Mar. 8th, 2018

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Tomoya ama il suo lavoro: ha studiato con entusiasmo per arrivare a poterlo fare, con i colleghi di lavoro si trova bene - Kiryu-senpai pur essendo burbero di primo impatto ha un modo tutto suo, e per lo più efficace, di rapportarsi ai bambini della loro classe. Hajime, che conosce dal liceo, è una persona che Tomoya non saprebbe immaginare a fare un mestiere diverso da quello. Certo, forse alla sua prima assunzione non si aspettava già di essere assegnato a una classe “problematica”, per così dire, ma non c’è niente di davvero impossibile da gestire.
A parte un bambino.
«Tomoya-kun?» la voce di Hajime, colma di preoccupazione e del tentativo di fargli forza, lo richiama alla realtà; se non fosse che l’amico ha già troppe cose per le mani di cui occuparsi, Tomoya quasi prenderebbe in considerazione di fingersi svenuto perché non è sicuro di avere la forza di seguire e stare al gioco del bambino che gli si è appena attaccato a una gamba.
«Ce la fai da solo?» domanda, abbozzando un sorriso che un po’ è di scuse e un po’ è una muta richiesta di aiuto inconscia; Hajime annuisce più volte, ma non ha il tempo di parlare perché una voce infantile lo fa al posto suo. Tomoya sposta lo sguardo, inquadrando Itsuki Shu davanti al collega, seduto composto, intento a versare del tè invisibile in tazzine riempite con una fantasia invidiabile.
«Mashiro-sensei» lo chiama come un adulto richiamerebbe all’ordine un figlio o un proprio pari particolarmente fastidioso «Io e Shino-sensei stiamo prendendo il tè. Non è educato stare lì in piedi mentre facciamo le cose importanti.» decreta, tutto d’un pezzo nella serietà buffa di un bambino che si atteggia a persona grande, ma Tomoya non ha nessuna intenzione di ridere. L’ultima volta che non ha preso sul serio Itsuki le urla si sono sentite letteralmente fino alla classe che si trova all’inizio del corridoio.

Si limita ad annuire, cercando di sembrare più solenne possibile mentre Hajime assicura a Shu che tornerà subito a concentrarsi sul loro tè, deve solo finire di dire una cosa; nel mentre, lo sguardo di Tomoya scivola dal lato opposto a dove si trova Shu, ossia dietro la schiena di Hajime: un silenzioso Natsume - un bambino che, davvero, alterna momenti di pura follia infantile ad altri di calma totale. Tomoya ancora non dimentica il momento in cui Sakasaki ha promesso di esaudire un desiderio di Hajime se l’altro fosse diventato una ragazza magica. Non ha voluto insistere su quali programmi quel bambino non dovrebbe assolutamente guardare in televisione e, per adesso, si accontenta di vederlo tutto concentrato sulle ciocche di capelli di Hajime, lunghi anche se tenuti legati in un’ordinata coda bassa. Natsume sembra star cercando il modo migliore di replicare una complessa treccia che avrà visto chissà dove, le piccole mani che si passano le ciocche tra di loro senza risolvere granché, per ora.
«Davvero, Tomoya-kun, qui ce la faccio da solo. Shu-kun e Natsume-kun mi stanno tenendo compagnia.» assicura, con quel modo gentile che ha di gratificare i bambini sempre e comunque. Tomoya annuisce, abbassando lo sguardo sulla piccola piovra che continua a tirargli la gamba e cerca di muoversi con delicatezza, senza che camminare risulti in un far male al bambino.
Pochi passi e a raggiungerlo è proprio la voce di Kiryu-senpai, appena rientrato nella stanza: basta guardarlo per vedere che deve star facendo una certa fatica. Una mano è stretta in quella piccola di Shinkai, un bambino sempre sorridente e abbastanza tranquillo se non fosse che tende a scappare e sparire con il solo scopo di buttarsi in acqua in qualsiasi situazione e a prescindere dalla stagione in corso. Tomoya non ha bisogno di chiedere per sapere che, probabilmente, Kiryu-senpai deve averlo recuperato in qualche bagno e vicino a un lavandino a giudicare da quanto Kanata sia fradicio. Almeno uno dei due ha l’aria divertita.
«Kiryu-senpai»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun,»
«posso aiutarti a cambiare Shinkai-kun prima di-»
«Tomoya-kun, Tomoya-kun, Tomoya-kun»

«prima di» perde il filo per un momento «di uscire per...»
«Tomoya-kun!»
«Non preoccuparti Mashiro. Ce la faccio.» Kuro deve aver appena avuto pietà di lui, il che è tutto dire se si considera che deve aver recuperato Shinkai con in braccio Sakuma, il bambino che è ancora appiccicato a lui, tenuto su da un braccio, e ancora intento a mordicchiare la guancia di Kiryu. Tomoya lo ammira per come riesce a restare impassibile, anche quando sente Sakuma dire «Kiryu-sensei adesso sei un vampiro anche tu!», perché lui da parte sua è sicuro che se sente di nuovo chiamare il suo nome impazzirà e basta.

Fa un respiro profondo, prima di abbassare lo sguardo sul suo aguzzino: Hibiki Wataru è un bambino fin troppo energico che, a guardarlo, sembra un angelo. Se stesse fermo continuerebbe a sembrarlo, invece purtroppo non solo è sempre in movimento, ma pare avere una fissazione palese per lui. Il modo in cui continua a tirarlo verso la porta finestra che collega un lato della loro aula al giardino è solo uno, dei tanti modi, in cui cerca di dimostrarlo. Tomoya inspira, per poi allungarsi a recuperare il necessario per coprirlo bene; si piega sulle ginocchia, così da essere grosso modo alla sua stessa altezza e vede negli occhi di Wataru la meraviglia di chi ha appena saputo che Babbo Natale passerà per ben due volte dalla sua casa.
«Possiamo andare fuori, ma solo se ti copri per bene, Wataru-kun.» pronuncia, vedendolo mettersi ben dritto, impettito in un modo che ricorda vagamente Shu, le braccia tese pronto a farsi vestire. Tomoya sospira - un po’ è rassegnato, un po’ è sollevato - mentre gli infila il cappotto una manica alla volta, si assicura di avvolgergli bene la sciarpa intorno al collo e di fargli indossare i guanti di lana. Lo guarda, incerto se provare a mettergli almeno un paraorecchie, ma Wataru non sembra in grado di contenere tutta l’energia che ha in corpo ancora per molto, così Tomoya si veste a propria volta e finalmente lo guida fino alla finestra, aprendola il necessario a uscire e richiudendola una volta che sono fuori, così da non far entrare l’aria gelida all’interno della classe. Il giardino è del tutto coperto di neve e c’è un silenzio innaturale che Wataru spezza in un secondo con un «Uaaaaah» a pieni polmoni mentre già corre e zompetta in maniera goffa nella neve. Tomoya rabbrividisce, ma mai tanto quanto fa nel vederlo buttarsi di schiena sulla neve e cominciare a fare l’angelo, muovendo le braccia e le gambe. Non vuole rovinargli il divertimento, ma non vuole nemmeno che prenda un raffreddore, così un attimo dopo è lì che lo tira su diventando il peggior cattivo delle storie per bambini. Wataru ha un broncio ad arricciargli le labbra, gonfia le guance mentre Tomoya gli toglie la neve dalla schiena e dai capelli.
«Tomoya-kun sei noioso.»
«Tomoya-sensei» lo corregge, pur sapendo di star dando aria alla bocca. Dal suo primo giorno in quell’asilo Hibiki non lo ha mai chiamato con il giusto suffisso se non forse in un saluto corale offerto dall’intera classe.
«Facciamo qualcosa insieme! La lotta con la neve! Corriamo e scivoliamo fino all’albero!» propone, mentre nella mente di Tomoya si forma l’orrenda immagine di loro due che vengono fermati dall’albero. Non è sicuro di voler spiegare perché un bambino sia finito a sbattere contro un tronco.
«Wataru-kun… perché non mi insegni a fare un pupazzo di neve?»
E’ un pretesto come un altro quello di fingere di non essere in grado di farcela da solo, ma il modo in cui gli occhi gli si illuminano lo sorprende; non ci aveva creduto nemmeno per un istante che una cosa così semplice lo avrebbe distratto dai suoi propositi un po’ suicidi, invece anche Hibiki alla fine si dimostra per quello che è: solo un bambino. Chiude la mano in un piccolo pugno e la batte contro il petto, come a suggerire di lasciar fare a lui prima di trotterellare poco distante da lì a prendere un bastoncino.
«Tomoya-kun tu puoi prendere le cose che servono per fare le braccia, il naso, gli occhi e la bocca del pupazzo di neve!» decreta pieno di entusiasmo e Tomoya decide di assecondare tutta quella voglia di fare. Si piega di nuovo sulle ginocchia, un gomito poggiato su una di esse e la mano a sorreggere il viso: «E cosa si cerca per fare queste cose?» domanda cercando di fingersi del tutto ignorante in materia.
«Per le braccia possiamo usare i bastoncini! E anche per il naso! Gli occhi...» sembra dubbioso mentre si guarda intorno e d’altra parte la neve ha ricoperto tutto il terreno, perciò ogni possibile suggerimento è nascosto sotto di essa.
Tomoya si porta le mani nelle tasche, alla ricerca di qualcosa di utile: ci trova due caramelle e le porge a Wataru, ancora incartate. La sua idea in realtà è offrirgliele per mangiarle, ma il più piccolo ha ben altri progetti.
«Sì sì sì» ripete come una cantilena, mentre le posa per terra insieme al rametto che ha trovato; poco dopo Tomoya viene tirato per la manica in giro per il giardino, finché tutto l’occorrente non è finalmente radunato - con qualche buca qua e là nella neve e un povero cespuglio sacrificato per un bene superiore.
Wataru non perde tempo, si mette subito all’opera: comincia a spiegare ma si distrae subito, troppo concentrato nel fare la sua palla di neve gigante perché il pupazzo abbia un corpo solido; ha affidato a Tomoya l’importantissimo compito di creare la testa e lui si adegua, facendo tutto con più lentezza del dovuto, per dargli modo di essere il primo a terminare. Non lo disturba nemmeno, stupendosi come sempre di quanto quel bambino sappia essere incredibilmente silenzioso, quando vuole.
Ci mettono fin troppo tempo a finire, ma quando riescono Wataru brilla di luce propria di fronte a un pupazzo di neve forse un pochino storto e non proprio proporzionato al massimo, ma che almeno si regge e ha tutto al posto giusto. Wataru ha il naso e le guance arrossate dal freddo, e Tomoya era deciso a rientrare già prima di sentire un paio di fiocchi bagnargli la punta del naso; alzando lo sguardo vede che la neve ha ripreso a cadere, e non è davvero il caso di restare fuori oltre.
Sperando che Wataru non cominci a correre ovunque facendo i capricci.
«Wataru-kun, torniamo dentro.» propone con cautela, ben conscio di come imporre qualcosa a quel bambino significhi ottenere esattamente l’opposto - e non per cattiveria, no, a Hibiki sembra sempre tutto un gioco, Tomoya questo lo ha capito quasi subito. Wataru lo guarda, come se stesse soppesando cosa sia più importante tra la neve e Tomoya, e alla fine (dovrebbe sentirsi lusingato da questa cosa…?) sceglie lui e si avvicina, tutto sommato docile.
Lo guarda per un momento, prima di chinarsi di nuovo perché tra loro non ci sia troppa differenza. Si toglie i guanti, più freddi di quanto lo siano le mani che hanno riparato dal contatto diretto con la neve, e posa queste ultime sulle guance del bambino. Le mani di Tomoya sono tiepide, il viso di Wataru è freddo, il che dovrebbe rendere il contatto piacevole e a giudicare da come - dopo un momento di iniziale e genuina sorpresa - Wataru socchiude gli occhi e sorride beato, deve essere così.
Tomoya si lascia scappare uno sbuffo divertito; un’ultima occhiata al loro pupazzo che Wataru già sciorina mille idee per nomi improbabili.

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Shu guarda l’oggetto tra le proprie mani con una certa apprensione. Non è quello di per sé a scatenargli un moto di ansia, quanto tutto ciò che si cela dietro di esso: avvolto in una carta rossa non si può dire che il risultato finale sia preciso o degno di un’esposizione in un negozio, cosa a cui Shu non può non fare caso, essendo particolarmente attento ai dettagli. Ma può supporre ci sia una sorta di… impegno molto personale dietro, visto che di fronte ad alcuni punti molto imprecisi sembra che ci sia stato almeno un tentativo di farlo notare meno possibile (non che sia servito, ma in ogni caso non può negare ciò che vede). Il pacchetto di per sé ha una forma regolare, dunque immagina il regalo sia contenuto in una scatola, il che aumenta le probabilità che - incarto a parte - venga da un negozio e che non sia stato manomesso in alcun modo, compresa l’aggiunta di qualche strana sostanza.
Perché un regalo di una fan sarebbe arrivato nella solita maniera, insieme a tutti gli altri, dopo attenti controlli che l’organico della Yumenosaki si assicura di fare prima di far arrivare i doni a questa o quella unit.
Un regalo nell’armadietto significa una sola cosa: viene dall’interno. Potrebbe essere di una qualsiasi delle persone che incrocia ogni giorno - una prospettiva terrificante.
Inspira, rigirandosi con attenzione il tutto tra le mani, assicurandosi di mantenersi impassibile pur gettando un’occhiata di sbieco verso la propria sinistra, dove Aoba siede e si dedica al suo lavoro per le attività del club; o almeno immagina si tratti di quello. In ogni caso rimpiange di aver sostato anche troppo con l’attenzione su di lui quando i loro sguardi si incrociano.
«Shu-kun, è un regalo di San Valentino, quello?»
Riesce a immaginare solo tre cose peggiori di questa domanda: qualcuno che macchi l’innocenza di Nito rendendolo diverso dalla perfezione che rappresenta, Tsukinaga nella stessa stanza e Tenshouin nel suo futuro.

«Aoba.» si limita a dire, una sola parola - un nome, a dire il vero - che racchiude in sé un più articolato “Aoba, per cortesia, non dire scempiaggini”. Tsumugi sorride, lasciandosi scappare una risata leggera e divertita, mentre alza ciò che ha in mano per mostrarlo a Shu: un pupazzo di piccole dimensioni, chiaramente ciò a cui sta lavorando, e Shu non ha bisogno di osservarlo a lungo per riconoscere immediatamente che le fattezze sono quelle di Natsume. Aoba deve star dando gli ultimi ritocchi, che in questo caso specifico immagina sia il nastrino rosso che forma un piccolo fiocco al collo del pupazzo del leader degli Switch. Inarca un sopracciglio, alternando lo sguardo tra l’oggetto e Aoba: non capirà mai come quel ragazzo possa avere così tanta… discutibile abnegazione.
«Mika-kun deve essersi impegnato tanto.»
Tsumugi lo dice con pacatezza, ma è come se avesse sganciato una bomba. Shu guarda il regalo e sbatte le palpebre una, due, tre volte; solo poi riporta l’attenzione su di lui. Deve avere un’espressione perplessa, visto che Tsumugi gli rivolge un’occhiata confusa, articolando un: «Non è di Mika-kun?» come se fosse ovvio, e non esistesse una versione alternativa.
Shu tace.


Quando varca la soglia di casa sente al tempo stesso i muscoli sciogliersi una volta che si trova in un ambiente intimo e privato, e il proprio non riuscire a rilassarsi del tutto mentre Kagehira lo anticipa nel liberarsi delle scarpe e nel guadagnare l’entrata effettiva dell’abitazione. Gli sta dicendo qualcosa ma, Shu deve essere sincero almeno con se stesso, ha perso il filo del discorso poco prima di raggiungere casa. Le parole di Aoba gli risuonano ancora nella testa mentre guarda di sottecchi Mika che si sta voltando verso di lui, il sorriso a incurvargli le labbra; Kagehira ha sempre avuto questa cosa di guardarlo come se lui fosse il punto di luce maggiore, la Stella Polare. Shu ci si è abituato, per cui non crede la cosa possa essere indicativa di un regalo di San Valentino, senza contare che Kagehira non aveva alcun motivo di darglielo anonimo e in segreto quando poteva avere tutto il tempo e la discrezione del mondo lì a casa.
«Oshi-san?»
«Dimmi, Kagehira.»
«Uh… oggi ho dato dei cioccolati a Nazu-nii e a Naru-chan, per San Valentino.» glielo dice con un sorriso semplice, uno a cui Shu non trova alcuna implicazione particolare e che riflette appieno l’altro: tipico di Kagehira distribuire cioccolatini agli amici stretti, alle persone a cui si sente legato. Ma poi Kagehira lo guarda, indugia torturandosi le mani, e infine ne allunga una verso di lui per andare a prendergli la manica con due dita. E’ appena uno sfiorarsi, ma basta a farlo irrigidire per un istante: se c’è un momento per andare nel panico, Shu è convinto che sia questo.
«Oshi-san…?»
La voce di Mika è preoccupata, lo sente chiaramente; la conosce in ogni sfumatura e in ogni nota, sarebbe impossibile per lui non coglierne anche la minima inflessione. Sono i sentimenti dietro a essere sempre stati un problema - non li ha mai davvero capiti, li ha ignorati, li ha calpestati persino. Come potrebbe comprenderli ora, e saperli accettare, incastrarli al meglio con i propri?
E’ impossibile, specie non sapendo quali siano, i propri.
«Kagehira» pronuncia, la gola secca come se avesse fatto una cosa poco elegante come correre dall’accademia a casa «il pacco nell’armadietto» inizia, ma Mika lo interrompe: la sua mano non lo sfiora più, ma prende direttamente la sua, con l’innocenza tipica di un ragazzo semplice che non ha mai nascosto la sua adorazione per lui.
«Li hai trovati, Oshi-san? Ti sono piaciuti?» ci sono l’entusiasmo e l’aspettativa nei suoi occhi, così come anche il genuino desiderio di sapere, di avere una risposta. La mente di Shu va alla sua borsa, nella mano che non è in quella di Kagehira, dove il pacchetto è ancora integro e incartato così come lo ha ricevuto.
Guarda il ragazzo di fronte a sé, e non è pronto a conoscere i sentimenti dietro quel regalo: potrebbe essere gli stessi che Kagehira ha sempre avuto nei suoi confronti ma potrebbero anche non esserlo, essere cambiati e potrebbero essere qualcosa di troppo grande che lui non sarebbe in grado di gestire. Indugia, per un momento, le labbra socchiuse senza sapere cosa dire.
«Kagehira.» pronuncia infine «Non sapevo fossero tuoi… non li ho ancora mangiati.» ammette.
Mika lo guarda sorpreso, inclinando appena la testa di lato: «Uh? Non c’era un biglietto? Tsukinaga-senpai mi ha anche aiutato!»
Ah. Tsukinaga.
Naturalmente.

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