Mar. 16th, 2019

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Prompt: scontro
Missione: M1
Parole: 1091




Le parole di Tatsuya prima dell’inizio della missione sono state piuttosto chiare, e ancora si ripetono nella mente di Hiyori: giocheranno sicuramente sporco, gli ha detto, dai russi non mi aspetto di meglio. Non siamo mai stati un gruppo di assassini, ma piuttosto che farvi prendere, uccideteli.
Da quando si è unito al suo gruppo, Hiyori non si è sentito rivolgere una sola volta da Tatsuya l’ordine di privare della vita qualcuno se non per difesa personale e, anche in quel caso, è avvenuto molto di rado. Sa che i trascorsi con la Russia non sono proprio ottimali per Tatsuya - ironico considerando che tanto il suo compagno quanto quello del fratello del boss siano russi, tanto per cominciare - ma per arrivare a dargli un ordine simile, Hiyori sa che Tatsuya deve aver preso in considerazione ogni possibile variabile e non aver trovato altra soluzione.
Hiyori è abituato alle retroguardie. Succede, quando si è il medico del gruppo e l’unico in grado di salvare delle vite, dovessero alcune missioni prendere una pessima piega. Per questo in pochi, persino all’interno del loro gruppo, possono dire di averlo visto combattere e ancora meno (nessuno?) di averlo visto combattere per uccidere.
«Non preoccuparti, Hiyori.» pronuncia una voce pacata e rassicurante al suo fianco, e non ha bisogno di alzare lo sguardo per sapere che si tratta di suo fratello Jun. Quando lo guarda, tuttavia, nota che si sta tirando su le maniche della camicia candida e che la cravatta è già finita abbandonata a terra «Ti copro le spalle.» assicura rivolgendogli un sorriso gentile e portando una mano a scompigliargli appena la zazzera bionda.
Sono anni che lui e Jun non combattono fianco a fianco, perché non ce n’è mai stato bisogno finora. Saperlo accanto lo fa sentire pressoché invincibile da quando aveva anche meno di dieci anni e non sapeva nemmeno come assumere una posizione di guardia.
Puntano entrambi lo sguardo davanti a loro, adocchiando i due ability user che li stanno approcciando; fisico uno, elementale l’altro da quanto hanno visto.
Non hanno bisogno di dirsi qualcosa, di farsi un segnale: lui e Jun si sono sempre mossi in quella che la sorella Tarja ha etichettato come simbiosi irritante dalla prima volta che in allenamento se l’è vista rivolgere contro. Per loro è come essere un solo corpo diviso in due: riescono a tenersi d’occhio a vicenda nei rari momenti in cui hanno bisogno effettivo di vedersi anziché percepirsi e basta, consci l’uno dei movimenti dell’altro.
Hiyori è il primo a scattare in avanti, e forse il russo non se lo aspetta: assume una frettolosa posa di guardia ma il medico evita di dargli il tempo di concentrarsi sul proprio potere e gli sferra un calcio atto più a distrarre che a colpirlo davvero. Riesce nel suo intento quando lo vede alzare la guardia e lasciare libero il fianco; lo colpisce con la mano, di taglio, mirando con precisione millimetrica allo spazio tra due costole. Lo vede piegarsi di lato, lasciandosi andare a un verso di dolore misto alla frustrazione - si ritrae di un paio di passi, scarta leggermente di lato e lo vede sferrargli un calcio a propria volta. Non alza la guardia, perché un istante dopo è Jun a farne le veci portandosi con un braccio alto a protezione e rinforzo del proprio corpo, così da poter incassare il colpo ed evitarlo a Hiyori.
Lui così ha il tempo di aggirare il nemico e dare un secondo colpo di mano, sempre di piatto, contro un punto preciso della nuca; ormai conosce i nervi con una tale precisione da percepire, quasi, il momento in cui li colpisce e in cui reagiscono al suo tocco. Non si sorprende, quindi, di vedere l’altro crollare a terra.
«Dietro!» esclama Jun, conciso nell’unica indicazione davvero necessaria da dare in quel momento. Hiyori si sposta sulla sinistra, mosso da cieca fiducia, e vede una fiammata passargli di fianco. Anche Jun l’ha evitata a propria volta e sta già scattando verso l’altro ability user. Rischia quasi un colpo in pieno viso e vederlo porta Hiyori a irrigidirsi, ma quando nota che non c’è reale pericolo non perde ulteriore tempo: si muove veloce e silenzioso, e se avesse il tempo di ricordare le parole del suo maestro capirebbe quanto erano veritiere e ponderate - io insegno l’arte di uccidere, ma la volontà di farlo dipende dalla persona. Tu però sei il mio allievo più pericoloso, perché tutto il tuo corpo è naturalmente portato all’uccisione, e se l’unica cosa che lo frena dovesse venire meno avrei creato un mostro, non un uomo che può scegliere.
E’ questione di un attimo: il mutante lo percepisce e sferra un colpo che lui para per un soffio. Jun lo colpisce alle gambe e lo distrae, e per questo diventa il bersaglio di una nuova fiammata ma Hiyori lo anticipa. Basta la pressione di due dita, come un solletico appena più incisivo; due dita in due diverse zone tra la base del collo e la carotide e quello si accascia, prima scosso da un paio di convulsioni e poi soffocato, le mani alla gola nel disperato tentativo di liberare le vie respiratorie senza successo, fino a che non esala l’ultimo respiro.
Hiyori lo guarda morire come ha visto morire altre persone - non tutte per mano sua, ma qualcuna sì. Jun all’improvviso gli si scaglia contro, carica un pugno e lo sferra; gli sfiora appena la guancia, andando a colpire con forza l’uomo alle spalle di suo fratello.
«Andiamo.» lo incalza, con quella dolcezza di fondo che riesce a riservargli anche mentre si circondano di violenza e morte «La famiglia ha bisogno di noi.»
Hiyori annuisce, sebbene lo sguardo si ancora sul corpo senza vita ora steso ai suoi piedi; ha gli occhi sbarrati, e fa sempre l’effetto di una muta accusa eterna. Distoglie l’attenzione da lui solo quando la mano di Jun si posa di nuovo tra i suoi capelli, sostando lì un secondo più del necessario. Capisce l’intento di suo fratello di proteggerlo da tutti i mali del mondo, non soltanto quelli fisici ma anche quelli emotivi, soprattutto quelli che tende ad autoinfliggersi. Abbozza un sorriso breve, il rumore di un’esplosione non troppo lontana, nella direzione in cui hanno lasciato a combattere altri membri del gruppo.
Alzando lo sguardo mentre iniziano a correre in loro direzione, appollaiato su un edificio, Hiyori vede Mirai puntare e colpire senza alcuna esitazione all’idea di prendersi una, due, dieci vite.
Maestro, un uomo che sceglie di uccidere per proteggere è ancora considerabile un mostro?
 
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Prompt: scontro
Missione: M1
Parole: 712




Quando Horikawa raggiunge il dojo insieme a Kanesada, la situazione è molto peggio di quanto si aspettasse quando i piccoli Toushirou sono andati a cercarlo, trafelati, chiedendogli di correre al dojo perché Kashuu e Yasusada stavano litigando. Tuttavia quello davanti ai suoi occhi non è solo più di un litigio, ma anche molto più di uno scontro con la spada, sebbene vederli incrociare le armi di legno minimizzi molto la cosa a un occhio esterno e poco allenato.
Innanzitutto, sono silenziosi. Una cosa che ha sempre caratterizzato le spade di Okita Souji è che entrambi, nella loro forma umana, hanno mantenuto il modo di combattere del proprio padrone. Okita Souji non è mai stato un uomo o un guerriero di poche parole come era invece Hijikata, quindi il fatto che né dalle labbra di Kashuu né da quelle di Yasusada esca un solo verso è già indice che qualcosa non va.
Horikawa assottiglia lo sguardo e nota quasi subito un altro dettaglio preoccupante quando le spade di legno si scontrano di nuovo: non solo c’è molta più forza di quanta entrambi mettano in genere in un fendente - Horikawa li ha visti allenarsi troppe volte per non sapere che lo stile di entrambi non è massaccio o pesante come quello di Nagasone o Tonbokiri, solida roccia quasi impossibile da spostare, ma agile, veloce e preciso. Al momento quei due non stanno combattendo né per migliorarsi a vicenda, né per un incontro amichevole. C’è in loro l’intento di prevalere l’uno sull’altro fisicamente, niente di più.
Horikawa fa un passo avanti quando vede Kashuu caricare a piena forza e scagliarsi su Yasusada, ma si blocca quando a livello inconscio prima ancora che conscio si rende conto del perché tutto gli risulta almeno vagamente familiare - è un ricordo vago nel contesto in cui si è svolto ma più che nitido nell’avvenimento di per sé e nella causa scatenante: Kashuu e Yamato hanno avuto scontri violenti ma sono sempre, sempre stati riguardo Okita.
La mano di Kanesada si posa sulla sua spalla e stringe appena, per attirare la sua attenzione; quando Horikawa gliela rivolge Kanesada si limita a guardarlo e a scuotere la testa.
Nel dojo il rumore delle spade che cozzano l’una contro l’altra più volte riecheggia nel silenzio. Un mormorio sommesso di chi si chiede cosa debba fare si alterna all’ingenuo tentativo dei più giovani di richiamare ora Kashuu, ora Yasusada nella speranza di fermarli, senza alcun successo. Horikawa non se ne stupisce.
A volte, guardandoli, si rende conto che entrambi insieme riescono a mostrare una copia perfetta e a tutto tondo di Okita: Yasusada ha la freddezza nel combattimento, Kashuu il divertimento quasi arrogante dell’incrociare la spada con qualcuno; Yamatonokami ha quella placidità che, per quanto di rado, Okita tirava fuori - spesso gelida, spesso distante - mentre Kiyomitsu è il fuoco delle emozioni che Souji ha tirato fuori prima di morire, per paura della vita che gli scivolava fra le mani senza che lui potesse farci nulla, pur con tutta la voglia di vivere del mondo.
Questi dettagli gli tornano alla mente sempre quando li vede litigare, scontrarsi per un amore viscerale nei confronti di un padrone che non sapranno mai sostituire del tutto nei loro cuori, una figura che è stata troppo per entrambi ma in modo così diverso che non riescono a farlo combaciare per accettarsi a vicenda.
Così si scontrano, irrimediabilmente: Kashuu con l’impeto della disperazione che non lo ha mai lasciato da quando si è spezzato - non materialmente, no, ad averlo spezzato è stata la perdita - e Yasusada con la calma che è solo la parentesi illusoria prima della tempesta.
Le spade cozzano di nuovo una contro l’altra, e Kashuu si lascia finalmente sfuggire di bocca un verso frustrato, arrabbiato e di sfogo. Yasusada forse non se lo aspetta, ma si fa sbilanciare e finisce a terra.
Torreggiando sopra di lui, Kashuu lo guarda mentre il petto si alza e si abbassa per il respiro affannato e la punta della spada di legno quasi sfiora la gola di Yasusada; un silenzio innaturale di fiati sospesi resta a fare da cornice a un’immagine immensamente triste.
Horikawa guarda Yasusada. Come possono loro, dai sentimenti così simili, essere quelli meno in grado di comprendersi e salvarsi a vicenda?

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Prompt: in fuga
Missione: M1
Parole: 838




In una frazione di secondo decide di ignorare ogni prudenza riguardo l’attraversare la foresta, perché capisce che se continuano a rallentare per non lasciare traccia finiranno con il raggiungerli. Così accelera, sebbene questo lo porti a fare rumore tra l’erba alta e con i passi che sul terreno calpestano qua e là rami secchi. Svolta a destra, si spinge in avanti - una mano è stretta sul polso del compagno per tirarlo senza dover perdere tempo a direzionarlo a voce, dando un’idea ancora più precisa della loro posizione ai nemici.
Svolta di nuovo, ma stavolta a sinistra; per poco non si ammazzano su un tronco vuoto che non aveva visto, o meglio, lui riesce a saltarlo per un pelo ma è l’uomo che tecnicamente è anche suo docente che rischia di far schiantare. In qualche modo se lo tira dietro, di nuovo, fino a una rientranza nella roccia. Ci butta entrambi, senza troppi complimenti, portando poi subito la mano a tappare la bocca di Avalan nel caso gli venga in mente di dare voce a una domanda proprio adesso.
I passi dei loro inseguitori si fanno più vicini, pesanti come sono stati i loro fino a un momento prima. Dynaim trattiene persino il respiro, pur di non attirarli in alcun modo, e anche quando li sente passare oltre aspetta per essere sicuro al cento per cento. Solo a quel punto allontana la mano dalla bocca di Avalan, lasciandolo respirare e anche parlare qualora lo ritenga necessario: Dynaim preferirebbe di no, ma si rende conto che essere trascinato in piena foresta da un compagno di accademia che stavi accompagnando e che si ritrova inseguito non deve essere piacevole e qualche sospetto potrebbe destarlo.
...Potrebbe.
«Fai sempre così quando vai fuori dall’accademia?» gli domanda Avalan in un soffio, il respiro veloce anche lui per quanto tenda a non farlo vedere troppo.
Dynaim scruta prima la porzione di foresta che riesce a vedere dalla sua posizione, ignorandolo; odia farlo di fronte agli altri, ma per forza di cose deve avvalersi del suo occhio di drago e così lo sfrutta, acuendo il senso della vista per assicurarsi che gli inseguitori non stiano tornando sui loro passi. Almeno per ora sembra tutto okay, però.
«Faccio sempre così da quando sono nato.» replica asciutto. Non è per essere scortese, ma non è bravo con gli umani - anche lui lo è, molto più di quanto sia drago, ma questo non ha mai fermato nessuno: né i cacciatori, né chi disprezza la sua razza ormai pressoché estinta e non manca di dimostrarlo ai pochi eredi rimasti. Gli riesce difficile non partire a sua volta prevenuto quando un umano fa ironia, anche se involontaria come nel caso di Avalan.
Il compagno non dice nulla, e quando fa per aprire bocca è Dynaim a fermarlo. Con la coda dell’occhio vede dei movimenti in lontananza: non sono al sicuro.
«Usciamo.» dice soltanto, riacchiappandolo per un polso e tirandolo fuori dal loro nascondiglio temporaneo. Non hanno nemmeno avuto il tempo di riprendere fiato che stanno già ricominciando a correre e Dynaim non può che aumentare il passo ancora quando una freccia gli sfiora la veste all’altezza del braccio.
«Ti inseguono sempre?»
«Lo hai visto il mio occhio, o no?» rimbrotta perché andiamo, anche il finto tonto no. Non adesso, non ha tempo di stargli dietro.
«Non eri drago per una porzione piuttosto bassa?»
«Credi gli interessa? Il mio occhio sul mercato nero vale più di tutta la popolazione del villaggio da cui provieni venduta come schiava. La mia famiglia fugge quelli come voi da più di un secolo.» replica, decidendo di deviare all’ultimo e frenando quanto basta a fare perno con il piede e cambiare direzione all’improvviso, sulla destra. Sente il rumore di passi dietro di loro, e le urla eccitate dell’inseguitore che ha ormai la preda a vista - ma sente anche il flebile ma sempre più vicino rumore di un corso d’acqua.
Ha capito già dove stanno andando a finire.
«Quelli come voi?»
«Umani normali.»
«Non incolpare me per la mia razza.» gli fa notare Avalan, anche se sta ormai rimanendo a corto di fiato, Dynaim lo percepisce «O non sarai tanto diverso da loro.»
«La tua razza pensa che voglia ucciderli tutti.» lo accusa «Io vorrei solo essere lasciato in pace.»
«Io ci credo. Sei strano, ma ci credo.»
«Bene.» commenta con il rumore dell’acqua che ormai dovrebbe riempire le orecchie di entrambi, scivolando per una discesetta non troppo ripida fatta di terriccio morbido e rivelando così un vicolo cieco. Sotto di loro, un ampio corso d’acqua si snoda fra rocce non troppo pericolose, ma ben lontane dal sembrare una via di fuga rassicurante.
«Dovrai credere nel fatto che non ti farò ammazzare buttandoti di sotto.» è l’unica cosa che dice prima di prendere lo slancio e saltare. La mano ancora sul polso di Avalan, se lo tira dietro in caduta libera.
Mentre il vento gli fischia nelle orecchie per la breve durata della caduta prima dell’impatto con l’acqua, sente il grido di frustrazione degli inseguitori.

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Prompt: scontro
Missione: M1
Parole: 1203
Warning: no doubt!au





Se deve essere sincero, al momento sente di voler maledire qualcuno per tutta la pioggia che sta venendo giù; il cielo di Tokyo è carico di nuvole che stanno scaricando acqua come se non ci fosse un altro giorno per farlo, nemmeno il mondo dovesse finire adesso. Mantiene lo sguardo sulla figura davanti a lui. Sono entrambi immobili, ma può vedere con estrema chiarezza che ogni singolo muscolo del corpo che gli sta di fronte è teso e pronto a scattare - lo sa perché percepisce il proprio, di corpo, nel medesimo stato.
Ha inseguito un uomo senza volto e senza identità per mesi, fatti di ore piccole in ufficio, pressione dai piani alti e collaborazioni di cui avrebbe fatto volentieri a meno, tutto per arrivare a quella che sembra una scena di un film: uno spiazzo abbandonato da Dio, l’uno di fronte all’altro e il diluvio a renderlo ancora più attento, analitico di ogni possibile svantaggio in uno scontro che ormai è inevitabile.
Mentirebbe se dicesse di non preferire di molto l’idea di arrestarlo e lasciare a momenti migliori e più asciutti una lunga chiacchierata chiarificatrice riguardo i suoi intenti - Yuki non è mai stato il tipo di detective da voler entrare nella mente del serial killer o del terrorista, ma qualcosa in quella figura giovane e nello sguardo lucido lo disturba. I criminali di solito hanno lo scintillio della follia: lui, di follia, negli occhi dell’altro non vede nemmeno la traccia e questo è ancora più pericoloso.
Un lampo illumina a giorno il cielo per un secondo appena, ma è sufficiente come segnale per entrambi. Yuki si sbilancia verso di lui e carica un pugno, evitato con facilità. Non si aspettava niente di diverso, però.
Il giovane davanti a lui si piega sulle gambe con una facilità e una fluidità tali da fargli capire immediatamente che, per sperare di avere la meglio in uno scontro fisico, deve attingere a tutte le doti atletiche che non hanno nemmeno mai fatto parte del suo curriculum alla voce “specialità”.

E’ assurdo come quello che lo impaccia - la giacca, la pioggia, i capelli che gli si incollano alla fronte limitandogli a tratti la visuale - sembrino non contare per il criminale che ora sta poggiando le mani a terra, così da fare perno e spazzare con la gamba a terra con il chiaro intento di farlo cadere. Quasi ci riesce a dirla tutta, Yuki si tira indietro per un soffio ma è sbilanciato; è costretto a parare il pugno a ben pochi centimetri dal suo viso, con la mano, dopo che quello si rialza con una velocità che non permette altra difesa se non quella.
Stringe le dita attorno al suo pugno chiuso, cercando di approfittarne: lo tira verso di sé, aiutato già dall’essere sbilanciato all’indietro, e quello lo segue ma aggiunge peso a tutto il proprio corpo e prova con l’altro pugno. Yuki è costretto a lasciarlo andare e a mettere distanza per evitare di prenderlo in pieno - digrigna i denti, frustrato.
E’ per questo che detesta gli scontri corpo a corpo, per questo che in accademia lo hanno sempre additato come uno che avrebbe potuto fare il cecchino senza il minimo sforzo: distanza, freddezza, solo tu e il bersaglio e tutto il tempo del mondo.
«Eh.» commenta il giovane, quasi ammirato, fischiando pure. Ha una postura di guardia, per quanto più rilassata di quella di Yuki, e lo guarda con vivo interesse «Non sei male, ispettore.»
Yuki dubita fortemente che sia un complimento sincero e comunque non ha tempo di indagare: quello si lancia di nuovo in avanti, persino più veloce di prima se possibile, si abbassa quanto serve e Yuki si sbilancia, di nuovo; l’altro allunga una mano e la ferma sulla pistola nella fondina e per un attimo pensa che l’intento sia rubargliela, invece sente che sta solo facendo pressione per impedirgli di estrarla. Questo però lo obbliga a restargli a distanza ravvicinata così Yuki ne approfitta, porta una mano dietro la sua nuca solo per spingere il corpo altrui più verso di sé e piantargli una ginocchiata nello stomaco.
Quello si piega in due, si lascia scappare un verso dolorante ma poi Yuki lo sente approfittare di essere già piegato verso di lui per lasciarsi con tutto il peso addosso - eppure sente che mantiene ancora un equilibrio suo perché non sta cadendo, no, è ben saldo sui suoi piedi.
Quando Yuki si sente letteralmente con le spalle al muro capisce, con un secondo di ritardo, il suo vero intento. Il giovane alza il viso, l’espressione che non nasconde del tutto il dolore per la ginocchiata. La mano libera è sui capelli di Yuki, stringe e tira la coda e lo avvicina. Sono talmente fradici per la pioggia che i vestiti gli aderiscono su ogni centimetro di pelle, ma non è quella la sua massima preoccupazione. Una mano è scesa immediatamente sul polso altrui, impedendogli di tirare fuori la pistola e puntargliela contro.
«Siamo in stallo, pare.» trova il tempo di dire, senza distogliere lo sguardo o far trapelare che, a essere onesti con la situazione, non sa come tirarsene fuori. Lo chiamano detective prodigio da quando ha iniziato, ma questa è forse la peggiore in cui si sia mai trovato da allora.
L’altro sorride, ferino, e tira appena di più i capelli avvicinandolo ulteriormente al proprio viso.
Yuki capisce che è per sussurrargli qualcosa in un modo intimo che nel loro caso è solo un inganno visivo per uno spettatore casuale.
«Adesso, ispettore» pronuncia lui «ascolta le mie condizioni.»
Yuki lo squadra per un lungo istante - sente il gracchiare della radiolina che tiene attaccata alla cintura, ma per ovvi motivi non può prenderla. La voce di qualche collega richiede conferma della sua posizione, ma pure volendo non ha modo di farlo. L’unica cosa di cui può occuparsi in questo momento è cercare di capire le intenzioni del giovane davanti a sé: sembra interessato a qualcosa che può avere ma che, a essere sincero, Yuki non riesce a inquadrare cosa possa essere.
«Tu mi lasci andare, ispettore» mormora, senza curarsi dell’assenza di spazio vitale tra loro, in pratica «e io in cambio ti do un’informazione che non puoi trovare in nessun altro modo. Nessuno legale, almeno.» si corregge con un sorriso furbo.
«Dubito.»
«Beh, ma non sono anni che cerchi di scoprire chi ha ucciso il tuo ex partner?»
Yuki si gela sul posto, poi è come se qualcosa di mostruoso lo consumasse da dentro in un secondo. La mano tenuta dietro la nuca dell’altro si sposta e stringe sul suo collo - non c’è niente della polizia in quel gesto. Stringe così tanto che basterebbe solo un poco di più per trasformare quel gesto in un tentativo di soffocamento e lui in un criminale, se dovesse davvero ammazzarlo come desidera in questo momento.
Sul viso altrui passa per un attimo la sorpresa, ma poi c’è un guizzo della soddisfazione di chi ha colto nel segno.
«Visto?» riesce comunque a dire, per quanto con più fatica - lo disturba il fatto che non tenti di allontanare la sua mano.
«Non vale la pena?» lo incalza ancora.
La radiolina gracchia, di nuovo. Lui allenta la presa. 

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Prompt: in fuga
Missione: M1
Parole: 735
Warning: phantom thief!au




Sente i polmoni bruciare, e così anche i muscoli delle gambe, ma cerca di ignorarli e continuare a correre senza staccare gli occhi dall’uomo a pochi metri da lui; la frustrazione per non riuscire a coprire quella distanza è, forse, l’unica cosa che permette a Tomoya - che oltre alla mediocrità si riconosce poco, ma in cui molto vedono qualità tra le quali, però, non c’è uno spiccato talento per lo sport - di non stramazzare al suolo cercando di riprendere fiato.
Una fitta alla milza sembra volergli far presente a tutti i costi che quella è una partita persa in partenza, ma cerca di ignorarla; assottiglia lo sguardo, nella speranza che lo aiuti a focalizzarsi sulle cose giuste, e continua a mettere un passo dopo l’altro esattamente come sta facendo il ladro davanti a lui. Il Phantom Thief, come i giornali ci hanno tenuto a definirlo dalla prima volta in cui hanno scritto di lui, aumentando così la sensazione di aria pura che scivola inafferrabile tra le sue dita. Tomoya è stato affidato a questo caso mesi fa, eppure si ritrova di nuovo a tanto così dal perdere terreno in maniera definitiva, a concedergli l’ennesima fuga di cui ha perso il conto perché tenerlo gli ricordava i fallimenti.
Il ladro si volta a guardarlo da sopra la spalla, e Tomoya è sicuro di intravedere un sorriso divertito sulle sue labbra. Deve essere divertente vedere qualcuno affannarsi dietro di sé ogni volta e, nonostante l’impegno, fallire. La cosa gli fa rabbia non solo perché frustrante, ma perché il ladro ha ben deciso - dopo il primo inseguimento andato a vuoto - di prendersi la briga di mandargli un messaggio di avviso sul prossimo colpo, e quello dopo, e quello dopo ancora.
Così l’ufficio ormai aspetta che Tomoya venga contattato, e quando avviene lo guardano in un misto di sentimenti su cui il detective non ha mai voluto indagare - sa che alcuni lo considerano un inetto, che altri sono convinti saprebbero fare un lavoro migliore al suo posto. Per inciso, ci crede anche lui.
Perdersi nei pensieri negativi, però, è un lusso che adesso non si può concedere: il ladro lo guarda, sembra quasi rallentare di proposito. Tomoya incespica ma in qualche modo riesce a non perdere più di un passo e, soprattutto, a non cadere rovinosamente. Tiene gli occhi sul ladro, spinge ancora più verso lo sforzo i suoi muscoli e corre, gli va dietro, gira un angolo con lui e lo trova ancora lì sebbene si aspettasse di vederlo scomparire. Non sarebbe la prima volta che lo frega così.
«Sei incredibile, detective!» esclama quello - con quale fiato riesce pure a parlare?! - lasciandosi andare a una risata alta, quasi sguaiata che Tomoya è troppo sorpreso di sentire per qualsiasi altra reazione.
«Fermati!» gli intima, sentendo le gambe che ormai sono prossime a cedere, ha imparato a riconoscere quel momento. Il ladro ovviamente non lo ascolta (non che ci sperasse davvero), continua a correre ma di tanto in tanto lo guarda da sopra la spalla, quasi si volesse assicurare di essere ancora inseguito.
«Corri, corri!» lo esorta pure, nemmeno fosse uno spettatore esterno la cui unica preoccupazione è tifare per lui «Non è meraviglioso? Continui a inseguirmi, non ti arrendi mai e la luna ci è testimone!»
«Se è... così meraviglioso… allora fermati…!»
Quella frase, da sola, gli costa un’altra fitta di dolore alla milza. E poi bam, il ladro si ferma.
E’ assurdo vederlo voltarsi in sua direzione e allargare le braccia, quasi volesse accoglierlo e fossero amici che non si vedono da troppo tempo. Tomoya si ritrova a frenare un po’ la corsa, giusto per non finirgli addosso, eppure finisce con l’urtarlo lo stesso. Per un brevissimo momento è tra le braccia di un ladro che finora è riuscito soltanto a sfiorare, sente le sue mani stringergli appena le spalle, il suo viso chinarsi e farsi vicino al suo orecchio.
«Non mi posso ancora fermare.» gli rivela con un tono di voce diverso dal solito folle divertimento che sembra animarlo ogni volta che gli sfugge «E tu devi continuare a inseguirmi, okay?» aggiunge, enigmatico. Tomoya alza lo sguardo, allunga le mani per ammanettarlo e bam, il fumo lo acceca e lo fa tossire.
Quando riapre gli occhi e riesce a mettere a fuoco cosa lo circonda, il ladro è sparito di nuovo.
Addosso ha solo la sensazione dell’ombra di un abbraccio.

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Prompt: scontro
Missione: M1
Parole: 761
Warning: future!fic, angst




Iwaizumi non ricorda una sola parentesi della sua vita senza un litigio o una discussione con Oikawa. Forse solo l’infanzia, ma si risponde sempre che è perché Oikawa da bambino era solo un piagnucolone che lui non aveva la pazienza di stare a sentire più di tanto - Hajime si ricorda come, all’epoca, il loro rapporto fosse bianco o nero: o lo ignorava, o lo consolava. Gli scontri erano rari.
Poi la squadra alle medie, quella del liceo; l’università e l’appartamento insieme, che non è mai stato poi così diverso da come hanno sempre vissuto in simbiosi.
Iwaizumi ha imparato ad accettare i difetti di Oikawa - alcuni li ama anche, ma si guarda bene dal farglielo presente - tuttavia ci sono volte in cui entrambi si trovano nel momento sbagliato, con l’umore sbagliato, e si ritrovano solo così: a vomitare parole.
«E poi» sta continuando a strillare Tooru, una cosa che detesta perché con quella voce ha la capacità di farlo incazzare senza nemmeno bisogno di ulteriori motivi «Mattsun e Makki mi hanno portato a casa!»
«A casa, certo!» gli sbraita contro «Così ubriaco che ti tenevano in due.» puntualizza, piccato.
«Ero brillo.»
«Brillo non inizia nemmeno a descriverti. Solo perché hai smesso di giocare non significa che puoi fare l’idiota e riempirti di alcolici.»
«A sentire te sembro un alcolista!» sbotta Tooru, continuando a girare sempre dallo stesso lato del divano, avanti e indietro, come se questo lo aiutasse a scaricare un minimo di tensione che è invece chiaramente chiusa nel suo corpo, lì a farlo vibrare come una corsa di violino pizzicata di continuo: «La prossima volta vieni anche tu così puoi controllarmi, visto che ci tieni tanto. Ah già. Hai il tuo stupido lavoro troppo impegnativo per uscire.»
«Non fare lo stronzo, potevi scegliere di venire a lavorare con me, quindi non rinfacciarmelo!»
«Beh forse preferivo che facessimo altro insieme, non andare in una palestra a insegnare pallavolo così presto!»
«Sono passati tre anni!»
«Tre anni fa il mio futuro è andato al diavolo, Iwa-chan!» grida Tooru, e a questo punto Iwaizumi ha abbandonato la speranza di non essere sentito da tutto il palazzo in cui hanno l’appartamento che condividono da anni. Iwaizumi sa che Tooru è frustrato, che non ha ancora superato - e non sa se ci riuscirà mai, di questo passo - l’infortunio al ginocchio che ha stroncato definitivamente la sua carriera. Lo ha seguito nella riabilitazione, lo ha aiutato fisicamente e non, è stato paziente ma ora nemmeno lui ce la fa più.
E finisce sempre così, a scoppiare per un’inezia che si trasforma in tragedia, puntualmente.
«Quindi è per questo che bevi fino a quando non cominci a lamentarti con gli altri di cose di cui potresti parlare con me, la persona con cui vivi da anni, che ti ha ascoltato ogni notte in cui ti sei svegliato per il dolore. Giusto. Maturo da parte tua, come sempre.»
«Oh, andiamo Iwachan cosa sei, mia madre?!»
«Forse sarebbe l’unico modo per farti entrare in quella testa di cazzo che non sei il centro del mondo!»
Tacciono entrambi, guardandosi in viso per la prima volta da quando hanno cominciato a urlarsi addosso. Hanno persino il respiro affannoso come non avevano da quando facevano così tante ore di palestra al giorno da averne fin sopra i capelli; il silenzio cade tra loro, quasi stessero cercando di assorbire l’uno le parole dell’altro, di farle arrivare davvero solo per poterle comprendere.
Tooru lo guarda e incurva le labbra in un sorriso amaro, una briciola di sarcasmo che Iwaizumi sente prima ancora che l’altro parli: «Wow. Quindi è questo che pensi di me. Questo sì che mi invoglia a parlarti.»
Prima ancora di rendersene conto, Iwaizumi avanza verso di lui un passo dopo l’altro, fino a far cozzare la fronte contro la sua - non è una vera testata, ma il gesto vale più di mille parole.
«Non osare.» sibila come se dovesse ucciderlo con quelle uniche due parole «Questa casa ha girato intorno a te da quando ti sei fatto male, io ho girato intorno a te. Non osare nemmeno provare a rinfacciarmi di non annullarmi per te.»
«Non ti ho mai chiesto di annullarti per me! Voglio solo sentirmi diverso da “Oikawa Tooru” quando siamo insieme!» gli grida in faccia, ma stavolta suona così disperato che Iwaizumi ne è quasi stordito.
Ogni tanto pensa quasi che vorrebbe quel ginocchio non ci fosse più. Cerca di immaginarlo lì, ma non davvero parte della gamba e di ciò che Tooru ormai si sente da anni: un legamento spezzato. 

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