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[personal profile] hakurenshi
 

Prompt: Libertà

Missione: M2 (week 2)
Parole: 1792
Rating: teen up
Fandom: Umibe no étranger

Warnings: //



Una volta, per pura curiosità, Shun ricorda di aver provato a unirsi a una community - rigorosamente online - con cui aveva interagito per caso in un paio di occasioni cercando qualcosa online, quando quello per la scrittura era solo un pensiero casuale ogni tanto. Gli era sembrato utile farne parte e, come ogni cosa che non richiede un contatto con una persona, era facile da gestire: poteva sempre cancellare il suo account e tagliare di netto qualsiasi ipotetico rapporto.


All’epoca c’era un utente con cui gli capitava di interagire di più - ancora oggi Shun non ha la minima idea se fosse un ragazzo o una ragazza, quanti anni avesse rispetto a lui… ma questo perché, dopotutto, saperlo non è mai importato. Quella era ed è tuttora il tipo di libertà che internet e il mondo online possono offrire: la libertà di essere chi si vuole, quando si vuole e senza che nessuno se ne preoccupi poi molto se non in rari casi. Shun ricorda di aver distrattamente affrontato con quella persona la questione del perché a un certo punto qualcuno decida quasi dal nulla di scrivere. Qualunque sia stata la propria opinione all’epoca - Shun sospetta di averne data una casuale, forse persino superficiale -, per qualche assurdo motivo non ha mai dimenticato quella dell’altra persona. Forse perché, in fondo, è una domanda a cui non ha ancora trovato risposta.


«Non ti senti libero, quando scrivi?»


Shun, all’inizio, si è convinto di sì. Perché è una di quelle domande a cui si pensa che la risposta sia ovvia, uguale per tutti. O quantomeno perché chi mai di fronte a un, per esempio, “ti piacerebbe avere un superpotere?” risponderebbe di no. O anche: chi, guardando un tramonto e sentendosi domandare se non gli dia una certa sensazione - pace, nostalgia - non finirebbe per sentirsi proprio così semplicemente perché è un’associazione immediata, quasi scontata?


Per Shun quella domanda, in quell’occasione, è stata esattamente questo. Ma una volta che il tramonto lascia spazio alla notte e ci si sofferma a riflettere sulla cosa… era davvero nostalgia? Era davvero pace? Si sarebbe sentito libero, se avesse scritto sul serio?


*


All’inizio si è sentito come un bambino a cui era stata aperta una finestra enorme rimasta bloccata fino a quel momento. Certo, il foglio bianco per un po’ lo aveva guardato in inquietante attesa e pieno di aspettative a cui Shun non aveva idea di come rispondere. Poi un ideogramma, un altro, un altro ancora– aveva iniziato a scrivere senza quasi accorgersi del tempo che passava o dei quaderni via via con sempre più pagine piene e sempre meno da riempire. Per Shun, ora lo sa, è stata una droga, l'ebbrezza di sentirsi senza limiti, senza catene; la consapevolezza di una libertà totale il cui unico ostacolo era lui stesso. Non era più un bambino timido e taciturno, non più un adolescente intrappolato in una diversità che gli pesava addosso e lo faceva sentire come se non potesse osare quanto gli altri - nel muoversi, nel respirare, nell’esistere


Ma tutto questo nella scrittura non esisteva. Shun non dimenticherà mai quella sensazione di potersi finalmente muovere avendo tutto lo spazio del mondo per sé.


«Non ti senti libero, quando scrivi?»


*


Gli chiedessero quando è stato il momento del vero inizio, però, Shun saprebbe dare solo un’indicazione vaga, generica. A un certo punto, semplicemente, in un pomeriggio pieno solo del cicaleccio a riempire l’aria estiva si è seduto in veranda. Ha guardato il furin ondeggiare appena, provocando il tipico scampanellio, anticipando una brezza leggera che di sollievo nel caldo forse non ne ha dato molto quella volta, ma si è portata con sé l’odore del mare. Shun ha guardato di lato, verso la sua stanza, verso la scrivania; ha visto un quaderno come tanti, una penna come tante e lui - dopotutto - era un ragazzo come tanti. 


Ha cominciato. Semplicemente. Le mani hanno recuperato carta e penna, si è sistemato a gambe incrociate e nella posizione meno comoda del mondo ha iniziato a scrivere come aveva fatto altre volte. Solo che quella era diversa: più brutale, totalizzante. Più velenosa. Più salvifica. Ogni ideogramma sulla carta è stata una ferita sanguinante e un foro sulla carta di riso di uno shoji rimasto chiuso troppo a lungo. Così l’aria ha cominciato a filtrare, sempre di più; anche quando il polso si è indolenzito e le dita si sono intorpidite, o le ginocchia in quella posizione hanno iniziato a implorare pietà, Shun ha scritto. 


Quando ha finito, ha capito di aver scritto davvero per la prima volta e di essere completamente vuoto, prosciugato. Di non avere più niente da dare, ma nemmeno più niente per cui soffrire. Un guscio privo di anima, anche se l’effetto non sarebbe durato in eterno. Gli andava più che bene, perché per una volta non essere se stesso è il regalo migliore che ci si può fare - anche se Shun non crede a quegli autori che dicono di diventare i propri personaggi, oppure a quelli che parlano dei loro eroi su carta come persone che decidono autonomamente cosa fare. Crede però nei colpi di scena fulminei, quelli che non si aspetta il lettore ma che non si aspetta nemmeno l’autore. 


Crede, con una forza che non sente di avere per nient’altro, di non aver mai pianto tanto come quando ha messo la parola fine a quel racconto che gli sarebbe valso il primo premio di scrittura mai vinto in vita sua.


Eppure è convinto che sia stato l’esatto istante in cui la scrittura è anche diventata una catena, in quell’istante ancora leggera, quasi senza peso. 


*


«Shun, come sta andando?» sente chiedere a Mio con cautela, come tutte le volte in cui lo vede scrivere e sa che la scadenza è pericolosamente vicina - specie se poi, come ora, la scadenza era ieri.


Shun occhieggia il foglio riempito solo per metà, fermo e senza sapere con quale frase concludere, con nelle orecchie ancora la voce della sua editor che lo rimprovera a metà tra rassegnazione e disperazione. Più fissa la carta, meno gli si formano parole in mente e le poche frasi che ha azzardato finora suonano tutte sbagliate - ma, come sempre, questo non equivale a capire come dovrebbero essere per suonare giuste.


«Mh.» il monosillabo che offre, prima di abbandonare la penna e voltarsi per cercare la figura di Mio. La trova più vicina di quanto si aspettasse, realizzando come l’altro debba aver accostato in silenzio il futon prima di infilarsi sotto le coperte. Di solito Mio lo fa le rare volte in cui non sta bene e diventa molto più bisognoso di attenzione, a richiederne con il tono lamentoso di un bambino. E’ strano che lo faccia in condizioni come quella, invece. Per questo Shun inarca un sopracciglio, osservandolo; nota subito l’altro mettere su un broncio leggero: «Che c’è?»


Capita che Shun lo osservi, anche quando Mio non ne è consapevole. Lo ha fatto all’inizio, quando ancora non sapeva nemmeno il suo nome, vedendolo solo su una panchina a guardare il mare - forse, in alcuni giorni, senza vederlo davvero. Shun si è domandato, in quelle prime occhiate rubate di straforo all’insaputa del diretto interessato, perché quella figura pur sembrandogli incredibilmente sola gli desse anche la sensazione di qualcuno senza vincoli. Certo, quando era venuto a sapere della mamma di Mio si era sentito una persona orribile per aver pensato anche solo per un secondo che un lutto rendesse qualcuno libero di non avere legami di alcun tipo a fargli da zavorra. Non glielo ha mai detto, né lo ha più pensato. 


Immagina che sia stato un pensiero dovuto al suo rapporto con i suoi genitori. 


«Nulla, nulla.» replica, sventolando un poco la mano e abbandonando tutto quanto è sulla scrivania per gattonare a coprire la poca distanza dal futon di Mio, infilandosi senza tante cerimonie sotto la coperta con lui. Mio un po’ protesta con dei «Shun-» e «devi finire, prima!» ma poi lo sente sbuffare perché non riesce a trattenere benissimo la risata che alla fine gli scappa mentre lo accoglie. Shun si sistema su un fianco, in modo da guardarlo in viso. Sa che Mio ha patito un po’ il suo carattere e le sue convinzioni, ma non riesce davvero a pentirsene del tutto: voleva lasciargli la libertà di non avere gli sguardi su di sé, come la volta in cui sono finiti in quell’albergo. 


La libertà di scegliere, perché in qualche modo contorto è sempre stato convinto che Mio potesse farlo, al contrario suo.


«Shun?» si sente chiamare e alza lo sguardo su Mio, mentre avverte la sua mano cingergli un fianco con leggerezza, senza nessun invito di altro tipo se non quello di stare vicini e godersi un momento loro: «A cosa pensi?» gli domanda e Shun è lì lì per chiedergli di cosa parli di preciso, ma Mio lo anticipa aggiungendo un più chiaro «Quando scrivi, dico. A volte ti vedo assorto come se fossi in un mondo tutto tuo che posso solo guardare da fuori, però…» indugia, Shun lo sente stringergli appena di più il fianco in quel mezzo abbraccio a cui ha dato vita.


Lo guarda, un po’ per esortarlo in silenzio, un po’ perché farlo a voce poi legittimerebbe qualsiasi domanda scomoda e non ha molti dubbi che lo sarà. Se ne aveva, spariscono quando Mio pronuncia quel «però altre sembri solo fare qualcosa che ti fa stare come se avessi un peso enorme sulla schiena.»


Come potrebbe mai spiegargli che nel momento in cui la scrittura l’ha resto libero, allo stesso tempo lo ha reso anche schiavo? Di essersene accorto troppo tardi, quando ormai ne era dipendente? Di avere, a volte, l’istinto di stracciare ogni singolo foglio, mettersi le mani nei capelli e urlare, perché lui è solamente questo: la capacità di mettere parole in fila, scoperta un po’ per caso, un talento grezzo che forse lui non ha saputo coltivare se non con una partecipazione a un concorso al momento giusto. Come potrebbe spiegargli di sentirsi come se la scrittura fosse tutto ciò che ha, tutto ciò che è? Di quanta paura faccia il pensiero di perderla, perché non saprebbe cos’altro fare di se stesso - di come però si ritrova, alcune notti, a pensare forse se l’abbandonassi sarei libero.


Districa una mano da sotto le coperte, posando una carezza leggera sulla sua guancia, finendo con l’avvicinare il viso e posargli un bacio sulle labbra. Sente Mio fare per lamentarsi e lo sa, di essere il solito codardo e di averlo baciato spesso per non rispondere a una domanda. Ma lo fa di nuovo, con più dolcezza, sentendolo rilassare il corpo perché in fondo tanto lui quanto Mio, almeno nella sfera affettiva, sanno essere persone estremamente semplici a cui basta sentirsi vicini.


Dal suo punto di vista, è già un miracolo così.


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