Mar. 2nd, 2019

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 Prompt: warnings (au, fluff, gen)
Missione: M1
Parole: 2227
Warnings: nekomimi!au, child!doppo, child!hifumi, parent!jakurai




 
 
Doppo guarda fuori dalla finestra, spiando le goccioline di pioggia che scivolano lungo il vetro. Hifumi è tutto preso a leggere un manga in un angolo, adagiato tra i cuscini che sistema ogni volta a terra anziché goderne sul divano; è un’abitudine che ha sempre avuto da quando si sono sistemati in quella casa e quando sono soli. Doppo sbircia in sua direzione, trovandolo quasi appallottolato lì, con la tuta che indossa quando hanno un pomeriggio libero dallo studio. C’è un silenzio interrotto solo dal voltare le pagine di Hifumi e da qualche sbuffetto divertito di tanto in tanto, di certo causato da qualche tavola del manga; in un angolo del salotto, fievole, arriva il ticchettio dell’orologio.
A far rizzare le orecchie a entrambi, però, è lo scatto della serratura che preannuncia l’aprirsi della porta e l’ingresso dell’unico altro abitante della casa oltre loro due. Hifumi abbandona subito il manga alla propria destra, facendo saettare gli occhi dorati dall’arco che collega l’ingresso al salotto a Doppo, un’aspettativa evidente nello sguardo. Una manciata di secondi dopo Hifumi lo ha già preso per mano e lo sta trascinando, anche se non serve davvero; ci vuole una manciata di secondi perché Jakurai entri nella stanza e si ritrovi non solo nel loro campo visivo, ma anche a distanza piuttosto ravvicinata. Abbastanza perché Hifumi gli si lanci addosso, praticamente, una risata allegra nel tirarsi dietro anche un Doppo più reticente, timido.
«Sensei, bentornato!» esclama Hifumi, le braccia esili a stringere la vita di Jakurai - forse un modo per farsi perdonare della piccola testata data involontariamente all’uomo nell’impeto del gesto -, ricevendo in cambio un colpetto affettuoso sul capo, un lieve scompigliargli i capelli. Le orecchie da felino, di pelo biondo proprio come i suoi capelli, scattano un paio di volte mentre delle fusa leggere abbandonano la sua gola in segno di apprezzamento per le attenzioni ricevute.
Doppo, mezzo coinvolto nell’abbraccio ma ancora troppo timido per azzardare un gesto del genere in prima persona, cerca di sbirciare come può l’espressione dell’uomo finché una mano non si posa con delicatezza anche sulla sua testa; senza che nemmeno se ne accorga, la coda rossiccia ondeggia di qua e di là, tradendo ciò che la sua insicurezza cela nel silenzio. Per fortuna Hifumi riesce a riempire tutti i momenti come quello.
«Sensei, sensei! Ci hanno ridato i test!» esclama contento, lasciando Doppo e Jakurai, zompettando nell’altra stanza in maniera rumorosa. Per Doppo è difficile stare in uno spazio senza Hifumi: sono stati lasciati da soli, sono vissuti insieme fin da prima che Jakurai li prendesse con sé, e ancora adesso dopo diversi mesi di convivenza non è ancora abituato nemmeno a spostarsi in tutta la casa senza la consapevolezza della presenza di Hifumi al suo fianco. Il fatto stesso di condividere la camera dove dormono, la classe a scuola e in generale ogni spazio occupato nel tempo libero ha fatto sì che Doppo ora si ritrovi del tutto dipendente dalla figura del coetaneo. Anche quando è al sicuro con l’uomo che li ha presi con sé, offrendo loro un tetto, del cibo e protezione. 
Jakurai lo sta guardando, Doppo lo percepisce anche se - come al solito - tende a guardare per terra; le mani giochicchiano nervosamente con il bordo della felpa, la coda a intrufolarsi tra le gambe senza che lui nemmeno se ne renda conto.
«Doppo-kun» lo richiama Jakurai, e lui sobbalza appena anche se cerca di nasconderlo. Sa che Jakurai è buono, e gli dispiace avere quei piccoli salti di nervosismo di fronte a lui, specie perché cerca di fare del suo meglio per controllarsi. Alza lo sguardo sull’uomo, sebbene non in modo troppo diretto, e attende.
«Di quale materia era, il test?»
«Giapponese...» mormora Doppo, consapevole di non aver certo ottenuto il massimo. Un risultato mediocre nonostante si sia applicato tanto, o almeno, nonostante fosse convinto di averlo fatto. Ci sono stati tanti molto più bravi di lui e questo lo mortifica se pensa che Jakurai si occupa di tutte le spese per gli studi suoi e di Hifumi.
Quest’ultimo torna nella stanza, saltellando allegro e portando con sé due fogli, il suo e quello di Doppo: li porge entrambi a Jakurai, guardandolo pieno di aspettativa per quei due numeri segnati in rosso in alto a destra dei test. Un settantasei e un sessantotto svettano lì, dove chiunque li può vedere.
«La volta scorsa avevo preso sessantatre!» esclama Hifumi pieno di orgoglio «E anche Doppo-chin ha fatto sei punti in più, a questo!» elogia il lavoro del compagno come se fosse il proprio, con l’entusiasmo che Doppo non riesce del tutto a condividere; è andata meglio, sì, ma poteva fare di più e forse Jakurai si aspettava un voto molto più alto dopo averli anche aiutati a fare i compiti qualche volta. Ma il dottore scruta i fogli con attenzione, prendendosi tutto il tempo necessario, e quando rialza lo sguardo su di loro gli sta rivolgendo un sorriso caldo e gentile.
«Siete stati molto bravi.» commenta come se fosse l’unica cosa giusta da dire - non li sgrida, non li incalza a fare ancora di più, ma mette invece via i fogli con molta cura neanche fossero importantissimi e da conservare come un tesoro. E se li ha poggiati sul tavolino basso del salotto, è solo per liberare le mani e poterle portare a legare i lunghi capelli.
«Festeggiamo con una buona cena.» decreta, cominciando a muoversi verso la cucina e chiedendo loro cosa vogliono mangiare. Mentre Hifumi lo affianca e comincia a elencare tutta una serie di piatti preferiti tra cui non sa scegliere, Doppo allunga appena la mano e azzarda a prendere la manica dell’uomo; Jakurai se ne accorge, Doppo lo sa perché lo vede guardarlo e sorridergli per un istante, ma non commenta nulla e semplicemente lo lascia fare. Per Doppo è abbastanza.
 
La cena è stata all’insegna del buon cibo. Alla fine Jakurai ha persino dato loro un budino comprato al convenience store prima di tornare a casa dal lavoro. Sia Doppo che Hifumi lo hanno mangiato con gusto - Hifumi facendo più chiasso, ma questa è un’altra storia - e poi hanno potuto fare un bel bagno caldo, indossare il pigiama e starsene davanti alla tv tutti e tre insieme. Doppo non è mai riuscito a intuire se Jakurai avrebbe piacere di averli entrambi seduti vicino a lui o se, tutto sommato, la cosa non lo tocchi troppo ma in ogni caso Doppo preferisce starsene vicino a Hifumi. A sua discolpa, Hifumi stesso tende ad arpionarsi al suo braccio tanto a casa quanto a scuola, quando magari camminano per i corridoi, e a non lasciarlo per tenerselo accanto più possibile. Visto che a lui non dispiace, lo lascia fare: Hifumi riesce a essere sempre caldo e rassicurante, ai suoi occhi, non importa cosa dicano gli altri o che li prendano in giro perché stanno sempre insieme - Doppo sa che alcune ragazze, a scuola, non lo vedono di buon occhio perché secondo loro gli ruba le attenzioni di Hifumi ma non gli interessa. E’ l’unica cosa sulla quale ha deciso di non lasciarsi troppo influenzare.
Sente la presa di Hifumi sul proprio braccio farsi più molle e il suo respiro regolare, segno che deve essersi appisolato così, con la guancia sulla sua spalla. Il volume della tv è udibile ma basso abbastanza da essere conciliante; il profilo di Jakurai lo mostra ancora sveglio, occhi sullo schermo, ma forse ha sentito lo sguardo su di sé perché in quel momento esatto si volta, incrociando quello di Doppo.
«Ah.» commenta, rivolto a Hifumi, accorgendosi solo ora di come sia crollato. Doppo lo vede sorridere di nuovo e alzarsi con lentezza, forse per non muoversi troppo e svegliarlo. Si posiziona davanti a loro, le mani tese per sciogliere con delicatezza la stretta debole di Hifumi al braccio di Doppo e poterlo prendere in braccio. Lo fa senza alcuno sforzo e dunque Doppo si alza a sua volta, pronto a seguirlo nella propria camera; vede Hifumi accoccolarsi contro l’uomo, nel sonno, ma Jakurai piuttosto allunga la mano verso di lui, offrendogliela.
Doppo la guarda, un po’ stupito: ha dato l’impressione di essere geloso di Hifumi? Di aver bisogno di essere preso per mano? Di sentirsi solo? Di-- Jakurai agisce da sé, chiudendo la mano più minuta e giovane nella propria. E’ un po’ imbarazzante, specie nel modo in cui la coda di Doppo lo tradisce, ondeggiando di nuovo come alla mano fra i capelli di poche ore prima.
Il tragitto fino alla stanza sua e di Hifumi non è lungo: è una camera abbastanza ampia per contenere un letto a castello, due scrivanie e un armadio ampio e sufficiente a ospitare gli abiti di entrambi. A modo loro hanno reso personali i propri spazi - quello di Hifumi tende a essere molto più ordinato e colorato, quello di Doppo un eterno sparpagliarsi di libri e quaderni e fogli che sarebbero molti di più se Hifumi non passasse dalla sua scrivania piuttosto spesso. Di solito Hifumi è l’occupante del letto sopra, mentre Doppo ha docilmente acconsentito all’altro, visto che per lui non faceva differenza. Stavolta, però, si azzarda a proporre un’alternativa, attirando l’attenzione di Jakurai con un leggero tirargli la manica.
«Posso andare io sopra, per stanotte...» mormora, lo sguardo sfuggente che si alterna tra l’uomo e i due letti - per lui è abbastanza implicito che con Hifumi addormentato e per quanto alto sia Jakurai, non sia comodissimo poggiarlo sul letto superiore. Jakurai lo guarda per qualche momento e poi adagia Hifumi sul materasso di Doppo, tornando bello dritto dopo aver rimboccato le coperte al biondo; un mezzo mugolio - miagolio? - di apprezzamento lascia le labbra di Hifumi, gli occhi ancora chiusi e il viso mezzo affondato nel cuscino con espressione rilassata e soddisfatta.
Jakurai si rivolge a Doppo, quindi, si piega in avanti e gli passa le mani sotto le ascelle per tirarlo su prima che Doppo possa dire qualsiasi cosa. Giusto le orecchie da felino si rizzano per un istante, per la sorpresa, così come la coda; ma quando viene adagiato con attenzione sul materasso superiore, è già più calmo e la mano di Jakurai che gli scompiglia i capelli è gentile.
«Buonanotte, Doppo-kun.» gli dice soltanto, e in fondo lui ne è grato perché i complimenti troppo diretti, il dirgli che è un bravo ragazzo a volte lo spiazzano e non sempre lo fanno sentire degno, anzi - ci sono occasioni in cui più lo elogiano e più Doppo sente di non meritarlo. E’ bello avere una casa e una persona che sembrano capirlo e farlo sentire bene senza esagerare con i complimenti, ma dosando i gesti in modo tale che lui possa sentirsi apprezzato a piccole dosi.
«Buonanotte, sensei.» replica, guardandolo uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle. Si sdraia, dunque, andando a infilarsi sotto le coperte ancora un po’ fredde. Non fa in tempo ad abituarsi al silenzio, però, che sente qualche rumore di lenzuola scostate da sotto di sé e poco dopo le orecchie di Hifumi prima e tutto il resto del suo viso poi appaiono. L’altro è lì, sulla scaletta, che cerca un qualche segno di veglia. Lo trova appena nota che gli occhi di Doppo sono aperti e ancora piuttosto vigili considerando l’orario - al contrario Hifumi è particolarmente assonnato e si vede, ma non abbastanza da demordere all’evidente idea di intrufolarsi sotto le coperte con lui. Doppo lo lascia fare, accostandosi più possibile al muro alle sue spalle ora che si è sistemato su un fianco; Hifumi scivola sotto le coperte con qualche difficoltà ma con successo, alla fine. Lo vede rabbrividire appena prima di sentirlo appiccicarsi al suo corpo: le gambe snelle si incrociano con le sue, un braccio viene posato sul suo fianco e l’altra mano cerca la sua, intrecciando le dita. Da che ricorda, lui e Hifumi hanno dormito spessissimo così e a Doppo piace percepire quel tepore che lo fa sentire sicuro e sa così tanto di casa, di famiglia.
Hifumi ridacchia piano, uno sbuffo appena forse, mentre la sua coda si muove sotto le coperte battendo contenta contro il materasso in qualche tonfo sordo.
«Ti muoverai un sacco anche stanotte...» mormora Doppo, rassegnato, tacendo il fatto che non per questo lo caccerebbe mai dal proprio letto. Vivono in simbiosi da troppo tempo perché farlo sia considerato accettabile da entrambi.
Hifumi avvicina il volto al suo, sfiorandogli la punta del naso con la propria più volte, in quel modo affettuoso e giocoso con cui si sono sempre dimostrati di volersi bene.
«Il sensei è una brava persona, vero?» lo incalza, anche se la voce un po’ intontita dal sonno smorza il tutto. Doppo sa quanto Hifumi adori la nuova famiglia che si è formata quando Jakurai ha deciso di tenerli entrambi, di non dividerli - Doppo era già pronto a odiarlo e fare di tutto per impedirglielo, pure se nel vederlo così alto si era chiesto come avrebbe mai potuto farcela.
Lui stesso, ormai, sente quella famiglia un po’ sua.
«Mh.» è la sua risposta, un po’ ermetica ma senza bisogno di spiegazioni quando si tratta di Hifumi. 
«Doppo-chin,» lo richiama in un sussurro, gli occhi chiusi e la coscienza che con molta probabilità sta di nuovo scivolando nel sonno «staremo insieme per sempre, vero?»
«Mh-mh.» su questo non ha dubbi, mai «Sempre.»
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Prompt: warnings (au, angst, lemon)
Missione: M1
Parole: 1224
Warnings: pwp, major character death, shinigami!ramuda, ramujaku




Non è così che Ramuda se l’era immaginato. Anni da Shinigami - secoli come angelo della morte, anche se lui preferisce di gran lunga essere chiamato dio - gli hanno insegnato quasi tutti i segreti del mestiere: non affezionarsi all’umano che si segue, in primis; tenerli d’occhio una volta individuati dalla lista quelli di propria competenza di cui dovranno assistere la morte prima di poterne recuperare l’anima, essere osservatori super partes per i loro ultimi sette giorni di vita dopodiché attendere che siano lì a esalare l’ultimo respiro e via, prelevarne l’anima. Ramuda ha visto molte anime nere, pochissime bianche, la maggior parte grigie; la sfumatura di quella di Jakurai è una delle più strambe che lui abbia mai avuto modo di sbirciare prima di averla materialmente tra le proprie mani: un’anima di un grigio chiarissimo - la cosa più vicina a una bianca, di solito prerogativa quasi unicamente dei bambini - con un nucleo nero come la pece. La prima volta che l’ha vista, a Ramuda ha ricordato un buco nero e si è chiesto, divertito, se avrebbe continuato a espandersi fino a inglobare quanto di bianco era rimasto. Sono bastati due giorni a osservarla, però, per capire che non sarebbe successo; si è persino preso la briga di assumere forma umana per passare del tempo con la sua vittima, vedere di scatenare qualche reazione in lui, ma il medico non ha mai fatto nulla di eclatante. Il massimo è stato veder tremolare quel nucleo nero un paio di volte, senza poter però ricollegare la cosa a qualche ragione particolare.
Assolutamente noioso, ecco cos’era stato.
«Eeeeh, non ci sono leggi che ci vietano di divertirci con gli umani di cui aspettiamo la morte!» ha obiettato con Juto, l’unico collega che non ha ancora del tutto snervato - forse perché Juto è troppo stanco di tutto e tutti «L’importante» ha proseguito «è che io non gli faccia venire voglia di vivere o che non gli salvi la vita per sbaglio!» ha sottolineato divertito.

«Nessuno è così disperato da farsi venire voglia di vivere grazie a te, Amemura.»
Ramuda ha riso.


Il corpo di Jakurai sotto di lui è caldo e sudato e Ramuda lo sente tremare appena ogni volta che lo tocca. Rispetto a lui quel medico è un gigante - colpa sua, naturalmente, Ramuda non vuole sentire nemmeno ipotizzare da uno così che sia lui a essere troppo esile e minuto, anche se è vero. Soprattutto perché sa essere vero.
Gli dà un senso di infantile superiorità essere sopra a un uomo così tanto più grande di lui, sia come età apparente che come prestanza fisica e sentirlo sciogliersi ai suoi tocchi e alle sue attenzioni, mosso dall’istinto più vecchio del mondo che forse qualcuno si aspetterebbe sopito in un dio della morte e che invece Ramuda ricorda bene.
Spinge dentro Jakurai e lo sente quasi vibrare di piacere, i lunghi capelli ormai una matassa sparsa su tutto il letto in modo confuso, disordinato; Ramuda ne prende una ciocca tra le dita e tira, né troppo piano né troppo forte, mentre si spinge dentro di lui ancora, e ancora. Jakurai lo guarda in un modo che con gli amanti non ha nulla a che vedere: lo accusa, lo desidera, lo disprezza ma non lo allontana, come se tutto sommato si stesse sacrificando per qualcuno anche ora che è in punto di morte.
A Ramuda fa venire il voltastomaco ma, al tempo stesso, vedere quella macchia scura dell’anima di Jakurai allargarsi anche soltanto un poco, divorare quello che di buono è rimasto nell’uomo, lo esalta e lo eccita come solo la caccia alle anime riusciva a fare un tempo.
«Inutile che mi guardi così.» gli rimbecca con soddisfazione, fermandosi per un istante con il solo scopo di dargli un unico momento di falsa pausa, di artificiale respiro, per poi affondare all’improvviso più di quanto non abbia fatto fino a quel momento. Jakurai si tende sotto di lui, lo sente allargare le gambe per un istante e poi stringerle di nuovo attorno ai fianchi del dio della morte, forse per provocarlo volutamente o magari solo d’istinto, senza potersi controllare.
«Odio gli umani come te.» sibila «Volete sempre, sempre redimervi quando siete vicini alla morte e cominciate ad avere paura di aver avuto una vita inutile, o che non finirete in paradiso. Troppo comodo, no?» lamenta - lui non ci ha provato nemmeno quando è toccato a lui, e anche se lo avesse fatto lo sa che non sarebbe mai stato perdonato. E dopotutto, non sentiva di doversi far perdonare nulla.
«Siete così ipocriti e patetici.» sibila ancora, tirando appena di più i capelli e vedendo il volto di Jakurai sfigurato da un misto di accenno di dolore e di piacere quando si spinge in lui con un’angolazione leggermente diversa e, è chiaro, tocca il suo punto erogeno. Jakurai si tende, ancora, mentre l’orgasmo lo coglie ma il gemito si perde nella bocca di Ramuda.
Non c’è nemmeno un vago accenno di amore in quello scambio - e come potrebbe? Ramuda non ha amato in vita, non comincerà certo ora e con quello che è poco più di un divertente quanto momentaneo passatempo. Ciò che il dio della morte vuole sentire è solo il sapore dell’anima che entro qualche ora avrà, letteralmente, tra le mani.



Gli occhi chiari vagano sullo specchio dal quale è possibile, per loro, spiare nel mondo umano alla ricerca di una serie di volti da associare ai nomi di una lista i cui numeri sono sempre fin troppo elevati. L’espressione annoiata, mentre dondola infantilmente i piedi avanti e indietro, non può che scattare quando un rumore di passi tradisce l’arrivo di qualcuno. Impiega una manciata di secondi irrisoria a inquadrare Juto, l’aria appena seccata nel sistemarsi gli occhiali da vista sul naso e nel passo quasi marziale che ha nell’avvicinarlo. Ramuda gli rivolge un sorriso divertito e impertinente, ma senza una sfumatura più precisa di quella - non sa perché è lì, ma è divertente di default vedere Juto così visto che non succede spesso.
«Brutta giornata?» lo vezzeggia, quasi canzonatorio, vedendo gli occhi dell’altro focalizzarsi su di lui con lo stesso impeto che avrebbero se Juto avesse la certezza di potergli dare fuoco solo così.
Ops.
«Sarebbe brutta anche la tua, se il capo ti avesse tenuto due ore in ufficio per lamentarsi delle condizioni disastrate delle ultime anime arrivate.»
«Oh, la neesan era così arrabbiata?» canticchia, fiele dolciastro nel suo tono quanto sulle sue labbra, incontrando il disappunto - nascosto bene, ma non abbastanza - sul viso di Juto.
«L’anima del tuo medico, comunque, l’ho trovata e l’ho vista.» cambia discorso l’altro, guardandolo di sottecchi. Ramuda non riesce a trattenere un verso disgustato.
«Non chiamarla così, mi disturbi.» si lamenta con un tono così infantile da non poter essere altro che falso «E quindi?» lo incalza, però. Non riesce ad attendere troppo di sapere le sorti di quell’anima.
«Dannata.» pronuncia quell’unica parola, Juto, come una sentenza «Negli ultimi istanti di vita la sua parte oscura sembra aver preso il sopravvento. Strano visto l’andamento degli ultimi anni, ma pare che possa succedere.» taglia corto con una spiegazione diretta e impersonale, tornando alle sue scartoffie con l’espressione che è già la noia che sempre lo contraddistingue.
Non visto, il volto di Ramuda si deforma in un’espressione di puro piacere ed euforica vittoria.

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Prompt: warnings (au, angst, lemon)
Missione: M1
Parole: 1221
Warnings: angel!Romani, demon!Merlin, pwp



Le dita di Merlino gli sfiorano hanno sfiorato il corpo innumerevoli volte ma mai così. Romani si è controllato in ogni singola occasione, gli è sfuggito come acqua che non si può contenere e aria impossibile da imprigionare eppure Merlino non ha mai desistito, e ha lasciato che lui potesse illudersi di poter sfuggire in eterno o, in ultimo, di poter vedere l’alba del giorno in cui Merlino si sarebbe arreso.
Così non è stato. Quando Romani sente le sue dita affusolate scendere lungo la linea della mascella al collo e giù, sfiorando da sopra i vestiti da angelo fino a toccargli il ventre, capisce che è finita.
Non si sarebbe dovuto illudere: mille leggende raccontano della caduta degli angeli e lui, Romani, un archivista tra tutti i suoi fratelli ha letto quelle storie miliardi di volte. Cosa gli ha fatto pensare che improvvisamente la Storia avrebbe fatto delle preferenze risparmiandogli un errore simile?
Dio lo ha amato profondamente e lui, invece, lo ha tradito.


La bocca di Merlino scende sul suo corpo nudo, saggiandolo per quello che a Romani sembra un esplorare centimetro per centimetro. E’ quasi frustrante il modo in cui le labbra del demone sembrano esplorarlo e conoscerlo alla perfezione al tempo stesso, mentre nella sua mente lui riesce a stento a mantenere quella lucidità che è sempre stata per lui un motivo di vanto.
Se lo volesse, forse avrebbe una forza sufficiente non a sopraffarlo del tutto ma almeno a sfuggire alla sua presa, alla sua trappola; ma i demoni sono esattamente quello, creature capaci di rinchiuderti nella gabbia peggiore, nella fortezza più inespugnabile che è il piacere dei sensi. Quando lo si prova per la prima volta, poi, è ancora peggio. Romani ha sentito parlare solo per caso della cosa, di sfuggita - non è argomento comune, tra gli angeli, il modo in cui gli uomini sfogano il desiderio carnale e ne diventano schiavi, al punto che molto spesso si trasformano nelle prede perfette di alcuni dei demoni che maggiormente sfruttano le inclinazioni sessuali di quelle deboli e fragili creature. Nel poco che ha colto, però, e nei pochissimi scritti in qualche modo sopravvissuti al tempo e alle ferree regole della casa di Dio, Romani ha appreso quanto le vittime più frequenti nella storia degli uomini siano sempre state due: chi era già schiavo delle pulsioni prima di incontrare un demone sulla propria strada e chi, invece, da quelle pulsioni non era mai stato toccato.
Merlino si sofferma sul suo ventre, la lingua che tocca l’ombelico, ci si infila dentro; Romani sobbalza e trattiene un mugolio, spingendo con la mano contro la bocca nel testardo tentativo - anche un po’ disperato - di rimanere in silenzio e conservare una dignità che potrebbe presto essere la sua unica compagna per l’eternità, insieme alla dannazione. Il demone lo occhieggia, Romani lo vede perché non ha mai chiuso gli occhi finora: quelli ametista della creatura sembrano quasi provocarlo e, al tempo stesso, accettare una tacita sfida - sembra volergli dire: non costringermi a impedirti di trattenerti - e poi scende ancora sul suo corpo ormai spoglio dei vestiti da fin troppo tempo per preoccuparsi ancora della pudicizia e della vergogna. Le mani di Merlino si muovono di pari passo alla sua bocca, accompagnando il suo viaggio e sorreggendo il corpo di Romani: scivolano giù e si bloccano all’altezza dei suoi fianchi quando la bocca di Merlino accoglie l’erezione di Romani nella bocca calda e umida.
La lingua va a stuzzicarlo quasi subito, senza troppi complimenti, e a quel punto Romani non può trattenere un gemito che gli risale dalla gola e si perde nell’aria, spezzando il silenzio con quella che alle sue orecchie suona come una violenza inaudita - è quello il suono che ricorderà e finirà con l’associare per l’eternità al tradimento verso Dio?
Merlino lo spia, senza vergogna per la loro posizione o ciò che stanno facendo e come potrebbe, quando rispetta perfettamente la sua natura? Lì l’unico a essere sbagliato è Romani, che porta una delle mani a scendere tra i capelli chiari dell’altro, stringendo d’istinto una ciocca quando Merlino succhia la sua erezione con più vigore e il chiaro intento di farlo impazzire, di far sì che Romani si tradisca ancora di più e cada sempre più in basso, fino al punto di non ritorno. Ma forse quello lo ha raggiunto nel momento in cui lo ha baciato, in cui gli ha permesso di macchiare anche solo una piccola parte della sua anima facendo sbocciare in lui il desiderio nello stesso modo in cui una spora velenosa diventa il parassita perfetto di una pianta altrimenti sana e forte.
Romani percepisce a stento una delle mani del demone lasciargli il fianco; la ritrova quando sente una delle sue dita premere contro la sua apertura e insinuarsi dentro, scivolando con un po’ di forzatura. Inarca la schiena e boccheggia, sentendo il respiro mancare - e la lingua di Merlino si fa più insistente, più lasciva contro la sua pelle sensibile.
Per puro caso gli occhi verdi guardando verso l’alto, abbandonando la testa di Merlino tra le sue gambe; il cielo è di un fastidioso azzurro brillante.


Non sa più da quanto tempo sono lì, uniti nell’unico modo completo che gli umani conoscono e nell’unico che lui, Romani, non avrebbe dovuto conoscere mai.
Merlino si spinge dentro di lui, provocandogli un piacere immenso che la sua mente a stento riesce a registrare, momento dopo momento. Non è la prima volta che Romani sente la sensazione di stare per venire, di star raggiungendo l’orgasmo, al punto da saperla riconoscere almeno vagamente. Tutto il suo corpo e la sua mente sembrano in grado di concentrarsi solo sul basso ventre e sul punto che il sesso di Merlino continua a stimolare, una spinta dopo l’altra, affondando nel suo corpo quasi volesse far in modo di fondersi con Romani a un livello del tutto diverso di quello spirituale che un tempo l’angelo conosceva.
Romani ha le braccia allacciate al collo del demone, la bocca impegnata ad accoglierne i baci e le carezze lascive della sua lingua, insieme a qualche frase provocatoria di tanto in tanto e una di apprezzamento, di complimento - ma ogni spinta di Merlino, ogni ondata di piacere che gli annebbia la mente, risuona in una piccola parte della sua testa e del suo cuore come un pugnale affilato e di ghiaccio che gli affonda nel petto, ferendolo senza possibilità di ripresa.
Romani ha sentito parlare diverse volte di angeli caduti, di traditori di Dio che hanno avuto la dannazione eterna e la consapevolezza che non avrebbero mai più potuto godere della luce del regno dei cieli, del favore del loro amato Creatore, ma non  è mai stato in grado di comprendere appieno cosa si potesse provare nel sentire la presenza di Dio scivolare via dalla propria, come se fossero sempre state in qualche modo complementari e poi, all’improvviso, fosse impossibile anche solo pensare di farle coesistere.
E’ come morire, pensa. Mentre raggiunge l’orgasmo e un gemito alto soffoca nella bocca di Merlino, che si spinge dentro di lui ancora un paio di volte prima di raggiungere l’apice a sua volta, Romani sente il piacere riempirlo e qualcosa dentro di lui spezzarsi.
Non può ancora vederlo, ma la base delle sue ali è macchiata.
Presto gliele spezzeranno per sempre.

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hakurenshi

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