Feb. 20th, 2018

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Il mare di Ivirenth era conosciuto in tutto il mondo: chi si era spinto quasi fino all’isola assicurava che le scogliere di quell’isola erano uno spettacolo che mozzava il fiato. Il modo in cui le onde s’infrangevano sulla pietra chiara e modellata dal tempo, le sfumature che la luce dava a quelle acque, erano capaci di far innamorare di quella terra di cui si vedevano – dalle navi – gli alberi rigogliosi sul lato ovest. Era facile immaginare un fitto bosco che coprire una generosa parte di quelle terre, qualche fiumiciattolo suddividere quel luogo segnando confini naturali, tutti aspetti affascinanti a dare l’illusione di un luogo benedetto.
Chi di Ivirenth vedeva solo la forma sulle cartine o, se proprio, le terre in lontananza non ne aveva un’idea così positiva: il mare che si frapponeva tra l’isola e Raskea, il continente a essa più vicino, era anche la naturale barriera tra il mondo e “l’isola disabitata”, il soprannome con cui Ivirenth era conosciuta. La concezione che si aveva di quel posto non era così diverso da quella sulle Terre di Nessuno, con la differenza che di queste ultime era risaputo come fossero il covo di tutti i Dimenticati, quegli uomini e quelle donne il cui posto nel mondo non esisteva più. Per scelta di chi dipendeva dalle storie a cui si prestava ascolto. L’isola disabitata, invece, era quasi peggiore: si vociferava che avesse smesso di essere adatta alla sopravvivenza di qualcuno due secoli prima e due sole città, delle vecchie conosciute, erano ancora in piedi. Èidenn, la cui unica parte davvero funzionante era il porto in cui riposavano i pochi mercanti che osavano spingersi fino all’isola per recuperare materie prime introvabili altrove, e Xile, una città in rovina dove si raccontava fossero state perpetrare cose di cui più nessuno osava parlare nel dettaglio. Il poco che si spingevano a dire i più anziani o chi ne aveva studiato la storia per interesse personale, era che fosse una città dell’esilio. Nessuno più si spingeva fin lì, tanto più perché Xile si trovava esattamente dal lato opposto rispetto a Èidenn; in quest’ultima, invece, si mantenevano in un discreto stato le poche case utilizzate dai mercanti come rifugi di una notte o poco più. La parte della città che si spingeva più all’interno dell’isola non veniva nemmeno visitata, tanto meno abitata.

Crescere su Ivirenth non era il massimo per un adolescente desideroso di mettersi alla prova, di confrontarsi con altre persone e di conoscere il mondo in tutte le sue sfaccettature; per sua fortuna, Dalyar non aveva tutte queste grandi pretese, quindi la vita sull’isola non era così male se si ignorava come - a conti fatti - la sua patria fosse considerata una specie di luogo infestato. In quindici anni non aveva mai visto un solo spettro e, per quel che valeva, passare il tempo sulle scogliere rimaneva comunque la sua attività preferita e il rumore, l’odore e la bellezza del mare sarebbero sempre rimasti la perfetta descrizione di “casa”, per lui.
«Dal! Papà ti sta cercando da un pezzo!»
L’isola disabitata, come la chiamano tutti, non è poi così disabitata. Ma Dalyar era stato il primo di cinque figli a sentirsi spiegare l’importanza di far sì che il mondo continuasse a pensarla così e non era stato così raro aiutare i suoi genitori a spiegarlo ai quattro venuti dopo di lui. Tra questi Keea, la secondogenita, era stata quella più difficile da convincere: aveva preso tutta la decisione e la testardaggine che Dalyar sentiva di non avere e questo lo rendeva orgoglioso, per uno di quelle incomprensibili dinamiche tra fratello e sorella di cui non si sapeva mai spiegare granché. Sapeva bene quanto doveva costarle, il pensiero di rimanere bloccata su quell’isola - in verità non era impossibile per loro recarsi negli altri Paesi, ma le complicazioni non erano poche. Dalyar stesso ricordava di aver visto Raskea una sola volta in vita sua, accompagnato da suo padre; Athia e Echait, distanti un intero continente, non erano niente più di una cartina disegnata su vecchi libri.

Keea lo raggiunge, arrampicandosi con agilità, i lunghi capelli biondi tenuti su in una pettinatura semplice e pratica. Gli occhi azzurri furono puntati subito su di lui e Dalyar le rivolse un sorriso di scuse, riconoscendo subito il cipiglio che preannunciava un rimprovero e che sua sorella aveva ereditato senza alcun dubbio dalla nonna.
«Manchi soltanto tu, a casa.»
«Pensavo papà avesse rinunciato alla staccionata, per oggi…?»
«Macché, quella l’abbiamo rimandata!» ribatté Keea agitando una mano davanti al naso con fare sbrigativo: «C’è un messaggio da Echait. Papà l’ha letto e vuole che ci siamo tutti, quindi mi gioco mezza scogliera che è un messaggio della regina.» commentò arricciando il naso. Keea non era una ragazzina irrispettosa. Dalyar sapeva meglio di chiunque altro quanta dolcezza ci fosse in lei, ma era la sorella più grande e se da una parte aveva conosciuto il piacere di essere viziata proprio da lui, dall’altra aveva avuto tre piccoli di cui prendersi cura a propria volta. Si sentiva in dovere di vegliare sugli altri, e qualsiasi cosa o persona esterna alla famiglia era qualcosa da cui guardarsi fino a nuovo insindacabile giudizio. Era troppo giovane per avere un’idea completa su persone mai incontrate, e la regina di Echait non era - per ovvie ragioni - qualcuno che potesse andare a far loro visita ogni giorno per sincerarsi di non essere vista come un mostro senza cuore.
Dalyar spostò lo sguardo sul mare, soffermandosi per qualche istante ancora sulle onde; sapeva che Keea lo osservava, in attesa, senza capire perché i suoi occhi cercassero di continuo quello specchio d’acqua. Lui non aveva la pretesa di spiegarglielo o che lei lo capisse, non perché non ne avesse la sensibilità ma perché sarebbe stato come spiegare a qualcuno che non aveva bisogno di respirare quanto farlo fosse invece essenziale per quelli come lui. Il legame con quell’elemento gli scorreva nelle vene e solo parte della sua famiglia poteva capire quanto profondo fosse. Quando si alzò, infine, e si avviò al fianco di sua sorella minore lei non gli chiese nulla sul perché fosse di nuovo andato in cima alla scogliera, ma quando casa fu in vista, la sentì prendergli la mano. La strinse prontamente, rivolgendole un’occhiata e un sorriso.
«Secondo te sono cattive notizie?»
«Non credo… di solito i messaggi da Echait, quando arrivano, sono solo delle comunicazioni. Perché sei così preoccupata? Papà ha detto qualcosa?»
«No,» disse subito lei, stringendogli un po’ di più la mano «ma aveva un’espressione strana.»
Dalyar ricordava poche occasioni in cui Dakene, loro padre, aveva dato loro modo di preoccuparsi solo guardandolo in viso e nessuna di quelle era qualcosa che voleva si ripetesse. Non sentiva di poter tranquillizzare Keea senza mentire, così tacque fino a raggiungere casa. Una volta entrati fu facile vedere che la famiglia li aspettava nel salotto: la loro abitazione era abbastanza grande, sebbene nulla di esagerato; appena si oltrepassava la soglia, quasi subito sulla destra si trovava una delle stanze più grandi. Una delle due poltrone era occupata dalla nonna, seduta con quella compostezza che Dalyar le aveva sempre associato da quando era piccolo; sull’altra sedeva Dakene, che stava parlando con Ethel, sua moglie e la madre di tutti i giovani presenti nel salotto. La donna, i lunghi capelli biondi ad accarezzarle la schiena, teneva in braccio una delle più piccole di casa Linjen. Sulla sinistra, l’ampio divano era per metà libero: su di esso c’erano Neth, il terzogenito, e Lyeal, il gemello di Linjen. Quando il più piccolo li vide entrare scivolò giù dal divano e corse subito incontro a Dalyar - lui lasciò con delicatezza la mano di Keea giusto in tempo per prendere in braccio il fratello, uno sbuffo divertito tra le labbra.
«Papà» richiamò guardando in direzione di Dakene «va tutto bene?»
L’uomo spostò gli occhi chiari sul figlio, facendogli cenno di sedersi, così Dalyar non poté fare altro che andare a prendere posto sul divano insieme a Keea e Neth. Per diversi anni della sua vita Dalyar era stato abituato a vedere suo padre impegnato nelle mura di casa o in quelle attività volte solo a garantire alla sua famiglia un buon tenore di vita, considerando che Ivirenth non brillava certo per offerte di lavoro. Il ricordo delle volte in cui lo aveva visto fuori da quel ruolo di padre e marito, era fresco abbastanza e Dalyar sperava sempre che non si ripresentasse mai più l’occasione e ora, che negli occhi azzurri di suo padre vedeva una sfumatura di quelle volte, riconosceva prima di quanto avrebbero potuto fare i suoi fratelli la presenza di qualcosa che non andava. Sbirciò verso sua madre e sua nonna, ma le uniche cose che trovò sui loro volti furono un sorriso incoraggiante dalla prima e una calma imperturbabile nella seconda.
«Questa è il messaggio arrivato da Echait.» fu la premessa di Dakene, la mano destra che teneva in mano il foglio in questione che portò quest’ultimo più vicino al viso, con la chiara intenzione di leggerlo ad alta voce: «“Dakene, mi scuso per questo messaggio dove non mi è possibile spiegare nel dettaglio l’urgenza che mi obbliga a chiederti, in qualità di amico prezioso, di prestarmi i tuoi servigi. Purtroppo la situazione di cui ti ho fatto accenno nella mia precedente lettera, di certo più esaustiva di questo messaggio, è andata peggiorando e confido che tu lo abbia notato prima di molti di noi.”» iniziò a leggere, scatenando in Dalyar ben più di una perplessità. Non aveva mai ficcanasato nelle lettere di suo padre, ma se quella era davvero scritta dalla regina di Echait era normale che una reale si rivolgesse con tanta familiarità a suo padre? Avevano una corrispondenza fitta e sua madre lo sapeva? Oltre a quello, la situazione che stava peggiorando… Dalyar non riusciva a immaginare di cosa si trattasse, esattamente. Suo padre non diede segno di volersi interrompere per spiegare meglio la cosa.
«“I regnanti di Raskea e di Athia hanno deciso di inviare un rappresentante, il migliore del loro regno, in cerca dell’Eristian. Tu meglio di chiunque altro conosci le colpe di cui i figli degli uomini tendono a macchiarsi quando sono accecati dal potere. Non ti chiederei mai di unirti a una causa che non senti tua, ma sei l’unico a cui posso rivolgermi. Re Ileisya e re Myades hanno accettato la presenza di un terzo rappresentante, che sarà ufficialmente designato nel nome di Echait, ma sono costernata nel dover riportare su carta il loro disappunto all’idea che quel qualcuno possa essere tu. Nella speranza che tu possa comunque concederci il tuo aiuto, ti saluto con affetto.” Segue la firma.» concluse Dakene, lasciando cadere il foglio sulle proprie gambe. Il silenzio fu l’unica cosa che aleggiò nella stanza per diversi istanti e quando venne meno, fu grazie alla voce di Keea.
«Cosa vuol dire, papà?»
«L’Eristian è un vecchio manufatto di cui parlano alcune leggende. Raskea e Athia manderanno qualcuno a cercarlo, e la regina di Echait non trova saggio mandarli da soli. A ragione, aggiungerei.» commentò Dakene, e Dalyar riconobbe senza troppe difficoltà una sfumatura di astio nella sua voce. Se ne dispiacque, sapendo che era in parte colpa sua: suo padre probabilmente non avrebbe mai più amato gli umani come faceva una volta, ed era orribile perché lui stesso era per metà uomo.
«I vecchi degli altri due regni non mi vogliono tra i piedi, sicuro quindi che non vogliano nemmeno vostra nonna. E mandare vostra madre è fuori discussione.» chiarì, stringendo in modo impercettibile il pugno posato sul bracciolo della poltrona. Dalyar era d’accordo con lui: Keea era la più grande subito dopo di lui e aveva solo tredici anni. Neth subito dopo di lei ne aveva undici e i gemelli appena sette. Era impensabile farla allontanare da casa, non perché fosse relegata a un ruolo nelle quattro mura della loro abitazione, ma perché i più piccoli avevano bisogno di averla lì. Dalyar non aveva davvero bisogno di sentirsi dire dove sarebbe ricaduta la scelta, e in ogni caso lo capì quando suo padre puntò gli occhi nei suoi.
«Al primo cenno di pericolo che non puoi affrontare tornerai indietro e li lascerai lì, non importa chi siano o la situazione, Dalyar. La nostra famiglia ha un debito verso i reali di Echait, ma non ha obblighi verso i figli degli uomini.» pronunciò asciutto, una raccomandazione che era più un’indicazione a cui Dakene non sembrava voler sentire repliche che non fossero “sì”. Il suo sguardo si ammorbidì, però, voltandosi verso la moglie e prendendo una sua mano nella propria, sfiorando quella di lei con le labbra: «Scusami.» mormorò «Sai che amo di te tutto, anche il lato umano.»

Ethel gli sorrise con dolcezza, annuendo brevemente. Solo allora Dalyar vide sua nonna abbandonare la propria posizione e alzarsi in piedi, muovendo alcuni passi fino a superare Dalyar di un paio di falcate e rivolgersi a lui: «Vieni, figliolo. Parliamo nell’altra stanza.»


L’unico viaggio in mare della sua vita Dalyar lo aveva fatto diversi anni prima, dunque la traversata fino a Braesia, la città portuale più vicina a Ivirenth, si rivelò interessante. Aveva letto di Raskea dai libri, ma non bastò a impedirgli di sorprendersi per il gran numero di persone che trovò quando la piccola nave mercantile su cui aveva viaggiato attraccò. Appena fu sceso dalla pedana, si ritrovò immerso in un via vai lungo la banchina: il sole era tiepido e gli abitanti di Braesia - senza contare tutti i mercanti di passaggio - erano indaffarati con il fare naturale della quotidianità. Nessuno di loro si fermava a controllare chi stesse scendendo dalle navi, ma evitavano con facilità chi si muoveva con più incertezze per le loro strade. Dalyar sistemò meglio il sacco sulla spalla, guardandosi intorno. Ci era voluta una settimana per prepararsi alla partenza, in quei giorni suo padre aveva mandato una risposta alla regina di Echait, ricevendo indietro un ringraziamento sentito e l’assicurazione che Dalyar avrebbe trovato qualcuno ad attenderlo a Braesia, una persona mandata espressamente dalla regina. Non avere la minima idea di quale aspetto questo qualcuno dovesse avere non era di alcun aiuto, specie mentre si rendeva conto di essere davvero in mezzo e che presto avrebbe iniziato a urtare gli altri se non si fosse messo da parte. Stava cercando con lo sguardo un punto che non lo nascondesse troppo impedendogli di essere trovato ma che, al tempo stesso, gli evitasse di essere d’impiccio agli abitanti del posto quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e richiamare la sua attenzione.
Si voltò, ritrovandosi a guardare un viso giovane, anche se non c’erano dubbi sul fatto che l’uomo di fronte a lui fosse più grande. Lo vide sgranare appena gli occhi e poi fare un fischio ammirato: «Mi avevano detto di cercare un quindicenne e mi aspettavo un bimbetto spaurito. Invece guardati!» disse divertito, dandogli una pacca amichevole. Dalyar non era abituato agli estranei né alle folle e cominciava a sentire una morsa di disagio attanagliarlo. Passò la mano libera sui pantaloni, sicuro che il palmo stesse sudando un poco, e poi l’allungò esitante verso l’uomo; quello la strinse con prontezza, indicandogli una piccola locanda di cui Dalyar riusciva a vedere l’insegna, da dove si trovavano.
«Seyah Mistamber. La regina mi ha chiesto di guidarti e di essere il tuo intermediario, dal momento che il rappresentante di Athia ne avrà uno e quello di Raskea, beh… siamo nel loro regno, quindi non gli serve davvero qualcuno che parli per lui o lei.» precisò, camminando verso il locale. Dalyar si limitava ad annuire, mentre lo seguiva, e a osservarlo: gli abiti dell’uomo erano chiaramente estranei a quella città, non tanto negli anonimi pantaloni neri, ma nella casacca bianca che copriva il torace e le braccia. I ricami vicino ai bottoni che la chiudevano sul davanti e ai bordi delle maniche erano in filo e avevano l’aria di essere stati fatti a mano con una grande attenzione ai particolari; il blu del filo utilizzato spiccava sul bianco della stoffa e donava a Seyah. Da quello che Dalyar riusciva a vedere, l’altro non sembrava avere armi con sé e se le aveva, erano nascoste davvero bene. L’unico bagaglio era simile a quello dello stesso Dalyar, una sacca da viaggio portata in spalla.
Una volta che furono di fronte alla locanda, Seyah gli aprì la porta e lasciò che Dalyar entrasse per primo, seguendolo subito dopo: l’ambiente era riscaldato, cosa piuttosto gradita visto che Raskea aveva temperature un poco inferiori a quelle di Ivirenth e che il mare aperto su cui si affacciava la città rendeva l’umidità palpabile. Subito sulla destra il bancone vedeva dietro e pronto all’accoglienza un uomo sulla mezza età che rivolse loro un saluto amichevole. Seyah comunicò la loro intenzione di soggiornare per una notte e impiegò così poco a pagare che Dalyar non ebbe nemmeno il tempo di tirar fuori la sua parte; quando nel muoversi verso uno dei tavoli sulla sinistra tentò di chiedere a Seyah quanto gli dovesse, lui si limitò a un «Nulla, la regina mi ha espressamente richiesto di occuparmi di ogni tuo bisogno.»
Dalyar era a disagio. Per cominciare, non era bravo a rapportarsi con gli estranei e in secondo luogo, non gli piaceva molto l’idea di lasciare che uno sconosciuto pagasse per lui. Seyah era intento a decidere cosa chiedere alla cameriera che si era avvicinata non appena si erano seduti e Dalyar nell’attesa sbirciò la sala: era abbastanza piena, i tavoli e le sedie in legno scuro quasi del tutto occupati, il vociare alto tanto da permettere a Dalyar di distinguere senza troppi problemi il fulcro dei discorsi del gruppo al quale dava le spalle. Fu la cameriera ad attirare la sua attenzione, andandosene con fare affaccendato dopo che lui ebbe richiesto delle patate ripiene.
«Posso supporre tu abbia diverse domande da fare.» Seyah occupò con fare magistrale il silenzio imbarazzante che altrimenti si sarebbe creato tra di loro, se fosse dipeso da Dalyar. Lui annuì, perché dire di no avrebbe significato mentire, ma abbassò lo sguardo sul tavolo; cercava non soltanto di prendere tempo, ma anche di evitare il contatto visivo con l’uomo davanti a lui. Fu abbastanza difficile quando intravide Seyah entrare nel suo campo visivo con prepotenza, piegandosi sul tavolo e inclinando la testa per obbligare Dalyar a guardarlo.
«Allora?» lo incalzò, con un sorriso che a Dalyar ricordò un po’ quello di sua sorella Keea quando faceva qualcosa di non proprio vietato, ma che non le era stato di certo raccomandato. Un fare furbo da ragazzino era ciò che leggeva sul volto dell’uomo seduto davanti a lui.
«Mio padre ci ha letto la lettera che la vostra regina gli ha mandato.» iniziò dalla cosa che gli premeva di più, interrotto quasi subito da Seyah e dal suo «Dammi anche del tu, non sei tenuto a tutta questa formalità.» che stupì un po’ Dalyar ma, indubbiamente, riuscì a metterlo a suo agio. Annuì, cercando le parole giuste per fare quella domanda: «Diceva che i re di Raskea e Athia non vogliono mio padre. Non sono sicuro che vorranno me.» ammise a testa bassa. Non stava chiedendo perché, il motivo lo conosceva meglio di chiunque altro. Nulla di quanto era stato scritto nella lettera letta da suo padre gli faceva ben sperare che la sua presenza sarebbe stata più gradita e quello lo sconfortava abbastanza. Se anche i sovrani fossero stati d’accordo - e Dalyar era convinto sarebbe stato, in realtà, un accontentarsi - le due persone con cui sarebbe dovuto partire come avrebbero reagito?
«In effetti è probabile che, se avessero potuto scegliere tra te e una qualsiasi altra persona, tu non saresti mai partito da Ivirenth.» replicò Seyah senza tanti giri di parole «Ma il punto è che non hanno avuto voce in capitolo, né possono rifiutare la tua presenza, quindi io non mi preoccuperei troppo di questo.»
Dalyar, nonostante i suoi buoni propositi, si ritrovò ad alzare gli occhi su Seyah: «Perché? Voglio dire… sono dei re. Potrebbero anche minacciare di non mandare i loro rappresentanti.»
«Oh ti assicuro di no. La situazione è troppo grave perché possano davvero farlo, ma quando domani ne parleremo con i diretti interessati lo capirai meglio. Quanto al resto non devi preoccuparti. Sai che nessuno conosce l’ubicazione esatta dell’Eristian, giusto?» chiese con fare un poco retorico e dandolo quasi per scontato. Dalyar annuì, anche se non sapeva nel dettaglio cosa fosse questo Eristian: suo padre gli aveva detto per sommi capi che si trattava di un manufatto importante e che, appunto, nessuno sapeva dove si trovasse con esattezza. O se esistesse ancora in luoghi dove gli uomini potessero arrivare.
«Bene, ora immagina: se nessuno sa dove si trova, potenzialmente quel manufatto può essere ovunque, giusto? Se tu avessi la giurisdizione su alcune porzioni di mari, porzioni che sono necessarie per viaggiare ed evitare zone ben più pericolose, pensi qualcuno avrebbe da ridire sul tuo rappresentante?» chiese, facendogli persino un occhiolino complice.
Dalyar sperava di star sbagliando, ma suonava come se la regina di Echait avesse minacciato di far affondare le navi se non avessero accettato lui nel gruppo. Non sapeva davvero come sentirsi al riguardo. Forse la sua espressione tradiva molto i suoi pensieri, perché Seyah rise mentre la cameriera portava loro il cibo ordinato: un buon profumo stuzzicò le narici di Dalyar, ma era difficile concentrarsi sulle patate ripiene con quel discorso di mezzo.
«Tranquillo, la mia regina non minaccerebbe mai di fare una cosa del genere. Ma la politica è complessa e si basa sul presupposto che i tuoi nemici debbano crederti capace di qualunque cosa.» affermò, prendendo una cucchiaiata dello stufato davanti a lui; soffiò un paio di volte, prima di aggiungere: «D’altra parte Echait non entra in guerra da seicento anni. Dovrà pur valere qualcosa, no?»

In effetti da quel punto di vista nessuno poteva dar torto a quell’uomo che gli sedeva di fronte e conversava con lui come se fossero amici da sempre. Echait era famoso per essere un regno rimasto neutrale per ben sei secoli: gli ultimi sovrani a essere entrati in guerra erano tre fratelli che avevano regnato all’epoca e da allora - sebbene Dalyar, non essendo esperto della storia di quel luogo, non ne conoscesse con precisione le ragioni - tutti quelli che si erano seduti sul trono avevano mantenuto il Paese lontano dagli scontri, senza mai prendere posizione. Si vociferava qualcosa a proposito di una fortezza inespugnabile oltre la quale chi aveva tentato di invadere Echait non era mai riuscito a passare, ma quasi tutto quel che Dalyar sapeva era grazie ai testi che aveva letto e suo padre, da parte sua, non aveva mai parlato molto delle storie di luoghi diversi da Ivirenth. Sapere la verità non era possibile, visto che l’unico modo sarebbe stato parlare con tutti i sovrani che avevano amministrato quel regno; Dalyar non poteva fare a meno di chiedersi, però, che tipo di persona potesse essere una regina che si portava sulle spalle il peso di seicento anni di neutralità nei confronti di un qualsiasi scontro potesse scoppiare e cosa, quindi, potesse smuoverla al punto da designare un rappresentante da affiancare a quelli degli altri regni. Era qualcosa che toccava Echait da vicino? Almeno quello avrebbe spiegato un po’ la situazione e reso Dalyar meno ansioso.


Svegliarsi presto era qualcosa a cui era abbastanza abituato, ma questo non gli aveva impedito di sbadigliare per parte del tragitto dopo che alle quattro e mezza del mattino si erano fatti dare un passaggio da alcuni mercanti che si stavano dirigendo alla capitale di Raskea, Flamain. Il profumo di spezie, gran parte del carico che i mercanti stavano trasportando, era stato fin troppo forte per il suo naso quando era salito dopo essere stato buttato giù dal letto da Seyah. In compenso aveva smesso di badarci quando, dopo mezza giornata di viaggio - in buona parte passato ad appisolarsi prima e a guardarsi intorno incuriosito da un paesaggio piuttosto diverso da quello di Ivirenth -, le porte di Flamain finalmente apparvero all’orizzonte. Seyah si sporse per primo, scrutando in lontananza prima di spostare lo sguardo su di lui.
«Non hai mai visto Flamain prima d’ora, giusto?»
«No» ammise Dalyar «so che la chiamano “la capitale del fuoco” ma...» lasciò in sospeso, non sapendo come continuare. All’inizio pensava l’appellativo fosse dovuto a un qualche avvenimento storico, ma non sembravano esserci state guerre particolarmente cruente di cui Flamain fosse stata il fulcro né niente sul genere.
«Quello potrei spiegartelo, ma credo sia molto meglio mostrartelo. Stasera, dopo che avremo chiuso con gli affari ufficiali, ti farò vedere.» promise, mentre un enorme arco di pietra bianca si faceva sempre più vicino. Spostando gli occhi azzurri in quella direzione, Dalyar scoprì la prima cosa riguardo la capitale di Raskea: era una città circondata da un unico muro, alto non più di cinque metri per quanto si potesse misurare alla meno  peggio con uno sguardo. Attraverso quel muro si passava appunto dall’arco che vedeva - Seyah si premurò di spiegargli che in linea d’aria ce n’era un altro proprio dalla parte opposta della città così da evitare a chi era di passaggio di dover per forza uscire da dove era entrato, e fare il giro per passare oltre.
«Il rappresentante di Athia è già qui da molto?»
«Non che io sappia. Viene dalla capitale del suo regno, Nejeik, quindi dovrebbe essere sbarcato all’altro porto di Raskea. Potrebbe essere in anticipo di mezza giornata nel caso fosse arrivato ieri, ma non più di questo.» assicurò Seyah, mentre passavano sotto l’arco ed entravano finalmente in Flamain.
Dalyar non riuscì a non trattenere il respiro quando la città si dispiegò davanti ai suoi occhi: ogni costruzione che rientrava nel suo campo visivo era in pietra lucida, diversa da quella del muro esterno. Se il porto di Braesia era stato affollato, attraversato da un via vai quasi febbrile, Flamain pulsava come un cuore in cui ogni persona e ogni cosa sembrava esattamente al suo posto a cominciare dalle forme artistiche delle costruzioni, da quell’aspetto un po’ antico che sembrava caratterizzarla e finendo con le persone che per le strade si muovevano come ordinate formiche operaie. Non era mancanza di personalità o qualcosa di negativo: pur prendendo direzioni diverse o occupandosi ognuno dei propri affari - con solo poche paia di occhi intente a osservare i mercanti che attraversavano le strade, Seyah e Dalyar con loro - sembravano del tutto consci gli uni degli altri, come se qualcosa dentro di loro gli impedisse di sovrastare l'altro o limitarne la sua libertà. Visti così, a Dalyar davano l'idea di un popolo che non avrebbe mai potuto causare torti a un'altra persona, ma era probabile che tra di loro ci fossero ben altri tipi di individui, di quelli che suo padre odiava di più.
Il mezzo su cui si stavano muovendo si fermò, e i mercanti avvisarono Seyah di non poter proseguire oltre, avendo raggiunto il negozio con cui erano soliti fare affari. L’uomo li ringraziò, offrendosi di pagare loro qualche moneta per il passaggio, ma quelli rifiutarono.
«Andavamo nella stessa direzione, ragazzo» fece notare con fare burbero e spiccio quello che fino a quel momento aveva guidato il mezzo «e non ho di certo sprecato carburante in più per voi, forza.»
Appena fu di nuovo con i piedi per terra, Dalyar fu distratto dagli altri mercanti che avevano viaggiato con loro: uno di questi stava facendo segno a quello che, invece, era rimasto sul mezzo per scaricare. Dalyar non aveva mai visto le capacità donate dalla Dea prima di allora, se non raramente da sua madre, ma ricordava bene quando Ethel glielo aveva spiegato da bambino, raccontandogli la leggenda più antica del mondo come se fosse una fiaba della buonanotte. “Tantissimi anni fa”, gli aveva narrato, “la Dea, che provava amore e compassione per gli uomini dalla vita così breve e fragile, decise di donargli il potere di immaginare”. La dea Leira, secondo la tradizione, aveva permesso ai primi uomini di materializzare tutto ciò che la loro immaginazione riusciva a creare nella loro mente e, in seguito, era stato il dio Yael a far sì che nessun uomo o donna potesse utilizzare quel potere per fare del male ai suoi simili. Nei secoli quei poteri erano diventati le colonne portanti del mondo, ma Dalyar aveva sempre e solo potuto immaginarli: suo padre e sua nonna avevano un tipo di magia diversa e rara, qualcosa che speravano il mondo avesse dimenticato mentre i suoi fratelli erano ancora o troppo giovani per manifestare quel potere, o ancora piuttosto instabili nel suo utilizzo. Dalyar aveva capito presto che, al pari di suo padre, non avrebbe mai sviluppato nulla di speciale che lo rendesse parte di una comunità in cui - comunque - non era nemmeno cresciuto. Per questo, avere l’opportunità di assistere a una qualsiasi dimostrazione di quel potere, nonostante non sapesse con precisione secondo quali criteri il mercante riuscisse a far galleggiare la merce a mezz’aria fino al punto indicato dal compagno, lo faceva emozionare. Era probabile che gli si leggesse in viso, almeno a giudicare dalla risata soffocata al suo fianco che gli anticipò la presenza di Seyah ben prima di sentire la mano sulla propria spalla.
«Possiamo proseguire e non dovremmo metterci troppo. Mi hanno consigliato di andare dritti per questa strada fino alla piazza e lì possiamo proseguire per la via alla destra della fontana. Dovremmo arrivare a palazzo abbastanza celermente, e in ogni caso perdersi è abbastanza difficile.» gli comunicò, iniziando a muoversi. Dalyar non faticava a credere all’impossibilità di perdersi; bastava guardare verso nord-ovest per individuare subito il palazzo di cui Seyah parlava. Più alto di tutte le altre costruzioni - a eccezione, forse, del campanile che si trovava nella direzione diametralmente opposta - la sua imponenza non si doveva solo alle dimensioni, ma anche all’atmosfera generale che il luogo sembrava emanare. La stessa pietra degli altri edifici era stata utilizzata anche per il palazzo reale, i cui tetti presentavano una colorazione molto più scura del resto dell’edificio, creando questo contrasto tra un bianco molto sporco e un grigio così pesante da sembrare nero. A vederla così, Dalyar faticava a capire cosa potesse rendere a quella città l’appellativo con cui era conosciuta, ma qualunque fosse il filo dei suoi pensieri che avrebbe potuto seguire in quel momento, Seyah richiamò la sua attenzione.
«Ivirenth non ha dei re o delle regine, quindi immagino tu non sia abituato all’idea di stare davanti a uno di loro. Né che tu abbia studiato qualcosa sui sovrani degli altri Paesi, giusto?»
«Giusto…»
«Vorrà dire che ti farò una guida veloce mentre camminiamo.» assicurò Seyah con un sorriso convinto; Dalyar avrebbe voluto sentire sua tutta quella sicurezza, ma suppose di doversi accontentare delle punte delle dita gelide, cosa che gli succedeva ogni volta che si agitava per qualcosa.
«Il re di Raskea è Myades della casata dei Rubell. Si tratta di un re abbastanza giovane e le due volte che ho avuto modo di vederlo in visita a Echait non mi ha fatto una brutta impressione. Ma è una persona arrogante e con un modo piuttosto… brusco di affermare le cose. Aspettati che ti metta in difficoltà, perché è vero che né lui né il re di Athia possono avanzare la pretesa di non averti in questa spedizione, ma se fossi tu a rifiutare il discorso sarebbe diverso.» chiarì Seyah lanciandogli un’occhiata. Dalyar avrebbe preferito non essere a conoscenza di quella parte.
«Non ci sarebbe il tempo per la mia regina di scegliere un’altra persona e lo sanno, perciò se ti tirassi indietro non potremmo far altro che accettare l’idea di soli due rappresentanti, ed è l’opzione che sia Myades che Ileisya preferirebbero. Di contro» proseguì, e Dalyar sperava davvero di sentire qualche buona notizia «Myades è molto meno freddo del re di Athia, anche se è comunque difficile capire cosa gli passi per la testa. Ci vorrebbe il nostro Generale, ma dovrai accontentarti di me.»
«Perché il Generale? E’ un vecchio amico del re?» azzardò Dalyar, mentre la via percorsa fino a quel momento si apriva in una piazza ampia e piena di bancarelle di certo dovute al mercato o a qualche ricorrenza di cui ignorava l’esistenza. Gli occhi chiari passarono velocemente in rassegna il posto, inquadrando la fontana; si mosse in quella direzione nello stesso momento in cui lo fece Seiyah, finendo con l’affiancarlo e annullare quel mezzo passo di distanza che c’era stato tra loro fino a quel punto del percorso.
«No, ma non esiste una persona più incomprensibile del Generale Yinfaren. Darei la mia vita senza un attimo di esitazione, per lui, ma capire cosa gli passi per la testa in tempo reale non è la mia specialità.» ammise divertito «Né la specialità di qualcuno esistente al mondo, che io sappia. Forse solo la regina ha un vago sentore, ma non ne sono sicuro.»
Dalyar non aveva molti termini di paragone, tutt’altro, ma più sentiva dettagli su Echait e meno poteva fare a meno di chiedersi come, esattamente, fosse organizzato quel regno. Dalle parole di Seyah sembrava quasi che tutto fosse lasciato al caso: una regina che scriveva personalmente per farsi rappresentare da una persona mai vista e non appartenente al suo popolo, un generale incomprensibile persino per i suoi sottoposti che - tuttavia - si fidavano comunque abbastanza da affermare senza battere ciglio che avrebbero dato la vita per lui…
«A ogni modo» riprese Seyah «l’aspetto positivo è che uno dei consiglieri di Raskea è tutt’altro che ligio alle regole dell’etichetta, perciò è piuttosto improbabile ti rimproverino se anche non le segui alla lettera. Limitati a fare quello che faresti parlando con… c’è una figura autoritaria a Ivirenth?» chiese, guardandolo con un rinnovato interesse nello sguardo e una curiosità affatto celata dal tono di voce.
Quella era una domanda inaspettata e Dalyar non sapeva come replicare. Dire la verità avrebbe forse portato ad altri interrogativi a cui avrebbe preferito non rispondere ma, d’altronde, Seyah era stato davvero gentile da quando lo aveva prelevato al porto e gli aveva dato ogni informazione possibile.
«Mia nonna.» ammise infine, un po’ incerto. Seyah non riuscì - o forse non volle - mascherare la sorpresa alle sue parole, ma non rise di lui. Forse attribuì quella risposta a una semplice incomprensione, dando per scontato che Dalyar avesse inteso chi fosse la figura autoritaria ai suoi occhi o forse decise solo di essere discreto.
«Bene. Fai quello che faresti parlando con tua nonna in uno dei suoi momenti severi. Magari senza chiamare “nonna” il re.»


Quando aveva pensato di non poter essere più a disagio di quanto si sentiva nella folla di un Paese mai visto e con la consapevolezza di avere un ruolo più grande di lui, oltre che non richiesto, sbagliava. L’entrata del palazzo era sorvegliata da due guardie, il che era il minimo e Dalyar se lo era aspettato, riuscendo quindi a non stupirsene troppo. Avevano richiesto di visionare un permesso, cosa di cui si era occupato Seyah, ma a Dalyar non era sfuggita l’occhiata poco convinta di uno dei due soldati quando lo aveva guardato con più attenzione. Aveva degludito, cercando di ignorare l’orrenda sensazione - fin troppo conosciuta - di essere una presenza sgradita e aveva seguito a testa bassa Seyah nell’atrio prima e per il lungo corridoio in cui furono guidati poi. In condizioni normali avrebbe prestato molta più attenzione alle mura interne, gli arredamenti, tutti dettagli che forse avrebbe avuto solo quell’occasione per osservare in tutta la vita. Invece non riuscì a fare altro se non tenere gli occhi puntati sul pavimento, perciò l’unica cosa che analizzò davvero fu la tappezzeria. Quasi non notò quando si fermarono, rischiando di finire contro la schiena di Seyah; si bloccò giusto in tempo, ritrovandosi a guardare una porta in legno chiaro, chiusa. La guardia che li aveva accompagnati si spostò di lato, posando una mano sulla maniglia dorata e rivolgendosi a entrambi: «Il rappresentanti può entrare in attesa che il colloquio con Sua Maestà abbia inizio. L’accompagnatore mi segua.» comunicò, asciutto. Seyah annuì, voltandosi verso di lui e Dalyar fu quasi tentato di pregarlo di restare. La mano dell’uomo si posò sulla sua spalla e la strinse, nel tentativo di rassicurarlo: «Ci vediamo nell’altra stanza. Tutti gli accompagnatori presenziano al colloquio con Sua Maestà.» assicurò con un mezzo sorriso, mentre la guardia apriva la porta. Dalyar annuì, scivolando dentro la stanza in silenzio, quasi timoroso di disturbare; con sua sorpresa, c’era qualcosa più dei muri e dell’arredamento da cui farsi notare: un’altra persona, infatti, si trovava dentro la stanza. Era più basso di una spanna, se non anche qualcosa di più, e quando si voltò d’istinto nel sentire la porta che si apriva Dalyar poté vedere meglio i suoi abiti. Era così palese che venissero da due posti diversi, già solo guardandoli: Dalyar aveva portato con sé i semplici vestiti che indossava a Ivirenth - una maglia semplice sotto la casacca grigio scuro che portava, e dei pantaloni dello stesso colore. Gli stivali neri gli coprivano fino a sotto il ginocchio e la mano destra era coperta da un guanto senza dita, anch’esso nero. Il rappresentante di Athia invece aveva addosso dei pantaloni neri stretti e, quasi in opposizione, una casacca verde scuro che gli copriva ben oltre la vita. Aveva ai piedi delle scarpe molto semplici che non davano l’idea di aver viaggiato granché e i capelli neri, seppur legati in una coda bassa, sfioravano le scapole. Nel momento in cui si chiuse la porta alle spalle di Dalyar l’altro ragazzo puntò gli occhi su di lui: erano di un verde che a Dalyar ricordò il colore delle foreste di Ivirenth, ma non c’era alcun calore nel modo in cui l’altro lo guardò, nessun benvenuto. Diversamente dalla guardia all’ingresso del palazzo, però, non era una freddezza dettata dal disprezzo, ma più la seccatura di non essere più solo nella stanza.
Ora sì che si sarebbe sentito il benvenuto nel gruppo.
«Dobbiamo… aspettare il rappresentante di Raskea?» domandò, appellandosi a tutta la spigliatezza che gli apparteneva - pochissima. Non era sicuro di doversi presentare, se fosse il caso di allungare una mano nella speranza che l’altro la stringesse o se, invece, non fosse meglio starsene fermo al suo posto e aspettare in silenzio. L’altro giovane lo studiò per qualche momento, quasi soppesando la possibilità di prenderlo in considerazione o meno; alla fine si avvicinò, coprendo in pochi passi la distanza tra loro. Dalyar quasi non ci credette, quando lo vide allungare una mano verso di lui.
Cercò di stringerla prontamente, senza sembrare disperato e grato come se l’altro gli avesse salvato la vita.
«Liam Alderbow.» pronunciò lui e quando parlò di nuovo, guardandolo come se avesse sbagliato stanza e con la mano ancora stretta nella sua, Dalyar desiderò sprofondare e tornare alla sua scogliera e al suo mare.
«Che ci fa un mezzo drago qui?»

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