Apr. 5th, 2023

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Prompt: l’inizio della fine
Missione: M5 (week 6)
Parole: 3173
Rating: teen up
Warnings: hunger games!au



Ci sono notti in cui non riesce a dormire, volte in cui la colpa è della fame, altre in cui è la stanchezza di troppe ore di lavoro a cui somma quelle nel mercato nero. Rody ha sempre avuto questa capacità di svicolare tra bancarelle e tizi poco amanti delle sue battute - privi di spirito, a suo modesto parere - con la facilità di chi l’illegalità sembra averla respirata fin dalla nascita. Chi lo conosce e lo ha visto crescere, però, sa bene come non sia stato sempre così: genitori di tutto rispetto, una famiglia povera di beni materiali ma non di affetto o di voglia di vivere di piccoli momenti di gioia. Ogni tanto, quando non riesce a dormire, Rody ripensa a quando casa sua era più di un insieme di stanze impolverate. A quando era piena delle risate sommesse di sua madre e della voce di suo padre intenta a giocare con i suoi fratelli - o a come poi andasse da lui, portandogli qualche meccanismo strano facendogli l’occhiolino: vediamo se riesci a sbloccare anche questo, Rody.


Gli manca casa. Gli mancano i suoi genitori. Gli manca anche la fame, a dirla tutta. 


Alza lo sguardo, mentre la luce si fa sempre più vicina e lui, silenzioso, viene portato sempre più in alto; chiuso in un tubo di vetro e metallo come se fosse la sostanza dentro una provetta. Gli scappa un mezzo sbuffo divertito perché, in fondo, deve essere così agli occhi di tutti quelli che di lì a breve diventeranno gli spettatori della sua tragedia. 


*


Rody, negli anni, ha preso delle abitudini più o meno sane: una delle peggiori, che ha tenuto nascosta ai fratelli per evitare che lo imitassero, è quella di sgattaiolare alle prime luci dell’alba fuori di casa, quando tutto il distretto dorme ancora e nemmeno i Pacificatori hanno la pessima idea di mantenere una sorveglianza troppo stretta. Così Rody si è spinto sempre più lontano: la prima volta, con la paura di essere notato subito e - al tempo stesso - l’eccitazione all’idea di poterla fare franca. La seconda, la terza, la quarta– ha quasi subito messo da parte le emozioni negative e lasciato che solo le positive lo guidassero per scorciatoie e oltre i confini che li separano da ampi prati e aree boschive.


Molto spesso, Rody si limita a cercare qualche pietra su cui sedersi o in casi più rari si prende anche la briga di salire sugli alberi. Come la volta in cui ha trovato Pino, unica rimasta di una nidiata: l’ha tenuta d’occhio per tre giorni prima di decidersi a salvarla da un nido abbandonato e prendersene cura, assicurandosi che tornasse in forze, disposto pure a privarsi di qualche preziosa briciola di pane per lei. Non saprebbe spiegare perché abbiano avuto questa sorta di imprinting uno con l’altra, eppure da allora Pino è sempre rimasta appollaiata sulla sua spalla per la maggior parte del tempo, fedele compagna nella buona e nella cattiva sorte. 


Poi, Rody ha fatto dell’osservare l’alba mentre rischiara il cielo l’abitudine dei giorni della Mietitura. Da quando il suo nome è stato nell’ampolla per la prima volta e ha provato una prigionia di minuti e minuti fin quando il nome letto dal cartoncino non è stato quello di qualcun altro. Da quando ha avuto la sensazione di soffocare con le mani di qualcuno al collo. Da quando ha assistito come tutti alla morte dei Tributi del suo Distretto durante gli Hunger Games e ha finito per sognare quelle atrocità ogni notte, per mesi


L’anno seguente ha avuto bisogno di respirare, di avere più aria possibile nei polmoni quasi dovesse farne una scorta; così è uscito, incapace di restare nel letto, con solo Pino sulla sua spalla e un silenzio tale da dargli la falsa impressione di una pace impossibile da scalfire. Persino da Capitol.


Così anche questa volta rimane lì da solo, a guardare un cielo che muta costantemente man mano che il sole lo rischiara, chiedendosi se sarà l’ultima alba che vedrà a casa con tutto ciò che casa può significare - Roro e Lala, più di chiunque altro; la sedia dove suo padre si metteva sempre tenendoselo in braccio da bambino; la coperta che sua madre metteva addosso a entrambi quando si addormentavano sulla poltroncina dalle molle cigolanti, che a Rody sembrava il trono di un re.


Pino cinguetta piano, sulla sua spalla, quasi volesse consolarlo.


*


Il giorno della Mietitura è uno dei due lutti del Distretto: la condanna di una morte quasi certa almeno per uno dei due malcapitati il cui nome viene sorteggiato, spesso troppo presto perché possa risultare qualcosa di diverso da una pura crudeltà. Rody si ricorda la sua terza Mietitura che, fino al momento dell'estrazione, non era stata così diversa dalle due precedenti. C'è sempre questo silenzio assordante, quando la rappresentante di Capitol City fa il consueto discorso di inizio, inutile preambolo prima che la lama di una metaforica ghigliottina si abbatta sul collo di ben due persone innocenti. Rody si ricorda di quando suo padre gli ha spiegato cosa fosse la Mietitura la prima volta e di quando ha assistito, ancora troppo giovane per essere toccato da vicino dalla cosa. Non dimenticherà mai di essersi sorpreso di tutto il silenzio che ha accolto l'estrazione dei nomi dei loro due Tributi, così innaturale da averlo portato a guardarsi intorno, convinto infantilmente che qualcuno avesse fatto una magia. Era il tempo in cui ancora poteva crederci, alla magia; distrutta, quando suo padre a casa lo ha guardato distrutto nel sentirsi chiedere: «Se è una cosa brutta perché nessuno piange?»


Rody ora lo sa: suo padre lo ha guardato consapevole che per anni - nel caso più fortuito - quel giorno sarebbe toccato anche a suo figlio, lo stesso con con ingenuità trovava strano il silenzio ma non tutto il resto.


«Perché le persone che vengono scelte molto spesso non possono tornare a casa, Rody. E tutti sono tristi per questo. A volte la tristezza è molto forte, così tanto che si vorrebbe urlare per renderla più debole... ma rimaniamo in silenzio. Così chi è stato scelto, forse, avrà meno paura.» gli ha spiegato suo padre e Rody da una parte ne comprende le ragioni, ma dall'altro vorrebbe che avesse spiegato meglio, edulcorato meno. Vorrebbe avere i mezzi per comprendere davvero, senza ritrovarsi a pensare a ogni Mietitura che è come vedere tutto il Distretto riunito a un funerale.


Si guarda intorno, vedendo facce conosciute e di cui ha imparato a comprendere le espressioni anche quando hanno cercato di renderle meno evidenti possibili, Mietitura dopo Mietitura; sorride ad alcuni di loro, un vago inclinarsi di labbra che nel mare di rassegnata disperazione equivale a saltare di gioia in mezzo a una folla di bambole immobili. Rody sa che alla fine tutti hanno capito quanto poco di lui sia davvero così sicuro, così sfacciato. Alcuni forse credono ancora sia un mistero di battutine fuori luogo, eppure immagina che persino chi ha quella opinione di lui si renda conto di come sia un modo per ostracizzare la paura - è il suo silenzio, quello, per bloccare il terrore anziché la tristezza. Perché per lui, ancora unico della famiglia Soul a poter partecipare ai giochi, non c'è il rischio che la sua paura maggiore si concretizzi: Roro e Lala sono ancora troppo piccoli per avere i loro nomi nelle ampolle da cui i cartoncini vengono estratti, sebbene il tempo passi inesorabile e lui non voglia nemmeno pensare a come questo potrebbe farlo sentire tra qualche anno. Sempre che ci arrivi in vita.


Quello di cui Rody ha paura è cosa succederebbe ai suoi fratelli senza di lui. 


Accanto a lui, Clair è perfettamente dritta e con lo sguardo rivolto al palcoscenico. Rody all'inizio faticava ad andare oltre la sua apparente assenza di emozioni, il che la rendeva difficile da inquadrare in modo a tratti fastidioso - specie per lui, abituato a indovinare l'indole degli altri e ad azzeccarci la maggior parte delle volte. Poi, però, ha assistito agli Hunger Games in cui uno dei Tributi scelti era suo fratello  e Rody ricorda la compostezza con cui Clair ha guardato suo fratello morire, senza mai distogliere lo sguardo, fino a quando non ha esalato l'ultimo respiro e il colpo di cannone nell'arena ha segnalato un Tributo vivo in meno. Rody ricorda di essersi chiesto come potesse non fare nemmeno una piega fin quando non ha abbassato lo sguardo e l'ha vista stringere così forte un vetro da ferirsi il palmo della mano. Ancora oggi sa esserci una cicatrice visibile lì, come un monito.


Da quel momento Rody ha provato un forte rispetto per lei ed è grato di averla al proprio fianco perché, sebbene lei non sia un possibile Tributo essendo ormai fuori età, è qualcuno che è stato toccato dagli Hunger Games e può capire. 


«Clair.» pronuncia rivolgendole un sorrisetto, trovando in lei solo un cenno del capo e un: «Rody.» in risposta. A lui basta, perché è loro modo di comunicare: formale in apparenza, ma amichevole per quello che Clair può offrire. D'altronde ci pensa la rappresentate di Capitol ad attirare l'attenzione di tutti, compresi loro due: il suo solito monologo, i sorrisi estasiati, gli abiti esageratamente colorati. C'è una familiarità quasi stomachevole nella sua figura, per quanto Rody abbia capito ormai come sia una marionetta nelle mani di un sistema più grande quasi quanto i Tributi. L'unica differenza è che lei rimane viva anno dopo anno.


«Bene.» pronuncia, muovendosi con i suoi tacchetti verso l'ampolla dove sono i nomi dei Tributi donne. Rody la vede affondare lentamente la mano dentro, girarla tra i cartoncini quasi ci tenesse a far vedere come si tratti solo del caso, che le estrazioni non sono truccate; lui si domanda, osservandola, se sia consapevole di come stia attestando l'ovvio dal momento che per Capitol e gli spettatori degli Hunger Games non c'è davvero differenza tra uno o l'altro Tributo. Nessuno bada alla carne da macello, dopotutto. 


Rody la vede estrarre il nome e riguadagnare il centro di quel piccolo palco, aprendo il foglio per leggerne il nome. Gli occhi passano sulla folla, quasi potesse individuare la portatrice del nome, neanche li conoscesse uno per uno. La sua voce, poi, scandisce il nome: «Leila Shan.» e per un istante a Rody sembra di essere parte di un unico grande corpo, di essere una cellula di un intero sistema che trattiene il fiato. Poi, inaspettato, il silenzio a cui suo padre ha sempre attribuito il tentativo di non far sentire ai Tributi la paura, viene spezzato da un grido. 


Negli anni ha sentito tanta gente gridare. Tante persone disperarsi, mentre guardavano gli Hunger Games dagli schermi che Capitol City si premura di fargli avere volta dopo volta, perché al danno si possa aggiungere anche la beffa. Ma il grido di questa volta è disumano: sembra scavargli nella carne come artigli di una belva feroce il cui unico scopo è dilaniare ogni brandello di corpo che riesce a sfiorare, è il volto di una disperazione profonda e inconsolabile, di quelle che Rody pensa possano essere l'inizio di una caduta verso la follia. Con la coda dell'occhio vede qualcosa muoversi, ma prima che abbia voltato la testa Clair lo ha già superato e intercetta una donna. Rody la conosce, perché lì si conoscono tutti: è la madre del Tributo che è stato appena chiamato. Leila Shan. Ha appena dodici anni.


Clair la sta trattenendo con forza, con le mani sulle spalle, mentre la donna grida fino a grattare con violenza contro le proprie corde vocali; i Pacificatori la guardano, Leila la guarda in lacrime mentre la portano verso il palco. Rody si muove per aiutare Clair ma basta uno sguardo della giovane per bloccarlo sul posto, mentre la sente parlare a quella madre disperata. Le ripete: «Non andare, non farle avere ancora più paura.» e poi «Lo so.» e «Ti tengo io.» e ancora «Se ti opponi ti uccideranno davanti ai suoi occhi.»


La cosa peggiore è che quel suo "lo so" non è tanto per dire. 


«...E ora» la rappresentante di Capitol cerca di riprendere il discorso, come se nulla fosse accaduto il quel fuori programma. Eppure, quando sposta lo sguardo su di lei, Rody si accorge in un istante di quanto sia confusa e scombussolata da quella reazione, come un bambino a cui certi atteggiamenti degli adulti sfuggono. E' quasi grottesco, eppure Rody ha un vago moto di pietà verso di lei mentre estrae un cartoncino dal recipiente dei Tributi maschi e quasi le scivola di mano. Si schiarisce la voce, quasi a voler glissare su quella piccola caduta di stile.


«Rody Soul.» chiama lei, cercando di vedere chi si sposterà per andare incontro alla morte.


Perché, in fondo e fin dall'inizio, la sorte non è mai stata a loro favore.


*


Il suo mentore ha cercato di fare il possibile fin da quando sono saliti sul treno che li avrebbe portati a Capitol City. Rody ha capito quasi subito che avere Leila nel team gli abbia spezzato il cuore più di quanto possa già esserlo quello di un normale Vincitore, uno che per tornare a casa ha dovuto uccidere altre ventitré persone fingendo che non gli importasse. Rody lo ha osservato parecchio, pur prestando attenzione ai suoi consigli quando doveva: non crede di poterne uscire vivo, anche se è l'obiettivo di tutti quando si entra nell'arena, ma se dovesse farcela si chiede come potrebbe sopravvivere. Non agli Hunger Games, ma dopo. Si può considerare una vittoria tornare vivi a casa anche sentendosi irrimediabilmente morti dentro? Durante la notte insonne prima dell'inizio dei giochi, Rody si è chiesto se sarà in grado di tornare indietro ed essere ancora se stesso, se Roro e Lala potranno essere ancora il suo fratellino e la sua sorellina. Se Pino, che come tutti gli animali è istintivamente molto più perspicace su cosa sia considerabile o meno un pericolo, gli si poggerebbe ancora con la stessa naturalezza sulla spalla. 


Leila è una bambina dolcissima e a Rody spezza già il cuore sapere che forse non riuscirà a superare i due giorni nell'arena. Non perché non sia in gamba, ma perché è troppo gentile, troppo distante dal concetto di uccidere un'altra persona. Quasi spera, in cuor suo, che si nasconda fino a che l'arena non li ucciderà tutti - lo distrugge pensare che un giorno, in futuro, potrebbe esserci Lala al suo posto. Per questo quando la sera prima dell'inizio della loro edizione degli Hunger Games lei gli chiede di dormire insieme lui non ha il coraggio di dirle di no e, forse, fa bene a entrambi avere qualcosa di vagamente simile a quello che hanno avuto a casa. Lui una sorellina che gli si addormenta accoccolata addosso, lei il calore di una persona più grande e una mano ad accarezzarle i capelli, quasi per assicurarle che è solo un brutto sogno e l'indomani tutto andrà meglio. 


Anche se è stata una bugia, Rody ne è consapevole ora più che mai, mentre si salutano per essere divisi e portati a indossare la tenuta dei giochi.


Non perde tempo a eseguire ciò che la voce metallica gli dice di fare, abbandonando i confortevoli abiti che Capitol City gli ha messo a disposizione in quei lussuosi alloggi in cui sono stati fino a ieri, in favore di una tuta molto più comoda e di pregiato tessuto adatto alla sopravvivenza. Di cosa, Rody non riesce nemmeno a immaginarselo: nelle edizioni che ha visto c'è sempre stato qualcosa di letale persino laddove riteneva impossibile individuare un pericolo. Dubita che questa volta sarà molto diverso. 


Si morde l'interno della guancia quando gli bucano un braccio per inserirgli il piccolo congegno che permetterà ai Game Master di monitorarlo per tutto il tempo e di giocare con lui, mostrando a Capitol lo spettacolo migliore possibile. Non vuole dar loro nessuna soddisfazione, perciò fa sì di non lasciarsi scappare nemmeno un fiato a quell'iniezione e li osserva andarsene via - si chiede, per un secondo, se sarebbe utile prenderne uno alle spalle e ucciderlo a mani nude. Purtroppo Rody si ritiene intelligente abbastanza da capire che renderebbe solo più veloce la sua, di morte, e dunque aspetta siano fuori da quello che ha avuto la funzione di spogliatoio per lui. Giusto in tempo per sentir tornare la voce metallica insieme alle poche istruzioni necessarie: entrare in quel tubo davanti a lui. Aspettare. Un conto alla rovescia.


Lui esegue, sistemandosi lì sopra. Ci vuole davvero poco perché il vetro si chiuda facendolo sentire intrappolato come un esperimento vivente - e non lo è, forse? - e la piattaforma sotto i suoi piedi cominci a salire. Rody sa cosa sta succedendo, perché il suo mentore ha fatto di tutto per prepararli all'attacco di panico che ha sempre preso almeno uno dei Tributi. In alcuni casi mettendoli fuori gioco prima del tempo, grazie alla trovata delle piattaforme esplosive se qualcuno le abbandona prima del "via" ufficiale dei giochi. Nonostante gli sia stato raccontato, però, l'effetto di persona non regge il confronto.


Deve aspettare qualche istante perché gli occhi si abituino a tutta la luce dell'arena e la prima cosa che percepisce è il vento sul proprio viso: né troppo freddo né troppo caldo, perciò mentalmente Rody cerca di escludere scenari ambientali troppo sbilanciati in un senso o nell'altro. Quando finalmente può vedere di cosa si tratta, c'è un solo istante in cui lo scenario gli sembra bellissimo senza considerare di essere ufficialmente nella propria tomba. Davanti a lui si estende una distesa di erba verdissima sotto un cielo così azzurro da far male alla vista. Se si volta, intorno a loro ci sono quattro laghi oltre i quali si srotolano radure fatte di alti alberi e folta vegetazione. Al centro, equidistante da tutti loro, una pedana quadrata con sopra zaini, armi e tutto ciò che può fare gola a ogni singolo Tributo. 


Gli altri sono intorno a lui: alla sua destra, Kirishima Eijiro. A sinistra, Hitoshi Shinsou. Cinque postazioni oltre quest'ultimo, Rody intravede Leila con gli occhi spalancati di chi è terrorizzato alla sola idea di mettere un piede sull'erba - Rody non riesce nemmeno a immaginarla correre, figurarsi prendere un'arma o qualcosa di utile per la sopravvivenza proprio dal centro, dov'è sicuro si mieteranno le prime vittime. Cerca di incrociarne lo sguardo, mentre il countdown avanza inesorabile e comincia a far scoccare gli ultimi dieci secondi a loro disposizione; quando ne mancano cinque Leila lo guarda e lui la vede stringere le mani contro i fianchi e annuire debolmente, cercando di farsi forza.


E' come sentirsi accoltellare al petto e avere la consapevolezza di non potersi ritirare per questo. 


Tre secondi, e Rody capisce che sarà questo l'ultimo posto che vedrà. Due, mentre rivolge un pensiero a Roro e Lala e si pianta sul viso un sorriso che spera vedano e ricordino, senza attribuirgli la paura. Uno, mentre gli riecheggia in testa il suo ultimo scambio con Clair - «Prenditi cura di loro.» «Prenditi cura di te.»


La sirena dà inizio alla settantaquattresima edizione degli Hunger Games. 


Per Rody è solo l'inizio della fine.

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Prompt: evoluzione

Missione: M2 (week 6)
Parole: 7136
Rating: teen up
Warnings: shonen-ai



Hitoshi ha ancora addosso l'adrenalina dello scontro ma anche, insieme a quella, la sensazione di aver comunque fallito. Con se stesso, non certo nei confronti di altri; importa poco che la sua classe si sia sgolata per tifare per lui, lasciandosi trascinare dal senso di appartenenza e di rivalsa di chi è considerato "meno". Perché i veri, futuri eroi sono quelli della 1-A e lo saranno sempre. Il divario di capacità è evidente, abissale. Persino lui, che a detta di tutti ha il quirk degno di un futuro villain, non ha potuto nulla contro Midoriya Izuku alla fine. 


Siede nell'area meno affollata di tutte, quella che collega tramite dei tunnel la zona degli scontri del festival sportivo agli spogliatoi dove si attende il proprio turno. Ha preferito evitare gli spalti con i suoi compagni di classe, così come le zone dove i professori passano per assicurarsi che tutto funzioni come deve. E' un posto quasi d'onore, a modo suo, quello dal quale può guardare gli scontri dopo il suo. E' questa l'occasione in cui si sofferma su Todoroki Shouto più di quanto abbia mai fatto prima e, certamente, più del necessario. Perché è il protagonista dello scontro con Midoriya, è chiaro. Eppure in lui c'è qualcosa che spinge Hitoshi a non distogliere lo sguardo, nonostante lo abbia sempre considerato né più né meno del privilegiato figlio di Endeavour che deve aver avuto la strada spianata fin dall'infanzia. Uno di quelli destinati alla grandezza senza nemmeno impegnarsi per averla - è stata l'invidia a parlare per lui, Hitoshi ne è del tutto cosciente. Ma è anche solo un ragazzo di quindici anni che, al contrario dell'erede dei Todoroki, di regalato non ha mai avuto nulla.


Nonostante questo, si rende conto di non riuscire a fare altro che guardarlo. Succede soprattutto quando gli vede sul viso l’espressione disperata in cui gli risulta molto più facile riconoscere se stesso anziché Todoroki - o, per meglio dire, l’idea che si è fatto di Todoroki.


E' una disperazione che si presenta come un'amica di vecchia data, un mantello invisibile che per anni è stato poggiato sulle proprie spalle, capace di proteggere dall'esterno e al tempo stesso di pesare come un macigno. Si trascina dietro l'inadeguatezza di aspettative sbagliate o alle quali non si vuole rispondere, perché è quanto tutti si aspettano. Tranne lui. Tranne, forse, Todoroki. A Hitoshi risulta complicato immaginarsi cosa ci possa essere di così difficile, quando si hanno ben due quirk di inimmaginabile potenza e potenziale, entrambi adatti a essere uno dei futuri eroi in lista per la posizione numero uno. Se il mondo prova a immaginare qualcuno a successione di All Might, non si figura persone come Hitoshi, ma persone come Shouto. Eppure quell'espressione è inequivocabile per lui: incomprensibile, anche, ma non si può non riconoscere un peso enorme che si porta sulle spalle. Nemmeno quando lo si scorge sulle spalle di un altro. 


Così guardare il suo scontro con Midoriya perde d'importanza, o magari di senso, e diviene un osservare qualcuno che - sulla carta - dovrebbe essere il suo esatto opposto e avere tutto ciò che Hitoshi non avrà mai.


*


Todoroki Shouto è una creatura incomprensibile. Hitoshi è ben consapevole che, se dicesse questa cosa ad alta voce, a seconda del proprio interlocutore potrebbe ottenere delle reazioni ben diverse. Se lo dicesse a Midoriya Izuku, per esempio, o in generale a chiunque della 1-A, sospetta che rimarrebbero quasi straniti. Convinti, immagina, che l’erede dei Todoroki sia da considerarsi invece un adolescente quasi più semplice da comprendere di molti altri. Al contrario, Hitoshi non vuole nemmeno immaginare come potrebbe essere affrontare il discorso con qualcuno della 1-B - poi ricorda che, in fondo, non è così vicino a nessuno dei suoi compagni di classe da voler avere una conversazione incentrata sulle sue impressioni riguardo a uno degli studenti del corso Hero. 


Il solo pensare come potrebbe essere parlarne e avere Monoma a infilarsi nella discussione è sufficiente a fargli già venire il mal di testa. In ogni caso, non ha davvero motivo di esternare le sue considerazioni e può lasciare che rimangano tali e personali, niente più di pensieri fugaci e improvvisi quando gli capita di intravedere Todoroki nell’area sportiva a correre oppure nel tragitto verso i dormitori. O, ancora, per i corridoi. 


Magari, si dice a un certo punto Hitoshi, quella del festival sportivo è stata solo una sensazione data da diversi fattori che non sussistono già più. E, se è così, la realtà dei fatti rimane la stessa: lui e Todoroki non hanno nulla da spartire. 


*


Hitoshi non saprebbe dire come succeda, ma di sicuro quanto sia strano è molto più facile da descrivere. Todoroki, di fianco a lui, si sta occupando in silenzio di una pila di fogli riguardanti l’attività esterna della 1-A che dovrebbe tenersi di lì a poco, qualcosa che Hitoshi era convinto sarebbe stata prerogativa dei due rappresentanti di classe. D’altronde, lui stesso è un intruso in tutto questo, solo in virtù di un favore personale a Kendo. 


Da quando sono entrati non hanno aperto bocca e si sono semplicemente sistemati seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all’altro, lavorando nel completo silenzio. Hitoshi ne è grato, a modo suo: non reputa di essere il tipo da chiacchiere casuali. Todoroki sembra essere persino meno capace di lui, se non altro, perciò immagina non ci siano aspettative da parte sua.


«Midoriya voleva invitarti a pranzo, oggi.» se ne esce Todoroki, come se nulla fosse. Hitoshi ferma a mezz’aria il movimento di posare il foglio sulla pila di quelli sistemati, mentre quella da lavorare è ancora tristemente piena. Alza lo sguardo e lo punta sul giovane di fronte a lui che, per tutta risposta, sta continuando imperturbabile il suo lavoro. Shinsou, invece, ha bisogno di fare un ordine specifico nella sua mente, cercando di capire quale sia l’informazione che lo destabilizza di più e quale quella più trascurabile. Immagina sia il tipo di analisi che tutti i loro insegnanti vorrebbero venisse fatta in momenti di criticità; Hitoshi non riesce a pensare a un momento più critico di Midoriya che vuole invitarlo a pranzo in mensa con tutto il tavolo di compagni della 1-A con cui lo vede di solito. E che a riportare il messaggio sia quello più inavvicinabile dopo Bakugo Katsuki. 


«…A pranzo.» non può fare a meno di ripetere, per chiedere conferma ma soprattutto per lasciare che l’informazione attecchisca nella sua testa. Solo allora Todoroki alza lo sguardo su di lui, soffermandosi per una manciata di secondi; sembra vagliare la possibilità di confermare o dirgli che è tutto uno scherzo, e sarebbe anche plausibile se soltanto Hitoshi non fosse abbastanza sicuro che il ragazzo di fronte a lui - tra le sue, immagina, innumerevoli qualità - non brilli certo per il senso dell’umorismo. 


Alla fine, Todoroki annuisce e basta, ma sosta comunque con gli occhi su di lui e Hitoshi si domanda se voglia aggiungere altro o solo spiare la sua espressione in risposta all'informazione. A essere completamente sincero, non ha una reazione pronta da offrirgli - perciò si limita a un sospiro leggero e a tornare ai fogli da dividere. Decide di non controllare cosa stia facendo l'altro, se lo stia ancora guardando o se abbia già perso interesse, avendo riportato il messaggio che è probabile gli sia stato semplicemente affidato da Midoriya.


E' una sorpresa sentirgli dire: «Midoriya è il tipo da tenerci sul serio.»


Deve imporsi di continuare a tenere gli occhi bassi, perché sa bene che ora come ora la sua espressione potrebbe solo tradirlo.


*


Hitoshi non accetta l'invito a pranzo per molto tempo. Lo fa per caso, perché non riesce a svignarsela in tempo, quando Midoriya è stranamente solo nella mensa della U.A, un avvenimento che stona abbastanza da farlo soffermare a sbirciare in sua direzione. La cosa si rivela fatale ma, sorprendentemente, è anche meno tragico di quanto Hitoshi ha mai immaginato potesse essere. Midoriya ha l'entusiasmo di chi è rimasto un fan prima ancora di realizzare di essere un futuro pro Hero e la gentilezza di chi forse, in passato, non ha brillato sotto la luce dei riflettori come il mondo tende a credere riguardo a chiunque.


Si avvicinano lentamente, ma Hitoshi capisce quasi subito che il sentore avuto durante il festival scolastico - quello di avere di fronte una persona incapace di lasciare indietro gli altri, qualunque cosa questo significhi - non è sbagliato. Izuku potrebbe, potenzialmente, essere la persona più vicina a diventare il suo primo amico. O la cosa più vicina a un amico nel senso più ampio del termine. Parla molto più di quanto Hitoshi possa mai fare, ma non è un male se c'è qualcuno a riempire i suoi silenzi - sono incontri piuttosto brevi, considerati tutti gli impegni e gli allenamenti che la 1-A si ritrova ad avere, ma Midoriya ha sempre qualcosa da raccontargli. Così Hitoshi, pure se molto lontano dalla realtà della classe di futuri pro Hero su cui tutti contano, assorbe passivamente aneddoti che altrimenti non potrebbe conoscere - le difficoltà, sì, ma anche quegli aspetti molto più umani.


«La prossima volta potresti unirti a noi.» gli propone Izuku con tutta la naturalezza del mondo. Hitoshi mangia il suo ultimo boccone di omurice prima di alzare lo sguardo su di lui, incerto su come dire nel modo più delicato possibile che Midoriya è un'eccezione e che in quanto tale è difficile aspettarsi un trattamento simile anche dagli altri. Forse lo rende molto palese, o forse l'altro è solo molto bravo a leggere gli altri, ma lo vede sorridere con gentilezza come a suggerirgli che ha capito quali pensieri lo stanno trattenendo dal rispondere. E che va bene anche così.


«Magari la prossima volta.» Hitoshi glielo concede più per ringraziarlo, implicitamente, di non forzarlo a qualunque cosa stia cercando di fare che per reale intenzione. Potrebbe anche andare meglio del previsto, un giorno.


*


E’ una situazione strana quella in cui Hitoshi si ritrova, per la prima volta, a interagire davvero con Todoroki per qualcosa che vada più dell’incrociarsi per il corridoio o il lavorare insieme a una pila indefinita di fogli. Sarebbe tutto sommato semplice se si trattasse di una missione di poco rilievo, di essere da supporto a qualche pro Hero e ritrovarsi affiancato anche da Todoroki - questo gli permetterebbe di comportarsi come suo solito, di interagire il minimo e in modo professionale. Invece lui e Shouto si ritrovano insieme a… fare la spesa. Qualcosa di così normale da essere surreale. 


«Todoroki» richiama Hitoshi mentre attraversano la strada da marciapiede a marciapiede «mi ricordi per quale motivo stiamo facendo la spesa?» domanda, non con il tono di una provocazione ma con molta confusione. Succede, quando una massa non meglio identificata di studenti della 1-A piomba a chiedere chi è libero di comprare gli ultimi ingredienti necessari e Kendo - inspiegabilmente loro complice? - si accoda nel pregare per quel favore personale. Hitoshi non ha problemi a fare la commissione di per sé, era solo convinto di poterla fare da solo. Quasi il pensiero di Monoma è confortante, in questo frangente.


Shouto occhieggia il foglietto con indicati i prodotti da comprare e solo poi punta lo sguardo su Hitoshi. Lui, di tutta risposta, si domanda se sia legale avere un occhio di quell’azzurro; di come sarebbe stato averne un paio, su di sé, di quella sfumatura che non sembra quasi vera e nella quale riconosce comunque senza alcuno sforzo gli stessi occhi di Endeavour. Un dettaglio a cui non ha intenzione di dare voce per due motivi: il rapporto ormai di dominio abbastanza pubblico tra lui e suo padre e il fatto che suonerebbe piuttosto discutibile un intero ragionamento sugli occhi di Todoroki.


«Per il compleanno di Kirishima.» replica Shouto con quel fare placido «Credo la 1-B sia stata invitata da Tetsutetsu.» aggiunge, quasi dovesse giustificare la sua presenza lì. Hitoshi annuisce, affondando entrambe le mani in tasca. Razionalmente la domanda che continua ad affollargli la mente è sciocca, eppure a livello inconscio non riesce a smettere di chiedersi se Todoroki abbia preso in considerazione - anche solo per un momento - la possibilità che rispondergli potrebbe portarlo a essere vittima di quel quirk più adatto a un villain che a un eroe.


Hitoshi si limita a seguirlo in silenzio, muovendosi tra gli scaffali una volta che sono nel supermercato; adocchia solo una volta la lista lasciandola nelle mani di Shouto, guardandosi intorno per ritrovare il giusto reparto. Lo ritrova ora qui ora lì, ma senza troppe difficoltà, aiutato dal fatto che Todoroki non passi esattamente inosservato. Anche se Shinsou sospetta che l’altro sia sicuro di essersi camuffato a dovere; non ha il cuore di dirgli che un berretto e una mascherina non servano a granché quando si è uno degli studenti della U.A. con più fan in assoluto e i capelli di diverso colore sono piuttosto difficili da confondere con quelli di qualcun altro. Quasi a voler confermare il suo pensiero, non fanno in tempo a mettere piede fuori dal supermercato con una busta a testa che vengono fermati. Per fortuna si tratta solo di due studentesse, a occhio non più grandi di una terza media. 


Quando ormai se ne sono andate, Todoroki assume un’espressione confusa mentre rivolge lo sguardo a Hitoshi per chiedergli, con fin troppa serietà: «Credi ti abbiano riconosciuto?»


Shinsou lo fissa, aspettandosi un segno che si tratti di una battuta. Quel segno non arriva mai e questo, contro ogni pronostico di Hitoshi per quella giornata e ogni sua preoccupazione riguardo al pensiero di Todoroki sul suo quirk, finisce per portarlo a devolvere ogni sua energia a cercare di non ridere apertamente. Fallisce in parte, mentre uno sbuffo divertito gli abbandona le labbra e le spalle si rilassano perché quella dicotomia in Todoroki non si ferma a fuoco e ghiaccio, ma è un insieme di atteggiamenti in completa contrapposizione con la sua indole. Lo vede guardarlo, con una sfumatura di confusione nello sguardo, quasi non capisse il perché di quella reazione piuttosto vicina all’ilarità. 


«Davvero, Todoroki?» gli fa eco, mentre sembrano stranamente vicini al modo di comportarsi di due amici «Pensi sul serio che abbiano riconosciuto me?» gli fa notare, non riuscendo a trattenersi dal sottolineare nel modo più gentile possibile l’assurdità di quel fraintendimento. Shouto non sembra convinto, ma nemmeno ribatte, forse trovando un discreto senso in quelle parole. Hitoshi scuote la testa, ma con il fare bonario che nell’ultimo periodo ha imparato a rivolgere più che altro a Izuku, quando lui è l’unico a vedere in Hitoshi le potenzialità di un buon amico quasi dimenticandosi dei ruoli a cui i loro quirk li relegano, o le loro classi, o qualunque altro tipo di ranking. 


Non si aspetta assolutamente di vedere le labbra di Todoroki incurvarsi in un sorriso. E’ impreparato a vederlo sbuffare a sua volta, tradendo un divertimento genuino. E, meno di ogni altra cosa, è del tutto fuori da ogni sua percezione del loro (quasi inesistente?) rapporto quel colpetto spalla contro spalla che Todoroki gli offre, con una complicità quasi assurda. Shinsou lo guarda, abbassa gli occhi sulla propria spalla, cercando di non riflettere nell’espressione il modo quasi stranito in cui si sente. Todoroki Shouto è ancora lo studente del festival sportivo, è ancora il riflesso incrinato di una disperazione che sente addosso come se fosse una seconda pelle e che non sa se andrà mai via; è la figura che segue da troppo tempo quando passa nei corridoi, con la discrezione di chi non vuole essere visto e frainteso - o scoperto. E’ lì, di fianco a lui, più tangibile di qualsiasi ancora Hitoshi abbia mai avuto alla realtà, chiedendosi se ne avrebbe mai avuta una normale in cui non conta suo padre, non conta il suo quirk.


Pensava che la risposta alla domanda fosse Midoriya Izuku. Invece si ritrova, inaspettatamente, Todoroki. E, insieme a lui, ha tra le mani sentimenti di cui non sa cosa fare. Tranne nasconderli. Perché, se c’è una cosa che ha imparato, è di non poter pretendere di avere troppo quando a stento gli è stato concesso il minimo. 


*


Hitoshi non avrebbe mai scommesso sulla possibilità di unirsi alla sezione A, di poter - un giorno - perseguire il suo sogno di diventare un pro Hero insieme a quella che è sempre stata considerata l’eccellenza delle nuove generazioni. Per questo sente ancora le mani tremare, dopo l’allenamento di gruppo; anche se in parte è dovuto anche all’accenno di panico e preoccupazione provata quando si è reso conto che Midoriya stava perdendo il controllo. Forse perché non si aspettava si sarebbero addifati proprio a lui per provare a contenerlo, o foerse perché è difficile per lui immaginare che uno come Midoriya possa essere qualcosa di diverso da come uno della loro generazione si immagina un futuro eroe. 


Quando sono ormai tutti liberi di commentare i vari match di quell’esercitazione, accade qualcosa che Shinsou si sarebbe aspettato persino meno della fiducia che i ragazzi della 1-A gli hanno dimostrato. Quel qualcosa è sentire la voce di Todoroki rivolgersi a lui con un: «Possiamo parlare un momento?»


Per quanto ci provi, Hitoshi sospetta di non riuscire a mascherare del tutto la sua perplessità. Nonostante questo non ha motivo di negare - o di negarsi - questa compagnia; perciò si muove passo dopo passo verso Todoroki. Non si allontanano poi troppo, tanto che quando si siedono possono ancora tranquillamente vedere i loro compagni divisi in piccoli gruppetti, ognuno impegnato in una conversazione. Hitoshi occhieggia l’altro un paio di volte prima di sentirsi rivolgere la parola. 


«Grazie,» gli sente dire «di aver aiutato con Midoriya.» chiarisce subito. Hitoshi si volta a guardarlo direttamente, senza sapere bene come reagire alla cosa. Da una parte pensa di non aver fatto nulla di speciale ma il minimo sindacale: dare una mano, o almeno provarci. Può non essere scontato tra le persone, ma in un contesto di aspiranti eroi Hitoshi dubita che qualcuno si sarebbe sottratto. Dall’altra, crede di riuscite a capire che in quel ringraziamento non c’è solo la gratitudine per un intervento fisico o del proprio quirk. Incredibilmente, Hitoshi si ritrova a parlare d’istinto spostando lo sguardo sugli altri ragazzi, Midoriya compreso. 


«Credo che Midoriya, più di chiunque altro, non avrebbe mai sopportato l’idea di coinvolgere qualcuno nella perdita di controllo del suo quirk.» pronuncia infatti con tono basso, cogliendo con la coda dell’occhio il movimento della testa di Todoroki, sentendo lo sguardo su di sé. Non puà distinguerne l’espressione, visto che non lo guarda, ma può provare a immaginarla. Specie quando Todoroki dice: «Forse tu lo capisci meglio di quanto gli altri pensano.»


Hitoshi comprende il sottinteso, se lo sente sulle spalle, ma lo ignora perché è il tipo di cosa di cui non parla con le persone; così abbozza un sorrisetto e lo guarda di sottecchi: «Non sono esattamente il suo migliore amico.» osserva con una leggera alzata di spalle «Ma è piuttosto evidente che tipo di persona sia Midoriya.» aggiunge, convinto che non abbiano molto altro da dirsi. Quasi si aspetta di vedere Todoroki alzarsi e spostarsi verso il gruppo, magari con un cenno di saluto verso di lui. Invece l’altro, contro ogni sua previsione, pronuncia un: «Però nessuno di loro sa cosa significhi temere il proprio quirk. Midoriya forse ha imparato solo a considerare i danni sul suo corpo, ma non su quello degli altri.»


Potrebbero affrontare questo discorso, se volessero. Potrebbero  restare lì seduti e raccontarsi di quanto questo li abbia condizionati: chi puà ferito dai pregiudizi degli altri, annidati nella sua testa con lenta ma instancabile violenza, chi invece influenzato da avvenimenti traumatici. Potrebbero dirsi quanto difficile sia convivere con la consapevolezza che la cosa di cui si ha più paura è una parte di se stessi, quella indispensabile per i propri obiettivi. Potrebbero riconoscere l’uno nell’altro la paura, il dispiacere, la delusione;  ma anche una piccola e incrollabile speranza, oltre alla gratitudine - e un pizzico di ostinazione. Sarebbe come guardarsi allo specchio (di nuovo), perché entrambi sono stati salvati da Midoriya. Perché Hitoshi non pensa potrà mai dimenticare il Todoroki di quel festival sportivo, neanche tra dieci anni. 


Potrebbe assecondare l’istinto di stringergli la mano e confortarlo.


Eppure non fa nulla di tutto questo.


*


Si accorge distrattamente di dare una spallata a un’infermiera e, in un angolo molto remoto della sua mente, si sente in colpa per questo e per non aver nemmeno preso in considerazione di fermarsi a chiedere scusa. Hitoshi si ripromette di farlo dopo, ma adesso non può perdere tempo in quel modo - non mentre scatta per i corridoi di un ospedale, anche se “scatta” è una parola grossa con tutti i dolori che sente in tutto il corpo. Dietro di lui ha la vaga percezione di qualcuno che lo richiama, eppure adesso come adesso non si fermerebbe neppure se fosse Aizawa-sensei a chiedergli di farlo.


All for One è stato sconfitto e nemmeno il mondo ci crede ancora, troppo spaventato e troppo - irrimediabilmente - ferito da troppe cose su cui lui, Shigaraki e la League of Villains è riuscita a mettere le mani. Le certezze di tutti si sono sgretolate come un masso costantemente vessato che alla fine non può rimanere del tutto intatto in eterno. Hitoshi sa che ogni singolo Eroe ha almeno una ferita e che molti sono stati meno fortunati, rimettendoci la vita. Basterebbe già questo a farlo sentire in modi difficili da comprendere anche per lui stesso, ma a stringergli il cuore nel petto quasi All for One in persona ci avesse messo le mani e lo stesse stritolando per ucciderlo è che nessuno sia stato in grado di dirgli con precisioni le condizioni di Todoroki. 


E’ stato talmente al centro dello scontro, almeno per parte di esso, che Hitoshi non sa come prendere quella mancanza di informazioni: non lo sanno perché tutti troppo lontani da lui per essersene sincerati con i propri occhi? Non lo sanno perché non stanno rilasciando notizie ufficiali nemmeno tra i pro Hero? Non vogliono dirglielo per scelta?


Ha il vago sentore della voce di Kaminari che lo chiama ma la ignora fin quando il suo cervello non registra che proprio gli altri della 1-A potrebbero sapere dove si trovi Todoroki. Così fa dietro front, fermandosi a ridosso della porta con una fitta dolorosa al fianco, una che sembra prendersi gioco di lui dicendogli così impari a correre dopo essere appena stato rattoppato. Digrigna i denti per un momento, prima di alzare lo sguardo e abbracciare l’intera stanza, alla febbrile ricerca di una testa inconfondibile; quando la trova, di lì a qualche secondo, sente il macigno nel suo stomaco sciogliersi in un istante e un’ondata di sollievo investirlo in pieno. Todoroki è seduto su un letto d’ospedale, sì, è pieno di bende ma è vivo. Non è qualcosa su cui Hitoshi ha avuto il coraggio di scommettere finora.


«Wow, sicuro di star bene?» domanda Kaminari, con quache cerotto e graffio, oltre all’aria stanchissima come tutti loro, ma niente di davvero letale a vederlo. In compenso sembra piuttosto preoccupato per lui, tanto da poggiargli una mano dietro la schiena, neanche si aspettasse di vederlo cadere come una bambola senza vita da un momento all’altro: «Sei bianco come un cadavere.» offre come spiegazione, solo per sentir intervenire Ojiro con un «Credo sia un paragone da evitare…»


In altri momenti Hitoshi crede che gli strapperebbe un sorriso, specie quando Kaminari inorridisce nel rendersi conto cos’abbia detto; ora come ora, però, Hitoshi annuisce con un vago «Tutto bene, niente di rotto.» che non è una bugia anche se qualcosa di rotto c’è - incrinato, corregge la voce della sua coscienza, puntualmente ignorata. 


«Ho chiesto di alcuni di voi… continuavano a non dire niente di chiaro.» mormora, occhieggiando anche lo stesso Kaminari e vedendolo sospirare: «Eh, è un casino, ci sono un sacco di pro Hero di cui stanno ancora accertando le condizioni…» conferma lui, le spalle che si abbassano tradendo il dispiacere di chi avrebbe voluto fare di più, non importa quanto sia chiaro a tutti che abbia fatto il massimo senza risparmiarsi nemmeno per un istante. Hitoshi allunga una mano per dargli una pacca leggera e piuttosto goffa, perché non ha avuto il tempo di abituarsi a quel tipo di condivisione con loro. Al tempo stesso, però, se sopravvivere a una guerra non unisce, non sa cosa dovrebbe farlo.


Kaminari infatti gli rivolge un sorriso amichevole, mentre Ojiro gli offre lo stesso gesto consolatorio; Todoroki ha lo sguardo verso la finestra, invece, e non si è mai voltato in direzione della porta da quando Shinsou è entrato. Kaminari e Ojiro sembrano seguire il suo sguardo e intuire la sua tacita domanda: il primo scuote la testa, a suggerirgli forse di aver già tentato e fallito. Il secondo, invece, abbozza un sorriso che sembra volergli dire “prova, se vuoi” senza credere molto in un risultato diverso. Entrambi, però, lasciano la stanza di lì a poco annunciando di andare a controllare gli altri e a cercarli nelle stanze. 


Hitoshi ha la strana sensazione di essere finalmente solo con Todoroki, così da potersi accertare delle sue condizioni, e al tempo stesso di non essere pronto a condividere da solo la stanza con lui. Specie a giudicare da come l’altro non sembri avere alcuna voglia di compagnia. Nonostante questo decide di muoversi verso di lui, almeno per vederlo in viso e assicurarsi che la situazione non sia grave. In silenzio, se necessario, senza disturbarlo per niente più di uno sguardo. 


Se non fosse che, quando Todoroki rientra nel suo campo visivo per bene, a Hitoshi si stringe lo stomaco in una morza ferrea quasi quanto quella che lo ha accompagnato fino a quella stanza. Il ragazzo seduto su quel letto non è né quello del festival sportivo, una realtà che sembra lontana anni, né quello convinto bastino un berretto e una mascherina a renderlo irriconoscibile. Non è quello che lo ringrazia per aver aiutato un amico. Non è il suo specchio, non più. E’ qualcuno a cui dentro si è spezzato qualcosa, senza molta possibilità di rimetterla a posto. Nemmeno per Hitoshi, che un tempo ha pensato di capirlo meglio di altri, perché così simili sotto alcuni punti di vista.


Fa per muoversi verso la porta, ma a sorpresa si sente dire: «Resta.» 


Todoroki non lo guarda ancora e ha il tono stanco di chi ha visto troppo, combattuto troppo, vissuto troppo. Si tratta di qualcosa che va oltre tutti i bendaggi, i graffi, le ferite fisiche in generale. E’ qualcosa che ha scavato dentro e che potrebbe scavare per ancora tanto tempo, fino a non lasciare niente; Hitoshi sospetta non ci sia nulla da dire a qualcuno che ha ritrovato suo fratello solo quando un villain gli si è parato davanti professandosi tale, decretando con poche parole che non potessero coesistere insieme e da vivi. O che almeno uno dei due non avesse né interesse, né intenzione a farlo. 


Hitoshi non potrà mai prendersi la responsabilità di dire a Todoroki l’unica cosa che vorrebbe sentirsi dire, ossia che tuo fratello non diceva davvero - in primis perché sarebbe irresponsabile: non saprà mai cosa voleva Dabi (Touya). Oltretutto Hitoshi non è affatto sicuro che questo aiuterebbe Todoroki in alcun modo. Cos’è meglio, dopotutto, sapere che il proprio fratello provava davvero odio o che sarebbero potuti essere qualcosa di diverso da due nemici ma ormai non lo sarà mai con certezza perché suo fratello è morto?


«Mi dispiace.» gli dice soltanto, in un sussurro, mentre si siede accanto a lui. Lo vede irrigidire appena le spalle e stringere le mani lì in grembo dove le tiene senza mai essersi mosso da quando lui è entrato. Hitoshi sospetta di aver detto due sole parole e aver comunque scelto quelle sbagliate.


«Era un villain. Avrebbe ucciso qualcuno, ha–»
«Sì.» lo interrompe Hitoshi, guardando davanti a sé verso la stessa finestra che sta fissando anche Todoroki - perché se continuasse a guardare il ragazzo al suo fianco, finirebbe col tremargli la voce. Vederlo così è una delle cose più difficili che Hitoshi abbia dovuto fare e dirlo dopo una guerra è ancora più significativo. Ed è così sfibrato da temere di non avere abbastanza forza anche per questo, non adesso. 


Rimangono in silenzio, uno con due pesi diversi: per Todoroki, sospetta, è il silenzio di una realtà che deve ancora scivolare e adattarsi alla persona che la rifiuta. Per Hitoshi è la disperata ricerca della cosa giusta da dire, in un repertorio spoglio di relazioni sociali.


«Però era mio padre.» pronuncia a un certo punto, così privo di senso logico - neanche stesse dicendo che Dabi era suo padre - da portare persino Todoroki a guardarlo per un breve istante. Non è che Hitoshi lo ignori, ma mantiene il proprio sguardo dov’è, forse per dare all’altro l’illusione di non essere visto e di poter decidere se continuare a fissarlo o tornare rivolto nella stessa direzione di poco prima. Lui, in ogni caso, preferisce non affrontare questo discorso con un contatto visivo: «Voglio dire» riprende «è quello che ho pensato a un certo punto. Quando tutti hanno continuato ad aspettarsi che facessi la stessa fine, visto il quirk che mi ritrovo.» lo dice non senza difficoltà. Perché, dopotutto, non ha ancora affrontato direttamente l’argomento con nessuno e forse non era sicuro di volerlo fare proprio con Todoroki fino a questo momento. Fino a quando non ha compreso che potrebbe essere l’unica cosa, tra quelle di cui l’altro ha bisogno, che lui possa dargli: un appiglio basato sull’esperienza personale. 


Sospira, pianissimo, quasi sperando che il ragazzo al suo fianco non lo senta: «“Farà la stessa fine”, lo hanno creduto tutti quelli che mi hanno sentito parlare della U.A. o che hanno scoperto il mio quirk. Perché mio padre ha scelto la strada sbagliata e io, con un’abilità adatta a un villain, che altra direzione potevo prendere?» mormora, sforzandosi di tenere il tono fermo, attribuendo ogni tremolio anche solo vago al dolore alle costole. Todoroki non lo interrompe e questo lo aiuta in modi che non ha tempo di analizzare.


«Non so se perdonerò mai mio padre per questo.» ammette, senza dilungarsi su cosa intenda con “questo” - il fango gettato su di lui, l’ombra con cui ha avvolto la sua reputazione prima ancora che Hitoshi potesse formarsene una personale. Ogni fibra di lui combatte per non parlare affatto di lui e di quei sentimenti contrastanti che non sa se riuscirà mai a chiarire; eppure, si ripete, è l’unica cosa che può fare. L’unico supporto che è capace di dare, qui e ora: «Ma era mio padre. Mi piaccia o no. E lui era tuo fratello.»


C’è un lungo, lunghissimo silenzio tra loro. Todoroki guarda di nuovo davanti a sé, stringe ancora le mani in grembo, sembra ancora come se gli avessero scavato un buco nel petto e gli avessero strappato il cuore - però a un certo punto, quando Hitoshi si gira a guardarlo direttamente per la prima volta, vede il suo labbro inferiore tremare. E’ solo un istante e non ci sono lacrime; in compenso Todoroki apre bocca per pronunciare una frase ben più lunga di un disperato “resta”. 


«Adesso, però, il mondo intero ha visto che sei un eroe e che hai salvato delle vite.»

 

E’ assurdo come lui dovrebbe consolare Todoroki e, invece, si ritrovi ad ascoltare quell’unica frase che più di qualsiasi premio gli fa capire quanto sia riuscito a essere almeno in piccola parte ciò che voleva. Il tipo di persona che, oltre i pregiudizi degli altri, riesce comunque a fare del bene. A essere quello che sogna di essere, non quello che per colpa degli altri sembra destinato a diventare senza possibilità di appello. Specie considerando come, fino a poco più di un anno prima, un pensiero simile non sarebbe mai stato nemmeno concepibile per lui. Lo deve a Midoriya, ma lo deve anche a persone come Todoroki Shouto.


Lo stesso che, dopo avergli appena offerto senza alcuna pretesa parole salvifiche che Hitoshi non avrebbe mai osato sperare di ricevere, gli prende repentinamente la mano. Non è una stretta romantica, non è la timida ricerca di un contatto intimo. E’ il disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa e per questo gliela stringe di rimando.


«Era mio fratello.» sussurra pianissimo, così tanto da far pensare di essersela immaginata, quella voce spezzata dal dolore di chi avrebbe voluto poter salvare il pezzo mancante di una famiglia che non si potrà risanare mai più, non dopo questo: «Era mio fratello.»


Hitoshi rimane in silenzio, e lascia che Todoroki lo ripeta per quante volte vuole, stringendogli la mano fino a fargli male.


*


Il post guerra è difficile per tutti, e non certo in maniera inaspettata. Hitoshi non si stupisce che sia difficile tornare alla normalità, ma è ancora più complicato quando non deve solo riabituarsi ai suoi ritmi ma anche a come si è trasformato il suo rapporto con Todoroki - ecco, quello è stato inaspettato. Hitoshi non sa collocare il momento in cui una serie di cose sono diventate la normalità: farsi affiancare da Todoroki nei corridoi, ritrovarsi spesso vicini a mensa, fare qualche allenamento insieme durante le lezioni pratiche. Di per sé non può dire di non apprezzarlo, anzi; sarebbe semplice crogiolarsi nell’idea di aver trovato un’anima così affine alla sua, un amico oltre Midoriya senza però la componente dalla rivalita che prova invece nei confronti dell’erede di All Might… se solo Hitoshi potesse raccontarsi quella bugia e crederci.


All’inizio forse ci è anche riuscito, ma poi con il tempo è diventato difficile ignorare i segnali. Lui non vanta di essere un esperto quando si tratta di amicizie e di cosa comportano, cosa a cui Kaminari - per dirne uno - sembra voler rimediare in ogni modo possibile, ma è abbastanza sicuro che il conforto della vicinanza di un amico non si trasformi mai nel desiderio di tenergli la mano, di condividere una serie di intimità molto diverse tra loro ma tutte ben oltre il sentimento in questione. A Hitoshi non rimane altro che nasconderlo ed è anche convinto di farlo bene; perciò, naturalmente, Midoriya lo scopre.


Glielo chiede quando sono gli unici a essersi attardati per liberarsi del loro costume da Eroe. Conoscendolo, Hitoshi sospetta debba aver pensato per settimane a come approcciarlo, assicurandosi fossero soli, e a come prendere il discorso. In un certo senso lo apprezza, perché dopotutto Midoriya è un osservatore troppo acuto perché potesse sfuggirgli per sempre come guarda Todoroki; d’altra parte, come molte altre cose di cui ha parlato a stento negli anni, anche questa è una di quelle che Hitoshi pensa dovrebbe tenere per sé e portare come un bagaglio non condivisibile con nessuno. Perciò si gela sul posto quando Midoriya, dopo un approccio molto vago e generico che non sortisce l’effetto sperato, gli dice: «Credo a Todoroki-kun farebbe davvero piacere se ci fossi anche tu.»


Sembra una frase buttata lì, collegata al semplice parlare dell’imminente capodanno e della festa che vorrebbero fare tutti insieme. Eppure è quella specifica a far capire a Hitoshi che entrambi stanno fingendo di non sapere qualcosa - Midoriya della sua infatuazione, lui che Midoriya l’abbia notata e si riferisca esattamente a quella. Così Hitoshi sospira e si arrende, sedendosi sulla panchina centrale. Ci vuole una manciata di secondi scarsi perché veda Midoriya fare lo stesso alla sua destra. Se non altro, se questa conversazione deve avvenire, gradisce molto che l’altro aspetti con pazienza e gli dia tempo di organizzare i pensieri. 


Non che ci sia granché da organizzare, comunque.


«Non sono così speciale.» gli esce di bocca al posto di molte altre cose più sensate. Forse, senza nemmeno rendersene conto, ha provato a riassumere in una frase tutto quello che pensa ci sia da dire in quella conversazione un po’ forzata: Todoroki non vuole me come io voglio lui, lo so e mi sta bene, possiamo essere amici senza troppi drammi.


Se lo sguardo di qualcuno potesse perforargli il cranio, quello di Midoriya lo avrebbe già fatto; sarebbe anche una beffa non indifferente, farlo proprio a lui che con la mente delle persone può interferire in una certa misura. Lo fa quasi innervosire, grato di sentirlo prendere un respiro prima e parlare poi: «Per Todoroki-kun o in generale?» gli sente chiedere, già pronto a rispondere dissimulando quando è sempre Midoriya a rompere il silenzio «Perché anche tu hai salvato il mondo, Shinsou. Più di uno.» 


Quell’aggiunta gli fa inarcare un sopracciglio e, suo malgrado, lo spinge a guardare Midoriya dritto negli occhi. Non trova un rimprovero nei suoi lineamenti, quanto più una convinzione. E’ difficile dire a chi è l’Eroe per antonomasia di questa storia chi abbia contribuito e chi no, come voler insegnare a un cuoco il modo giusto in cui cucinare. Il sorrisetto sulle labbra dell’altro gli fa supporre ne sia pienamente consapevole, nonostante il suo carattere lo porti a non mostrare eccessiva strafottenza nemmeno quando potrebbe permetterselo.


«Beh,» riprende Hitoshi «non l’ho certo salvato da solo.»
«Se parli della guerra, no. Nessuno poteva vincerla da solo.» conviene con lui Midoriya - Hitoshi si è accorto che, al pari di molti altri, anche lui quando accenna a quell’evento sembra perdersi in un vuoto così profondo da far temere sempre che chi ci cade non torni indietro. Hitoshi sa che tutti loro, chi più e chi meno, sono nella stessa condizione e ci rimarranno probabilmente per tanto tempo ancora. 


«Però» dice Midoriya «c’è anche chi hai salvato da solo.» fa notare, occhieggiandolo forse per capire se Hitoshi stia seguendo il suo discorso. Se stia cogliendo i riferimenti. Stavolta, però, Hitoshi lo deve deludere perché sta iniziando a perdersi in quello che gli sembra un giro di parole sempre più lontano dal focus del discorso: «Parlo di quel giorno in ospedale.» aggiunge Midoriya e Hitoshi comprende istantaneamente il soggetto della frase questa volta. Immagina che, per forza di cose, sia stato Todoroki a raccontarglielo.


«Avresti fatto la stessa cosa.» pronuncia con un’alzata di spalle leggera, sottintendendo il aiutarlo a non sentirsi schiacciato «In verità… avrei potuto farlo meglio. Ho solo parlato a vanvera.» confessa, non la sua migliore dimostrazione di autostima a dirla tutta, ma a questo punto non è la dignità personale a interessargli troppo. Specie quando una delle maggiori ragioni per cui la sua dignità viene meno è stata già scoperta dallo stesso Midoriya. Proprio il ragazzo che ha acceso in lui la speranza di poter essere un Eroe e di poter essere migliore. Quello che adesso lo guarda con un accenno di rimprovero nello sguardo e lo fa sentire un po’ un ragazzino sprovveduto nonostante abbiano la stessa età.


«Credo tu abbia parlato di quello di cui Todoroki-kun aveva più bisogno.» dice, senza girarci troppo intorno questa volta «Lui non mi ha detto di cosa abbiate discusso nel dettaglio, perché ti riguardava personalmente e non stava a lui raccontarmelo. Ed ero d’accordo. Ma anche rimanendo molto sul vago, Shinsou… per lui è stato importante.» aggiunge, con più dolcezza. Hitoshi lo capisce e una parte di lui è stupidamente euforica per questo; purtroppo affossare se stessi è un’abitudine che, una volta acquisita, è quasi impossibile da perdere. 


Per quello finisce con il recitare una parte che non è davvero la sua, abbozzando un sorriso di scherno per se stesso più che per Midoriya: «Magari l’ho fatto per un tornaconto.» butta lì, quasi gli stesse scappando di bocca per caso, solo per sentire la spalla di Midoriya dare un colpetto contro la sua e la voce dell’altro dirgli «E’ un po’ tardi per fingere di essere dei cattivi.»


Lo fa sorridere, tanto da sbuffare un accenno di risata senza allegria, ma consapevole di non potersi giocare la carta della persona senza scrupoli. E’ quando si arrende a questa consapevolezza che le spalle si incurvano un po’ e lui si sente di nuovo un dodicenne che deve schermarsi dal resto del mondo, difendersi chiudendosi in se stesso. Sospira piano e lentamente, buttando fuori l’aria neanche stesse sputando veleno per liberare il corpo da una sostanza nociva. E’ difficile a quel punto tenere per sé un: «Era insopportabile guardarlo spezzarsi davanti a me.»


Vede negli occhi verdi di Midoriya la comprensione, il dispiacere e la vicinanza. La sente nel corpo che si avvicina a lui e nella mano che vede poggiarsi sul suo ginocchio, in un gesto di complice conforto: «Ci sei riuscito. A non farlo andare in pezzi.» gli comunica, in poco più di un sussurro, a metà tra un segreto e il cercare di calmare un bambino svegliatosi da un incubo. In fin dei conti la guerra non è stata molto diversa da quello.

«Perché non ti permetti di guardarlo come vuoi?» sente domandare a Midoriya, quasi con dolcezza. Per certi versi è peggio di sentirsi accusare - perché essere legittimati, ora come ora, per Hitoshi rende tutto più difficile.


«Perché…» prova a dire, sentendosi la bocca secca e ritrovandosi a deglutire «a volte non si tratta solo di guardare. Todoroki e io… siamo diventati amici. O qualcosa che ci somiglia molto. Credo stia bene così a entrambi.»
«O almeno a lui.» gli fa eco Midoriya, cercando di essere sincero e diplomatico al tempo stesso. Hitoshi lo vede stringere appena la mano sul suo ginocchio, in un movimento veloce e più che altro simbolico: «Io penso che Todoroki-kun, più di chiunque altro, ti conosca e sappia quanto sai tenere alle persone, una volta che sono nella tua cerchia. E meglio di tutti sa che non imporresti mai i tuoi sentimenti a nessuno. Sei la persona più distante dal modo in cui tutti hanno percepito il tuo quirk. Lo hanno visto… come qualcosa di dannoso ma tu, Shinsou, non hai mai manipolato il cuore di nessuno. Non lo faresti mai. Lo so io, lo sa la nostra classe, lo sa tutto il Giappone adesso. E di certo Todoroki-kun non lo ha pensato nemmeno una volta.» 


Midoriya parla con tutta la gentilezza di cui è capace, ma anche con fermezza. Hitoshi è consapevole di quanto abbia ragione, ma al tempo stesso quel piccolo passo è qualcosa di difficile per lui. Eppure, al tempo stesso, se pensa a com’era poco più di un anno prima… deluso, amareggiato, convinto di non poter dimostrare niente a nessuno nemmeno in un milione di anni. Incredulo di fronte alla possibilità di essere compreso e di poter essere diverso da quello che gli altri si erano aspettati da lui dall’inizio. E’ cambiato così tanto, e con lui sono cambiati anche i sentimenti per le persone: la rivalità verso Midoriya è, ora, un’amicizia basata su un profondo rispetto. Todoroki era il suo specchio distorto e ora è qualcuno capace di così importante, capace di comprenderlo profondamente ma anche molto diverso da lui. 


Il loro rapporto è cambiato. Quello che prova Hitoshi è mutato, diventando sempre qualcosa di diverso capace di trascinarsi dietro il sentimento precedente - riconoscersi, compatirsi, essere un fastidioso specchio sulla realtà. Però poi vedere la forza, vedere il potenziale e le fragilità. Decidere di proteggerle. Decidere di volere di più e convincersi a non volerlo se significa prendersi cura dell’altro.


E’ una cosa così complessa che, seppure Hitoshi volesse suicidarsi emotivamente in questo modo, non pensa avrebbe abbastanza parole per riuscirci. Lui che, in generale, abbonda di silenzi invece.

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