiarazione che Gogol pensa essere imminente e che, invece, Sigma vorrebbe avere la forza di dirgli che non avverrà mai.


«Allora?» lo incalza Gogol dopo aver abbassato la tazza di tè da cui ha sorseggiato la bevanda calda fino a ora «Quali novità hai da raccontarmi?»


Lo guarda con il malcelato entusiasmo di chi sta evitando di tempestarlo di domande solo per fingere di avere una decenza. Sigma vorrebbe poter evaporare sul posto, ignorando l’imbarazzo che prova e il profondo disagio di fronte al pensiero che Gogol sia il suo… confidente sentimentale. Abbassa lo sguardo sul piattino con la fetta di torta ordinata poco prima, la forchettina nella sua mano che pungola la punta sporcandosi di crema di cioccolato. 


«Non molto…» mormora, percependo lo sguardo di Gogol su di lui tanto quanto il suo giudizio. Il sospiro che sente uscire dalle labbra del suo interlocutore preannuncia già qualcosa di molto specifico, ossia lo scatenare quella parte di Gogol che a volte fa venire voglia a Sigma di nascondersi. La sua unica certezza è che alla fine della giornata gli saranno stati dati almeno dieci consigli e lui non avrà la forza di seguirne neanche uno.


«Lascia che ti spieghi come uscire da questo fastidioso impasse, Sigma.»


*


Non vuole credere di aver ceduto ed essersi lanciato in questa situazione senza un paracadute che lo salvaguardi un minimo dal fallimento totale a cui è destinato. Lui e Atsushi hanno l’abitudine di vedersi quando gli orari glielo concedono, ossia principalmente quando Sigma non ha lezioni e Atsushi è libero dal lavoro che ha scelto di fare al posto dell’università. Ne hanno parlato tanto, mentre Sigma intimamente sperava di poter condividere anche quello con Atsushi, come una piccola scialuppa di salvataggio da avere sempre al proprio fianco - ma ha capito, alla fine, che non sarebbe stato il percorso giusto per Atsushi e che era stato fortunato a trovare qualcosa di interessante e stimolante da fare, oltre a un datore di lavoro corretto e onesto come Fukuzawa. 


Sigma ha anche pensato che, dopotutto, lo strappo sentito al pensiero di non percorrere lo stesso percorso di Atsushi sebbene solo in parte potrebbe essere stato solo suo. Un malessere emotivo non condiviso, perché in fondo Atsushi non ha bisogno di lui quanto è invece vero il contrario.


Si vedono spesso, quando possono, e forse per questo Sigma ha quasi l’assoluta certezza che se non dirà niente questa potrà passare come un’uscita tra le tante, un incontro non così diverso da qualsiasi altro. Atsushi lo raggiunge con qualche minuto di ritardo e a Sigma non potrebbe importare meno, quando il nodo del nervosismo si scioglie con una facilità imbarazzante al vedere l’altro. Atsushi lo fa sentire a suo agio, lo fa sentire giusto, un pezzo perfetto che non è mai stato. E’ come avere un posto assicurato, un’origine a cui appartenere e non c’è cosa più difficile da trovare per chi è senza radici e senza nessun ricordo ad aiutare a cercarne da qualche parte, fosse anche per tutta la vita.


Lui e Atsushi hanno superato da diversi anni lo scoglio di un contatto fisico più presente di quanto di norma potrebbe esserlo tra due amici. Forse perché il loro avvicinamento è avvenuto da giovani, è risultato naturale e ora non c’è nessuna forma di fastidio o di disagio nel toccarsi in modo casuale, nel far sentire all’altro la propria presenza non solo con le parole. Sarebbe perfetto se Sigma non avesse una piccola voce nella testa che urla e si agita ogni volta che la mano di Atsushi sfiora la sua mentre camminano fianco a fianco, come ora. Gogol dice che è bastato vederli insieme una volta per capire subito di non star guardando due amici d’infanzia. Il pensiero di essere così facile da capire, di lasciare i propri sentimenti così privati e preziosi alla mercé di chiunque è qualcosa che invece spaventa Sigma da morire.


La mano di Atsushi si posa sul suo avambraccio mentre i suoi piedi si fermano e una leggera pressione lo obbliga a fare lo stesso. Quando alza lo sguardo su di lui, confuso e sorpreso, Sigma trova la traccia evidente della preoccupazione e il senso di colpa gli serpeggia in corpo da subito, da prima ancora che Atsushi pronunci quel «Cosa c’è che non va?» di chi non deve chiedere se c’è qualcosa, perché sono oltre la fase in cui hanno bisogno di parlare per capirsi. Gli fa venire in mente quando i primi anni insieme in orfanotrofio hanno imparato a fidarsi l’uno dell’altro, ciecamente, tanto da potersi promettere di esserci sempre. Di voler far parte della vita altrui, non importa in quale forma. Se Sigma fosse più coraggioso si aggrapperebbe a queste parole e le renderebbe la propria armatura, indossandola così da poter dire ad Atsushi la verità senza paura di oltrepassare un limite, di raggiungere un punto di non ritorno oltre il quale esiste solo il rischio di perdere la persona più importante di tutte.


Lo sa bene di essere un codardo, Gogol glielo ha detto senza mezzi termini e senza alcun riguardo per il tatto: preferisce trincerarsi dietro l’amicizia di una vita pur di non rischiare il tutto per tutto e provare a ottenere quello che in cuor suo non ha smesso di desiderare da anni. Ma la figura di Atsushi è qualcosa a cui non sa se sarebbe mai in grado di rinunciare senza perdersi completamente, senza tornare a quando era una presenza casuale a cui nessuno sapeva spiegare perché fosse lì.


Sigma non è abituato a essere voluto, desiderato. E questo gli impedisce di capire come potrebbe essere mai possibile che qualcuno - che Atsushi - possa avere per lui sentimenti del genere.


«Gogol dice–» prova a cominciare, sorprendendo se stesso e non perdendosi l’espressione infastidita, anche se fugace, che si forma sul volto di Atsushi. Non vanno molto d’accordo lui e Gogol, sebbene si siano incontrati non più di una manciata scarsa di volte. Sigma non ha mai indagato e Atsushi non gli ha mai detto nulla, perciò ha sempre considerato potesse essere qualcosa di impatto, senza una spiegazione logica. Ora come ora vorrebbe poter ingoiare quel nome appena pronunciato e tornare sui suoi passi.


«Mh, insomma» tenta di nuovo, portando entrambe le mani a lisciarsi il cappotto addosso, lungo i fianchi, senza che ce ne sia davvero bisogno. Un gesto di nervosismo che spera Atsushi non noterà e, al tempo stesso, è consapevole sia impossibile da non notare quando tra loro non ci sono nemmeno tre passi di distanza «questa cosa è così stupida…» mugugna infine, decidendo di ritirarsi ancora prima di aver perso la battaglia o di aver scorto sul viso dell’altro un singolo segno di fastidio, di rifiuto. Però Atsushi è un animo troppo buono, sensibile alla sofferenza degli altri più di quanto lo sia verso la propria, per lasciarlo lì ad affogare nei suoi pensieri bui.


Le sue mani raggiungono quelle di Sigma, per fermarle in quel vagare frenetico e solitario sulla stoffa del cappotto; lo fa con un gesto gentile, quasi conciliante, come quando erano ragazzini e non facevano altro che cercare di raccogliere i cocci delle proprie esistenze perché l’altro non ne perdesse neanche uno e, volta dopo volta (delusione dopo delusione), riuscisse a rimetterli insieme e perdersi sempre un po’ meno. Sigma ricorda vagamente - perché proprio adesso non lo saprebbe spiegare - di quando di notte faticavano a prendere sonno, e si raccontavano piccoli dettagli a vicenda. Sigma aveva insistito per cominciare e quando Atsushi gli aveva chiesto perché, aveva risposto l’unica verità che conosceva: “la direttrice dice che anche se non so da dove vengo e non ricordo chi sono, se qualcuno lo fa al posto mio non dovrò mai avere paura di perdermi ancora. E io non voglio che ti perda, Atsushi.


«Non c’è niente di stupido nei tuoi pensieri o nei tuoi sentimenti, Sigma.» gli dice Atsushi, perché lo salva continuamente, più di quanto Sigma pensi di meritare «Qualunque cosa sia, me la puoi dire.» aggiunge, incoraggiante, offrendogli un sorriso che conosce a memoria e di cui saprebbe tracciare i contorni anche a occhi chiusi. Gli è così caro da volerglielo dire con tutte le parole del mondo. Eppure è ancora la sua paura più grande, dire quella parola di troppo.


«Sarebbe… così brutto se uno come me, che non ha niente, volesse» volesse, che parola sbagliata. Può sperare, forse, chiedere ma non volere «sperasse di poter almeno… se io potessi almeno avere per te qualcosa che– sei ancora la persona più importante che ho, solo non…» 


E’ così difficile. E’ il limitare di un burrone dove non c’è risalita né modo di salvarsi una volta caduti. Ammettere di avere un sentimento potenzialmente sgradito per qualcuno - per Atsushi - è terribile.


«Solo non come un amico. Non come un fratello.» mormora nella vergogna, nel disprezzo per aver appena preso una cosa delicata, fragile e preziosa e averla calpestata con tutta la forza di cui è capace un corpo. Lo fa sentire fisicamente la persona peggiore della terra. In un istante è di nuovo un nessuno che non è stato voluto mai, forse.


Però la mano di Atsushi è ancora lì. E’ ancora sulla sua, gliela stringe piano, la prende meglio e un dito ne accarezza il dorso. Non sono più amici, non sono più fratelli, Sigma quasi lo percepisce nell’aria - ma non sa cosa sono, per scoprirlo dovrebbe alzare lo sguardo, capire se questo punto oltre il quale si è spinto contro ogni sua stessa previsione o precauzione presa anno dopo anno abbia fatto un danno irreparabile o meno.


Atsushi non lo lascia andare. Nel silenzio di un’assenza di risposta Sigma alza lo sguardo, incapace di sopportare oltre la pressione, quasi sentendo la voce di Gogol rimproverarlo nelle orecchie perché sarebbe dovuto essere diverso - conta l’atmosfera, e lo stile, dovresti scegliere un posto speciale e a quel punto…!


Incontra lo sguardo di Atsushi e, timidamente, gli stringe la mano anche lui. 

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Prompt: regalare una spilla
Missione: M3 (week 2)
Parole: 1087
Rating: gen
Warnings: missing moment




E’ una notte serena fatta di stelle e lanterne, quella in cui si muove nella strada principale piena di bancarelle. Il vociare delle persone tradisce la serenità di un popolo che ha conosciuto la guerra ed è riuscito comunque a mantenere la speranza e la voglia di condivisione. Nel cielo trapuntato di piccole luci si mescolano, nell’aria, profumi di cibi e spezie; si muovono sul ciottolato adulti e bambini, coppie e amici.


Gilbert li guarda con discrezione, non apprezzando l’invadenza di una sfera personale come una serata passata insieme alle persone amate. Gli piace, però, osservare la felicità di chi lo circonda: cammina con addosso la divisa da militare ma il mondo non si cura di lui, stasera. E’ un uomo tra tanti, come tutti gli altri, anche se a pochi passi di distanza lo segue una bambina che non ha alcun legame di sangue né famigliare con lui.


Violet lo segue come il migliore dei soldati, mantenendo una distanza equa che non diminuisce né aumenta mai. Gilbert prova a girarsi un paio di volte, a fermarsi per ritrovarla ferma a sua volta, a farle cenno di avanzare di più e affiancarlo ma senza risultati. Sia a voce sia con il linguaggio del corpo Violet ha mostrato di sapere qual è il suo posto, o almeno quello che crede essere tale. Gilbert vorrebbe dirle che può essere tante cose diverse, ha sperato di riuscire a comunicarglielo anche se non a parole - insegnandole a leggere e a scrivere ha sperato di riuscire a farla sentire più vicina agli altri ragazzi della sua età, mostrandole la bellezza di un fiore e donandole il suo nome ha pregato di poterle dare una briciola di normalità.


Ogni volta che vede la distanza tra loro, però, e soprattutto quando capisce di non sapere come accorciarla davvero… in quei momenti Gilbert sente il fallimento pesargli sulle spalle insieme al senso di colpa di non essersi opposto a suo fratello, di non aver detto un no più deciso quando lui ha spinto Violet tra le sue braccia con lo stesso scarso riguardo che si può avere per un oggetto.


Un bambino gli taglia la strada correndo dietro gli amici, si scusa frettoloso tra le risate e Gilbert non può far altro che sorridergli. Si volta aspettandosi Violet alla stessa, immutabile distanza e con sua sorpresa la trova più indietro, ferma davanti a una bancarella come ce ne sono tante altre. Si prende qualche secondo per osservarla, lì come una ragazzina normale della sua età sarebbe al suo posto, lo sguardo vivo di una curiosità e di una meraviglia che Gilbert quasi si commuove nel vedere, perché la rende così umana.


E’ così presa da non accorgersi di lui e della sua vicinanza. Ha gli occhi puntati su oggetti di non eccessivo valore, ma che Gilbert capisce perché attirino la sua attenzione. Per la prima volta da quando l’ha presa con sé, si rende conto di quanto - a discapito della guerra che sembra scorrerle nelle vene e sotto la pelle - il suo sia l’animo di una ragazza. Lì, rapita dal gioco di colori di quei piccoli gioielli illuminati dalle luci artificiali di una città in festa, appare ai suoi occhi preziosa e fragile come non è mai apparsa fino a oggi.


Per questo allunga una mano e prende la spilla che tanto l’ha rapita: un ovale di pietra preziosa, di una sfumatura di verde a cui non sa dare un nome, lui che più delle distinzioni di sfumature cromatiche sa associare i colori solo alle cose che ha conosciuto o su cui ha avuto la fortuna di poter posare lo sguardo finora ma senza alcun tecnicismo in aggiunta.


E’ come vedere Violet risvegliarsi all’improvviso: le spalle si irrigidiscono appena e lo sguardo saetta verso Gilbert, sebbene inizialmente lo faccia per seguire l’oggetto ora nelle sue mani. A lui ci vuole poco per pagare quel piccolo oggetto, non sa se ottenendo anche un piccolo prezzo di favore o meno, sorridendo con un impaccio di sottofondo quando la donna dietro la bancarella sottolinea come  un gioiello sia il regalo adatto per una ragazza anche giovane come Violet. Si sposta di qualche passo, dicendosi che è per non ostruire la vista di altri interessati alla merce ma - a conti fatti - per sfuggire all’attenzione di una donna che non vede in loro dei soldati, a discapito delle loro divise. 


Si piega leggermente sulle ginocchia, così da essere alla stessa altezza di Violet quando le allunga la spilla in un tacito invito a prenderla. Vede i suoi occhi farsi sorpresi prima e confusi poi, prima di sentirle dire di non poter accettare. Scuote la testa e la voce di Violet sparisce, perché basta così poco in una persona che è stata cresciuta come un’arma per ottenere il suo silenzio. Eppure Gilbert non vuole questo da lei, non ha bisogno di un fedele seguace; per questo non aspetta l’accettazione di un dono che potrebbe non arrivare mai ma avvicina le mani al colletto della giacca troppo grande indossata da Violet e, con una sfumatura goffa nei movimenti delle proprie dita, appunta direttamente la spilla nella stoffa.


«Grazie, Maggiore.» pronuncia Violet, dopo avergli detto di nuovo con l’innocenza di un bambino a cui è appena stata insegnata una nuova parola quanto i suoi occhi siano belli. Come se, donandole una spilla di quello stesso colore, lui le avesse fatto il regalo più grande del mondo. 


Invece lui sente il senso di colpa attanagliargli le viscere. Le ha donato una spilla, qualcosa di così semplice e impossibile da paragonare a ciò che vorrebbe darle davvero - la libertà di scegliere, la possibilità di vivere una realtà completamente diversa.


Una spilla. E’ così da Violet non riuscire anche solo a pensare di meritare un regalo, o di cosa potrebbe avere bisogno. Lei con il costante desiderio di fare ciò che un soldato deve, di saldare un debito che Gilbert non crede lei abbia mai avuto. Il contrario semmai: le deve la vita, le deve il successo di ormai diverse operazioni militari, le deve l’infanzia e l’adolescenza che mai nessuno potrà restituirle.


Vorrebbe poterle regalare un mondo intero, calpestando l’egoistico desiderio di tenerla vicina o fingendo di poter abbandonare tutto ciò che suo padre ha voluto per lui e suo fratello, tutto ciò che i Bouganvillea sono stati fino a oggi. Dimenticare un nome ed essere solo quello che Violet vedrebbe in lui: un uomo con gli occhi dello stesso colore di un gioiello illuminato da una lanterna.

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Prompt: Punto di non ritorno
Missione: M1 (week 2)
Parole: 7618
Rating: Mature
Warnings: tematiche delicate, accenni al suicidio, accenni all’uso di droghe, violenza domestica, psycho-pass!au







Ci sono pochi ricordi che Dazai ha della sua infanzia, ma sono tutti estremamente vividi. Nella maggior parte di questi la protagonista è sua madre, nell’assenza totale di un padre di cui invece non conosce nemmeno il viso. Non ha nemmeno bisogno di concentrarsi troppo, per esempio, per ricordarsi di quando aveva otto anni e sua madre lo stava portando al parco, una cosa degna solo delle occasioni speciali come un ottavo compleanno. 


Il caldo di Giugno ha costretto sua madre a indossare un vestito come non gliene vedeva da un sacco di tempo e a tirare su i capelli, anche se in casa li tiene solo sciolti; gli tiene la mano, una cosa molto materna che ultimamente fa poco, e cammina con un passo né troppo frettoloso, né troppo lento. Mentre aspettano al marciapiede che il semaforo pedonale diventi verde Dazai si guarda intorno, curioso come la maggior parte dei bambini. Uno degli edifici più grandi che si affaccia sull’incrocio ha uno schermo gigante che manda in onda le ultime notizie e un uomo in giacca e cravatta sta spiegando che un economista famoso ha appena pubblicato qualcosa di importante. 


Quando alza lo sguardo verso sua madre, Dazai la vede fissare lo schermo senza accorgersi che il semaforo a breve diventerà verde. Non la richiama per non disturbarla, e osserva il suo sguardo muoversi dallo schermo alle telecamere che si trovano proprio accanto alla luce verde ancora spenta che tiene i pedoni ordinatamente in attesa di poter attraversare. La vede modersi il labbro inferiore e assottigliare gli occhi in un modo che lui ha imparato ad associare all’irritazione, anche quando nessun’altra parte del suo corpo la tradisce nello stesso modo.


«Osamu,» lo chiama sua madre ma lui le sta già rivolgendo tutta l’attenzione di cui è capace «vedi quella cosa vicina al semaforo? Quella che sembra una telecamera?» gli domanda e Dazai lo sa, perché lo ha studiato a scuola quando fanno educazione civica. Annuisce, quindi, e le dice che serve per misurare una cosa chiamata “coefficiente di criminalità” così da sapere se qualcuno ha troppa paura e sta per fare una sciocchezza. Dazai lo sa, lo ha imparato da un libro letto di nascosto e su cui non avrebbe dovuto posare le mani prima di altri otto anni che non si tratta di paura e di sciocchezze, ma di stress e crudeltà e cose considerate crimini contro la legge. Alcuni troppo gravi per essere recuperabili.


Sua madre abbassa lo sguardo su di lui e incurva le labbra in quello che a lui sembra un sorriso, adesso, ma presto capirà essere uno stirato tentativo di trattenere una risata isterica.


«Sì, i maiali del governo lo chiamano coefficiente di criminalità,» dice sprezzante, dando un vago strattone alla sua mano quando il semaforo diventa verde e loro cominciano ad attraversare «ma è solo una trappola. Un punto di non ritorno. Tuo padre lo ha superato e ci ha abbandonati. Tu non lo devi superare mai, Osamu, hai capito? Tu non mi devi lasciare come ha fatto tuo padre.»


Forse il motivo per cui è facile per lui ricordare quel compleanno è che, dopo di quello, non ce ne sono stati altri senza quella che il Sybil System etichetta come “violenza domestica”.


*


Non vanta di essere un esperto quando si tratta di certi protocolli, ma Dazai è abbastanza sicuro sia piuttosto raro che un Ispettore decida di prendersi la briga di parlare con qualcuno per motivi diversi dal volergli estorcere informazioni. Qualcosa di cui lui è sprovvisto, non essendo stato parte di un grande piano andato male né di qualche associazione a delinquere che vuole cambiare il mondo o almeno quella piccola e ristretta sfera di esistenza che è il Giappone così come lo conoscono.


Eppure davanti a lui c’è un Ispettore. E’ giovane, sì e no di una manciata di anni più di lui, uno che non sembra granché abituato a quel lavoro ingrato per cui Dazai è convinto si causi la calvizia precoce alle persone. Ha un nome - quello con cui si è presentato, Oda Sakunosuke - che non gli dice nulla, e questo lascia intendere non si tratti di qualcuno con un record di catture né protagonista di gesta eroiche. Conosce qualche nome di Ispettori, gente di cui si è preso gioco come Kunikida Doppo e altri famosi in cui preferirebbe non imbattersi affatto, come Fukuzawa Yukichi. Oda Sakunosuke, però, no.


Gli sta seduto davanti a fissarlo e Dazai comincia a chiedersi quanto tempo ancora passeranno in silenzio a guardarsi, con un tavolo a dividerli e una sedia piuttosto scomoda per chi come lui ha addosso una veste offerta gentilmente dalla clinica di recupero in cui lo hanno rinchiuso.


Oda picchietta un paio di volte sul suo orologio perché lo schermo olografico gli mostri quelli che, con ogni probabilità, sono i dati personali di Dazai accompagnati da qualche riassunto molto schematico del perché si trova lì. Potrebbe quasi recitarlo a memoria, quel report elettronico - e non solo perché lo ha fatto effettivamente hackerare una volta, sia chiaro - ma decide di attendere ancora. Dopotutto, al contrario di Oda e dei suoi casi di certo noiosi ma necessari alla gavetta, Dazai non ha molto di meglio da fare che tornare alla seduta con uno psicologo a cui nessuno ha spiegato che non per tutte le follie esiste rimedio.


Quando finalmente l’Ispettore instaura di nuovo un contatto visivo con lui la prima domanda che gli fa è: «Perché uno della tua età e con un punteggio così alto nella graduatoria del Sybil System arriva a un passo dall’essere un criminale latente da esecuzione?»


Dazai gli scoppia a ridere in faccia.


*


Una teoria interessante che non si sa quanto sia farina di uno studioso e quanto, invece, un passaparola su internet divenuto nozione sostiene che ogni persona passa tre fasi nei suoi rapporti con i genitori. Durante l’infanzia li considera eroi con tutte le risposte, nell’adolescenza l’istinto di ribellione vince sul buon senso e trasforma i genitori in persone che non capiranno mai e infine, da adulti, si rimpiange di non aver ascoltato di più i loro consigli o di non essrsi messi di più nei loro panni.


Si imbatte in questa teoria per puro caso, leggendola in un blog online quando l’estate con le sue giornate più lunghe sta prendendo piede e mancano una manciata di ore alla fine del suo quattordicesimo compleanno. Il posto non è il locale migliore in cui uno della sua età possa andare - ha capito quasi subito di non poter cercare la pulizia nei bassifondi della città più di quanto possa cercarci la legalità.


Per la media il bar Lupin è una reggia. Ci si è infilato per caso ma ci è tornato per scelta; il padrone è un uomo, Hirotsu, che sembra aver vissuto già troppe vite per farsi fregare da questa. Finché Dazai non gli crea problemi non ha ragione di mandarlo via - ogni tanto prova a chiedergli quando studia, se passa lì la maggior parte del suo tempo quando non può neanche fare nessuna delle attività principali del locale: bere alcolici, rimorchiare qualcuno da portare sul retro o fare affati che vanno dallo scambio di informazioni a quello di cose molto meno legali. Così Dazai ha cominciato a portarsi dietro qualcosa da leggere, sempre.


Il giorno in cui trova questa teoria il bar Lupin è semivuoto, perché di recente il bureau con i suoi Ispettori e i loro cani da guardia si è fatto vedere nei paraggi, e in casi come questo sono pochi a voler scherzare col fuoco facendo affari illegali nel posto sbagliato. La luce soffusa e il legno scuro, anche se rovinato, fanno sembrare l’ambiente più caldo di quanto sia in realtà. Una volta, tanto per riempire il silenzio, Hirotsu gli ha detto che se il locale fosse stato dalla “parte giusta”, di certo avrebbe messo uno dei giradischi che andavano una volta e che ora sono pezzi di antiquariato per chi ha troppi soldi e pochi modi di spenderli.


Nel locale, però, risuona la musica di un lettore elettronico che di romantico ha ben poco.


Ci sono poche persone oltre lui e Hirotsu: un ragazzo giovane, anche se più grande di lui, con un taglio di capelli discutibile e degli occhiali da sole con cui Dazai non ha idea di come si possa vedere in un posto poco illuminato come quello. Se ne sta al bancone a blaterare fin troppo, se con Hirotsu o da solo non ne è sicuro. In un angolo della piccola sala c’è un uomo che Dazai vede spesso, capelli lunghi e lineamenti non del tutto giapponesi, perennemente vestito come se fuori facessero cinque gradi anche in piena estate. E’ un eccentrico con cui ha scambiato un paio di sguardi prima di decidere di tenersene alla larga. L’unica di cui si sia sforzato di ricordare il nome è la ragazza che sta uscendo, capelli rossi raccolti e abiti tradizionali che stonerebbero persino in città nei quartieri ricchi, figurarsi lì nella bassa periferia. Ozaki Kouyou. La prima volta che si sono incontrati gli ha rivolto un sorriso al saccarosio che non le ha mai raggiunto lo sguardo.


Dazai tende a non fidarsi di chi riesce a tenere lo sguardo gelido mentre sorride, specialmente se sono donne. Lo fa anche sua madre, prima di avere una crisi.


«Ragazzino!» lo chiama il tizio con gli occhiali tremendi dal bancone, mentre in poco più di un soffio Hirotsu lo ammonisce di lasciarlo leggere in pace. Quello sventola una mano, pronunciando una frase sulla linea di “e non lo mangio mica, Hirotsu-san!” prima di rivolgersi di nuovo a lui e fargli cenno di avvicinarsi. Dazai soppesa l’idea e decide di scuotere la testa. Soddisfatto, Hirotsu gli fa un cenno con il capo prima di dirgli: «Aspetta lì, ti porto qualcosa.»


Il rumore del minifrigo che Dazai sa essere subito sotto il bancone, leggermente sulla destra, è coperto quasi del tutto da quello della porta e dal lieve scampanellio che dà l’illusione di star entrando in un localino quasi di classe, frequentato da gente per bene. Dazai sposta lo sguardo dal blog che stava leggendo per vedere un uomo che così, d’impatto, gli ricorda suo padre per come lo ha conosciuto dai racconti. Uno di quelli da cui sua madre lo ha messo in guardia decine, centinaia di volte: quelli che a un certo punto impazziscono, ed è meglio lo facciano, perché quando non succede allora ti ammazzano nel sonno come tuo padre ha fatto con la puttana che si portava al letto.


Hirotsu gli si rivolge chiamandolo “Mori-san” ma, per quanto ne sa Dazai, potrebbe anche essere un nome falso. Ha un sorriso affabile sulle labbra come potrebbe averlo il tuo medico di fiducia, mentre passa accanto al tavolo dove se ne sta Dazai e gli lancia niente più di uno sguardo; si ferma solo perché Occhiali Brutti lo richiama di nuovo con un «Ragazzino scorbutico!» e Dazai aggrotta la fronte, fa schioccare la lingua contro il palato con fare seccato e porta lo sguardo su di lui solo per dirgli «Lasciami stare, Scodella.» 


Essere saccenti non è furbo. Questo Dazai non lo ha ancora imparato perché con sua madre non c’è ancora furbizia che renda le cose migliori se non aspettare si sia sfogata e si sia fatta passare la crisi di nervi. O che abbia preso le pasticche con cui, onestamente, Dazai non sa se finirà con il guarire o con il farsi uccidere visto che non ha idea di dove le prenda né da chi. Se siano una medicina o qualcosa di cui non conosce ancora il nome, nonostante la sua non sia l’infanzia di un ragazzino a cui è permesso conoscere un mondo pulito.


Prima che se ne accorga ha una pistola sotto il mento e, con la stessa velocità, Occhiali Brutti se ne ritrova una puntata alla testa da dietro il bancone. Hirotsu gli intima di non fare casini nel suo locale e Dazai per un momento pensa che se la farà sotto perché un conto è abituarsi a incassare cinghiate, un’altra è avere una pistola quasi infilata in bocca a quattordici anni. L’uomo chiamato Mori osserva la scena con l’interesse di un bambino allo zoo per la prima volta.


Il ragazzo degli occhiali gli dice «Ringrazia che Hirotsu-san ti ha preso in simpatia.» e qualcosa dentro Dazai si smuove, quasi all’improvviso avesse una bestia che può solo o divorare lui, o divorare gli altri. Non c’è niente di logico o di lucido nel modo in cui gli prende il polso e lo stringe per portarlo a tenere la pistola puntata dov’è, mentre ha la gola secca ma sente i muscoli del viso tendersi in un sorriso che è una smorfia grottesca e niente di più. Dazai avrà pure quattordici anni, che è una vita schifosamente breve, ma nessun adulto si è preso la briga di fare un cazzo per lui fino a ora e non ha bisogno di Hirotsu come eccezione alla regola.


«Sparami,» lo sfida, arrogante e saccente perché di infanzia bruciata non ce n’è mai abbastanza a quell’età e di incoscienza si è pieni «sparami un colpo in fronte, così almeno mi ammazzi di sicuro.» 


Nessuno spara, quel giorno, e Dazai impara la falla nella teoria degli adulti perché è come per le piante: se non le annaffi, non faranno fiori. Se gli adulti non arrivano mai nemmeno a essere eroi con tutte le risposte, non può esserci nessuna seconda fase né una terza.


*


L’Ispettore Oda si presenta più di una volta e in ogni occasione tenta un approccio con la conversazione. Dazai deve riconoscere una certa dedizione, qualcosa che lo rende interessante ai suoi occhi, anche se non abbastanza da dosare quell’arroganza appresa fin troppo presto ma che ha imparato almeno a rendere più sibillina in base a chi si trova di fronte. 


All’inizio Oda si presenta una volta a settimana, in genere il mercoledì. Le domande passano dall’essere di routine per un qualsiasi poliziotto nel mezzo di un’indagine a qualcosa a metà tra il personale e il professionale. Va dato atto a quest’uomo che gli siede di fronte, settimana dopo settimana e poi ogni tre giorni, che la sua pazienza sembra senza limiti. Ogni tanto Dazai ha la sensazione di essere trattato come un bambino, ma ci sono anche visite durante le quali Oda passa la maggior parte del tempo in silenzio o a fare domande degne di una riflessione filosofica sulla vita. 


«Quanti Enforcer si porta dietro, Ispettore?» Dazai gli chiede la terza settimana di visite, mentre sono lì a chiacchierare di niente di davvero utile. Oda lo occhieggia, neanche volesse indovinare il perché della domanda solo guardandolo, ma poi con tutta la tranquillità del mondo risponde: «Dipende dal lavoro.» «E oggi quanti ne hai dietro?»


Oda ci pensa un attimo, forse perché non si fida o forse perché deve decidere quanto danno può arrecare quell’informazione. Alla fin fine, però, Dazai è chiuso dentro una clinica dalla quale al momento sarebbe ben difficile uscire, non senza un più che discreto dispendio di energie. E per quanto lo riguarda, non c’è niente di troppo entusiasmante ad aspettarlo fuori - niente di tanto interessante come quello che c’è dentro.


«Uno solo, in macchina.»


Dazai lo guarda e potrebbe scoppiare di nuovo a ridergli in faccia, oppure potrebbe dire all’Ispettore di non sottovalutarlo, visto che è quasi un criminale latente senza speranza di cui il mondo cerca di occuparsi senza sapere se avrà successo o meno. Però non lo fa.


«Com’è che ti chiami di nome, Ispettore?»
«Sakunosuke.»
«Oda Sakunosuke.» ripete Dazai, occhieggiandolo mentre si poggia contro lo schienale della sedia e incrocia le braccia dietro la testa, come un ragazzino distratto che a scuola vuole dondolarsi avanti e indietro per far passare più in fretta il tempo di una noiosa lezione: «Da quanto fai l’Ispettore? Un mese? Un anno?» lo provoca, perché nella sua esperienza non ce ne sono di così pronti a fidarsi del prossimo o a prendersi a cuore casi disperati.


«Due anni e mezzo.» replica. Giovane, pensa Dazai, considerando che a occhio e croce non pensa abbiano questa grande differenza di età. Non ha grande importanza, ma è abbastanza interessante da farlo tornare a sedersi composto. Poggia le braccia sul tavolo freddo e il mento sopra di esse, l’occhio non coperto dalla benda a scrutare l’uomo davanti a lui.


«E come mai sei diventato Ispettore? Per sconfiggere il crimine? Salvare le persone? O perché il Sybil System ti ha detto che dovevi fare questo lavoro?»


Oda Sakunosuke non cade mai in nessuna trappola. Ogni goccia di arroganza e provocazione che Dazai versa per lui non viene mai bevuta e la risposta è sempre di una calma quasi innaturale. Un occhio poco attento, un suo qualsiasi coetaneo ad esempio, potrebbe persino pensare che l’Ispettore non sia troppo sveglio ma Dazai è sopravvissuto a Mori Ougai. Non ha bisogno di vedere in un uomo il fuoco della violenza per sapere che non è un imbecille.


«Per salvare le persone,» replica Oda, in un’inaspettata sincerità, tutto considerato «e il Sybil System aveva registrato un punteggio alto abbastanza. Non quanto il tuo, comunque.»


Ah, gli si forma subito un pensiero in testa e un mezzo sogghigno sulle labbra, allora risponde alle provocazioni, se vuole.


«Il Sybil System dice tante cose, Ispettore. Dice anche che devo stare in una clinica a parlare con uno psicologo che probabilmente farò impazzire entro un mese, perché così potrò stare bene ed essere reintegrato nella società. Ma lo sappiamo tutti come finisce, giusto? Quante persone ha visto entrare in un posto come questo e uscirne? E se sono usciti, quanti sono diventati un apporto alla società?» lo interroga, a ruoli invertiti in un gioco mentale che non è ancora sicuro l’Ispettore abbia deciso di accettare per quello che è. Per Dazai, è un modo interessante di passare il tempo. Non è sicuro per Oda possa essere più di uno spreco di tempo.


L’uomo di fronte a lui resta in silenzio, lo scruta prima di cominciare a sbottonare i polsini della camicia e ad arrotolare le maniche, scoprendo gli avambracci.


«Una buona percentuale.»
«Oh, una buona percentuale. Va bene, allora diciamo la metà? Un cinquanta per cento. Sei bravo in matematica, Ispettore?»
«Andavo meglio nelle materie umanistiche.» è la risposta schietta di Oda, con la faccia di chi ha tacitamente detestato i numeri per molto tempo. A Dazai scappa d’istinto uno sbuffo divertito, un accenno di risata quasi sincera. 


«Va bene, io non sono ancora diplomato, possiamo fare il conto insieme.» dice, con una mezza scrollata di spalle per quanto la posizione permetta: «Prendiamo questa metà. Togli tutti quelli che sono usciti e ci sono ricaduti. Forse ne rimane un numero abbastanza alto, dicono che qui la riabilitazione funziona bene. Da questo numero ancora alto togli quelli che non sono riusciti a fare un lavoro non da casa. O quelli che, se escono, non possono fare più di un chilometro di strada.» specifica, tirandosi leggermente su con la testa e puntellando un gomito, così da potersi sorreggere il volto con la mano. Oda lo guarda ma non proferisce parola, e Dazai se lo aspettava che l’Ispettore volesse prima vedere dove stesse andando a parare.


«Adesso sta rimanendo una percentuale più bassa di quella da cui abbiamo iniziato. Di queste persone che dovrebbero essere tornate perfettamente nella società, come dici tu, togli tutte le categorie che adesso ti elenco, va bene?» propone, ma non aspetta alcuna risposta per cominciare a sciorinare casistiche: «Persone che non hanno avuto figli per scelta. Persone che prendono psicofarmaci. Persone che non hanno ancora concluso il percorso con uno specialista. Persone che fanno un lavoro dietro le quinte. Persone che non hanno una relazione stabile. Poi escludi anche tutte quelle che sono diventate vittime di abusi di qualche tipo, soprattutto domestico, o che in generale tendono a essere soggette a pressione psicologica da un superiore o a ricoprire posizioni di poco conto nel loro lavoro. Togli tutte quelle che non hanno un animale domestico. Approssimativamente.»


Tocca a lui studiare Oda e lo fa per un minuto intero in cui nessuno dei due dice nulla. L’uomo forse aspetta la conclusione di quello che somiglia più a un monologo o a un ragionamento ad alta voce in cui non è davvero richiesto il suo contributo; Dazai aspetta di vedere sul suo viso il segno di chi, anche solo per riflesso, ha appena fatto mentalmente il calcolo che gli è stato richiesto. Quando scorge quel piccolo segno, facile da scambiare per una ruga di espressione, cambia di nuovo posizione: la schiena contro la sedia, un braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro poggiato sul tavolo.


«Il numero rimasto sarebbero le persone “reintegrate nella società”.» dice, mimando le virgolette con una sola mano «Pensa di essere sopra o sotto il 5%, Ispettore?»


Il silenzio di Oda è una risposta: sotto.


«Bene, siamo d’accordo!» esclama con falsa allegria, senza la minima traccia di entusiasmo genuino nello sguardo «Il Sybil System la riempie di stronzate. Ma gioisca! Ci riempie di stronzate tutti quanti.»


*


Il giorno in cui sua madre perde definitivamente il controllo per la prima volta è lo stesso in cui Mori lo avvicina con più di uno sguardo buttato lì mentre entra al bar Lupin. E’ una giornata invernale dei suoi sedici anni e sono già cambiate tante cose: all’interno del locale è almeno un anno che il tizio sempre vestito pesante anche in estate - Rimbaud - non si vede più. Dazai non lo sa per certo, ma non fatica a immaginare sia morto in qualche vicolo. Occhiali Brutti, che in un momento imprecisato ha cominciato a chiamare col suo nome (Kajii), va e viene ma molto più raramente di prima. Qualche nuova faccia si vede arrivare e andare nel retro del locale sempre in buona compagnia, donne o uomini. Qualcuno prova a portare della porcheria da svendere, ma Hirotsu è stato chiaro: non saranno nella parte rispettabile della città, ma droga nel suo locale non la vuole, poco importa di quale qualità sia.


Mori gli ha rivolto poche parole e molti sguardi, non troppo lunghi, ma Dazai sopravvive da tre anni nei vicoli fatti di malavita e disperazione, di avanzi di galera non degni nemmeno di avere gli occhi del Sybil System su di loro. Dazai non è mai stato portato sul retro da nessuno, anche se qualcuno ci ha provato; a un certo punto Hirotsu ha deciso che poteva lasciarlo a cavarsela da solo, ma sospetta l’uomo tenga la pistola a portata di mano lo stesso e che gli anni possono passare ma né la sua velocità né la sua mira ne soffriranno mai granché.


Poi un giorno Dazai entra dalla porta principale come sempre e trova Mori al bancone, una cosa che accade spesso. Tutto il resto però è una prima volta: il modo in cui Hirotsu sgrana gli occhi quando lo vede e impreca sotto voce, aggirando velocemente il bancone; come chiama a gran voce “Chuuya”, con sommo fastidio di Dazai - davvero, non ha voglia di sentirsi urlare nelle orecchie dalla persona con cui è meno compatibile sulla faccia della terra. E poi Hirotsu lo sta sostenendo, braccia sotto le ascelle e Mori appare dal nulla alle sue spalle. 


«Hirotsu-san, sul divanetto.» dà precise istruzioni, come il medico che si suppone sia. Dazai non ha mai capito se si tratti di qualcuno che è stato un dottore e poi è passato dal lato sbagliato, se sia sempre stato medico di chi i dottori d’élite non può permetterseli o se sia un ciarlatano con qualche nozione di primo soccorso. Poco importa a lui nello specifico, visto che non ha ferite mortali a discapito di quanto appaia malmenato.


Sputa fuori una mezza risata strozzata quando Hirotsu lo fa sedere e quello gli causa una fitta al fianco: «Hirotsu-san, avevi detto di essere un gentiluomo.» «Non è il momento, Dazai-kun.» lo rimprovera l’altro, ma il suo tocco si fa più gentile. Non dura molto, comunque, perché Mori prende in mano la situazione e Dazai deve ammettere che si aspettava un modo di fare molto più rude. Mori invece si lega con gesti veloci i capelli in un codino e poi lo spoglia senza troppi preamboli della maglietta che ha addosso, dando a Hirotsu ordini precisi su cosa portargli - acqua calda, asciugamani puliti e qualcosa che Dazai si perde nel rumore fastidioso che sente nelle orecchie. Il mobile del soggiorno non deve essere stato molto gentile con lui quando ci è finito contro.


Ci vogliono venti minuti perché il taglio sulla testa smetta di sanguinare e venga medicato per bene, perché Mori riconosca una costola incrinata e se ne occupi con una medicazione perfetta quanto quelle di un qualsiasi ospedale riconosciuto dal governo. Dazai porta una mano al viso, incontrando il bendaggio che gli copre un occhio e mettendo più o meno a fuoco quello delle braccia. Non azzarda a muovere troppo il busto, immaginandosi la fitta di dolore che potrebbe sentire.


Tossicchia, piano, ed è già sufficiente così.


«E dire che odio il dolore…» borbotta, convinto di essere stato lasciato a riposare ma sentendosi rispondere invece: «Interessante affermazione, Dazai-kun.»


Alza di poco la testa dal divanetto dove Hirotsu lo ha sistemato e riesce a inquadrare la figura di Mori, occupato a sistemare i suoi strumenti da lavoro nella borsa da medico che si porta sempre dietro. Ha ancora i capelli legati in un codino e il solito camice addosso. Lo sguardo che gli rivolge a Dazai non piace per niente: sembra quello di chi potrebbe ucciderlo in un secondo con un bisturi.


«Dico sempre cose interessanti, Mori-san.»
«Di certo non si incontra tutti i giorni un quattordicenne che sfida qualcuno che gli sta puntando una pistola contro. Né uno pronto a chiedere di essere ucciso.» fa notare Mori, divertito come un bambino di fronte a un’intera busta di caramelle tra cui ha solo l’imbarazzo della scelta. Dazai lo scruta, cercando di capire quanto sia consigliato interagire a lungo con un uomo così. Perché a un medico basta uno sguardo per capire la natura di alcuni segni su un corpo, e un medico abituato a destreggiarsi tra pazienti senza speranza o che assumono sostanze peggiori della droga per sopperire all’impossibilità di farsi curare legalmente è ancora più acuto.


«Kajii non avrebbe mai sparato davvero.» dissimula con un sorrisetto e un tentativo di scrollare le spalle «Mi ha illuso e abbandonato, Hirotsu-san dovrebbe smettere di farlo entrare qui.» si lamenta per una morte richiesta e mai concessa, quasi parlasse di una merenda saltata. Mori non dice nulla, finendo di pulire l’ultimo strumento prima di riporlo nella propria borsa e quando lo guarda, c’è un vivo interesse nel suo sguardo.


«Mi incuriosisce tutto questo tuo desiderio di morire, Dazai-kun. Forse non avrei dovuto curarti?» chiede con sincero interesse, una bestemmia sulle labbra di chi giura di fare il possibile e l’impossibile per salvare la vita chiunque vada da lui in cerca di aiuto.


Non sa perché, ma quello è il momento in cui ha la sensazione che Mori sappia più di quanto dovrebbe, più di Hirotsu, più di quanto Dazai possa accettare da chiunque - gli occhi di Mori vedono i suoi bendaggi e non vedono una rissa, né le conseguenze di azioni illegali di un ragazzino che gioca a fare l’adulto. 


Mori vede ogni singolo colpo di sua madre, vede la vergogna, vede un mondo incrinato e vede la trasformazione di una donna anche se indirettamente.


«Quando morirò, sarà qualcosa di veloce e indolore, sensei. Questo era solo un passo verso un punto.»


Dazai ha pochi ricordi della sua infanzia, ma tutti vividi: lui e sua madre chiusi nel loro piccolo appartamento nell’inverno di cinque anni fa e lei che ride e piange, piange e ride, poi gli dice non devi mai superare il punto di non ritorno, Osamu. Non devi abbandonarmi. Se mi lasci come tuo padre, ti ammazzo.


*


Non ci vuole un esperto del comportamento per sapere che il suo modo di portare Oda a presentarsi alla clinica è subdolo: sgattaiolare come avrebbe potuto fare altre mille volte, eludere la sorveglianza e gli infermieri, arrivare fino al tetto e mettersi dall’altra parte del parapetto minacciando di buttarsi di sotto se non potrà vedere l’Ispettore Oda è veramente da bastardi. Un vero peccato che Dazai non abbia scrupoli da offrire a chi lo etichetta come tale.


Immancabile come un cavaliere senza macchia e senza paura, Oda si presenta in poco tempo considerata l’assenza di preavviso di un matto che chiede di lui un attimo prima di lanciarsi dal decimo piano. Una morte veloce ma con alto rischio di non morire affatto e di distruggersi quasi tutte le ossa del corpo, con un po’ di fortuna - o sfortuna, dipende dai punti di vista. 


Dazai si sente chiamare mentre ha lo sguardo rivolto al tramonto e riconosce la voce senza difficoltà, dopo così tante ore a parlare di fin troppi argomenti rispetto a quanti di norma siano concessi a un Ispettore e un criminale latente. Volta la testa, cerca la figura di Oda da sopra la spalla.


«Ispettore!» lo saluta cantilenando «Non ti fidare di quello che dicono, non mi sarei davvero buttato. Ma sai come sono qui, con questa fissazione di dovermi per forza curare e salvare e bla bla bla.» commenta annoiato, oscillando avanti e indietro con solo le mani a tenerlo ancorato al parapetto. Gli unici due infermieri presenti fanno un sobbalzo, non sapendo se avanzare per afferrarlo o stare fermi per non rischiare che si butti sul serio. Oda rimane immobile, forse soppesando se Dazai voglia davvero lanciarsi o se sia solo un bluff. La difficoltà purtroppo deve stare nel fatto che, senza dubbio, nel file che lo riguarda deve esserci scritto delle sue tendenze suicide. Anche se quasi nessuna di questa è supportata da prove.


«Pensavo volessi parlarmi?»
«Pin pon! Esatto!» replica Dazai soddisfatto, occhieggiando gli infermieri «Ma è una chiacchierata privata, Ispettore.» aggiunge, in un invito a liberarsi degli altri due. Non c’è niente che non possa dire anche davanti a loro, a dire il vero, ma non sa mai se l’operatore sanitario davanti a lui può essere una conoscenza di Mori o meno e non vuole davvero prendersi il rischio ora e in una clinica dove potrebbero persino drogarlo. Oda capisce senza bisogno di ulteriori parole e fa un cenno agli infermieri di lasciarli da soli; Dazai rimane comunque dal suo lato del tetto, quasi a stabilire bene i confini e il suo posto sicuro su un cornicione.


Quando gli infermieri sono via, Oda lo osserva senza muoversi. Si deve aspettare qualcosa, un’epifania sul perché Dazai lo abbia fatto chiamare con questo stratagemma di cattivo gusto. Però Dazai non ha nulla di così sensazionale da offrire.


«Ispettore, i tuoi superiori ti permettono di perdere ancora tempo con me, quindi mi chiedevo: perché continui a venire quasi tutti i giorni? Non sono parte di un’indagine, non ci sono accuse di crimini a mie spese, solo un coefficiente troppo alto per una persona normale ma non abbastanza alto da farmi esplodere in mezzo alla strada, giusto?» chiede, non tanto per provocare stavolta, ma perché anche i giochi più divertenti alla lunga stancano e annoiano. Si vedono da più di due mesi ormai, settimane dopo settimane e giorni dopo giorni senza che ci sia una svolta di nessun tipo né nelle domande di Oda, né nel coefficiente di Dazai. Lo psicologo continua a cercare di tirargli fuori storie di traumi che lo facciano finalmente sfogare in un pianto liberatorio che non arriverà mai e Dazai ormai è stufo di continuare a prendersi gioco di quel povero uomo. Glielo rende troppo facile.


«Non ci sarà alcun bisogno di farti esplodere,» pronuncia Oda e la cosa grave è che ci crede sul serio «è per questo che ti hanno portato qui. Perché è una situazione recuperabile.» 


Se fossero solo parole per dargli speranza, Dazai in un certo senso la prenderebbe con filosofia. Davanti a lui c’è un impiegato del bureau, a cui hanno affibbiato un incarico tedioso che di sicuro nessun superiore voleva gestire, e cos’altro ci si può aspettare che dica se non le frasi fatte da copertina di giornale? Non ci sarebbe niente di inaspettato, un dialogo da manuale del buon poliziotto. Invece Oda Sakunosuke crede fermamente in quello che dice, come la peggior specie di Ispettore di cui si può incrociare la strada - quelli che pensano di star facendo del bene, di agire per il meglio, di poter salvare tutti o almeno la maggior parte delle persone. Quelli con abbastanza fortuna da restare vivi perché il Dominator gli permette di polverizzare un’altra persona in un secondo netto, quello necessario a premere il grilletto, se hanno abbastanza fegato per ignorare di star uccidendo qualcuno. Se sono abbastanza bravi da raccontarsi la favola che è necessario.


Se Dazai non avesse l’assoluta certezza del fatto che Oda deve aver letto il suo fascicolo almeno dieci volte, in tutte quelle settimane di dialoghi, se ne farebbe una ragione in una manciata di secondi. Farebbe spallucce, direbbe due bugie e una mezza verità per farlo contento, poi lo lascerebbe andarsene a casa sua tranquillo di aver fatto anche per oggi la sua parte. Ma Dazai sa che Oda conosce la sua situazione meglio di come potrebbe conoscere il libro preferito, letto così tante volte da aver consumato i bordi delle pagine. 


Abbassa lo sguardo verso il suolo, troppi piani più in basso rispetto al cornicione dove se ne sta meglio di un funambolo in attesa che lo spettacolo inizi; vede una macchina scura e due uomini in completo nero che non fatica a riconoscere come Enforcer. Uno dei due gli sta puntando contro un Dominator, ma Dazai non ha bisogno di fare domande per sapere che al momento se anche gli sparassero non esploderebbe in mille pezzetti di carne. 


Perciò Dazai ride: una risata contenuta, perché non vuole sembrare il cattivo di un film d’epoca, con l’ilarità malvagia e megalomane a uscirgli di bocca. Ma se la fa sfuggire tra le labbra, la lascia risuonare nell’aria così che attiri l’attenzione di Oda e lo faccia dubitare di aver appena fatto l’errore più grande di tutti.


«Andiamo, Ispettore Oda,» pronuncia dopo essersi girato abbastanza da poterlo guardare meglio di quanto farebbe da sopra la propria spalla ma senza dare la falsa speranza di voler tornare al sicuro sul tetto della clinica «lo sappiamo tutti e due che hai il mio fascicolo in quell’orologio di ultima generazione dove voi del bureau vi passate tutte le informazioni necessarie. Devo davvero dirti io perché sei qui?» lo interroga con fare scettico, e Oda lo guarda come Hirotsu lo ha guardato la prima volta che Dazai è entrato nel suo locale pieno di lividi, o come lo ha accolto la sua insegnante quando ancora si prendeva la briga di recarsi a scuola. Come lo ha guardato sua madre prima di impazzire dicendogli che è la copia sputata di suo padre. 


«Il Sybil System dice che sono adatto a fare l’Ispettore, vero? Il punteggio più alto tra i miei coetanei degli ultimi, non so, diciamo cinque anni. Però purtroppo per il Sybil sono come una mina vagante che sarebbe ideale esplodesse nel momento e nel posto giusto. E quindi serve qualcuno a controllarmi. Perciò sono qui dentro a cercare di abbassare un coefficiente di criminalità che non si abbasserà mai e lo sappiamo tutti: io e voi.» mette in chiaro, abbandonando i sottintesi e le strategie. Sono divertenti con persone come Nakahara, pronto a sbraitare e saltarti al collo appena dici qualcosa che lo infastidisce - e nel caso di Dazai, davvero, basta così poco - ma non con gente come Oda.


«Ci sono Ispettori messi di fronte a scene del crimine che farebbero alzare il coefficiente di chiunque, anche se ci fanno lavorare con gli Enforcer nella speranza di preservarci meglio.» Oda dice a chiare lettere ciò che diversi del bureau non direbbero mai. Gli fa onore, ma Dazai dell’onore di un uomo non se ne fa niente. 


«Non devi per forza diventare quel tipo di criminale latente che non ha più modo di tornare indietro.»


Ah, che fastidio, è il primo pensiero che si forma nella sua mente. Sa bene che secondo il termine specifico lui è già un criminale latente, ma capisce a cosa Oda si sta riferendo: un conto è essere ancora entro la soglia recuperabile, quella in cui si trova adesso, un altro è superarla e avere a quel punto la certezza di non poterci più fare nulla se non sperare di non essere sotto il mirino di un Dominator. Gli si smuove qualcosa dentro proprio come quando aveva quattordici anni e Kajii gli stava puntando una pistola contro.


«Avevo otto anni quando mia madre mi ha detto di non andare oltre quello che chiamava il punto di non ritorno.» comincia a raccontarglielo neanche fosse una favoletta senza troppa importanza «Quella che per voi è una soglia numerica oltre la quale merito di essere giustiziato per mia madre era un istante non meglio identificato in cui mio padre ha scelto la droga al posto di sua moglie e se ne è andato a morire in un vicolo come i topi. E così per il mio ottavo compleanno mi ha portato al parco e mi ha detto: non azzardarti a diventare come lui e a lasciarmi sola. Sembrava tenero, finché non è diventato una crisi isterica e violenta. Ma sono sicuro che lo sai, perché il governo conosce tutto di tutti, vuoi non abbia le mie cartelle cliniche? Non tutte, comunque. Posso elencarti quello che manca.» assicura, spostandosi di qualche passo verso destra e verso sinistra. Come previsto, l’orologio di Oda suona e lui apre la comunicazione.


La voce di un uomo, abbastanza giovane suppone Dazai, chiede se tutto è regolare con il soggetto che fa avanti e indietro. Gli dice “il Dominator è in modalità Paralyzer” e “lo stordiamo prima che faccia una cazzata?” ma Oda dice di no, che non c’è bisogno. Ha la faccia calma e pacata di chi sta prendendo un tè in terrazza e Dazai si chiede, in un istante di viscerale curiosità, se sappia solo bluffare molto bene o se sia proprio per questo che è un Ispettore con un punteggio alto in graduatoria. 


«Fratture, costole incrinate, devi solo domandare. Ho perso il conto delle volte in cui hai continuato a guardare la benda sull’occhio e so per certo che devi esserti chiesto, Ispettore, se fosse per mia madre o per qualcuno dei bassifondi. Ma non preoccuparti, non sono uno di quei figli tristi per essere stati picchiati, terrorizzati e poi abbandonati. Mia madre non era così forte da scegliere volutamente di restare da sola. Si è fatta una dose in vena di troppo e tanti saluti. Però non è meraviglioso? Ha delirato come se io fossi mio padre, provato anche a chiamare i numeri di emergenza. Sono arrivati, non fraintendermi. Nel nostro mondo perfetto nessuno potrebbe abbandonare una persona, nemmeno se è un rifiuto della società. Poi il Sybil System li giudicherebbe. Ma quando è morta un medico mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto “figliolo, è una tragica perdita ma la tua vita può ricominciare”. Quale compassione!» esclama, tenendosi con entrambe le mani alla ringhiera e sporgendosi indietro. Basterebbe lasciar andare per un secondo per fare un volo di dieci piani verso il suolo.


Oda fa un passo in avanti, d’istinto, e Dazai sa per certo di averlo completamente catturato. La storia del ragazzino picchiato dalla madre funziona sempre con i poliziotti, con i medici, con il mondo: diventa ai loro occhi la creatura sfortunata per cui ci vorrà un miracolo per essere reintegrata dopo una cosa simile. 


«Dire tra le righe a un figlio appena rimasto orfano “gioisci! Quel peso morto di tua madre ora non c’è più!”, non è meraviglioso? Tutti pensano che il mio coefficiente sia peggiorato a causa di mia madre, del contatto con le droghe e con la sua morte. Ma anche tu hai visto la morte, vero Ispettore? Eppure non sei a un passo dal non ritorno.» gli fa notare, allungando una mano e facendogli cenno di avvicinarsi. Ignora il vociare sotto di lui, dovuto di sicuro agli Enforcer che lo tengono sotto tiro.


Oda si avvicina, anche se lentamente. Dazai fa un piccolo gesto con la mano, lo invita in silenzio ad afferrarla. Così quando Oda è abbastanza vicino da farlo, quando le loro dita si sfiorano lui fa uno scatto veloce e stringe le proprie intorno al polso dell’altro e lo tira, con più forza di quanto chiunque si aspetterebbe forse. Se lo tira addosso approfittando dell’essere sbilanciato dell’Ispettore, lo sente sbattere contro la ringhiera che c’è tra loro.


Dazai è cresciuto più con Mori Ougai che con sua madre, da un certo punto in poi. Sa riconoscere le battaglie vinte e quelle perse. Il pareggio non esiste, per quelli come lui.


«Puntami il Dominator in fronte, Ispettore, e dimmi che numero vedi.»


Oda fa per muoversi, per allontanarsi probabilmente, ma sanno bene entrambi che se dovesse strattonare troppo potrebbe fargli perdere l’equilibrio e avere un civile sulla coscienza. Purtroppo per Oda, la sua coscienza sarà la sua rovina prima o poi e Dazai se ne è accorto dal primo momento in cui lo ha visto. Per questo dopo un tempo più breve del previsto il freddo metallo del Dominator è contro la sua fronte e Dazai sogghigna, perché sa bene cosa Oda sta per vedere.


Il coefficiente di criminalità è 298.2, risuona nelle orecchie di Oda, ma sono così vicini che lo può sentire anche lui. Solo lo 0.9 lo separa dalla soglia oltre la quale un Dominator decreta la modalità esecuzione. Così poco a lasciarlo in bilico, sospeso con un piede già oltre il punto di non ritorno verso cui sua madre lo ha sempre messo in guardia. Vede Oda assottigliare lo sguardo, la mano ferma e la luce azzurra del Dominator riflessa nei suoi occhi.


Dazai lo fissa e ride.


«Il tuo Sybil System non può salvare tutti, Ispettore.» mormora, mentre la forma del Dominator cambia contro la sua fronte mentre una voce metallica - la voce di un operatore? Quella del Sybil System? Quella di Dio? - offre un’analisi diversa: il coefficiente di criminalità è di 301.2.


Da qui non si può più tornare indietro. Così Dazai ride, lo lascia andare, si spinge indietro e cade prima che Oda possa fare l’eroe. Lo guarda, mentre la gravità lo tira giù verso l’inferno e sillaba una sola parola come ultimo messaggio verso il mondo.


Bang.


*  


Oda corre, il criminale in vista cinque metri più avanti rispetto a lui. Lo vede girare l’angolo e prima di arrivarci vicino sente un rumore sordo e poi urla di dolore. Aumenta il passo, la mente più veloce delle sue gambe mentre viene attraversata dal almeno tre protocolli contemporaneamente nel caso si ritrovasse con un ostaggio non previsto - la zona è abbastanza deserta, ma i vicoli della periferia nascondono molto più di quanto chiunque creda dalla posizione privilegiata di una vita lontana da qualsiasi fonte di stress e paura.


Quando volta l’angolo, l’immagine che gli si para davanti lo fa sospirare sollevato e rassegnato insieme: il fuggitivo è a terra, faccia contro l’asfalto, il braccio piegato in modo innaturale dietro la schiena e un Dominator puntato alla testa. 


A Oda non è mai piaciuta troppo l’idea di lavorare con gli Enforcer per come è concepita dal governo, ossia come un padrone che rilascia i cani da caccia sfruttandoli solo finché non catturano la preda, per poi rinchiuderli con la museruola stretta. A volte, però, capisce anche il motivo per cui molti dei suoi colleghi non riescono a gestire alcuni degli Enforcer messi a disposizione dal Sistema.


L’ultima aggiunta al suo team è imprevedibile, ingestibile e - parola di Kunikida - un ammasso di guai su due gambe che ha dalla sua solo una buona percentuale di criminali catturati. Questo non lo rende diverso da chi cattura, gli ha detto Kunikida la prima volta che hanno lavorato insieme. Oda è abbastanza sicuro che, potendo scegliere, per l’altro Ispettore quella sarebbe stata volentieri anche l’ultima. 


«Odasaku!» saluta entusiasta Dazai, come se non fosse seduto su un essere umano a cui sta promettendo una metaforica pallottola in testa, facendolo tremare di paura «Non crederai mai quanto facile sia far alzare il coefficiente! Guarda! Duecentoseeeei, duecentoseeeette…»


Oda lo guarda come ha fatto altre volte. C’è chi dice che funzionano insieme perché ha la pazienza di non cacciarlo dalla propria squadra, c’è chi sostiene sia troppo permissivo con lui solo perché è sentimentalmente coinvolto dal non essere riuscito a fare altro che salvarlo da uno schianto dal decimo piano, senza però fare niente per il suo coefficiente. Qualcuno nei corridoi mormora che sarebbe stato un grande Ispettore. Qualcuno che sarebbe stato pessimo. Qualcuno che sarebbe stato troppo crudele, esattamente com’è ora, quindi forse era irrecuperabile fin dall’inizio.


«Dazai.» lo richiama e lo vede sbuffare, alzare il Dominator e cominciare a lamentarsi di quanto Odasaku sia troppo buono


«Qualche giorno un criminale ti ucciderà, Odasaku. Bang! E io dovrò cercare di salvarti, perché sono stato cresciuto a pane e compassione, come potrei mai abbandonarti?» Dazai parla, parla, parla così tanto da mascherare verità in un’infinità di bugie. Però Odasaku se lo ricorda lo sguardo di un anno fa, mentre Dazai si lasciava cadere nel vuoto e pronunciava quella stessa parola, lentamente, con il chiaro intento di farsi vedere. Di farsi comprendere, forse.


Ancora oggi Odasaku, come Dazai ha preso a chiamarlo dal suo risveglio in ospedale, non sa se quella fosse una disperata, finale richiesta di aiuto a cui non ha saputo dare ascolto. Se Dazai gli abbia chiesto di farlo morire, piuttosto che lasciargli superare quel punto di non ritorno da cui sua madre voleva restasse lontano.


Se lo porterà dietro nella tomba.


Bang.

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Passato
Missione: M1 (week 1)
Parole: 2793
Rating: teen up
Warnings: linguaggio colorito, angst 




Quando ha scoperto di manipolare il Tempo Tatsuya aveva nove anni: nessuno nella sua famiglia - non quella biologica, non quella allargata - aveva mai mostrato di possedere abilità speciali, eppure in modo del tutto istintivo ha capito quasi subito di non doverlo dire troppo in giro, di doverlo trattare come un segreto. Non avrebbe iniziato ad avere manifestazioni regolari fino agli undici anni, però, e fino a quel momento sarebbe stato solo qualcosa di molto speciale di cui non fare parola per non spezzare l’incantesimo.


Con il senno di poi è abbastanza sicuro che sua madre l’abbia sempre saputo.


A tredici anni, complice aver dovuto imparare a osservare gli altri molto presto, Tatsuya ha capito di dover imparare a controllare quel potere da solo, senza nessuno a insegnarglielo. Si è aggrappato alla dolcezza di sua madre quando non riusciva a migliorare e, per il resto del tempo, ha cercato di imparare da autodidatta.


(A quattordici anni suo cugino Chihiro gli dice «Ho un super potere: non sento dolore» e Tatsuya riesce solo a essere così sollevato all’idea di non essere l’unico.)


Non si rende conto di quanto la sua mente debba essere preparata, con un potere come il suo, fino a quando non rischia di usarlo perché accecato dal dolore della perdita. A diciotto anni è quasi pronto a prendere il posto di suo padre a capo del gruppo quando sua madre viene uccisa. E’ la moglie del boss e il funerale che le spetta è affollato quanto una cazzo di sagra di paese.


Suo padre nemmeno si presenta, non la piange, a stento sembra sapere che è morta. Tatsuya passa settimane davanti alla sua lapide e desidera che sia suo padre quello morto. Per la prima volta accarezza la seducente idea di riavvolgere il tempo grazie alla sua abilità per poter salvare sua madre. Per riaverla indietro. Tornare nel passato e cambiarlo non gli ha mai fatto così gola.


(Chihiro lo porta a Kyoto quasi di peso, gli dice «Vorrei poter fare qualcosa per il tuo dolore, ma posso far sparire solo quello fisico» e anche se irrazionalmente lo odia per questo, Tatsuya capisce che deve esserci un limite per quelli come loro.)


Mancano sei giorni al suo compleanno quando suo padre lascia a lui il comando di un gruppo a cui lo ha preparato per tutta la vita. Tatsuya non è ancora neanche maggiorenne, agli occhi della società giapponese, e ha ben pochi amici perché il suo carattere non lo rende popolare. Ma capisce che suo padre sta morendo, che qualcosa di invisibile a occhio nudo lo sta consumando dentro, giorno dopo giorno. Eppure nemmeno per un istante Tatsuya pensa di riavvolgere il tempo e cambiare il passato per lui. Sente che a questo tipo di dolore può sopravvivere, mentre ancora si sente soffocare per la perdita di sua madre. Guarda suo padre e pensa ti sta bene.


(Ha questo ricordo vivido di suo padre che rimprovera sua madre di renderlo troppo gentile: «La gentilezza lo farà uccidere.» dice l’uomo dei suoi ricordi. Ha di sicuro ucciso sua madre ma lui no, Tatsuya sente di poter guardare chi detesta esalare l’ultimo respiro senza alcun dispiacere. Persino se si tratta di suo padre. Questo non lo rende gentile, lo rende un mostro. Fa di lui qualcuno adatto a essere il capo che suo padre sperava diventasse.)


Tatsuya ha cominciato a credere nel karma presto, e quasi subito ha capito che il suo sarebbe stato tremendo - troppe morti per mano sua, direttamente o per suo ordine, troppi pensieri indicibili. Troppi nemici. Guarda l’edificio del suo gruppo bruciare e sa che dentro troverà solo cadavere di uomini che sono dipesi da lui. Uomini con mogli, con figli a cui Tatsuya dovrà dare spiegazioni.


Sono passati sei anni da quando è diventato il leader di quello che adesso è un gruppo di fantasmi e, per la prima volta, riavvolge il tempo.


*


Il primo tentativo è quasi anti climatico. Si aspetta di sentire sul proprio corpo le ripercussioni di aver violato una sorta di tabù e invece non succede nulla. Davanti a lui c’è un edificio intero dove fino a poco fa c’era una torre di fuoco, il silenzio al posto delle urla. Vede ciò che non aveva visto prima, perché arrivato troppo tardi: uomini che non sono del suo gruppo, uomini che stanno per causare l’incendio che ucciderà i suoi. Non ha nemmeno bisogno di riflettere, Tatsuya, di accertarsi che siano loro perché ne ha già la certezza. Li uccide, quindi, eradica il problema alla radice. E’ convinto sia sufficiente a cambiare il passato, ma uno dei suoi lo vede da una finestra, gli urla qualcosa che Tatsuya non capisce e un attimo dopo esplode tutto: il calore gli divampa in faccia, sente l’allarme di qualcosa risuonargli nelle orecchie, l’inda d’urto lo spinge lontano e gli fa perdere l’equilibrio.


Registra a malapena di colpire qualcosa con la testa - l’asfalto, forse - prima di perdere conoscenza. Quando si risveglia non c’è più nessuno da salvare.


Di nuovo, si dice, mentre riavvolge il tempo per tornare nel passato.


*


Il suo secondo tentativo è come strappare un cerotto messo storto e cercare di rimetterlo per bene, seguendo i bordi immaginari che dovrebbero guidarti. Il passato che gli si presenta davanti è fatto dei rumori della città a cui è abituato da quando ha memoria, di un quartiere familiare come i corridoi della casa in cui è cresciuto. L’edificio del suo gruppo è intatto, le persone dentro sane e salve. Normalmente è difficile sapere il momento esatto in cui catapultarsi con la sua abilità, ma questo non significa che non sia capace di spaccare il secondo se vuole; sono necessari aggiustamenti come con una bilancia che va tarata con accuratezza, grammo dopo grammo, ma si può fare. E Tatsuya ha studiato troppo a lungo per non esserne in grado. 


Si è concesso una manciata di minuti in più rispetto al tentativo precedente, perché se non è sufficiente uccidere i colpevoli allora  significa che qualcuno, prima, deve aver posizionato esplosivi di qualche parte. O materiale infiammabile. Nella peggiore delle ipotesi, un altro ability user potrebbe essere la causa scatenante e Tatsuya ha intenzione di scovarlo meglio di come farebbe un cane rabbioso che deve cacciare per sopravvivere. 


In un certo senso, qui sta il paradosso del suo potere: sarebbe perfetto per investigare, se lui fosse dalla parte giusta della malavita, quella che lo vede come un buon poliziotto o un collaborato del governo. Sarebbe degno di un super eroe, mettere il proprio potere al servizio della comunità - gli vengono in mente almeno tre modi costruttivi con cui la sua capacità di manipolare il Tempo potrebbe risolvere casi o ottenere informazioni preziose per risolverli. Ma lui non è dalla parte della giustizia, non quella di cui si pregiano gli uomini in divisa almeno: a lui resta la giustizia personale di un codice di valori condiviso solo da chi condivide il suo mondo con lui. La moralità non può essere presa in considerazione quando sei lì ad aspettare di uccidere un uomo prima che lui uccida la tua famiglia.


Ma gli indizi si trovano, basta saperli cercare. Così Tatsuya vede movimenti sospetti e li segue, interviene, minaccia. Suo padre gli ha piantato in testa il seme dell’orgoglio e della dignità anche attraverso l’uso delle armi, quindi per quanto vorrebbe piantare una pallottola in fronte a tutti dalla sua parte ha solo armi bianche. Se sua madre avesse avuto coscienza di come suo marito insegnava al loro unico figlio a uccidere un uomo tagliandogli la gola, si sarebbe opposta con tutte le forze di una madre che vuole proteggere a costo della vita. Ma sua madre è stata tenuta all’oscuro di molte cose - forse è l’unica cosa del passato che non rimpiange, Tatsuya, l’unica bugia alla donna più importante della sua vita che è disposto a perdonarsi. Se lo avesse saputo, sarebbe morta di dolore molto prima di essere uccisa a sangue freddo.


Se non fosse stata così buona, se fosse stata più simile al mondo che suo marito ha sposato e amato più di quanto abbia fatto con lei, avrebbe potuto insegnare a Tatsuya a non fidarsi dell’illusione di ingannare la morte. Invece, ora si ritrova a impararlo nel modo peggiore.


Proprio quando crede di aver fatto tutti i cambiamenti necessari in quel passato tremendo, uno dei suoi uomini si affaccia alla finestra (ancora), gli urla qualcosa che non sente (legge il suo labbiale e sembra gli dica ‘è dentro’, ma cosa sia dentro Tatsuya non riesce a capirlo) e dopo il mondo esplode per l’ennesima volta. Le fiamme lambiscono l’edificio, arriva l’inferno in terra in una strada di Tokyo mentre le persone urlano, gli allarmi suonano, lui sta per perdere di nuovo conoscenza.


Di nuovo, si dice. Perché se il nemico è dentro, se non può fermarlo prima che faccia esplodere il mondo, allora l’unica cosa da fare è andare nelle fiamme insieme a tutti gli altri.


*


Il terzo tentativo comincia con l’odore di bruciato che quasi lo soffoca e un calore quasi insopportabile sulla pelle. Tatsuya apre gli occhi e la prima cosa che mette a fuoco sono le fiamme che divampano davanti a lui. Subito dopo, le urla concitate di chi sta cercando di salvare chiunque sia rimasto vivo all’interno prima che sia troppo tardi. E’ difficile abituarsi al fumo così velocemente, ignorare il modo in cui fa lacrimare gli occhi, ma Tatsuya non si può concedere il lusso di aspettare e così muove un passo, un altro, un altro ancora e cerca di capire da quale direzione arrivi la voce più vicina. Ignora il rumore del fuoco, gli allarmi che risuonano per le strade all’esterno, penetranti come un pugnale nella carne. 


Il corridoio in cui si trova ha solo due possibili direzioni da imboccare: una porta a un’ala chiusa dell’edificio, con una sola stanza dove esclude possa esserci qualcuno visto che è riservata alle riunioni a cui lui deve presenziare sempre, restando chiusa il resto del tempo. L’altra porta in un lungo corridoio secondario ma che ospita diverse stanze dagli usi più disparati, aprendosi su un pianerottolo le cui scale possono portare sopra - ai dormitori - o sotto, verso l’ingresso. Si muove sulla sinistra, trovando stanze aperte che gli risparmiano di avventarsi contro le porte nel tentativo di sentire qualcuno all’interno da salvare, e si sofferma invece sulle porte chiuse. Non sono molte, ma lui le colpisce quasi dovesse buttarle giù a pugni. Nessuno risponde e non sa se perché sono altrove, perché stanno cercando di scappare o se perché sono già morti.


Aprire le porte senza la certezza che siano dentro è qualcosa che nessuno che abbia gestito un incendio almeno una volta consiglierebbe mai di fare, offrire ossigeno in più e all’improvviso a fiamme che stanno già distruggendo tutto. Così non gli resta altro da fare che sperare e convincersi che se nessuno risponde, è perché è troppo tardi. 


Raggiunge il pianerottolo e sale scale di fuoco che quasi gli bruciano la pelle già solo per la vicinanza e a metà scala finalmente un segno di vita nella forma di un uomo che conosce bene. Saburou si lascia passare sul viso cinque emozioni diverse nel vederlo, ma è un uomo della vecchia leva, uno che si farebbe uccidere a sangue freddo o si sparerebbe un colpo in testa da solo piuttosto che avere una qualsiasi mancanza nel confronto del suo boss. Così mentre lo afferra per un braccio e sbraita con i polmoni già messi a dura prova dal fumo («Eri fuori, quando cazzo sei rientrato?! Devi uscire!»), mentre lo tira verso il basso e Tatsuya gli urla di rimando che deve salire e cercare i suoi uomini perché non ha intenzione di salvarsi da solo, pensa al fatto che Saburou è padre di un mocciosetto che Tatsuya ha visto nascere e crescere. Uno che ha quasi dieci anni meno di lui, che lo ha chiamato Tatsu-nii finché non è cresciuto abbastanza da assorbire tutto ciò che suo padre è e, allo stesso tempo, cosa Tatsuya è per Saburou. Quello che accetta suo malgrado di farlo salire a cercare di salvare più persone possibili è un uomo buono, con un figlio e una moglie e Tatsuya non può sostenere lo sguardo di entrambi mentre gli dice che lui non tornerà più a casa.


Per questo sale gradini su gradini, trova uomini e li guida ai piani inferiori, li fa uscire da ogni finestra o porta possibile perché meglio una caviglia fratturata che morire in un incendio come topi. 


E’ finalmente fuori, una soglia appena varcata, quando un’esplosione lo gela sul posto: non è l’edificio dietro di lui, ancora in fiamme ma in piedi, ma un’esplosione vicina. Uccide i suoi uomini che pensavano di essere salvi, uccide civili. Quasi uccide anche lui, se non fosse per Saburou che gli fa da scudo.


Mentre grida ancora più forti gli invadono le orecchie e il mondo intorno a lui va nel panico completo, Tatsuya si chiede se sia un flash prima della morte quello che ha: all’improvviso lui ha di nuovo tredici anni, nella stanza in tatami della loro abitazione, con suo padre seduto come un uomo di altri tempi in abiti tradizionali. Ha lo sguardo e lineamenti severi che Tatsuya gli ha sempre associato e lo fissa da interminabili minuti come se si aspettasse la risoluzione di un enigma dal figlio a cui vorrebbe insegnare tanto, troppo, ma che è sempre inevitabilmente mai come vorrebbe lui. Suo padre lo guarda e gli chiede: «Un gruppo nemico mette in fila dieci dei tuoi uomini per ucciderli. Puoi intervenire per proteggerli o puoi intervenire per uccidere il gruppo nemico. Cosa fai?» e Tatsuya ha tredici anni, vuole fare il pianista da grande, non macchiarsi le mani di sangue. Anche se sa che è quello che finirà col fare e il pianoforte tanto amato da sua madre finirà pieno di polvere.


Ci vuole provare però, così gli risponde: «Proteggo i miei uomini.» perché il gruppo è assoluto, ha la priorità sempre e comunque su tutto. Suo padre però lo osserva, sospira leggermente ma con così tanta rassegnazione e disapprovazione da farlo vergognare.


«No,» gli dice, come un ordine assoluto «uccidi il tuo nemico. Sai perché proteggere i tuoi uomini è una scelta sciocca?» «Ma se–» 


Suo padre non ha mai ammesso negoziazioni sulle sue verità. Mentre Saburou gli muore addosso, Tatsuya ha di nuovo tredici anni e suo padre gli dice perché non si possono mai salvare tutti, ecco perché.


*


Riavvolge il tempo una volta, due, tre. Torna nel passato e cerca di cambiarlo, ancora e ancora, perché non può accettare che il suo potere lo deluda proprio l’unica volta in cui ha bisogno che funzioni.


Non gli importa se ogni volta che lo utilizza il suo corpo cede, se la nausea lo piega in due e gli fa vomitare la bile in mezzo alle fiamme o se alla fine ci rimarrà secco o chissà cosa. Ci deve provare, anche quando una trave di fiamme quasi gli cade addosso e lo colpisce in parte sulla schiena: non è logico, non è pianificato, non ottimizza niente, non c’è più alcuna strategia valida. 


Non può dire a Yukinaga, che ha solo quattordici anni, che lui e sua madre rimarranno soli perché Tatsuya non ci ha almeno provato.


Suo padre può andare a farsi fottere e con lui le sue memorie.


*


Ci prova così tanto da perdere il conto. Ci prova così tanto eppure fallisce. Ha il vago ricordo di un ospedale e poi di un limbo da cui si convince di non uscire - quando ne esce i medici gli dicono che è stato in coma per sei mesi. Poche visite, ma regolari, di un ragazzo registrato come Asagiri. Sa che è il figlio di Saburou e se ne va prima che possa tornare.


La notte prima di essere dimesso su regolare richiesta, dopo aver impedito visite dal suo risveglio, sta sdraiato su quel letto di ospedale a fissare un soffitto anonimo. Si chiede a cosa serva poter tornare nel passato se non lo si può cambiare, se alla fine chiunque si riesce a salvare finisce con il dover morire lo stesso o addirittura si coinvolgono altri innocenti - perché la morte è una puttana che non scende a compromessi.


Guarda il soffitto e gli sembra di impazzire, mentre si ricorda di Chihiro che da bambino gli dice ho un superpotere, non sento dolore e di sua madre che gli sorride assicurandogli che la gentilezza non è una cosa brutta, solo che tuo padre vuole essere forte e lui, proprio il padre di cui non ha mai sentito la mancanza, che gli ripete in testa come un mantra non si possono salvare tutti.


Fuori spunta l’alba, senza che lui abbia potuto cambiare il passato, e si ritrova tra le mani un futuro inutile.

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Prompt: Futuro

Missione: M1 (week 1)

Parole: 1672

Rating: gen

Warnings: missing moment





It’s been a long year. Somehow this is the first thought that crossed Keito’s mind just before the graduation ceremony started and it still feels that way even now that all that’s left is taking pictures, having some kohai… he doesn’t want to think about Kanzaki’s strong reaction to Keito and Kiryu’s graduation. He can almost imagine him swinging his sword around, too emotional to avoid it.


“Aren’t you going to make your kohai sad by hiding here?” a voice asks and even though he doesn’t need to look at him to recognise it, Keito still does it. Eichi is walking slowly, taking advantage of his own pace to enjoy the view of bloomed flowers. 


For a moment, Keito wonders if Eichi ever thought of this day or if, instead, being able to graduate is a surprise to him. A miracle, even. If he has to be honest, Keito thought it would be hard on several occasions: the war. Everything after that. Eichi’s health. Words he once eavesdropped by chance.


“Are you being nostalgic, maybe?” Eichi asks him, amused. Keito lets a sigh out and slightly shakes his head; he knows that behind Eichi’s amused voice and sentences there’s always more― uncomfortable truths, unspeakable strategies, good intentions under the pretence of tyranny. After years, Keito supposes he can finally see most of the hidden things Eichi offers to those who can observe. Sometimes, though…


“Aren’t we all?” Keito asks back, an indirect ‘aren’t you too?’


Eichi lets a smile bend his lips as his blue eyes wander around, stopping on the sakura tree. In the past, Keito wondered if the symbolism of those trees, so connected to their culture and traditions, was something Eichi hated. If, from a hospital room, he ever thought of being the same― beautiful but extremely fragile, bound to die too soon after blooming. Without a future.


“I met Wataru before coming here,” Eichi says, even though that doesn’t answer Keito’s question, “he was with Yuzuru and Tori. Tori was trying so hard not to cry, it was very cute,” he adds with a small chuckle. Keito can easily imagine it. Himemiya and Kanzaki could surprisingly get along about this, in a sense. 


“And that made me think,” Eichi keeps talking, “who knows if there’s some third-year who was asked for their second button. It’s usually about confessions, but maybe some kohai or some fans?”


Keito stares at him, mentally trying to figure out if he saw something like this, quite sure he didn’t (he would have noticed if someone’s uniform was not properly worn). What’s the point of Eichi’s question is out of his understanding, at the moment. Eichi, though, doesn’t seem to mind his silence as if Keito is nothing but a quiet audience to his monologue. At least, until he stares directly at him.


“What do you want to do from now on?” “Do you mean after graduation?” Keito is not good at this. He’s made more of questions that have easy answers or, better said, rules that allow him to find the answer no matter if it’s considered too strict. It’s the best solution, the good thing to do for an achievement. Airy conversations like this are what he’s bad at, idealistic considerations nobody can completely grasp.


“I mean in the future,” Eichi replies, patiently, “I never really thought about it much until now. To be honest, it hurt to do it. So I gave myself small steps, you know? Stop the nonsense. Give this academy an order. Make it so that the business world outside would want to employ Yumenosaki’s students. Become an idol. Be the best. I couldn’t afford to think ‘ten years from now I want to be there’, after all.”


It pains him, almost physically, to hear this. Because Keito, more than anyone else, knows that what Eichi is not saying despite thinking it is that he couldn’t bear the idea of having plans for a future that wouldn’t come for him. But he managed to do everything he wanted to achieve, even more than that― not without sacrifices of all sorts, but he did. 


“So this isn’t the future you wanted?” “It is. And it isn’t, in a sense,” Eichi admits, reaching out with his hand towards Keito as if suggesting him to come closer. Keito doesn’t take his hand, for now, but closes the distance. He stays quiet, in case Eichi wants to elaborate that thought for him, doing his best to not ask. There have been― and there are probably going to be― times when Keito literally had to keep himself in control despite the frustrating feeling of not knowing everything. Now, though, he can wait for Eichi to decide if he wants to share this or not.


“I want more than this,” Eichi speaks and Keito couldn’t be more focused on someone else than he is now, “I want to see many things. Try many things. Sing more songs, see what fine can do after this academy. I want to have you by my side, not as a screenwriter but as a person. It took us a long time before our words and feelings could reach the other, after all.”  


He knows it. How hard it’s been for both of them and Keito never thought about just leaving after graduation. They didn’t really talk about it, but he believed there was no reason to. Seems like he was wrong all this time.


“I want to gamble,” Eichi says and that simple sentence catches his attention and makes him slightly frown, “A gamble?”


Eichi smiles fondly, and Keito doesn’t know what to expect anymore, especially when the other closes the distance more to the point of his hand taking Keito’s. It’s cold, he notices as he clearly focuses on the wrong thing― Eichi never was the kind of guy with warm hands to begin with, not since Keito can remember anyway. Yet, how many times have they actually held hands until now?


“A gamble,” Eichi repeats, “if my feelings can reach you, this time. After all you did to make it happen once, now it’s my turn. Since I have a future, it doesn’t matter for how long, I want to grab whatever chance is within my grasp. I have never been good with relationships and I messed up with people I could have a loyal friendship with… and this is not something I can mimic just because I saw it closely,” he adds with a small sigh, half amused and half resigned. 


Keito understands who he’s referring to, yet decides to not name him for now. He believes it’s not what Eichi is trying to say, not the main reason why he’s wearing his heart on his sleeve for once.


“I want a future where you are there. My ally, my friend, my most important person,” Eichi says and it’s so out of character of him, in a way. Yet somehow it’s also very Eichi-like― telling him something but not everything he should speak of to make him understand. To not make Keito misunderstand.


“Give me your second button,” he adds, not as an order but as a pleading.


“You are not my kohai,” Keito observes. Eichi looks at him like he wants to ask him really? This is how you are going to reply? and Keito wants to tell him that yes, this is how they are going to face whatever Eichi is throwing at him because words haven’t done them justice, not even once.


“I’m not,” Eichi concedes, “Are you a fan?” “I am,” Eichi admits, “but I’m not asking because of it. I’m not even asking. I’m confessing.”


Confessing. Eichi Tenshouin is telling him to be something for him now but, above all, in the future. With no time limit, something more than anything else they have ever been. 


“...You really are embarrassing,” Keito blurts out, because despite everything they are nothing but two highschoolers who just graduated. 


Eichi takes his hand and Keito knows he has no intention of stopping him. He wants to hold it back (he does) and wants to tell him properly that there are at least ten reasons to not give to this confession a positive reply― but he doesn’t manage to voice even one of them. Because he’s holding Eichi’s hand and he’s not denying him anything he asks for: to be with him, to be more than a screenwriter, more than a friend. 


To build a future. Keito doesn’t know of what kind, but knows that he wants it as much as Eichi. Only, he’s worst than him at saying such things.


Eichi’s smile, though, is enough. As the other comes closer, and Keito’s eyes wander everywhere, part of him wondering if this is appropriate and what if Hibiki of all the people that could witness this comes out of nowhere with his stupid doves and―


Soft lips are on his own, erasing all suspects and fears and embarrassment. It’s a clumsy kiss and that’s not surprising, all considered. But there are so many unsaid promises and maybe some apology too. It’s short and it feels too brief yet, at the same time, the way Eichi holds his hand tighter when they both look at each other once the kiss is over is something else. 


Keito breathes, noticing only now that he held his breathe during the kiss. Inexperienced and surprised. He hears Eichi thank him and wants to tell him that this is not something that deserves a ‘thank you’, but he holds it in.


There will be time to reprimand him. They have all the years that will come in the future.

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