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Prompt: Sacrificio

Missione: M2 (week 2)
Parole: 602
Rating: gen
Fandom: Haikyuu!!

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Erano rari i momenti in cui Oikawa Tooru appariva come qualcosa di diverso dall'atleta perfetto, almeno agli occhi di chi guardava quello in lui o non lo conosceva al di fuori del campo da pallavolo. L'avessero chiesto a lui, in ogni caso, non avrebbe fatto altro che sorridere con quel fare un po' strafottente dicendo che non c'era davvero nulla di diverso da quello da vedere - un atleta perfetto. Senza falsa modestia, naturalmente.


Per sua sfortuna, Tooru conosceva benissimo la realtà dei fatti: non c'era davvero niente di più diverso di lui da un atleta perfetto e questo perché quello era il nome di cui si potevano pregiare i geni, quelli che nascevano con un talento così immenso che forse si sarebbero potuti permettere di fare il minimo sindacale per tutto il resto della loro vita e avrebbero comunque potuto farcela. Ci erano voluti molti anni, a Oikawa, per accettare il fatto che Tobio rientrasse in quella categoria e al tempo stesso non ne fosse del tutto parte - quel ragazzo era così patito della pallavolo che non avrebbe mai potuto accettare di fare meno del massimo, di curare ogni minimo movimento, di migliorarsi sempre di più.


Guardandolo quando ancora si allenavano insieme, però, Tooru non aveva potuto fare a meno di detestare il fatto che Tobio potesse scegliere di non sacrificare tutto per lo sport. Certo, si allenava e sì, aveva fame di imparare... ma avrebbe potuto svegliarsi, un giorno, decidendo di fare ciò che molti altri sportivi - specie quelli che volevano puntare in alto - non potevano neanche sognarsi di fare: non rinunciare a tutte le esperienze che era possibile fare a quell'età, non dover costantemente dire agli amici "non posso" fin quando non smettevano di chiederti di unirti a loro. Avere la normale quotidianità di normali adolescenti e ottenere comunque risultati incredibili.


Solo molto dopo Tooru aveva compreso che in fondo, a suo modo, Kageyama aveva sacrificato tutto come lui, come molti altri. Non solo le cose più scontate - di cui, sospetta Oikawa, Tobio non deve essersi mai interessato così tanto già solo per indole - ma anche trattenersi agli allenamenti in orari assurdi. Proseguirli quando i muscoli facevano così male da far pensare di non riuscire nemmeno a percorrere il tragitto dalla scuola a casa per tornarci; quando i polmoni bruciavano al punto che respirare era un bisogno ma si considerava anche l'idea di trattenere il fiato perché l'ossigeno faceva quasi più male che bene; continuare anche dopo un pessimo atterraggio da un salto di contrasto a muro, con le ginocchia pronte a cedere e le fitte di dolore così veloci e potenti da arrivare al cervello e stordire per una manciata di secondi.


Quando lo aveva realizzato, nella sala d'attesa di un ospedale per un check al ginocchio dopo un periodo particolarmente pesante in cui ignorare il dolore era diventato complicato, Tooru per un attimo si era chiesto: valeva davvero così tanto la pena? Fino a dove poteva spingersi l'amore per uno sport, quanto sano era - mentalmente e fisicamente - arrivare a tanto?


Forse, per un solo istante, Tooru ha pensato: è ora di smettere.


Il pensiero lo ha spaventato al punto da essere ricacciato indietro altrettanto velocemente, come una parola tabù pronunciata in un luogo sacro che non perdona anche solo l'averla sillabata. A quel punto, non ha più smesso.


Ora, tanto quanto fatto dal se stesso adolescente, darebbe ogni fibra del suo essere - d'altronde, ha sacrificato persino casa propria, in un certo senso - per essere in quel campo, vicino a quella rete, a sfiorare con i polpastrelli quella palla.
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Prompt: no dialoghi

Missione: M1 (week 2)
Parole: 579
Rating: teen up
Fandom: haikyuu

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C'era un che di affascinante nel modo sempre uguale che aveva Iwaizumi di spogliarsi, quando alla fine di un allenamento tutti si riunivano nello spogliatoio. Era capitato anche di essere gli ultimi, ben più di una volta, e a rigor di logica non c'era nulla da vedere che Tooru non avesse già visto in anni di amicizia da quando erano piccoli fino a oggi. Eppure era diventato diverso osservarlo, a ridosso forse della terza media.


A voler essere oggettivi, in una divisa di pallavolo maschile - ma anche di pallavolo in generale, in effetti - non c'era nulla di particolarmente sexy ed entusiasmante. Se poi si voleva evitare di romanticizzare qualcosa che non lo era affatto, romantico, si sarebbe dovuto anche considerare la puzza di uno spogliatoio maschile. Di elementi poco affascinanti ce ne erano decine e decine, ma Tooru continuava a ritrovarsi a osservare quei movimenti abitudinari, quasi meccanici, con devozione. Anche ora, approfittando di uno spazio comune in cui era legittimato a essere oltre che a guardare, senza destare poi grandi sospetti - troppo stanchi da ore di allenamento senza sosta, alla ricerca del superamento di un limite, per curarsi del silenzio interrotto solo dal rumore degli oggetti spostati e del getto dell'acqua nelle docce. 


Iwaizumi cominciava sempre dalle scarpe, ma al contrario di chi le toglieva alla meno peggio, si prendeva il tempo di sedersi e slacciarle una alla volta, allentandole fino a poterle togliere agilmente. Si voltava sempre verso le ciabatte già poggiate sulla panchina prima di sedervisi e le metteva a terra, così da potervi poggiare i piedi nudi una volta tolti anche i calzini di spugna e le ginocchiere. Queste ultime non le toglieva mai con particolare cura, se non quella necessaria a tenerle da conto, in un'attenzione ai suoi oggetti personali che era sempre stata molto meno superficiale di quella di Tooru. I calzini, però, li faceva scivolare via dal piede in un modo che a lui aveva sempre ricordato... qualcosa, che non avrebbe saputo inquadrare senza risultare patetico.


A volte Iwaizumi toglieva prima la maglietta. Avveniva quando era frustrato dall'andamento degli allenamenti o delle partite e Tooru poteva osservare i suoi muscoli contrarsi e tradire lo stato emotivo di cui non faceva mai parola. Hajime non si spogliava in maniera sexy, non aveva la sensualità di chissà quale uomo maturo. Tooru non lo guardava immaginandosi chissà cosa, si limitava a seguirne i movimenti e a riconoscervi qualcosa di già visto che a lungo andare avrebbe saputo imitare a occhi chiusi. Quella consapevolezza gli dava una scossa di adrenalina ben diversa da quella sportiva e lo faceva sentire importante, in presenza di qualcosa di solo suo. Un primato che nessuno avrebbe potuto togliergli.


C'erano poi momenti, come quello di ora, in cui Hajime forse si accorgeva del suo sguardo e si fermava per una manciata di secondi - uno stallo in cui Tooru restava in bilico tra la dissimulazione e la faccia da schiaffi di chi, dell'essere scoperto, non si era mai preoccupato davvero. Con la pretesa singolare di avere un diritto in più degli altri.


Hajime alla fine, come adesso, faceva scivolare giù per le gambe calzoncini e mutande insieme, in un unico gesto di chi non aveva tempo da perdere; ironicamente, c'era una bellezza oggettiva che perdeva il fascino del movimento.


Tooru, in ogni caso, lo seguiva sempre con lo sguardo fino a quando il rumore della doccia del suo box non riempiva la stanza.


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Prompt: Libertà

Missione: M2 (week 2)
Parole: 1792
Rating: teen up
Fandom: Umibe no étranger

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Una volta, per pura curiosità, Shun ricorda di aver provato a unirsi a una community - rigorosamente online - con cui aveva interagito per caso in un paio di occasioni cercando qualcosa online, quando quello per la scrittura era solo un pensiero casuale ogni tanto. Gli era sembrato utile farne parte e, come ogni cosa che non richiede un contatto con una persona, era facile da gestire: poteva sempre cancellare il suo account e tagliare di netto qualsiasi ipotetico rapporto.


All’epoca c’era un utente con cui gli capitava di interagire di più - ancora oggi Shun non ha la minima idea se fosse un ragazzo o una ragazza, quanti anni avesse rispetto a lui… ma questo perché, dopotutto, saperlo non è mai importato. Quella era ed è tuttora il tipo di libertà che internet e il mondo online possono offrire: la libertà di essere chi si vuole, quando si vuole e senza che nessuno se ne preoccupi poi molto se non in rari casi. Shun ricorda di aver distrattamente affrontato con quella persona la questione del perché a un certo punto qualcuno decida quasi dal nulla di scrivere. Qualunque sia stata la propria opinione all’epoca - Shun sospetta di averne data una casuale, forse persino superficiale -, per qualche assurdo motivo non ha mai dimenticato quella dell’altra persona. Forse perché, in fondo, è una domanda a cui non ha ancora trovato risposta.


«Non ti senti libero, quando scrivi?»


Shun, all’inizio, si è convinto di sì. Perché è una di quelle domande a cui si pensa che la risposta sia ovvia, uguale per tutti. O quantomeno perché chi mai di fronte a un, per esempio, “ti piacerebbe avere un superpotere?” risponderebbe di no. O anche: chi, guardando un tramonto e sentendosi domandare se non gli dia una certa sensazione - pace, nostalgia - non finirebbe per sentirsi proprio così semplicemente perché è un’associazione immediata, quasi scontata?


Per Shun quella domanda, in quell’occasione, è stata esattamente questo. Ma una volta che il tramonto lascia spazio alla notte e ci si sofferma a riflettere sulla cosa… era davvero nostalgia? Era davvero pace? Si sarebbe sentito libero, se avesse scritto sul serio?


*


All’inizio si è sentito come un bambino a cui era stata aperta una finestra enorme rimasta bloccata fino a quel momento. Certo, il foglio bianco per un po’ lo aveva guardato in inquietante attesa e pieno di aspettative a cui Shun non aveva idea di come rispondere. Poi un ideogramma, un altro, un altro ancora– aveva iniziato a scrivere senza quasi accorgersi del tempo che passava o dei quaderni via via con sempre più pagine piene e sempre meno da riempire. Per Shun, ora lo sa, è stata una droga, l'ebbrezza di sentirsi senza limiti, senza catene; la consapevolezza di una libertà totale il cui unico ostacolo era lui stesso. Non era più un bambino timido e taciturno, non più un adolescente intrappolato in una diversità che gli pesava addosso e lo faceva sentire come se non potesse osare quanto gli altri - nel muoversi, nel respirare, nell’esistere


Ma tutto questo nella scrittura non esisteva. Shun non dimenticherà mai quella sensazione di potersi finalmente muovere avendo tutto lo spazio del mondo per sé.


«Non ti senti libero, quando scrivi?»


*


Gli chiedessero quando è stato il momento del vero inizio, però, Shun saprebbe dare solo un’indicazione vaga, generica. A un certo punto, semplicemente, in un pomeriggio pieno solo del cicaleccio a riempire l’aria estiva si è seduto in veranda. Ha guardato il furin ondeggiare appena, provocando il tipico scampanellio, anticipando una brezza leggera che di sollievo nel caldo forse non ne ha dato molto quella volta, ma si è portata con sé l’odore del mare. Shun ha guardato di lato, verso la sua stanza, verso la scrivania; ha visto un quaderno come tanti, una penna come tante e lui - dopotutto - era un ragazzo come tanti. 


Ha cominciato. Semplicemente. Le mani hanno recuperato carta e penna, si è sistemato a gambe incrociate e nella posizione meno comoda del mondo ha iniziato a scrivere come aveva fatto altre volte. Solo che quella era diversa: più brutale, totalizzante. Più velenosa. Più salvifica. Ogni ideogramma sulla carta è stata una ferita sanguinante e un foro sulla carta di riso di uno shoji rimasto chiuso troppo a lungo. Così l’aria ha cominciato a filtrare, sempre di più; anche quando il polso si è indolenzito e le dita si sono intorpidite, o le ginocchia in quella posizione hanno iniziato a implorare pietà, Shun ha scritto. 


Quando ha finito, ha capito di aver scritto davvero per la prima volta e di essere completamente vuoto, prosciugato. Di non avere più niente da dare, ma nemmeno più niente per cui soffrire. Un guscio privo di anima, anche se l’effetto non sarebbe durato in eterno. Gli andava più che bene, perché per una volta non essere se stesso è il regalo migliore che ci si può fare - anche se Shun non crede a quegli autori che dicono di diventare i propri personaggi, oppure a quelli che parlano dei loro eroi su carta come persone che decidono autonomamente cosa fare. Crede però nei colpi di scena fulminei, quelli che non si aspetta il lettore ma che non si aspetta nemmeno l’autore. 


Crede, con una forza che non sente di avere per nient’altro, di non aver mai pianto tanto come quando ha messo la parola fine a quel racconto che gli sarebbe valso il primo premio di scrittura mai vinto in vita sua.


Eppure è convinto che sia stato l’esatto istante in cui la scrittura è anche diventata una catena, in quell’istante ancora leggera, quasi senza peso. 


*


«Shun, come sta andando?» sente chiedere a Mio con cautela, come tutte le volte in cui lo vede scrivere e sa che la scadenza è pericolosamente vicina - specie se poi, come ora, la scadenza era ieri.


Shun occhieggia il foglio riempito solo per metà, fermo e senza sapere con quale frase concludere, con nelle orecchie ancora la voce della sua editor che lo rimprovera a metà tra rassegnazione e disperazione. Più fissa la carta, meno gli si formano parole in mente e le poche frasi che ha azzardato finora suonano tutte sbagliate - ma, come sempre, questo non equivale a capire come dovrebbero essere per suonare giuste.


«Mh.» il monosillabo che offre, prima di abbandonare la penna e voltarsi per cercare la figura di Mio. La trova più vicina di quanto si aspettasse, realizzando come l’altro debba aver accostato in silenzio il futon prima di infilarsi sotto le coperte. Di solito Mio lo fa le rare volte in cui non sta bene e diventa molto più bisognoso di attenzione, a richiederne con il tono lamentoso di un bambino. E’ strano che lo faccia in condizioni come quella, invece. Per questo Shun inarca un sopracciglio, osservandolo; nota subito l’altro mettere su un broncio leggero: «Che c’è?»


Capita che Shun lo osservi, anche quando Mio non ne è consapevole. Lo ha fatto all’inizio, quando ancora non sapeva nemmeno il suo nome, vedendolo solo su una panchina a guardare il mare - forse, in alcuni giorni, senza vederlo davvero. Shun si è domandato, in quelle prime occhiate rubate di straforo all’insaputa del diretto interessato, perché quella figura pur sembrandogli incredibilmente sola gli desse anche la sensazione di qualcuno senza vincoli. Certo, quando era venuto a sapere della mamma di Mio si era sentito una persona orribile per aver pensato anche solo per un secondo che un lutto rendesse qualcuno libero di non avere legami di alcun tipo a fargli da zavorra. Non glielo ha mai detto, né lo ha più pensato. 


Immagina che sia stato un pensiero dovuto al suo rapporto con i suoi genitori. 


«Nulla, nulla.» replica, sventolando un poco la mano e abbandonando tutto quanto è sulla scrivania per gattonare a coprire la poca distanza dal futon di Mio, infilandosi senza tante cerimonie sotto la coperta con lui. Mio un po’ protesta con dei «Shun-» e «devi finire, prima!» ma poi lo sente sbuffare perché non riesce a trattenere benissimo la risata che alla fine gli scappa mentre lo accoglie. Shun si sistema su un fianco, in modo da guardarlo in viso. Sa che Mio ha patito un po’ il suo carattere e le sue convinzioni, ma non riesce davvero a pentirsene del tutto: voleva lasciargli la libertà di non avere gli sguardi su di sé, come la volta in cui sono finiti in quell’albergo. 


La libertà di scegliere, perché in qualche modo contorto è sempre stato convinto che Mio potesse farlo, al contrario suo.


«Shun?» si sente chiamare e alza lo sguardo su Mio, mentre avverte la sua mano cingergli un fianco con leggerezza, senza nessun invito di altro tipo se non quello di stare vicini e godersi un momento loro: «A cosa pensi?» gli domanda e Shun è lì lì per chiedergli di cosa parli di preciso, ma Mio lo anticipa aggiungendo un più chiaro «Quando scrivi, dico. A volte ti vedo assorto come se fossi in un mondo tutto tuo che posso solo guardare da fuori, però…» indugia, Shun lo sente stringergli appena di più il fianco in quel mezzo abbraccio a cui ha dato vita.


Lo guarda, un po’ per esortarlo in silenzio, un po’ perché farlo a voce poi legittimerebbe qualsiasi domanda scomoda e non ha molti dubbi che lo sarà. Se ne aveva, spariscono quando Mio pronuncia quel «però altre sembri solo fare qualcosa che ti fa stare come se avessi un peso enorme sulla schiena.»


Come potrebbe mai spiegargli che nel momento in cui la scrittura l’ha resto libero, allo stesso tempo lo ha reso anche schiavo? Di essersene accorto troppo tardi, quando ormai ne era dipendente? Di avere, a volte, l’istinto di stracciare ogni singolo foglio, mettersi le mani nei capelli e urlare, perché lui è solamente questo: la capacità di mettere parole in fila, scoperta un po’ per caso, un talento grezzo che forse lui non ha saputo coltivare se non con una partecipazione a un concorso al momento giusto. Come potrebbe spiegargli di sentirsi come se la scrittura fosse tutto ciò che ha, tutto ciò che è? Di quanta paura faccia il pensiero di perderla, perché non saprebbe cos’altro fare di se stesso - di come però si ritrova, alcune notti, a pensare forse se l’abbandonassi sarei libero.


Districa una mano da sotto le coperte, posando una carezza leggera sulla sua guancia, finendo con l’avvicinare il viso e posargli un bacio sulle labbra. Sente Mio fare per lamentarsi e lo sa, di essere il solito codardo e di averlo baciato spesso per non rispondere a una domanda. Ma lo fa di nuovo, con più dolcezza, sentendolo rilassare il corpo perché in fondo tanto lui quanto Mio, almeno nella sfera affettiva, sanno essere persone estremamente semplici a cui basta sentirsi vicini.


Dal suo punto di vista, è già un miracolo così.


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Prompt: “Entrarono nella stanza chiedendosi perché lo stessero facendo”

Missione: M2 (week 1)
Parole: 1550
Rating: teen up
Fandom: original

Warnings: accenni di violenza




Entrarono nella stanza chiedendosi perché lo stessero facendo.


O meglio: perché lo stessero facendo nonostante entrambi avessero cambiato vita, in un certo senso, dando a essa un indirizzo in apparenza lontano anni luce dal precedente. 


A Tatsuya veniva da ridere: non importava a quante persone, tra quelle che conoscevano Aoi da molti anni, rivelasse la loro parentela. C'era sempre una reazione al limite dell'incredulo che per lui finiva con l'essere solo estremamente divertente. Ma questo, al contrario del legame di sangue tra lui e Aoi, non stupiva nessuno. Dopotutto come Irina avrebbe detto - così sosteneva - anche quando da morta starò di sicuro tormentando qualcuno, era troppo stronzo perché il suo ridere del disagio altrui arrivasse come qualcosa di inaspettato. D'altronde, non sentiva di poterle dare torto. Lui stesso con Aoi non aveva condiviso l'infanzia, ma lo aveva comunque conosciuto che era un ragazzino di quindici anni di cui comprendeva il terribile lutto subito - la perdita di una madre, Tatsuya lo sapeva, era qualcosa di insuperabile. All'epoca non aveva la forza né l'empatia necessaria (e forse neanche il coraggio) di dirgli che il massimo che sarebbe riuscito a fare sarebbe stato imparare a convivere con quel dolore, con quella mancanza. Era il massimo che si poteva fare. Il massimo che si poteva chiedere a se stessi.


Guardandolo ora, a venticinque anni e dopo dieci di conoscenza, era quasi difficile credere di avere davanti la stessa persona; Tatsuya, tuttavia, riconosceva in lui ancora un'anima non così dissimile da quella che era certo non avrebbe retto a lungo nella vecchia organizzazione in cui si erano incrociati per la prima volta. Era difficile dimenticare un ragazzino non troppo alto, pronto a impegnarsi nel comprendere qualcosa di difficile come la medicina pur di essere di supporto a discapito di un potere potenzialmente distruttivo. Era quasi impossibile dimenticarsi le sue mani fasciate nella speranza che una perdita di controllo distruggesse delle bende, prima di fare del male a qualcuno; di come lo trovava spesso a dormire fuori della sua stanza, rannicchiato tra i mobili, perché le cose, se distrutte, posso in qualche modo provare a ripararle. Lo aveva visto tentare e lo aveva visto fallire; lo aveva osservato affezionarsi e colpevolizzarsi ogni volta in cui qualcuno tornava con una ferita di troppo; lo aveva visto diventare il centro del mondo di una persona, condividere con quella tutto ciò che di più intimo aveva e di cui non aveva mai osato parlare; giorno dopo giorno Tatsuya aveva osservato, notato come Aoi fosse riuscito alla fine a toccare qualcuno senza paura di ucciderlo per errore. Lo aveva visto trovare una figura a metà tra un padre e un fratello.


Poi lo aveva visto capire di non essere abbastanza per loro - in quel modo terribile e collaterale, in cui si era importanti ma non abbastanza, non tanto quanto un ideale, non al pari di una decisione.


Tatsuya era sicuro di poter dire, non che fosse questo grande vanto nei confronti di un altro essere umano, di aver visto l'esatto istante in cui Aoi era passato dall'essere un ragazzo testardamente ottimista all'essere un uomo capace di vedere ancora il buono, ma anche di riconoscere le verità più crude. Non avrebbe saputo dire se quello fosse stato il momento in cui anche il suo potere aveva fatto un cambiamento importante né se fosse necessario perché avvenisse. Era solo cambiato, divenuto più stabile e Aoi aveva ora una consapevolezza e comprensione tale del proprio potere da essere uno degli ability user più forti e pericolosi in circolazione. Poco importava sottolineare quanto non fosse praticante, per dirlo in modo delicato, se non per esigenza.


«Non c'è nulla di sospetto nella stanza.» pronunciò Aoi, tirandolo fuori da quel flusso di coscienza che tempo fa non si sarebbe mai concesso. Tatsuya vorrebbe poter dire di non avere più l'istinto di una volta, ma saprebbe di mentire. Mai come negli ultimi anni aveva compreso le parole di suo padre che, nonostante non gli mancasse nemmeno un'unghia di quanto gli manchi sua madre, non era mai davvero riuscito ad accantonare. Troppo tempo della sua infanzia e della sua adolescenza era stato passato ad apprendere anche solo passivamente da lui, consapevole di come un giorno lo avrebbe sostituito, com'era poi successo. Lo diceva sempre, Kensuke Miyuki: un assassino non smette di esserlo solo perché decide di vestirsi da essere umano da un giorno all'altro.


A onor del vero, i Miyuki non erano mai stati assassini. Il codice gli imponeva un rigore assoluto. Ma nel loro ambiente era poco credibile pensare non sarebbe arrivato il giorno in cui ci si sarebbe sporcati le mani del sangue di qualcuno e Tatsuya non aveva fatto eccezione - aveva lasciato alle spalle, tra le dicerie dei vicoli, un record di cui non c'era nulla per cui essere fieri umanamente parlando. Ma il punto era che suo padre aveva ragione: Tatsuya non era più a capo del Miyuki-gumi - non esisteva più, un Miyuki-gumi - ma sapeva ancora come si impugnavano due katane contemporaneamente ed era certo di poterle usare meglio di molti altri, con la stessa precisione e freddezza di un tempo, al pari di quanto era sicuro di saper ancora respirare senza nemmeno dover pensare di farlo.


«Certo» riprese Aoi spostando lo sguardo su di lui e mantenendo un sorriso morbido «non pensavo sarebbe di nuovo capitato di essere insieme in una circostanza come questa, Tsuya.»


Ci era voluta una vita, prima di sentire Aoi utilizzare un nomignolo con lui; ora lo faceva come se non avessero avuto mai un rapporto diverso da quello di adesso.


«Ti dirò, un fidanzato nella mafia russa e essere adottato da una famiglia di assassini tedeschi forse avrebbe dovuto suggerirmi che potesse almeno succedere. Anche se ormai non esercito più, come direbbero alcuni.»

«Credo sia solo perché non ti chiedono di esercitare.» sentì dire ad Aoi, il tono morbido di chi immaginava non sarebbe mai stato in grado di smettere di essere gentile almeno con i suoi affetti: «Ma se chiunque della famiglia di Xylia ti chiedesse di tornare a fare questo lavoro ogni giorno, non ci penseresti affatto. Nemmeno ora che sei padre, forse.» lo sentì aggiungere, quasi in extremis.


Padre. Non ci avrebbe scommesso neanche uno yen, meno di un anno fa.


«Ahimé, rimango uno dei migliori ed è la croce delle persone di talento.» pronunciò, suonando volutamente più arrogante di quanto già non fosse la frase di per sé. Aoi, alla sua destra e di un paio di passi più avanti per meglio lasciar fare al suo potere il proprio dovere, sbuffò una risata quasi infantile.




«Allora sarai felice di sapere che la tua fama ti precede.»

«Ah, mi dai sempre buone notizie. Ero quasi preoccupato di aver lucidato le lame per niente. Ci pensi, tornare da Irina e deluderla dicendole di non averle nemmeno estratte dal fodero?» ironizzò, premurandosi di estrarne una sola per il momento. Avvertì gli occhi di Aoi seguire quel movimento, attenti ma al tempo stesso come si sarebbe potuto fare nel vedere un gesto conosciuto. 


«Sai chi sarà davvero deluso? Chihiro.»

«Non dirglielo» si raccomandò con un pizzico di serietà in più «penserebbe che sono tornato davvero a muovermi in un certo ambito e insisterebbe per venire qui.» proseguì, cercando il contatto visivo con Aoi «E non tornerebbe più a casa.»


Aoi non chiese di più, perché in fondo non aveva bisogno di farlo - aveva conosciuto Chihiro, aveva parlato con lui e aveva inquadrato più di quanto forse lo stesso Chihiro immaginasse. 


«Quindi» riprese Tatsuya guardando davanti a sé prima e verso il soffitto poi «quanti ne senti?»

«Difficile darti un numero esatto. Se salissi più di due piani, forse bloccherei qualche piede e perderemmo l'effetto sorpresa.» ammise, spostando anche lui lo sguardo verso il soffitto «Ti direi Due. Poi tre.» riportò, abbassando gli occhi sulle proprie mani. Tatsuya lo vide iniziare a liberare la destra della benda - ormai erano più simboliche, lo sapeva, ma c'era qualcosa di inspiegabile nel vedere Aoi toglierle volontariamente e con la calma di chi si priva di un indumento nel cambiarsi d'abito, quando si sapeva cosa nascondevano. 


«Solo la destra?»

«Preferirei non dover togliere anche l'altra. Significherebbe che siamo nei guai.»

«Stai insinuando che non sappia proteggerti, moccioso?» lo prese in giro Tatsuya, incurvando le labbra in un sorrisetto sghembo. Sentì Aoi cercare, senza troppo impegno, di mascherare l'accenno di una risata da sbuffo rassegnato.


«Non oserei, Tsuya.»

«Bene.» chiuse il discorso ma, soprattutto, la parentesi poco seria lasciando che il proprio potere andasse a coprire più superficie possibile. Al contrario di Aoi, esteso per due piani o per quindici non c'era affatto differenza nel suo caso - se non nella stanchezza che lo avrebbe aggredito a lungo andare, era ovvio. Ma in termini di percezione, non c'era modo per un nemico di accorgersene, nemmeno per la quasi totalità degli ability user. O forse nemmeno tra loro c'era qualcuno che avrebbe potuto percepirlo prima che fosse troppo tardi. 


Una manciata di lunghissimi secondi, quelli in cui rimasero avvolti nel silenzio per lasciare a Tatsuya tutto il tempo del mondo - un modo di dire che non avrebbe mai smesso di farlo ridere.


«Aoi.»

«Mh?»

«Non credo avrai bisogno di togliere le altre bende.»


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Prompt: “Sapeva già che sarebbe stato un disastro”

Missione: M2 (week 1)
Parole: 1550
Rating: teen up
Fandom: original

Warnings: linguaggio colorito



Sapeva già che sarebbe stato un disastro. Quello che non aveva considerato era la portata del disastro e le aggravanti.


Yukinaga si è sempre reputato una persona pacifica e no, essere diventato capitano della squadra di kendo e avere dei legami con un ex gruppo mafioso non è il tipo di cosa che lo definisce - né quella di cui parla con i compagni di classe durante l'intervallo, a dirla tutta. Yukinaga, il cui nome è ormai storpiato in ogni modo perché evidentemente lì in Germania c'è un problema quando una parola include troppe vocali, è lo stereotipo del ragazzo giapponese nella mente di molti lì ma non se ne è mai davvero fatto un problema. Dopotutto la sua famiglia lo conosce in ogni sua sfumatura e gli basta questo - non importa davvero che la nuance in questione sia cosa gli piaccia mangiare nei giorni in cui è giù di morale, o quante persone sarebbe in gradi di uccidere impugnando una katana. 


La situazione lì nella cucina di casa Sievert è qualcosa che definirebbe drammatica e poco importa quanto Yamato, in visita, continui a ripetergli che "dopotutto la maggior parte del cibo era già stata spostata ed è salva". I suoi occhi non si schiodano dalla figura di Rikiya che, Yukinaga non ha bisogno di leggergli nella mente per saperlo, è a metà tra cercare una via di fuga già consapevole di non averla e il desiderio di potersi far inglobare dal pavimento. O di potersi fingere morto come un opossum ed essere credibile. E' solo con la coda dell'occhio che il ragazzo, ormai inquadrato da tutti anche ufficialmente come il secondo in comando dei Miyuki - se non fosse che non serve più il concetto di un secondo in comando, ma ha rinunciato a ripeterlo soprattutto a Irina -, tiene d'occhio il disastro purtroppo già analizzato fin troppo nel particolare. La credenza? Un ricordo di altri tempi, con uno sportello ancora aperto e il resto pieno di farina e polveri di altro genere. Una cosa che in casa Sievert può significare "cacao amaro" o "polvere da sparo" ma ha deciso per il proprio bene di dare per scontato ci sia solo il primo nella cucina. Il lavandino, un'ecatombe di piatti, forchette e ciotole utilizzate sopra cui un tempo doveva esserci stato del sapone per piatti o almeno dell'acqua corrente... ora devastati da glitter. Sulla sinistra, la tavolata usata ogni mattina per la colazione senza preoccuparsi di apparecchiare nel salone dati gli orari tutti diversi degli occupanti di casa. Basta uno sguardo anche solo sbieco per rendersi conto di come sia sinistramente piegata e la tovaglia poggiata sopra per evitare macchie del cibo preparato per tutta la durata della mattina non è sufficiente a mascherare come, quasi senza dubbio, nella parte centrale debba essere spezzata. 


Un sospiro lento e lungo è quello che si fa scivolare tra le labbra, le braccia incrociate al petto e gli occhi ambrati fissi sulla figura di Rikiya come se volesse sfidarlo ad alzarsi dalla posizione seiza in cui è da cinque minuti. Quasi lo sfidasse ad andarsene senza il suo permesso -  non che di norma debba chiederglielo né Yukinaga si sia mai posto in quei termini, ma un po' di sano regno del terrore a volte è necessario. 




Yamato ha smesso anche di cercare di salvare l'insalvabile, limitandosi a restargli di fianco, sebbene Yukinaga sospetti possa essere più per un eventuale e disperato tentativo di aiutare Rikiya che non per spalleggiare lui. Non che la cosa lo offenda, in ogni caso, e la sua attenzione è comunque su ben altro adesso.


«Rikiya.»


L'altro giapponese sobbalza appena, perché Yukinaga si ricorda bene di quando una volta gli ha detto "Yuki-san, mi fai più paura quando non urli. In effetti non urli mai, quindi mi fai sempre abbastanza paura" e dunque non solo per indole, ma anche per rimarcare il concetto non alza la voce in questo momento. Aspetta però di vedere le iridi altrui posarsi sulla propria figura, vedendolo irrigidirsi nelle spalle al pari di chi sta cercando di farsi coraggio e mostrare una sorta di dignità. Gliene dà atto.


«Sono abbastanza sicuro di aver parlato con te di molte cose riguardanti il tuo potere.» comincia, senza spostare lo sguardo da lui «Proprio perché io non ne ho uno e quindi in molti casi non so bene come rendere più facili le cose a voi ability user, se non me lo dite chiaramente. Mi hai spiegato che a volte le esplosioni arrivano prima di poterle fermare o controllare, sì?» chiede una conferma di cui non ha bisogno, ma al di là di tutto ha sempre cercato di non dare per scontato niente con le abilità delle persone che Tatsuya ha conosciuto nel tempo o - come nel caso di Rikiya - direttamente accolto in casa. 


«...Esatto.» pronuncia Rikiya deglutendo, suo malgrado, in modo piuttosto rumoroso. Yukinaga finge di non notarlo.


«Se non sbaglio, poi, queste esplosioni spesso dipendono da quello che provi, giusto? Nel senso che se perdi il controllo e ti arrabbi molto, per esempio... beh.» un'occhiata laterale al tavolo «Credo di non dover fare descrizioni troppo lunghe.» aggiunge, tornando a guardare il colpevole dello stato pietoso in cui versa la cucina. Stavolta, Rikiya si limita ad annuire sebbene Yukinaga lo veda in procinto di dire qualcosa e poi ripensarci molto velocemente. Non ha bisogno di guardare Yamato per scommettere sull'alta possibilità che il suo ragazzo abbia fatto cenno a Rikiya di tacere per accelerare tutta la questione.


«Quindi» riprende, cercando di non incurvare le labbra nel sorriso spontaneo che minaccia di scappargli solo perché ha un partner troppo cuore di panna «cosa avevamo concordato riguardo i preparativi per la festa di oggi?» domanda e stavolta si assicura di guardare Rikiya in modo da non lasciare spazio a dubbi sul fatto di volere da lui una risposta verbale e articolata, non un docile annuire o dargli ragione.


«Ma Yuki-san...!» comincia lui, salvo fermarsi - deve bastargli l'occhiata che Yukinaga cerca di rifilargli in maniera inequivocabile, ossia una per suggerirgli di non iniziare da delle scuse ma da quanto si erano effettivamente... detti, più che promessi. Un accordo, per così dire appunto.


«...Avevamo detto che non avrei aiutato in cucina, ma che potevo occuparmi degli addobbi esterni.»

«E questo perché?»
«Perché se esplode qualcosa fuori al massimo chiediamo scusa ai vicini.» se ne esce Rikiya provando a buttar lì una battuta. Yamato, stavolta senza nemmeno curarsi di non farsi vedere o di indietreggiare di quel passo sufficiente a non rientrare nel campo visivo di Yukinaga, gli sillaba (con tanto di gesto della mano) un "too soon". Rikiya sembra cogliere al volo, come tutte le persone - e gli animali? - molto istintivi.


«Ehm» si schiarisce la voce «perché le esplosioni all'esterno possono essere contenute meglio. Insomma, almeno quelle del mio potere.» specifica, finendo per posare su Yukinaga lo sguardo di chi vorrebbe aggiungere altro ma non osa farlo senza permesso.


«Quindi perché è esplosa la cucina, Rikiya?» chiede lui, ancora con le braccia strette al petto, ma in evidente ascolto. L'altro giapponese sospira, sconsolato: «Perché volevo aiutare con la torta. Ma poi è passata Irina-san.» un nome una garanzia, per chi soffre di cuore (Freyr) o ha il tipo di capacità molto influenzata dall'emotività (Rikiya). Yukinaga sente già il mal di testa: «Che stava seguendo Jack» prosegue l'altro e questo, in effetti, fa inarcare un sopracciglio a Yukinaga perché non lo aveva affatto previsto.


«Jack?» ripete, per essere sicuro di aver compreso bene «Il pappagallo di Freyr?»

«Sì!» si illumina Rikiya, quasi quel riconoscimento lo scagionasse «Urlava come al solito ed Elias urlava minacce e poi Irina è entrata e pensavo volesse tipo farci il tiro al bersaglio con i coltelli da lancio.» prosegue, tutto preso dalla discussione.


«I coltelli da lancio che usa per cercare di uccidere Tatsuya-san quando si annoia, in onore dei loro vecchi tempi prima che fossero alleati ufficiali?»

«No, credo a un certo punto abbia preso quelli di Xylia della cucina.»


Un silenzio di tomba cade tra loro, sebbene per la durata di non più di una manciata di secondi.


«...Non stai per dirmi che avete fatto esplodere la cucina e lanciato via i coltelli di Xylia, vero?»

«No, quelli li ha rubati Jack. Sapevi che sapeva prenderli al volo? Ci credo che Elias non riesce ad ammazzare quel pennuto di merda. Gli avevo proposto di farlo esplodere in aria, secondo me funzio–»

«Gli hai proposto che cosa?!» sbotta definitivamente, sciogliendo l'incrocio delle braccia e fissando Rikiya come se fosse a tanto così da renderlo un puntaspilli, ma con i suddetti coltelli che in effetti - a guardarsi meglio intorno - non riesce a individuare tutti.


«Ma solo per gioco, mica lo uccido davvero!»

«Ci mancherebbe altro!» sbotta Yukinaga, finendo col portarsi una mano alla tempia per massaggiare tutto: «Okay, lasciamo stare per un attimo Jack» riprende «ti voglio fuori dalla cucina, chiama chi non sta ultimando i preparativi e mandamelo, così cerchiamo di pulire e salvare quello che non avete completamente distrutto.» pronuncia, cercando di valutare intanto a vista cosa sia fattibile abbastanza.


Rikiya pronuncia uno sbrigativo «Sì!» fiondandosi fuori dalla cucina. 


Ci vogliono trenta secondi perché si sentano un «PENNUTO DI MERDA» e un'esplosione.


Yukinaga sospira, stanco. Se non altro proviene dal giardino e il fastidioso «CRAAAAAA» di Jack gli fa supporre di non dover anche sotterrare un cadavere.


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