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Prompt: Neve
Missione: M5 (week 5)
Parole: 706
Rating: teen up
Warnings: original





Molti dei ragazzi a cui danno rifugio, sia temporaneamente nel caso non vogliano rimanere sia fin quando se la sentono di restare, non hanno visto la neve. O meglio, alcuni di loro potrebbero averla vista ma essere stati così impegnati da dover scappare da qualcosa o da qualcuno per potersela godere come chiunque dovrebbe poter fare. Per essere completamente sinceri, dire "danno rifugio" non è nemmeno corretto visto che Dimitrij sente di essere più un rifugiato che qualcuno realmente di aiuto - in linea teorica Tatsuya ha detto a lui, Nikolai e Yuriy che potevano rimanere per tutto il tempo che volevano o di cui avevano bisogno, e quel permesso si è trasformato in una rassicurazione, i giorni in settimane e mesi e ormai quasi un anno. Nessuno di loro tre ha parlato di andarsene, ma hanno discusso la possibilità di rendersi utili e ripagare il loro debito qualora qualcuno venisse per minacciare anche solo uno dei ragazzi sotto la protezione dei Miyuki. Dimitrij spera non succeda mai. 


«Dimitrij, ci stiamo mettendo in salone a fare merenda, vieni?» pronuncia Yukinaga, facendo capolino dal corridoio. Porta con sé un vassoio piuttosto grande che di certo sarà pieno di fette di crostata o di biscotti e, quasi sicuramente, sarà stato già preceduto da uno con abbastanza tazze di tè per tutti. Dimitrij annuisce e mette da parte il libro che stava leggendo, senza segnare alcuna pagina. E' una lettura vecchia che non avrebbe bisogno di fare di nuovo, ma lo fa sentire meno solo.


*


«Dimi, com'è la neve?» gli domanda Hans. E' uno degli ultimi a essersi unito, ha appena dodici anni e Dimitrij non sa perché ma da quando si sono visti la prima volta Hans non ha fatto altro che stargli appiccicato ogni volta che si trovano sotto lo stesso tetto. Anche adesso non ha perso l'occasione e appena Dimitrij ha preso posto per terra, sul tappeto e lasciando i divanetti liberi per gli altri, di tanto posto Hans è andato a sedersi in mezzo alle sue gambe reclamandolo come un re fa con il suo trono. Nikolai lo prende in giro dicendogli che il ragazzino deve avere una cotta per lui. Dimitrij si sente morire ogni volta che lo dice anche solo per scherzo. 


«Mmmh» pronuncia a labbra strette, abbassando lo sguardo e ritrovandosi a osservare il visto di Hans e la sua espressione piena di aspettativa, per nulla diversa da quelle dei suoi compagni quando Dimitrij alza gli occhi su di loro: «fredda. E bianca.» comincia, interrotto quasi subito dalle risate dei più piccoli. Ovvio che lo sappiano già, ma Dimitrij non sa come altro descriverla: nei suoi ricordi la neve non è qualcosa di romantico o di strettamente collegato al Natale. E' gelo sulla pelle troppo scoperta mentre si scappa da un laboratorio. E' scivolare senza forze e chiedersi se non sarebbe meglio rimanere lì e farsi ricoprire, farsi seppellire, diventare tutt'uno con la neve mentre si spera di morire. E' tante persone salvate e tante altre abbandonate. E' un pavimento bianco macchiato di sangue. E' un silenzio assordante rotto solo da urla di dolore. E' guardare fuori dalla finestra, vedere i fiocchi cadere senza far rumore e sentirsi un nodo in gola mentre la speranza di uscire da una cella buia si fa sempre più piccola, destinata a sparire.


«Dimi?»

«Mh. Non la ricordo bene.» mente, anche se non è bravo a farlo, ma sempre meglio che offrire l'orrore dei suoi ricordi «Però una volta ho chiesto a Babbo Natale di cambiare la mia abilità e farmi creare la neve, così l'avrei avuta tutto l'anno.» aggiunge, cercando di sviare l'attenzione su un discorso più o meno diverso o che almeno non lo obblighi a essere la voce narrante che non sente di poter diventare. Hans lo guarda come se il solo aver pensato di chiedere una cosa simile a Babbo Natale fosse geniale e si getta a capofitto in un "cosa vorrei fosse la mia abilità".


Dimitrij sente la mano di Yukinaga posarsi con gentilezza sulla sua spalla e quando alza lo sguardo, Yuki gli fa segno di non dire nulla e con un brevissimo cenno del capo gli indica fuori dalla finestra. Un cielo di un bianco sporco sembra promettere neve.

 
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Prompt: Pioggia
Missione: M5 (week 5)
Parole: 647
Rating: teen up
Warnings: original





Quando sente suonare il campanello rimane stupito e gli viene istintivo spostare lo sguardo in direzione di Hiyori. Sono entrambi rimasti a occuparsi dei ragazzi che stanno ancora imparando a gestire le loro abilità, Hiyori perché uno degli adulti con un controllo migliore e una più profonda conoscenza di come allenare corpo e mente per gestire dei poteri speciali e lui - Yukinaga - perché, pur non avendo alcuna abilità particolare, ha passato quasi tutta la sua (breve) vita ad allenarsi in un'arte marziale. Conosce la disciplina così come sa riconoscere quando si raggiunge un limite, dunque Tatsuya non ha esitato ad affidare loro il compito. 


Lo stupore generale si deve al fatto che quasi tutti loro siano presenti in casa, che chi non c'è è perché sarà impegnato ancora per almeno un paio d'ore al di fuori dell'abitazione tra studio e lavoro, e infine perché sta diluviando da almeno un'ora. Nessuno farebbe la strada sotto una pioggia torrenziale di questo tipo, non quando chiunque voglia entrare in contatto con loro potrebbe o chiedere un passaggio a Takuma tramite il teletrasporto o almeno chiamare per le questioni non troppo urgenti. Senza contare che tutti gli abitanti hanno la chiave e ben due copie sono state lasciate ai Sievert per ogni evenienza. 


Hiyori guarda verso l'orologio a muro nella stanza prima e verso la finestra poi, notando che la pioggia non è certo diminuita né sparita dall'ultima volta che ha controllato. Così fa un cenno a Yukinaga di andare a vedere di chi si tratti e lui esegue, lasciando da parte il piccolo gruppo di tre ragazzi con cui stava lavorando. Deve percorrere solo un corridoio per raggiungere l'ingresso dal salotto dove si trovava e quando si trova davanti alla porta si avvicina innanzitutto per sbirciare dallo spioncino. Il campanello, nel mentre, suona altre tre volte e con una certa insistenza. 


Dall'altra parte dello spioncino un Elias a dir poco fradicio lo guarda - o meglio, guarda la porta in effetti - come se volesse dare fuoco a qualsiasi cosa e Yukinaga ha appena iniziato ad abbassare la maniglia che fuori sente un inconfondibile, delicatissimo «Ci devo morire qui fuori sotto il cazzo di diluvio o ce la facciamo ad aprire questa porta di merda prima che io la butti giù a calci?!»


La leggenda narra che, a quindici anni, Elias fosse molto più iracondo e sboccato rispetto a ora che ne ha venti di più. A volte, come adesso, Yukinaga fatica a crederci.


Apre e lo lascia entrare prima che sia troppo tardi. L'uomo non se lo fa ripetere due volte, gli stivali che quasi fanno squash squash per quanta acqua si portano dietro e lui stesso si sgrulla come un cane. Solo allora Yukinaga nota che si sta tenendo lo stomaco e per un momento si chiede se non abbia appena indugiato a far entrare una persona ferita. 


«Hiyori-san! Hiyori-san!» chiama il medico per ovvi motivi, ma Elias lo guarda e gli intima uno sssssh - assolutamente poco coerente visto come l'altro ha appena sbraitato fuori dalla porta - e poi un ancor più incomprensibile «Lo spaventi!»


Yukinaga inarca un sopracciglio, convincendosi che il rumore della pioggia battente fuori dalla porta ancora semi aperta gli stia giocando un brutto tiro. Inarca un sopracciglio, sperando in cuor suo che Elias non sia diventato visionario.


«Non guardarmi così, Yuki,» gli intima Elias, tirandosi giù parte della zip della giacca di pelle e rivelando non uno ma due gattini «stavano gelando sotto la pioggia. Non una parola con quella stronza di Irina, non la voglio sentire ridere perché ho preso dei gattini che erano sotto il diluvio okay? Okay. Questa cosa rimane in questa casa o giuro che ti trascino fuori finché un fulmine non ti prende in pieno.» borbotta.


Sarebbe credibile se non si fosse appena preso tutta l'acqua del mondo per dei gattini, davvero.


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Prompt: road trip
Missione: M3 (week 5)
Parole: 1071
Rating: gen
Warnings: original






Se avessero mai detto a Tatsuya che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe sopportato qualcuno così tanto da avere un migliore amico (oltre Jin, che era un caso speciale in molti sensi) a cui proporre un viaggio in macchina di più di dieci minuti, avrebbe detto che non era impossibile, ma altamente improbabile. Solo perché un giapponese è mediamente troppo educato per riderti in faccia anche quando vorrebbe.


E' altrettanto vero, però, che ci sono beni superiori per i quali persino lui sarebbe pronto a piegare la testa e incassare il colpo e la prospettiva di una fiera del libro con la concreta possibilità di trovare testi generalmente difficili da reperire con un ordine online o nelle librerie di nicchia è stato, per lui, un motivo sufficiente per proporre l'affare a Leon. D'altronde, senza voler sminuire il fratello acquisito, pensando a possibili compagni di viaggio disposti a girare per ore tra scaffali di libri senza desiderare dargli fuoco o annoiarsi a morte le opzioni non erano molte: Krow, che non gli avrebbe dato modo di soffermarsi con calma su tutto. Siegfried, con cui forse non sarebbero mai arrivati a destinazione.


Leon è stato la scelta più ovvia e tranquilla. Tirando a sorte, hanno optato per far guidare prima lui - poco male, visto che Tatsuya non ama guidare quanto ama fare il DJ in una macchina. Fare il sudoku. Guardare fuori dal finestrino. Pretendere di fermarsi a un autogrill per mangiare qualche schifezza degna di qualsiasi viaggio in macchina dei film di dubbio gusto a cui Hiyori lo ha sottoposto più di una volta.


In un primo momento, mentre sono a un'ora di viaggio su sei totali, pondera di proporre a Leon di guidare anche le sue tre e di ricambiare al ritorno, se preferisce, o guidare meno; poi rischiano di mandare fuori strada un imbecille, salvati solo dal suo sapiente utilizzo dell'arte del ricatto, e decide che è meglio dargli il cambio appena possibile.


«Non farci uccidere.» lo punzecchia Leon mentre si scambiano di posto alla prima area di servizio disponibile - che per sua sfortuna non è munita di bar per rifocillarsi, ma è una semplice stazione della benzina con un mezzo chioschetto annesso dove prendere giusto i beni di primissima necessità per un qualsiasi passante che abbia ancora diverse ore di macchina di fronte a sé. Questo lo indispone abbastanza da sistemarsi la cintura e rispondergli con un «Per quello c'è sempre tempo.» con il preciso intento di fare una battuta orribile. Non ha bisogno di guardare Leon per sapere che, fisicamente o mentalmente che sia, deve starsi esibendo in un facepalm.


Privilegi da time manipulator.


*


La strada si srotola dritta di fronte a loro, offre poche curve e questo rende più facile evitare di stringere il volante come se ne andasse della sua vita e di quella del passeggero al suo fianco a cui purtroppo ha dovuto cedere lo scettro del comando per quanto riguarda la musica. In genere lui e Leon non hanno il minimo problema di coesistenza in quel senso, con gusti abbastanza simili che se anche fossero diametralmente opposti verrebbero comunque unificati sotto lo stendardo del devastiamoci quel che resta della nostra anima con Aimer.


Se, però, la playlist di Tatsuya può saltare da quello, alla musica classica, al pop internazionale anche Leon si difende con delle atrocità uditive.


«Gli idol coreani? Veramente?» lo apostrofa quando un ritornello già sentito gli arriva all'orecchio. Leon lo guarda, o almeno a Tatsuya sembra così dalla vista periferica che cerca di fare il suo dovere, e sente il giudizio su di sé. O forse lo sente nella sua testa, a volte nel caso di Leon le due opzioni collimano.


«Se li riconosci sei un fan.»

«Se non li riconoscessi quando suonano in ogni supermercato di Treviri sarei sordo.»


Supermercati. Bar. Negozi muniti di radio. Angoli dove Dio deve palesemente dargli prova di non aver ancora scontato i suoi peccati - a discolpa dell'Altissimo, i suoi peccati passati sono molti.


«Tu pensa a guidare, magari ti rilassano.»

«Vivo l'ansia del mio senso di responsabilità quando guido.»

«Quale senso di responsabilità, Tatsu?»

«Touché. Il fatto che tu abbia ragione non ti salva dal mio desiderio di abbandonarti sul ciglio della strada.»

«Non confondermi con Yvan.» ribatte Leon, in una chiara battuta di spirito riferita all'animo canide di suo fratello gemello. Tatsuya non lo guarda, preferendo tenere gli occhi incollati sulla strada ora come ora, ma incurva le labbra in un sorrisetto divertito.


«Siete gemelli, dovrete pur somigliarvi in qualcosa.»


*


Il dibattito sulla musica coreana viene vinto da Leon, ma per il semplice fatto che se Tatsuya si impuntasse - leggasi: cercasse di prendergli di mano il cellulare per lanciarlo dove l'altro non possa recuperarlo in tempi brevi - rischierebbero un incidente con le macchine che incrociano di tanto in tanto, nonostante un traffico veramente rado, o di andare direttamente fuoristrada.


Dal momento che è un padre di famiglia, ormai, non gli sembra il caso e dunque lascia che quell'abominio gli distrugga i timpani per ben quattro minuti e trenta secondi. Se non altro non si presentano altri brani simili per il resto del viaggio e quando sono a una quarantina di minuti dalla loro meta Tatsuya gli chiede di buttare un occhio sul navigatore e vedere se c'è un'altra area di servizio prima della cittadina dove si tiene la fiera. Ci vuole poco a individuarla e, nonostante Leon gli faccia notare che potrebbero fermarsi direttamente una volta arrivati, basta la menzione di un caffè per convincerlo.


Parcheggiano in un attimo, essendo l'area tutt'altro che affollata; si danno il tempo di sgranchirsi un poco le gambe prima di muoversi verso l'entrata. Il locale è piccolino ma offre quanto serve: un bagno, un piccolo bar e qualche scaffale con libri per chi non ha con cosa ingannare il tempo durante il viaggio e cibi spazzatura di facile consumo. Appena varcano la soglia, il motivetto coreano gli accarezza di nuovo le orecchie e Tatsuya non può fare altro che sospirare pesantemente.


Leon, un paio di passi più avanti, ridacchia senza nemmeno cercare di nascondere il suo divertimento.


«Ridi,» gli dice, mentre recupera una bottiglietta d'acqua: «ti aspetta un viaggio di ritorno alla guida con musica latino americana


Leon lo fissa per qualche istante, mentre nella mente di Tatsuya risuona un non oseresti. Si ripromette di scaricare abbastanza brani da ucciderlo lentamente durante la pausa pranzo che faranno alla fiera.

 
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Prompt: interruzione
Missione: M1 (week 4)
Parole: 609
Rating: gen
Warnings: original




Sono passati anni dall'ultima volta in cui è stato richiamato durante una lezione che stava tenendo per una comunicazione importante. Capitava spesso quando c'era Airi, quando suo malgrado la lasciava alle cure di sua madre con la febbre perché non poteva cancellare in alcun modo le lezioni in ateneo - ed era giusto così in fondo, perché aveva un impegno nei confronti dei suoi studenti e perché, come gli hanno sempre fatto notare, i bambini sono dei contenitori di germi e da piccoli capita spesso che prendano febbre o raffreddori particolarmente forti. Così nonostante non lo facesse di buon grado, alla fine Reiji ha sempre evitato di prendere permessi e in passato una sola volta l'addetta della segreteria del personale universitario ha interrotto la sua lezione per dargli una comunicazione. 


Deve ammettere, quindi, che per lui è sempre stato strano sentire alcuni colleghi parlare della difficoltà a concludere alcuni argomenti. Non per sfiducia nelle loro capacità, sia chiaro, ma perché è estranea per lui la concezione di avere un fattore esterno a influenzare la durata e la buona riuscita di una sua lezione. Pertanto, arrivare alla fine è qualcosa che ha finito con il dare per scontato con l'avanzare degli anni, e di certo aver avuto studenti come Izumi non ha fatto altro che rafforzare questa sua convinzione radicata per cui una volta iniziato non si può che scivolare verso la fine, con naturalezza, portando a compimento ciò che si è prefissato nei suoi appunti. 


Finisce di segnare due nomi in tedesco sulla lavagna e, posato il gesso, si volta verso la classe. Vede diverse teste ancora basse, di sicuro intente a scrivere le ultime cose delle nozioni che ha offerto loro prima dei nomi in questione, e altre già alzate, gli studenti pronti ad ascoltare il resto. Riesce a individuare quelli in cui c'è vivo interesse - la maggior parte, per sua fortuna - da quelli che sono lì perché i crediti glielo impongono. Forse si aspettavano un po' meno nozioni e un libro di narrativa da leggere, ma Reiji spera che riuscirà comunque a passargli un po' della passione che lo coglie quando si mette a leggere un libro. Sta per ricominciare la spiegazione quando la porta dell'aula si apre con un impeto maggiore del semplice socchiudersi di qualche studente in ritardo; Reiji tende a non preoccuparsene né fermarsi per questo, di solito, ma lascia in sospeso una frase quando riconosce la segretaria del personale che lo guarda e fa un cenno del capo. Si chiude la porta alle spalle e avanza verso la cattedra, raggiungendo Reiji. La lezione è ormai interrotta e lui fa cenno agli studenti di dargli un momento.


La donna, ormai vicina, pronuncia un «Ha una chiamata da parte di suo figlio.» che, ne è consapevole, ha appena attirato l'attenzione di tutti gli studenti almeno delle prime due file, visto che in molti sanno di voci che circolano sulla sua famiglia allargata ma pochi sanno di quanti figli si tratti. Anche in questo caso, alle parole della segretaria rivolge un sorrisetto lieve quasi di scuse, mentre replica con un: «Le ha detto il nome?» «No, ma penso sia giovane, forse del liceo.» replica quella.


Reiji sorride, immaginando si tratti di Hotaru: «Ah, deve essere uno dei gemelli.» rivela con leggerezza.


Il mormorio nella classe è istantaneo e sa che, anche una volta di ritorno dalla chiamata in segreteria, sarà difficile ricominciare a fare lezione e riprendere il filo del discorso senza ricevere diverse domande. Alcune già serpeggiano tra gli studenti - gemelli? Ne ha più di uno? Liceo? Ma sembra così giovane! - alle quali vorrebbe rispondere... ma, in fondo, potrebbe anche mantenere un alone di mistero per questa volta. 

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Prompt: interruzione
Missione: M1 (week 4)
Parole: 722
Rating: teen up
Warnings: original, linguaggio scurrile



Da quando si è unito ai Sohma, Ugetsu deve ammettere di aver trovato la dimensione ideale per chi come lui odia annoiarsi. Fin dall'inizio, ha compreso però le poche regole di cui Reiji si è premurato di informarlo e ha capito, anche dal modo in cui l'uomo gliene ha parlato, che il gruppo Sohma è destinato probabilmente a essere ora tanto quanto in futuro uno di quei gruppi in cui un tradimento dall'interno è da considerarsi impossibile. Ugetsu ha visto numerose persone interagire e unirsi sotto la promessa di un forte legame o di un accordo, persino degli interessi e ogni volta c'è stata una scappatoia. Ma nel modo in cui Reiji gli ha detto «Non ho la pretesa tu impari ad amarli tutti nello stesso modo, ma ho la pretesa che diventino per te più importanti da proteggere di te stesso. Il tradimento non è accettabile. E' mia cura assicurarmi che nessuno abbia mai anche solo la tentazione.» nel modo calmo di un uomo poco avvezzo alla violenza. Sono i più pericolosi.


Da allora sono passati mesi e questo, deve ammetterlo, per quanto sia un modo diverso di interagire e qualcosa che di norma lo avrebbe divertito è anche qualcosa che in un certo qual modo lo disturba. Sarà dovuto al fatto di averli sempre visti interagire come fratelli, di aver notato subito quanto attaccamento avessero l'uno all'altro tanto da non avere nulla da invidiare nemmeno ai gemelli, ma lo sguardo e le accuse che si stanno lanciando Akemi e Izumi è qualcosa che è certo nessuno nel gruppo avrebbe mai voluto vedere. Lo intuisce facilmente da come tutti li guardano ma è solo osservando con attenzione che riesce a distinguere le diverse di emozioni di ognuno di loro, senza nemmeno bisogno di avere una capacità speciale per farlo - i gemelli hanno l'orrore di chi ha appena scoperto quanto facilmente un legame possa sgretolarsi, se spinto fino al limite; Yuuya li osserva con la paura di chi ha sentito troppe volte urlare e in ognuna di esse il dolore fisico è arrivato subito dopo; Shinobu ha il distacco di chi ha instaurato una scala di priorità negli affetti come si farebbe come gli impegni della giornata, ma c'è un gelo ben nascosto dato dal rifiuto di fronte a qualcosa di sgradito.


Se Reiji fosse qui, chissà come si comporterebbe e cosa avrebbe negli occhi oltre al dispiacere. 


Akemi, il più aggressivo dei due anche in condizioni normali, fa un passo in avanti e afferra l'altro per il colletto della maglietta, tirandolo forte abbastanza che per la differenza di altezza tra loro Izumi è costretto a chinarsi in avanti. Non subisce passivamente però, una mano a stringersi attorno al suo polso mentre il viso si avvicina pericolosamente a quello di Akemi, fino a che le loro fronti quasi si toccano.


«Non ne avevi il diritto!» gli grida in faccia, qualcosa di impensabile per Izumi, eppure eccolo lì. Akemi lo guarda come se fosse la cosa che meno vorrebbe avere davanti agli occhi ora «Ne avevo il diritto perché mi sono rotto il cazzo di vederti fare il bravo bambino! E' nauseante!» sbraita, lasciandogli il colletto, liberandosi della stretta sul proprio polso e spintonandolo via. Izumi inciampa e si sbilancia, gli lancia un'occhiata come se volesse fargli crollare addosso l'intero edificio. Dall'altra parte Ugetsu può quasi sentire il rumore delle ossa di Akemi cambiare per assumere una forma che sarebbe l'ultimo limite da superare per non potersi riappacificare mai più, invece pronuncia provazioni dure e Izumi si muove verso di lui, la mano alzata e un colpo caricato che finirebbe di sicuro per abbattersi sul viso di Akemi se Ugetsu non decidesse che è abbastanza.


Questa sorta di rissa, questo litigio, questo distruggersi a vicenda perché si conoscono troppo bene le debolezze dell'altro si interrompe quando lui rilascia la sua abilità e l'oscurità è come una corda elastica che si avviluppa intorno al polso di Izumi, fermando quello schiaffo a metà, e attorno alla testa di Akemi coprendo la sua bocca come un bavaglio, fermando parole per cui poi sarebbe difficile scusarsi.


«Adesso basta.» pronuncia, placido e con quel sottotono divertito che non lo abbandona mai. Vede gli altri rilassarsi visibilmente e sente che in attesa di Reiji questa è la massima protezione che ha da offrire: fermarli prima che si uccidano a vicenda. 

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Prompt: caldo
Missione: M3 (week 4)
Parole: 305
Rating: teen up
Warnings: original, menzione di morte, tentato suicidio implicito



«Non mi hai mai chiesto della cicatrice.» se ne esce senza motivo né preavviso. Sono sdraiati sul letto, un posto dove hanno preso l'abitudine di stare durante il tardo pomeriggio quando Jin finisce i suoi doveri e lo ritrova circondato di libri e appunti, ora che ha finalmente deciso di proseguire gli studi. Lo fa più per ricambiare la gentilezza dell'uomo che lo ha accolto, a dire il vero, ma c'è anche dell'interesse personale. Sente lo sguardo di Jin su di lui ma non alza subito il proprio, volendo finire prima l'esercizio di matematica.


Sente delle dita sfiorargli la guancia offesa da quel segno indelebile, solo per portargli una ciocca di capelli dietro l'orecchio. E' un gesto dolce al quale risponde con il silenzio, limitando a inclinare la testa verso di lui, quasi ad agevolare quel contatto per qualche istante ancora. Jin non chiederà mai, ma in quel semplice gesto Isen capisce che c'è un tacito invito a parlarne, se sente il bisogno di farlo. Forse lo avverte, o forse è solo volersi togliere un peso, concedergli qualcosa che pensa di dovergli.


«Una volta sono stato avvolto dalle mie stesse fiamme.» dice, lo racconta come se non riguardasse lui ma il passato di un bambino che ora vive chissà dove. Distaccarsi è l'unico modo di raccontare di cui è capace: «Henry pensa sia stato terribile, che abbia bruciato da morire. Perché il fuoco brucia. Ma io sentivo solo calore. Forte, molto vicino, come se mi venisse da dentro e distruggesse tutto ma era questo e niente di più. Nessuno riesce a capirlo, quando lo spiego.» ammette, spostando finalmente lo sguardo su Jin, che lo osserva come se avesse raccontato un aneddoto come tanti della propria infanzia.


«Era un caldo piacevole?»

«Non lo so. In un certo senso. Forse perché speravo di morire.»

 
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Prompt: scienza (magia/scienza)
Missione: M3 (week 4)
Parole: 900
Rating: gen
Warnings: //






Il suono fisso del macchinario dal quale Aki non si stacca nemmeno per mangiare lo accoglie appena la porta automatica si apre dopo la lettura del sensore. La prima volta che Ian ha avuto a che fare con lui è stato quasi inquietante, visto che nessuno si era preso la briga di spiegargli a cosa stesse andando incontro.


Di Akihisa aveva sentito dire pochissimo e, tra quelle poche voci in circolazione, era sempre stato difficile capire quali fossero dovute a reali testimonianze e quali fossero state invece dettate da una curiosità mai sedata. Così, rimbalzando da un pettegolezzo all'altro, le uniche cose di cui Ian era certo quando era andato a conoscerlo erano tre: Akihisa era di origini giapponesi. Akihisa era un suo coetaneo. Chiunque nella sezione investigativa incappasse in un vicolo cieco durante un'indagine andava da lui e, con un'inquietante percentuale di successo dell'95,8%, alla fine il caso veniva risolto. Tutto il resto erano dicerie improbabili ma, al tempo stesso, non del tutto impossibili.


Dopo il primo incontro Ian aveva capito che erano tutte pericolosamente vere.


«Fermo.» sentenzia la voce di Aki, senza nemmeno alzare lo sguardo dallo schermo «Non calpestare niente.» aggiunge ed è allora che Ian nota dei fogli ai suoi piedi. Se conoscesse Aki da meno tempo, direbbe che sono messi in modo casuale. Purtroppo sa bene che c'è semplice disordine, lì dentro - o almeno può esserlo agli occhi di chiunque, ma nella testa di Aki quello è un ordine preciso, un'organizzazione meticolosa. Così a Ian non resta che muoversi cercando spazio dove possibile, per potersi avvicinare abbastanza da allungare un cestino del pranzo.


«Doc dice che se non mangi chiude il laboratorio a chiave stanotte.» butta lì, consapevole di quanto quella sia l'unica minaccia capace di funzionare con l'altro. Aki non alza subito gli occhi su di lui, ma si prende tutto il tempo di appuntare qualcosa dallo schermo al quaderno che ha davanti. Solo allora sospira, rilassa le spalle e abbandona la penna.


Sono in pochi a usare ancora carta e inchiostro. Ian lo ha pensato quando la prima volta è entrato in laboratorio per recuperare i dossier dell'unità 3, quella a cui appartiene e nella quale sono relegati i casi peggiori di cui la squadra investigativa non si è potuta disfare per questioni di leggi e accordi, ma i cui membri non sono bene accetti da almeno metà edificio. Casualità a non finire sono successe in ogni singolo caso di cui si sono occupati, tanto da far spesso passare in secondo piano la risoluzione dello stesso. Così nessuno si è opposto a mandare Ian lì dentro, forse convinti dalle dicerie che difficilmente ne sarebbe uscito intero - con il senno di poi capisce bene perché: Akihisa farebbe esperimenti su chiunque se solo avesse la certezza che possano essere d'aiuto alla sua ricerca.


Anche la prima volta lo ha trovato così: chino su dei fogli a cui ormai chiunque altro ha sostituito database digitali. Li ho in doppia copia, gli ha spiegato quando glielo ha chiesto, il digitale non è indistruttibile.


Aki lo sta guardando e tende la mano verso di lui, in attesa del cestino del pranzo. Ian gli fa un cenno verso la scrivania e lo vede mentre alza gli occhi al soffitto ma, nonostante tutto, gli fa spazio mettendo da parte i suoi appunti. Una volta che c'è abbastanza superficie libera Ian ci poggia il cibo, recuperando l'unica altra sedia presente e mettendocisi sopra.




Mentre lascia che Akihisa scelga da cosa iniziare il pasto, lo sguardo si sposta per il laboratorio soffermandosi sulle cose che più hanno attirato la sua attenzione fin dalla prima volta: un'intera parete occupata da una lavagna piena di calcoli e grafici; tre mensole a ospitare provette perfettamente ordinate ed etichettate; strumenti di cui non saprebbe capire l'utilizzo nemmeno dopo due ore di spiegazione. Poco oltre Aki, l'occorrente per i prelievi di sangue.


«Come va la ricerca?» domanda, per sentirsi rispondere con il solito «Prosegue» che vuol dire tutto e niente, insieme alla vaga scrollata di spalle dell'altro. Dopo incontri su incontri - molestie, le ha chiamate Aki facendogli scoprire che wow, aveva anche un senso dell'umorismo! - Ian ha capito le verità altrui. Anche quelle scomode che forse Akihisa non gli avrebbe mai raccontato, ma che almeno ha lasciato alla sua mercé qualora si fosse rivelato il buon osservatore che è davvero.


Akihisa è di origini giapponesi, anche se gli occhi verdi direbbero il contrario. E' un suo coetaneo ma probabilmente non vivrà altrettanto a lungo a causa della mutazione genetica a cui è stato sottoposto da esperimenti di terzi, il caso più lungo a cui il dipartimento si sia mai dedicato e l'unico rimasto irrisolto. Akihisa è un bambino prodigio: a dieci anni Doc lo ha preso con sé e lo ha reso una sua mini-copia che ora è lo scienziato con il più alto quoziente intellettivo. Non ci sono macchinari, calcoli, analisi a cui l'altro non sappia dare un perfetto senso e una magistrale interpretazione. Akihisa fa esperimenti su se stesso, perché per quanto i pettegolezzi dicano il contrario, ha troppa paura di uccidere qualcuno nel processo per farlo sugli altri.


Ian allunga una mano e gli sposta una ciocca di capelli. Il bip del macchinario che misura i battiti di Akihisa gli rimanda il suono regolare di un cuore che pulsa solo grazie alla scienza che lo tiene in vita.

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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 100
Rating: gen
Warnings: original





Il silenzio è quasi totale. L'unico rumore, oltre il ticchettio dell'orologio, è quello dei suoi passi mentre cammina avanti e indietro. Sa di avere parecchi occhi su di sé, soprattutto di Hiyori - non può dargli torto, visto che è stato lui a portare un ragazzino lì e che ha affermato di essere il fratello che non ha mai conosciuto.


A Tatsuya non piacciono le sorprese, non piacciono le riunioni improvvise e a cui non ha avuto scelta se decidere di prendere parte oppure no. 

Miyuki Kaede lo guarda in faccia come la presa in giro da parte di un padre morto.

 
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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 200
Rating: gen
Warnings: original





Presenziare alle riunioni della yakuza è qualcosa che ha fatto per anni, parte di un summit da cui è uscito ed entrato con una facilità di forma - rischiare di rimanerci secco ha richiesto parecchio del suo impegno, invece. Quando ha deciso di andarsene in Germania, di chiudere con un gruppo a cui stava solo facendo rischiare più del necessario, era convinto se le sarebbe potute risparmiare. Moriguchi Jin, che per sua disgrazia è il suo migliore amico, ha deciso diversamente quando al telefono gli ha detto: «Dobbiamo decidere cosa fare con il cambio di vertice.» che gli ha impedito di dire "no grazie".


Jin è già seduto, mentre si lamenta di non essere amato abbastanza, e lui si è preso già il suo tempo per osservare i nuovi boss presenti: Reiji è un uomo che eviterà la follia nel summit, forse. Soen uno che presto rimpiangerà di avere Jin come collega. Lui, Tatsuya, è lì solo per forma alla fine. Il ritardatario è poco più di uno studente di liceo e apre la porta, occhieggia il tavolo della riunione, punta la sedia. Sbadiglia e il suo saluto è: «Incredibile, non c'è Bennett? Sentite come suona bene 'non c'è Bennett'?»


Jin scoppia a ridere come una iena, ed è il caos.


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Prompt: riunione
Missione: M3 (week 4)
Parole: 200
Rating: gen
Warnings: original


Ha sentito parlare delle riunioni del summit così tante volte nella sua vita da aver sempre pensato che, quando sarebbe stato il suo turno, niente avrebbe potuto stupirlo. Si è aspettato per anni di arrivare, sedersi e doversi far valere di fronte a persone troppo vecchie per abbandonare i sogni di gloria di una mafia fatta di sola violenza e poca furbizia - la yakuza dell'onore è un concetto perso, almeno su questo suo padre aveva ragione.

Guarda il tavolo a cui è seduto, volti conosciuti a cui non affiderebbe una pianta, figurarsi le scelte che coinvolgerebbero il suo gruppo. Due dei cinque boss più anziani si guardano come se stessero aspettando un solo gesto per saltarsi alla gola a vicenda o vedere chi uccide prima l'altro e in quel momento la porta si spalanca. Prima che chiunque possa dire qualcosa i bodyguard di ogni singolo boss presente sono già con arma alla mano e a meno di un passo dalla porta d'ingresso, compreso il suo; Saburou Asagiri gli lancia un'occhiata di sottecchi e Tatsuya scuote la testa. Un istante dopo Moriguchi Jin sta varcando la soglia della stanza, la sua risata da iena a risuonare alta mentre li guarda.



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Prompt: Passato
Missione: M1 (week 1)
Parole: 2793
Rating: teen up
Warnings: linguaggio colorito, angst 




Quando ha scoperto di manipolare il Tempo Tatsuya aveva nove anni: nessuno nella sua famiglia - non quella biologica, non quella allargata - aveva mai mostrato di possedere abilità speciali, eppure in modo del tutto istintivo ha capito quasi subito di non doverlo dire troppo in giro, di doverlo trattare come un segreto. Non avrebbe iniziato ad avere manifestazioni regolari fino agli undici anni, però, e fino a quel momento sarebbe stato solo qualcosa di molto speciale di cui non fare parola per non spezzare l’incantesimo.


Con il senno di poi è abbastanza sicuro che sua madre l’abbia sempre saputo.


A tredici anni, complice aver dovuto imparare a osservare gli altri molto presto, Tatsuya ha capito di dover imparare a controllare quel potere da solo, senza nessuno a insegnarglielo. Si è aggrappato alla dolcezza di sua madre quando non riusciva a migliorare e, per il resto del tempo, ha cercato di imparare da autodidatta.


(A quattordici anni suo cugino Chihiro gli dice «Ho un super potere: non sento dolore» e Tatsuya riesce solo a essere così sollevato all’idea di non essere l’unico.)


Non si rende conto di quanto la sua mente debba essere preparata, con un potere come il suo, fino a quando non rischia di usarlo perché accecato dal dolore della perdita. A diciotto anni è quasi pronto a prendere il posto di suo padre a capo del gruppo quando sua madre viene uccisa. E’ la moglie del boss e il funerale che le spetta è affollato quanto una cazzo di sagra di paese.


Suo padre nemmeno si presenta, non la piange, a stento sembra sapere che è morta. Tatsuya passa settimane davanti alla sua lapide e desidera che sia suo padre quello morto. Per la prima volta accarezza la seducente idea di riavvolgere il tempo grazie alla sua abilità per poter salvare sua madre. Per riaverla indietro. Tornare nel passato e cambiarlo non gli ha mai fatto così gola.


(Chihiro lo porta a Kyoto quasi di peso, gli dice «Vorrei poter fare qualcosa per il tuo dolore, ma posso far sparire solo quello fisico» e anche se irrazionalmente lo odia per questo, Tatsuya capisce che deve esserci un limite per quelli come loro.)


Mancano sei giorni al suo compleanno quando suo padre lascia a lui il comando di un gruppo a cui lo ha preparato per tutta la vita. Tatsuya non è ancora neanche maggiorenne, agli occhi della società giapponese, e ha ben pochi amici perché il suo carattere non lo rende popolare. Ma capisce che suo padre sta morendo, che qualcosa di invisibile a occhio nudo lo sta consumando dentro, giorno dopo giorno. Eppure nemmeno per un istante Tatsuya pensa di riavvolgere il tempo e cambiare il passato per lui. Sente che a questo tipo di dolore può sopravvivere, mentre ancora si sente soffocare per la perdita di sua madre. Guarda suo padre e pensa ti sta bene.


(Ha questo ricordo vivido di suo padre che rimprovera sua madre di renderlo troppo gentile: «La gentilezza lo farà uccidere.» dice l’uomo dei suoi ricordi. Ha di sicuro ucciso sua madre ma lui no, Tatsuya sente di poter guardare chi detesta esalare l’ultimo respiro senza alcun dispiacere. Persino se si tratta di suo padre. Questo non lo rende gentile, lo rende un mostro. Fa di lui qualcuno adatto a essere il capo che suo padre sperava diventasse.)


Tatsuya ha cominciato a credere nel karma presto, e quasi subito ha capito che il suo sarebbe stato tremendo - troppe morti per mano sua, direttamente o per suo ordine, troppi pensieri indicibili. Troppi nemici. Guarda l’edificio del suo gruppo bruciare e sa che dentro troverà solo cadavere di uomini che sono dipesi da lui. Uomini con mogli, con figli a cui Tatsuya dovrà dare spiegazioni.


Sono passati sei anni da quando è diventato il leader di quello che adesso è un gruppo di fantasmi e, per la prima volta, riavvolge il tempo.


*


Il primo tentativo è quasi anti climatico. Si aspetta di sentire sul proprio corpo le ripercussioni di aver violato una sorta di tabù e invece non succede nulla. Davanti a lui c’è un edificio intero dove fino a poco fa c’era una torre di fuoco, il silenzio al posto delle urla. Vede ciò che non aveva visto prima, perché arrivato troppo tardi: uomini che non sono del suo gruppo, uomini che stanno per causare l’incendio che ucciderà i suoi. Non ha nemmeno bisogno di riflettere, Tatsuya, di accertarsi che siano loro perché ne ha già la certezza. Li uccide, quindi, eradica il problema alla radice. E’ convinto sia sufficiente a cambiare il passato, ma uno dei suoi lo vede da una finestra, gli urla qualcosa che Tatsuya non capisce e un attimo dopo esplode tutto: il calore gli divampa in faccia, sente l’allarme di qualcosa risuonargli nelle orecchie, l’inda d’urto lo spinge lontano e gli fa perdere l’equilibrio.


Registra a malapena di colpire qualcosa con la testa - l’asfalto, forse - prima di perdere conoscenza. Quando si risveglia non c’è più nessuno da salvare.


Di nuovo, si dice, mentre riavvolge il tempo per tornare nel passato.


*


Il suo secondo tentativo è come strappare un cerotto messo storto e cercare di rimetterlo per bene, seguendo i bordi immaginari che dovrebbero guidarti. Il passato che gli si presenta davanti è fatto dei rumori della città a cui è abituato da quando ha memoria, di un quartiere familiare come i corridoi della casa in cui è cresciuto. L’edificio del suo gruppo è intatto, le persone dentro sane e salve. Normalmente è difficile sapere il momento esatto in cui catapultarsi con la sua abilità, ma questo non significa che non sia capace di spaccare il secondo se vuole; sono necessari aggiustamenti come con una bilancia che va tarata con accuratezza, grammo dopo grammo, ma si può fare. E Tatsuya ha studiato troppo a lungo per non esserne in grado. 


Si è concesso una manciata di minuti in più rispetto al tentativo precedente, perché se non è sufficiente uccidere i colpevoli allora  significa che qualcuno, prima, deve aver posizionato esplosivi di qualche parte. O materiale infiammabile. Nella peggiore delle ipotesi, un altro ability user potrebbe essere la causa scatenante e Tatsuya ha intenzione di scovarlo meglio di come farebbe un cane rabbioso che deve cacciare per sopravvivere. 


In un certo senso, qui sta il paradosso del suo potere: sarebbe perfetto per investigare, se lui fosse dalla parte giusta della malavita, quella che lo vede come un buon poliziotto o un collaborato del governo. Sarebbe degno di un super eroe, mettere il proprio potere al servizio della comunità - gli vengono in mente almeno tre modi costruttivi con cui la sua capacità di manipolare il Tempo potrebbe risolvere casi o ottenere informazioni preziose per risolverli. Ma lui non è dalla parte della giustizia, non quella di cui si pregiano gli uomini in divisa almeno: a lui resta la giustizia personale di un codice di valori condiviso solo da chi condivide il suo mondo con lui. La moralità non può essere presa in considerazione quando sei lì ad aspettare di uccidere un uomo prima che lui uccida la tua famiglia.


Ma gli indizi si trovano, basta saperli cercare. Così Tatsuya vede movimenti sospetti e li segue, interviene, minaccia. Suo padre gli ha piantato in testa il seme dell’orgoglio e della dignità anche attraverso l’uso delle armi, quindi per quanto vorrebbe piantare una pallottola in fronte a tutti dalla sua parte ha solo armi bianche. Se sua madre avesse avuto coscienza di come suo marito insegnava al loro unico figlio a uccidere un uomo tagliandogli la gola, si sarebbe opposta con tutte le forze di una madre che vuole proteggere a costo della vita. Ma sua madre è stata tenuta all’oscuro di molte cose - forse è l’unica cosa del passato che non rimpiange, Tatsuya, l’unica bugia alla donna più importante della sua vita che è disposto a perdonarsi. Se lo avesse saputo, sarebbe morta di dolore molto prima di essere uccisa a sangue freddo.


Se non fosse stata così buona, se fosse stata più simile al mondo che suo marito ha sposato e amato più di quanto abbia fatto con lei, avrebbe potuto insegnare a Tatsuya a non fidarsi dell’illusione di ingannare la morte. Invece, ora si ritrova a impararlo nel modo peggiore.


Proprio quando crede di aver fatto tutti i cambiamenti necessari in quel passato tremendo, uno dei suoi uomini si affaccia alla finestra (ancora), gli urla qualcosa che non sente (legge il suo labbiale e sembra gli dica ‘è dentro’, ma cosa sia dentro Tatsuya non riesce a capirlo) e dopo il mondo esplode per l’ennesima volta. Le fiamme lambiscono l’edificio, arriva l’inferno in terra in una strada di Tokyo mentre le persone urlano, gli allarmi suonano, lui sta per perdere di nuovo conoscenza.


Di nuovo, si dice. Perché se il nemico è dentro, se non può fermarlo prima che faccia esplodere il mondo, allora l’unica cosa da fare è andare nelle fiamme insieme a tutti gli altri.


*


Il terzo tentativo comincia con l’odore di bruciato che quasi lo soffoca e un calore quasi insopportabile sulla pelle. Tatsuya apre gli occhi e la prima cosa che mette a fuoco sono le fiamme che divampano davanti a lui. Subito dopo, le urla concitate di chi sta cercando di salvare chiunque sia rimasto vivo all’interno prima che sia troppo tardi. E’ difficile abituarsi al fumo così velocemente, ignorare il modo in cui fa lacrimare gli occhi, ma Tatsuya non si può concedere il lusso di aspettare e così muove un passo, un altro, un altro ancora e cerca di capire da quale direzione arrivi la voce più vicina. Ignora il rumore del fuoco, gli allarmi che risuonano per le strade all’esterno, penetranti come un pugnale nella carne. 


Il corridoio in cui si trova ha solo due possibili direzioni da imboccare: una porta a un’ala chiusa dell’edificio, con una sola stanza dove esclude possa esserci qualcuno visto che è riservata alle riunioni a cui lui deve presenziare sempre, restando chiusa il resto del tempo. L’altra porta in un lungo corridoio secondario ma che ospita diverse stanze dagli usi più disparati, aprendosi su un pianerottolo le cui scale possono portare sopra - ai dormitori - o sotto, verso l’ingresso. Si muove sulla sinistra, trovando stanze aperte che gli risparmiano di avventarsi contro le porte nel tentativo di sentire qualcuno all’interno da salvare, e si sofferma invece sulle porte chiuse. Non sono molte, ma lui le colpisce quasi dovesse buttarle giù a pugni. Nessuno risponde e non sa se perché sono altrove, perché stanno cercando di scappare o se perché sono già morti.


Aprire le porte senza la certezza che siano dentro è qualcosa che nessuno che abbia gestito un incendio almeno una volta consiglierebbe mai di fare, offrire ossigeno in più e all’improvviso a fiamme che stanno già distruggendo tutto. Così non gli resta altro da fare che sperare e convincersi che se nessuno risponde, è perché è troppo tardi. 


Raggiunge il pianerottolo e sale scale di fuoco che quasi gli bruciano la pelle già solo per la vicinanza e a metà scala finalmente un segno di vita nella forma di un uomo che conosce bene. Saburou si lascia passare sul viso cinque emozioni diverse nel vederlo, ma è un uomo della vecchia leva, uno che si farebbe uccidere a sangue freddo o si sparerebbe un colpo in testa da solo piuttosto che avere una qualsiasi mancanza nel confronto del suo boss. Così mentre lo afferra per un braccio e sbraita con i polmoni già messi a dura prova dal fumo («Eri fuori, quando cazzo sei rientrato?! Devi uscire!»), mentre lo tira verso il basso e Tatsuya gli urla di rimando che deve salire e cercare i suoi uomini perché non ha intenzione di salvarsi da solo, pensa al fatto che Saburou è padre di un mocciosetto che Tatsuya ha visto nascere e crescere. Uno che ha quasi dieci anni meno di lui, che lo ha chiamato Tatsu-nii finché non è cresciuto abbastanza da assorbire tutto ciò che suo padre è e, allo stesso tempo, cosa Tatsuya è per Saburou. Quello che accetta suo malgrado di farlo salire a cercare di salvare più persone possibili è un uomo buono, con un figlio e una moglie e Tatsuya non può sostenere lo sguardo di entrambi mentre gli dice che lui non tornerà più a casa.


Per questo sale gradini su gradini, trova uomini e li guida ai piani inferiori, li fa uscire da ogni finestra o porta possibile perché meglio una caviglia fratturata che morire in un incendio come topi. 


E’ finalmente fuori, una soglia appena varcata, quando un’esplosione lo gela sul posto: non è l’edificio dietro di lui, ancora in fiamme ma in piedi, ma un’esplosione vicina. Uccide i suoi uomini che pensavano di essere salvi, uccide civili. Quasi uccide anche lui, se non fosse per Saburou che gli fa da scudo.


Mentre grida ancora più forti gli invadono le orecchie e il mondo intorno a lui va nel panico completo, Tatsuya si chiede se sia un flash prima della morte quello che ha: all’improvviso lui ha di nuovo tredici anni, nella stanza in tatami della loro abitazione, con suo padre seduto come un uomo di altri tempi in abiti tradizionali. Ha lo sguardo e lineamenti severi che Tatsuya gli ha sempre associato e lo fissa da interminabili minuti come se si aspettasse la risoluzione di un enigma dal figlio a cui vorrebbe insegnare tanto, troppo, ma che è sempre inevitabilmente mai come vorrebbe lui. Suo padre lo guarda e gli chiede: «Un gruppo nemico mette in fila dieci dei tuoi uomini per ucciderli. Puoi intervenire per proteggerli o puoi intervenire per uccidere il gruppo nemico. Cosa fai?» e Tatsuya ha tredici anni, vuole fare il pianista da grande, non macchiarsi le mani di sangue. Anche se sa che è quello che finirà col fare e il pianoforte tanto amato da sua madre finirà pieno di polvere.


Ci vuole provare però, così gli risponde: «Proteggo i miei uomini.» perché il gruppo è assoluto, ha la priorità sempre e comunque su tutto. Suo padre però lo osserva, sospira leggermente ma con così tanta rassegnazione e disapprovazione da farlo vergognare.


«No,» gli dice, come un ordine assoluto «uccidi il tuo nemico. Sai perché proteggere i tuoi uomini è una scelta sciocca?» «Ma se–» 


Suo padre non ha mai ammesso negoziazioni sulle sue verità. Mentre Saburou gli muore addosso, Tatsuya ha di nuovo tredici anni e suo padre gli dice perché non si possono mai salvare tutti, ecco perché.


*


Riavvolge il tempo una volta, due, tre. Torna nel passato e cerca di cambiarlo, ancora e ancora, perché non può accettare che il suo potere lo deluda proprio l’unica volta in cui ha bisogno che funzioni.


Non gli importa se ogni volta che lo utilizza il suo corpo cede, se la nausea lo piega in due e gli fa vomitare la bile in mezzo alle fiamme o se alla fine ci rimarrà secco o chissà cosa. Ci deve provare, anche quando una trave di fiamme quasi gli cade addosso e lo colpisce in parte sulla schiena: non è logico, non è pianificato, non ottimizza niente, non c’è più alcuna strategia valida. 


Non può dire a Yukinaga, che ha solo quattordici anni, che lui e sua madre rimarranno soli perché Tatsuya non ci ha almeno provato.


Suo padre può andare a farsi fottere e con lui le sue memorie.


*


Ci prova così tanto da perdere il conto. Ci prova così tanto eppure fallisce. Ha il vago ricordo di un ospedale e poi di un limbo da cui si convince di non uscire - quando ne esce i medici gli dicono che è stato in coma per sei mesi. Poche visite, ma regolari, di un ragazzo registrato come Asagiri. Sa che è il figlio di Saburou e se ne va prima che possa tornare.


La notte prima di essere dimesso su regolare richiesta, dopo aver impedito visite dal suo risveglio, sta sdraiato su quel letto di ospedale a fissare un soffitto anonimo. Si chiede a cosa serva poter tornare nel passato se non lo si può cambiare, se alla fine chiunque si riesce a salvare finisce con il dover morire lo stesso o addirittura si coinvolgono altri innocenti - perché la morte è una puttana che non scende a compromessi.


Guarda il soffitto e gli sembra di impazzire, mentre si ricorda di Chihiro che da bambino gli dice ho un superpotere, non sento dolore e di sua madre che gli sorride assicurandogli che la gentilezza non è una cosa brutta, solo che tuo padre vuole essere forte e lui, proprio il padre di cui non ha mai sentito la mancanza, che gli ripete in testa come un mantra non si possono salvare tutti.


Fuori spunta l’alba, senza che lui abbia potuto cambiare il passato, e si ritrova tra le mani un futuro inutile.

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Prompt: Tactlessness
Missione: M5 (week 7)

Parole: 5550
Rating: teen
Warnigns: linguaggio colorito, original



Socchiude la porta, attento a fare meno rumore possibile. Atsushi, all'interno, si è addormentato da poco e per quanto non abbia tendenzialmente il sonno leggero, negli ultimi giorni qualche piccola colica serale non gli ha dato pace rendendo difficile fargli prendere sonno. Non ci tiene a svegliarlo per errore e a rischiare di dovergli far passare altri venti minuti di doloretti e piccoli lamenti.


Il corridoio di casa Sievert, che ormai conosce meglio di quanto abbia mai conosciuto casa propria in quel di Toshima, è in penombra e la poca luce che arriva è dovuta al salotto la cui porta è accostata poco più avanti. La cosa bella di casa Sievert, una che gli è piaciuta fin da subito, è che per chi come lui non dorme subito poco dopo cena c'è sempre la speranza di trovare qualcuno in piedi anche a orari improbabili. O al massimo di potersi arrendere a passare la notte in bianco leggendo sul divano senza la preoccupazione di svegliare nessuno.


Quando si intrufola nel soggiorno lo trova tutt'altro che deserto. Innanzitutto, contro una delle pareti e in uno spazio libero lasciato tra i mobili vari, una nuvola di pelo che riconosce come Himmel sta ronfando con addosso un Adrian che evidentemente non apprezzerà mai davvero la presenza di una camera da letto come farebbero la maggior parte delle persone - non che Tatsuya possa parlare, visto quante dormite si è fatto sulla poltrona. Ad alzare gli occhi in sua direzione, proprio seduto sulla poltrona in questione, c'è Mikhail impegnato nell'inquietante arte della partita a scacchi da solo. Lo ha visto farlo più di una volta, ma quando a portarla avanti è un ragazzino di nemmeno diciotto anni che ha fatto l'assassino per almeno gli ultimi cinque, finisci a chiederti cosa gli stia frullando per la testa e soprattutto se non stia immaginando i vari pedoni come umani sgozzati. Tutto è possibile con Mikhail. Non invidia per nulla Leon che può sentirne i pensieri.


Poco distante, intento a recuperare un paio di libri da uno dei tavolini vicino al divano, c'è Freyr - è un miracolo che uno come lui, scaredy-cat per definizione, sia sopravvissuto anche solo a una manciata di secondi nella stessa stanza con Mikhail. Ma forse il giovane russo ha avuto pietà di lui come se ne potrebbe avere di un cucciolo di foca. Freyr lo nota e a Tatsuya sembra anche di vedere un leggero sussulto, ma sa bene che sarebbe solo controproducente farglielo notare. Una volta lo avrebbe sottolineato senza pensarci due volte.


Freyr gli fa un cenno, svicolando tra il divano e il tavolo per guadagnare l'uscita dopo aver farfugliato un «Buonanotte.» generico a cui lui replica con un cenno del capo, mentre Mikhail con un semplice gesto della mano mentre gli occhi restano sulla scacchiera. Con tutta calma Tatsuya si muove per occupare il divano, lasciandogli la poltrona senza grossi problemi, ma non prima di aver sostato per qualche minuto davanti alla piccola libreria (pallida imitazione di quella dell'altra stanza, da cui frega i libri a Siegfried) e aver scelto con cosa intrattenersi per le prossime ore nel caso l'insonnia decidesse di essere sua amica stretta anche stanotte.


Non va oltre le prime cinque righe che la voce di Mikhail lo raggiunge: «Non so come fai, con i Sievert come Freyr.» se ne esce, senza apparente senso logico e senza alzare lo sguardo. Mikhail non ha mai mostrato un rispetto particolare nei suoi confronti, né un attaccamento come quello di alcuni dei membri più giovani e a Tatsuya non ha creato grossi drammi esistenziali dal momento che non è mai stato il tipo da piacere agli altri e in generale non accoglie le persone come Mikhail perché vedano in lui una famiglia. Gli basta che non crei problemi di un certo tipo. Eppure il giovane ha comunque dimostrato di rispettarlo a modo proprio e, forse, di temerlo per la sua abilità.


«Ossia?»

«Vanno trattati con i guanti di velluto e io non ci riesco. Lui, Krow. Anche Yvan.» elenca e deve ammettere che, prendendo i tre più "docili", non è facile dirgli che non è così o far presente che a modo loro sono più tosti di quanto sembri. Yvan e il suo metaforico ma perenne scodinzolio lo rendono un tantino difficile.


«Non ne ho la certezza per Krow» comincia, tenendo anche lui lo sguardo sulle pagine pur senza leggere «ma Freyr e Yvan penso ne abbiano viste abbastanza da sopportare la tua totale assenza di empatia, Mikhail.»


Va bene, parlare di "empatia" con un ragazzo che è capace di trasmettere al tatto le proprie emozioni causando una sorta di empatia forzata agli altri somiglia a una battuta di gusto molto discutibile. Però rende l'idea. Lo sente sbuffare divertito - seriamente, non pensava di avere un membro del gruppo con un senso dell'umorismo pessimo come il proprio, a parte suo fratello Kaede - e questo lo porta a cercarlo con gli occhi ambrati. Si ritrova a guardare quelli eterocromi dell'altro e il sorrisetto sulle sue labbra gli suggerisce che non potrà dedicarsi alla lettura presto come avrebbe voluto.


«Non pensavo avrei sentito fare un discorso sull'empatia a una persona priva di tatto come te, Tatsuya.»

«In generale non avere qualcosa non significa non saperla riconoscere quando la si vede o non saper notare quando anche gli altri non ce l'hanno. Per il resto» pronuncia con un'alzata di spalle «ho molto più tatto di quanto ne avessi alla tua età.» ammette.

«Ah? Sta per cominciare un discorso sul tuo oscuro passato prima della yakuza e poi durante? Sono pronto!» esclama, abbandonando al suo destino la scacchiera come se, all'improvviso, fosse del tutto priva di senso né suscitasse in lui alcun interesse «Tanto la partita mi stava annoiando.»


Tatsuya lo osserva per qualche momento. In genere non è proprio il tipo da chiacchierata notturna cuore a cuore, o da ripercorrere il suo triste e cupo passato per avere la solidarietà degli altri. Ma Mikhail ha condiviso la sua storia con lui come prova di volersi unire non solo per ritrovare un contatto con le sue origini russe e per smettere di essere un assassino, ma anche per cambiare vita senza dover per forza incasinare quella degli altri. E' sicuro, Tatsuya, che Mikhail non sia stato mosso da buone intenzioni come proteggere "i suoi simili" o nulla del genere, ma almeno è stato sincero abbastanza da non fingere che fosse così. E alla fin fine, non è più questo gran segreto inconfessabile. Negli anni, per un motivo o per l'altro, volutamente o meno, ha finito con il condividere almeno parte della sua storia con buona parte degli abitanti di casa Sievert e con quasi tutti i membri del suo gruppo. Uno in meno o uno in più a cui raccontare qualche aneddoto non sarà certo un problema.


«Da bambino a dire il vero ero particolarmente sensibile.» comincia a far presente mentre chiude il libro, senza nemmeno il bisogno di mettere un segno di qualche tipo visto che non ha letto neanche mezza pagina prima di essere interrotto.


«Ah sì? E cosa è andato storto?»

«Un numero molto alto di cose.» ribatte lui, tornando a guardarlo «Ma vuoi la storia della mia vita o solo qualche esempio di quanto stronzo io sia stato in alcuni frangenti?»


In entrambi i casi, la notte si prospetta fin troppo lunga per raccontare tutto quanto.


*

La campanella dell'intervallo è suonata da un paio di minuti eppure la voglia di alzarsi dal banco è pressoché inesistente. Ha imparato presto la giusta tattica per evitare la maggior parte delle seccature: lasciare agli altri il tempo di mettere via le cose usate a lezione, tirare fuori il pranzo, accordarsi con gli amici, uscire dall'aula. Se ha abbastanza pazienza da aspettare che questo avvenga, poi i pochi gruppi che rimangono in classe - di solito uno molto numeroso oppure un paio più piccoli - finiscono col rimanere per conto loro e lasciare a lui la totale libertà di un banco isolato tra altri banchi liberati da chi ha deciso di pranzare altrove. A quel punto la prassi è sempre la stessa: aprire il bentou, mangiare e leggere nel mentre. Ogni tanto si infila anche le cuffiette nelle orecchie, di solito quando è stata una pessima giornata e non ha voglia di parlare nemmeno con Jin; è il loro segnale, che a volte viene ignorato, ma a causa di buone intenzioni. Non ringrazia mai Jin, perché per quanto ci sia il tentativo di essere un buon amico, gli fa comunque rodere il culo e peggiora esponenzialmente un umore già discutibile, ma almeno l'altro ha la pelle dura abbastanza da non prendersela. Tra figli della yakuza si sono riconosciuti subito, e altrettanto in fretta hanno preso le misure uno con l'altro.


Oggi è uno di quei giorni, uno di quelli in cui vorrebbe soltanto tornare a casa e trovarla vuota quando invece ha la consapevolezza che verrà salutato da tutti i membri del Miyukigumi in pompa magna e, se Dio lo odia molto, dovrà pure interfacciarsi con suo padre. Sono stati bravi a ignorarsi per quasi dieci anni limitando i loro contatti a quelli di un padre che vede nel figlio solo un successore, e quelli di un figlio che vede nel padre solo uno di cui dovrà un giorno prendere il posto. Poi sua madre è morta, suo padre ha deciso di non presentarsi al funerale e da allora per Tatsuya sarebbe più sopportabile saperlo con un proiettile sparato in fronte che dirgli "sono a casa" giocando alla famiglia felice che non sono mai stati.


Jin ha capito l'antifona subito e gli ha girato alla larga, senza nemmeno fare capolino come fa ogni giorno a ogni pausa pranzo, forzandolo a unirsi a lui oppure trovando già ad aspettare. A volte si mettono a mangiare dove capita, purché lontano dalla maggior parte degli altri studenti; altre volte vanno nei pochi punti dove non passa veramente un cane, perché metà del pranzo non viene toccato se decidono di mettersi le mani addosso e la lingua in bocca.


Sfortunatamente, oggi non è un buon giorno. E' partito male e, quando si sente picchiettare sul banco per avere la sua attenzione, capisce che finirà peggio se possibile.


Alza lo sguardo si ritrova una compagna di classe. Vorrebbe dire di non ricordare il nome come ogni bad boy che si rispetti, ma la verità è che ricorda ogni singolo compagno di classe e anche diversi studenti delle altre sezioni e degli altri anni, specie quelli da cui è meglio tenersi lontani e quelli le cui famiglie hanno un qualche legame con il Miyukigumi, poco importa che si tratti di compagni di business di suo padre o di persone che si sono indebitate in qualche modo. Sakaki Aya lo guarda come se volesse parlare con lui e, al tempo stesso, essere da tutt'altra parte: «Miyuki-kun» pronuncia, accennando alla porta d'ingresso dell'aula «ti cercano.»


A fare capolino, pur restando un po' nascosta per evitare che lo sguardo di chi è rimasto in classe finisca su di lei, è una ragazza della terza sezione del suo stesso anno. Onestamente Tatsuya non viene mai sommerso di dichiarazioni: forse il primo anno qualcuno poteva essersi interessato, ma tra le voci sul suo essere figlio della yakuza (cosa che non ha mai smentito, perché avrebbe dovuto) ad aver allontanato una buona fetta di persone potenzialmente inclini a chiedergli almeno di uscire e il suo aver resto evidente di passare una discreta fetta di tempo a pomiciare con Jin, non si è mai esattamente formata la fila di ragazze fuori dalla porta. Qualche ragazzo sì. Ci si è applicato poco, però.


La ragazza in questione si chiama Murase, è nel club di atletica ed è piuttosto alta. Non ha mai avuto l'aria della fanciulla fragile e delicata, forse perché spicca tra tutte le amiche minute che ha; a dispetto del non voler attirare l'attenzione su di sé, non se ne sta piegata in avanti o incassata nelle spalle cercando di nascondersi anche dove la sua altezza non glielo permette granché. Non gli dispiacerebbe come persona, forse, se non fosse chiaro e lampante l'arrivo di una dichiarazione che può finire in un modo solo. Nonostante questo si alza, abbandonando il libro sul banco e muovendosi verso la porta per uscire.


Strano ma vero, Murase non gli chiede di allontanarsi per andare dove nessuno li vede o in un classico punto da dichiarazione come il retro della scuola. Sarà che il corridoio è abbastanza deserto ora come ora, con le belle giornate a concentrare la maggior parte degli studenti fuori in giardino - a ben pensarci forse avrebbero attirato ancora più sguardi se fossero usciti insieme e si fossero poi diretti sul retro. Se ne resta fermo davanti a lei, spostandosi il giusto per non stare in mezzo a chi dovesse uscire o entrare dall'aula, non più di un paio di passi comunque. Lei indugia qualche momento e poi alza lo sguardo, puntandolo direttamente nel suo.


«Miyuki-kun, sono Murase della terza sezione.» pronuncia e lui nota solo per abitudine a fare attenzione ai particolari e al linguaggio del corpo degli altri che le trema leggermente la mano destra, per il nervosismo immagina. «Vorrei che accettassi questa,» aggiunge offrendogli una lettera in una busta molto semplice la cui unica particolarità è il suo nome come destinatario e quello di Murase come mittente «che la leggessi e poi mi dessi una risposta.» conclude. A Tatsuya sfugge un po' il senso della lettera: di solito se non si ha il coraggio di parlare, non si ha nemmeno il coraggio di darla di persona; al contrario con un approccio del genere, a che pro leggere la dichiarazione su un foglio?


Osserva la busta in silenzio per qualche attimo, poi alza lo sguardo su di lei.


«Avresti potuto lasciarla nell'armadietto, perché me la dai di persona?» domanda, diretto. Sa bene che il buon costume delle dichiarazioni scolastiche vuole che lui prenda la lettera e faccia quanto richiesto dalla ragazza, dandole poi una risposta. Lui però non capisce la logica e lo incuriosisce più di quanto lei possa aver scritto su pagine e pagine. Murase lo guarda, è chiaro non si aspettasse quella domanda. Nonostante questo però sembra valutare che sia okay rispondere e lecito chiedere.


«Perché volevo. Non mi hai mai dato l'idea di una persona che ama perdere tempo ascoltando troppe parole e io non sono comunque brava a voce a esprimere tutto quello che penso. Mi sembrava... una buona soluzione.» ammette, tentennando appena sul finale. Tatsuya la guarda, poi osserva di nuovo la lettera per una manciata di secondi. E' vero che non ama chi blatera, ma dare per scontato che una lettera sia diversa solo perché passa metà del suo tempo con la faccia tra i libri... è stupido tanto quanto credere che solo perché è scritto allora perdere tempo con cose che immagina già esserci in quella lettera gli vada bene. A parole o su inchiostro, il punto è l'assenza totale di interesse nei confronti di sentimenti basati sul nulla.


«Okay.» replica, prendendo la lettera «Ma ti dico subito che la risposta è no.»


Questo lascia di sasso non solo Murase, ma anche chi sta di certo sbirciando la scena. Lui può quasi sentirlo il gelo e il fiato sospeso di chi sta tendendo l'orecchio fingendo di fare altro. D'altra parte lei ha voluto il corridoio, lui avrebbe detto la stessa cosa in qualsiasi altro posto.


«Senza nemmeno leggerla?» puntualizza lei e Tatsuya capisce immediatamente che proprio perché è una sportiva, abituata a non farsi intimidire dagli avversari che sulla carta dovrebbero stracciarla, non starà lì in silenzio a farsi rifilare un no senza pretendere una spiegazione. Una gran seccatura.


«So già cosa c'è scritto dentro e so che la risposta è no.»

«Potresti almeno avere la cortesia di leggere qualcosa che hanno scritto per te. Non sono venuta qui con la certezza o... o la pretesa che tu accettassi i miei sentimenti, ma... dirmi in faccia che non vuoi nemmeno leggerla—»

«Sarebbe stato meglio dirti che l'avevo letta anche se non era vero?» la interrompe, fissandola. In ragazze come Murase è facile vedere la rabbia o l'irritazione quando cominciano a montare su, ed è sicuramente meglio di vedere le lacrime in arrivo.


«Sarebbe stato—»

«Sarebbe stato meglio se tu non avessi dedotto dal fatto che leggo in continuazione che dichiararti con una lettera sarebbe stata una seccatura minore che farlo a parole. E sarebbe stato meglio se anziché pensare di conoscermi o farti un'idea sbagliata di me avessi ascoltato quello che dicono in giro. Visto quanto piace chiacchierare a una buona parte degli studenti, a dire il vero non capisco come ti possa venire la voglia di chiedermi di uscire o di scrivermi che mi ammiri. Ammiri cosa, Murase-san? Il fatto che sono figlio della yakuza o il fatto che me la faccio con gli altri maschi?»


Il ceffone non arriva inaspettato. Gli brucia sulla guancia nel momento stesso in cui la mano della ragazza gli si abbatte sul viso, ma lo porta comunque a piegare le labbra in un sorrisetto divertito che non raggiunge gli occhi. Quando riporta lo sguardo su di lei, poco dietro intravede Jin salire le scale e fermarsi dove si trova visto il momento.


Murase gli strappa la lettera di mano un secondo dopo.


«Hai ragione. Ho pensato potessi essere una persona interessante a dispetto delle cose orribili che dicono di te, invece avevano ragione.» è l'unica frase che gli rivolge prima di girare i tacchi e andarsene. Forse inquadra Jin e lo riconosce perché ha poca cortesia nel modo in cui lo urta appena con la spalla senza girarsi a chiedere scusa ma puntando con insistenza alla propria classe. Tatsuya non concede più nemmeno un briciolo di attenzione a lei, mentre a lui si limita a fare il cenno di quando non ha intenzione di stare a sentire le sue stronzate.


Mentre riprende posto al banco, sotto lo sguardo di chi è rimasto in classe e ha assistito allo scambio, non si preoccupa di farlo con delicatezza né del richiamo di Sakaki al quale risponde piazzandosi le cuffiette nelle orecchie prima di far partire la playlist del cellulare a tutto volume.


*


E' stato un sonno quasi eterno il suo. Un sonno tale che a un certo punto ha pensato di aver perso del tutto la propria coscienza e che sarebbe rimasto in un limbo discutibile fino alla morte. Si è svegliato dopo sei mesi di coma in ospedale con nessuno vicino perché tutti gli altri erano morti - non una volta, non due, ma così tante da non poterle né volerle contare e la prima cosa che ha pensato è stata di non voler vivere. Poi si è trovato costretto a farlo senza più un posto in cui tornare, senza un gruppo da guidare ma solo un numero di cadaveri sulla coscienza.


Ha vagato ed è tornato da uno degli unici due contatti che aveva ancora - sarebbe potuto andare da Jin, di sicuro gli avrebbe offerto non solo un tetto sopra la testa ma anche un ruolo nella sua famiglia. Avrebbe potuto accettare. Ma un leader che lascia cadere il suo gruppo non ha il cuore, né il cervello e tantomeno il diritto di andare in un secondo gruppo e occupare persino una posizione di un certo tipo. E probabilmente non sarebbe in grado di prendere ordini oltre un certo limite.


Così è approdato in quell'organizzazione di cui ha visto subito i pregi ma anche i difetti, i lati positivi dell'idea che la mantiene in piedi e gli evidenti, pericolosi errori di concetto. Ha provato a farli notare, ha provato a cercare di ragionare sulla cosa ricordandosi di dover avere un approccio diverso da quello avuto nella yakuza; ed è stato difficile perché è diventato capo troppo giovane e in età altrettanto giovane li ha persi. Ritrovarsi solo l'impotenza e il senso di colpa tra le mani non facile nemmeno a cinquant'anni, figurarsi a venticinque. Ma ci ha provato ad approcciarsi diversamente. Eppure guardare un leader fare errori grossolani che rischiano di portare a un epilogo non diverso da quello già visto accadere sulla pelle della propria famiglia lo ha reso irritabile, lo ha innervosito fino al punto di esplodere - e allora ha cercato di mettere ancora più distanza, ha rifiutato l'unico legame rimasto col se stesso di un tempo. Ha guardato Mamoru negli occhi, consapevole di essere amato, di essere quasi venerato e sapendo di poter dire le cose in modo diverso, con più tatto.


Ma il tatto non è mai stato parte delle sue qualità e, soprattutto, il tatto rende più accettabili le verità scomode; quando si vuole ferire qualcuno per allontanarlo non si cerca di indorare la pillola.


«E' stato divertente fare sesso insieme. Ma francamente sei innamorato di te e io non lo sarò mai di te. Quindi nessuno di noi dovrebbe più sprecare tempo. A dirla tutta, penso che dovresti andartene. Non sei in grado di restare e non guardarmi come mi guardi ora, no?» gli ha detto consapevole di trattarlo male gratuitamente, consapevole che in un'altra situazione ci sarebbe stato senza dubbio un modo migliore di questo eppure non ne ha scelto un altro. Così Mamoru se ne è andato e lui è rimasto con il senso di colpa, che però era ormai suo amico già da quasi sei mesi e quindi in fondo niente di nuovo e niente che non potesse gestire.


A vedere la riunione che si sta svolgendo ora davanti ai suoi occhi, sente quasi di aver risparmiato a Mamoru una cosa ben peggiore.


«Ci deve essere un cazzo di modo di tenere su questa situazione e salvarlo allo stesso tempo! Che cazzo, salviamo sempre il culo di tutti su commissione senza mezzo ringraziamento, mi stai dicendo che a questo giro in cui avremmo tutto l'interesse a farlo il governo ci chiede o di starcene seduti o di fare fuori un compagno?!»


Non è che Tatsuya non capisca il senso del discorso alla base. Il governo giapponese li tiene buoni perché li teme, poi possono raccontarsi tutte le favole del mondo secondo le quali non è così. E capisce, visto che stanno al centro di una città giapponese e con la collaborazione di diversi poteri forti, che non sarebbe il caso di inimicarseli. Ma sacrificare mille per salvarne uno non gli sembra una grande idea - è abbastanza sicuro che il governo non accetterebbe di salvare il singolo a discapito della collettività nemmeno se non fosse uno di loro, ma una persona socialmente accettata come normale.


Eppure il loro attuale leader tentenna. Inevitabile, visto il conflitto di interessi più grande dell'intero edificio che ospita la loro organizzazione. Ma sono lì da due ore e non ne stanno uscendo, anzi: più qualcuno gli fa notare quanto sia eticamente sbagliato, più il leader tentenna. Tatsuya vorrebbe dirgli che lo capisce, ma che non può permetterselo. Vorrebbe dire al resto dei presenti pronti a far esplodere una città per un solo, unico compagno (o magari ex compagno visto che Tatsuya dubita li riconoscerebbe se li avesse davanti o che risparmierebbe loro la vita ora che non ha più coscienza di sé) è da folli. Eppure non esiste un modo delicato per dirlo ed essere ascoltati. Non sarà ascoltato comunque, nessuno di loro. Hanno bisogno di un cattivo e alla fin fine, per quanto forse qualcuno lì in mezzo ci abbia provato a farlo sentire tale, lui non li considera né riuscirà mai a considerarli una famiglia. Quella ce l'aveva, una volta. Non pensa ne avrà un'altra tanto presto.


«Mettiamola ai voti.» se ne esce e vede più di sei paia di teste girarsi a fissarlo «Inutile che discutiamo altre due ore, non c'è un punto d'incontro e ci sono pareri troppo discordanti. Mettiamola ai voti come ogni normale organizzazione. Anche il voto del leader o dei caposquadra vale comunque uno. La maggioranza vince.» spiega, pratico. Non ha nemmeno bisogno di guardare per sapere che quello con lo sguardo di chi vorrebbe saltargli alla gola e azzannargli la giugulare è Harris.


«E poi cosa, eh?!»

«E poi si fa quello che la maggioranza decide.»

«Cosa cazzo non hai capito del fatto che non ucciderò un compagno?»

«Tu invece cosa hai capito della situazione globale degli ultimi tre giorni, Harris?» domanda con un sarcasmo voluto, consapevole di farlo incazzare ancora di più ma non per questo deciso ad abbassare i toni. La gente leale fino al midollo come lui non potrà mai cambiare idea su una cosa simile e dunque l'unico modo di farlo stare zitto è sbattergli in faccia la verità.


«Fattela riassumere, visto che abbiamo appena perso due ore in discussioni inutili, cinque minuti non cambieranno molto.» prosegue «La situazione è che abbiamo avuto un danno collaterale, tu puoi chiamarlo amico e lui» indica il leader «può chiamarlo fratello, non mi interessa. Il governo vede meglio di te quello che sta succedendo: un pazzo a piede libero, fuori controllo, che uccide innocenti in gran numero e che può diventare anche un incidente diplomatico se esce fuori dal Paese. Chiedono a noi di sistemarlo perché nessuno, neanche l'esercito può farci niente, nel caso non ti fossi accorto che ha un'abilità speciale leggermente difficile da gestire senza avere un'abilità speciale a propria volta. E forse il cinquanta per cento di questa stanza non potrebbe gestirla comunque senza rischiare di rimanerci secco. Quindi Harris sì, sto dicendo di votare e se la votazione a maggioranza deciderà di ucciderlo ti sto anche dicendo di ucciderlo.» chiarisce, vedendolo alzarsi con un pugno già sbattuto sul tavolo. Quasi si aspetta di vedere il tavolo spaccarsi.


«Oppure» inizia prima che Harris possa davvero saltare sul tavolo e poi addosso a lui «rifiutati e lascialo fare agli altri. Basta che smetti di fare il bambino, non si può sempre gestire tutto in modo pacifico.»


«Pezzo di merda!» gli urla addosso lui «Quindi vuoi sacrificare uno che è anche della tua squadra e che hai guidato in missione fino a ieri?!»


Tatsuya non alza la voce. Non ha mai avuto bisogno di farlo nel suo gruppo perché quando parlava tutti tacevano, e se a volte qualcuno non era d'accordo c'erano modi molto diversi di affrontare una divergenza di opinioni. In generale non urla nemmeno da quando è in questa organizzazione perché difficilmente poi si ottiene il rispetto in quel modo, o almeno la sorta di sentimento necessario a guidare una squadra come ha dovuto fare lui. Ma qualcosa di fallimentare nel discorso che sta ascoltando, detto in tutte le salse, da due ore gli azzera la pazienza e le buone intenzioni sui toni da mantenere in quella stanza.


Incurva le labbra in un sorriso pregno di sarcasmo che sa verrà recepito come niente più che crudele e privo di alcuna delicatezza una volta che sarà uscito dalla sua bocca.


«Tu invece vuoi sacrificare tutta la città, a quanto pare.» commenta «Una città di persone innocenti che non possono difendersi è sacrificabile, un compagno che ha perso il controllo di un'abilità su cui avrebbe potuto lavorare per controllarla meglio ed evitare tutta la situazione invece deve essere salvato a tutti i costi. Correggimi se sbaglio, perché è quello che hai appena detto. Una marea di stronzate dove l'unica cosa giusta è il mio essere un pezzo di merda.» gli fa notare come se lo spiegasse a un povero deficiente dal quoziente intellettivo così basso da non poter pretendere nulla da lui.


«Incredibile.» continua quando vede che non c'è risposta. Sente qualche mormorio intorno ma non si gira a guardare nessuno, limitandosi ad incrociare le braccia al petto «Avevo già notato che siete pieni di ipocrisia fino alla punta dei capelli, ma non pensavo foste anche stupidi. Sacrificare tutti per salvarne uno, davvero degno dei super eroi!» batte le mani una, due, tre volte fingendo un applauso che non potrebbe davvero essere meno sentito di così. Quando trattiene Harris per miracolo ma tanto, arrivati a questo punto, non c'è niente di salvabile. Per quello si alza, si prende pure il tempo di sistemare la sedia. Con la coda dell'occhio vede Moira, della sua squadra (se solo sapesse che la incontrerà di nuovo tra anni, in un altro Paese, in un'altra famiglia che sarà per sempre al contrario di questa) e ne percepisce la postura mortificata. Certo, per lei l'idea di una qualsiasi vita strappata contro natura da mano umana deve essere insopportabile. Almeno vale per tutti e non solo per gli amici.


Muove qualche passo per raggiungere la porta, ma lo sguardo viene mantenuto su tutta la tavolata; sosta per qualche secondo in più su leader e non trova niente di quello che vorrebbe trovare. Non che ci avesse sperato, comunque.


«Prenditi pure la responsabilità, se la maggioranza dovesse votare di salvarlo, di avere il resto di Toshima sulla coscienza. La vostra moralità da quattro soldi mi fa venire la nausea e non ci tengo a prendere parte alla recita. Io voto per ucciderlo. Fatemi sapere come va a finire questa pagliacciata.»


Una volta fuori dalla stanza, a porta chiusa, sente Harris abbattersi su una qualche superficie sfogando ciò che avrebbe voluto fare alla sua faccia. Avrebbe voluto poterglielo dire in modo diverso e da amico, se solo fossero stati diversi loro e Tatsuya non avesse imparato solo la versione sbagliata di come dire qualcosa. Il tatto che dovrebbe avere una persona verso i suoi affetti, il poco che aveva, è morto insieme a quelli a cui aveva imparato a rivolgerlo.


Per un attimo, gli viene in mente lo sguardo perso e ferito di Mamoru in ascensore.

Scuote la testa, le voci all’interno della sala riunioni che si alzano di nuovo; poco dopo Aoi esce dalla stessa stanza e lo cerca febbrilmente con lo sguardo per un momento, forse aspettandoselo già altrove e non nel corridoio - Tatsuya riconosce quello che legge nei suoi occhi e scuote la testa.


«Lo so.» dice «Mi dispiace che abbia dovuto dirlo tu per gli altri.»


Tatsuya lo osserva per qualche istante. Vorrebbe poter dire che va bene così, non c'è granché di cui preoccuparsi. Non morirà solo perché qualche persona in più lo detesta. 



«Torna dentro.» gli dice con un mezzo sorriso «Sei l'unico ad aver preso qualcosa di buono dei Miyuki, lascia a quelli come me il compito di insegnare agli stupidi le cose.»


*


«...Wow.» commenta Mikhail e la cosa peggiore è vederlo davvero ammirato in un certo senso.


«Come vedi, sono stato molto più indelicato di te in diverse occasioni. Ti risparmio le altre.» pronuncia, anche perché a dirla tutta non ha molta voglia di scendere in altri particolari e non tanto perché non gli fanno onore ma perché Mikhail dovrebbe andare al letto - senza contare che, tra l'altro, non vuole dare altri motivi a Irina per considerarlo il suo best buddy. O motivi a Krow per piangere, dipende.


«Mah, per come la vedo io avevi ragione in entrambi i casi, Tatsuya.»


«Non mi fa molto piacere detto da te, anche se il modo in cui hai salutato Vya mi ha toccato il cuore di ghiaccio che mi ritrovo. Ero quasi commosso.» dice, falsamente toccato dal solo ricordo. Mikhail ridacchia, alzandosi e stiracchiandosi un poco, nell'evidente scelta di ritirarsi e lasciarlo alle sue letture e all'insonnia che è probabile non lo lascerà in pace stanotte. O almeno ne è convinto finché un paio di abbraccia non gli circondano le spalle da dietro; anche se non ce ne sarebbe davvero bisogno alza lo sguardo e inclina leggermente la testa indietro per inquadrare Rodion. Gli sorride con la naturalezza che non pensava avrebbe mai avuto con un'altra persona, specie non con una con cui avrebbe deciso di condividere il resto della vita.


«Dovreste dormire entrambi.»

«Oppure potresti conquistarmi preparandomi una cioccolata calda.» rimbecca lui.

«Pensavo di averlo già fatto, onestamente. Conquistarti.»

«Okay, okay» pronuncia Mikhail attirando la loro attenzione «non avrò empatia ma il terzo incomodo non lo faccio e vado a dormire come i bravi bambini. Così mamma e papà possono fare le cosacce sul divano.» li prende in giro con quella punta di malizia che a volte lo fa sembrare di qualche anno più grande, ma anche una sfumatura di divertimento che smorza la cosa. Non che Tatsuya sappia cos'è l'imbarazzo, almeno su quegli argomenti.


«Vai, vai, non vorrei bloccarti la crescita.» lo scaccia via con tanto di gesto della mano, aspettando che sia effettivamente fuori dal salotto per tornare a guardare Rodion: «Saresti potuto entrare prima.» gli fa notare. A giudicare dallo sguardo del russo, forse era convinto di essersi nascosto bene.


«Te ne eri accorto.»

«Hai un tempo che scorre in modo molto rilassante, mi accorgo sempre se sei abbastanza vicino.» gli ricorda con un sorrisetto divertito degno di una delle sue migliori facce da schiaffi di quando era adolescente, arrogante e insopportabile: «Deluso dall'assenza di tatto del tuo fidanzato che è chiaramente un marchio di fabbrica di tutti i Miyuki?» scherza su, ritrovandosi un bacio leggero sulla fronte.

«Sempre saputo che il tatto non è la tua qualità migliore.» si lascia prendere in giro «Cioccolata calda?» propone Rodion, sapendo già la risposta.

«Cioccolata calda.» gli accorda, lasciandolo sciogliere il mezzo abbraccio e andare in cucina.


Poteva andare meglio di com'è andata, in passato. Ma poteva, senza dubbio, andare peggio. E in qualche modo, non sa ancora bene come, è stato salvato perché qualcuno nonostante tutto non si è arreso e non si è fatto sconfiggere dal modo distruttivo in cui feriva per non essere ferito. 

hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Fiamme negli occhi (“Hai le fiamme negli occhi ed infatti, se mi guardi mi bruci”)
Missione: M4 (week 5)
Parole: 766
Rating: PG13
Warnings: //



Treviri è un luogo tranquillo se si esclude la parentesi di un’intera famiglia di assassini che però è più accogliente del novanta per cento delle persone che Tatsuya abbia mai conosciuto, persone per così dire “normali” e lontane dall’ambiente mafioso in cui è cresciuto e dal lato poco legale del mondo. E’ stata una buona oasi di pace fin quando la sua idea di costruire un rifugio per gli ability user non si è tramutata in realtà fisica e tangibile. E fin quando non si è popolata così tanto da riempire una buona metà delle stanze da letto a disposizione.


Pensava che sarebbe sopravvissuta a qualsiasi cosa, in pratica, dopo che la sventura esplosiva - letteralmente esplosiva - di Tsukishima Rikiya si è abbattuta su di loro. Poi ci sono giorni come questo, in cui sente l’inconfondibile voce del suo medico di fiducia chiamarlo dal piano inferiore con l’urgenza nella voce. Tatsuya sa che dovrà, nella migliore delle ipotesi, riavvolgere il tempo di un’intera stanza nella speranza che sia sufficiente a risparmiare dei danni considerevoli. Spera di non dover anche rimediare a un’uccisione accidentale.


Scende le scale e, più si avvicina al piano della sala comune, più sente un inquietante odore di bruciato; a metà discesa, si immette sulla scala dal pianerottolo del primo piano anche Yukinaga. Tatsuya lo vede attendere perché lui passi davanti e non rallenta, quindi, conscio di averlo subito dietro.


«Se Rikiya sta di nuovo per far esplodere qualcosa nella sala comune lo puoi uccidere.» commenta con quel fare scherzoso che capiscono solo due persone in croce. Cosa che rende sempre divertente fingersi ancora un mafioso.


«Tatsuya-san, non sono mai sicuro di quanto tu lo dica seriamente quando si parla di Rikiya.»
«Nemmeno io. L’istinto è forte, ti dirò.»


La sala comune li accoglie con una scena surreale. Non la parte in cui Rikiya è in piedi, nel mezzo, il corpo teso ad attaccare priga - quella è una visione fin troppo familiare ormai, seconda solo a Krow che vuole abbracciarlo ogni qualvolta Tatsuya si reca a casa Sievert. No, ad attirare l’attenzione del leader è la presenza di uno dei loro “nuovi acquisti” per così dire: Suzume, un ragazzino che non avrà più di quattordici anni e non misurerà più di un metro e cinquantotto (centimetri pieni di rabbia repressa, su quello non c’è dubbio) che si impone come farebbe un uomo del doppio della sua altezza e stazza.


Guarda Rikiya come se potesse ucciderlo con lo sguardo. Tatsuya un po’ lo capisce, no hard feelings.


«Gnomo di merda,» sta dicendo Rikiya, una delicatezza degna di Reizo prima di essere ammaestrato e ammansito, comunque «cos’è che hai detto, ah?!»
«Di andare a esplodere da un’altra parte! Sto studiando, io! Sai quella cosa che si fa con i libri?! Quelli che non sai leggere, sì!»


Non ridere. Non ridere. Non rid— sbuffa divertito, e lo ritiene una vittoria personale di self-control. 


«Tatsuya-san...» mormora Yukinaga, quasi a pregarlo di intervenire prima che sia troppo tardi. Suzume sta guardando Rikiya come se potesse letteralmente dargli fuoco con lo sguardo e Tatsuya potrebbe anche non faticare a crederci visto che, stando al report, il ragazzo dovrebbe controllare proprio il fuoco. Certo, mettere insieme un piromane e una specie di Voltorb mancato… dovrebbe rivedere almeno la disposizione delle stanze e accertarsi che non siano nemmeno sullo stesso piano.


«Piccolo—» comincia Rikiya, allungandosi per acciuffarlo e mancandolo di un soffio. Suzume lo fissa, gli occhi carmini a rendere ancora più suggestiva l’impressione di un fuoco lì lì per prorompere senza alcun controllo, a discapito della sua abilità speciale. Il report riportava fiamme negli occhi e Tatsuya capisce, ora più di prima, quale immagine sia stata accostata a quel ragazzo: niente più di ciò che effettivamente accade di lì a poco.


La prima avvisaglia è una fiammella quasi invisibile sul bordo dei pantaloni di Rikiya e un vaghissimo odore di fumo. Ma la fiamma ci mette un istante a divampare, causando una reazione di puro panico nel più grande. Suzume, da parte sua, si sta limitando a guardarlo con l’intento di continuare a dargli fuoco


«Tatsuya-san, credo che Rikiya stia per esplodere.»
«Ah… non si può mai stare in pace, qui...» butta lì con falsa disperazione - la verità è che pure nella follia generale causata da ragazzini che non dovrebbero poter incendiare gli altri a comando solo guardandoli, riesce comunque a trovarlo divertente.


Un po’ meno quando, come ora, per salvare quella che ormai possono chiamare casa deve fermare il tempo e spegnere tutto da solo prima che la fiamma diventi un incendio e la sala comune si riempia di cadaveri abbrustoliti.


hakurenshi: (Default)
 

Prompt: Pioggia/Neve
Missione: m3 (week 2)
Parole: 5029
Rating: nsfw
Warnings: incest, slash




Il silenzio all'esterno è totale. La bufera che per giorni si è abbattuta su ogni centimetro della regione, con il vento a ululare come una bestia ferita e a sbattere contro le finestre, si è placata ormai da diverse ore e ha lasciato lo spazio all'immutabilità e all'immobilità di un paesaggio del tutto coperto di neve che finirà con lo sciogliersi lentamente ora che il tempo sembra promettere temperature ancora fredde, ma meno rigide. La notte fuori è serena, ma più di una volta ha visto qualche nuvola che sembra carica di pioggia avvicinarsi, come se il cielo stesse rispondendo a un umore altalenante, indeciso. Yuki non se ne stupirebbe: dei suoi fratelli e sorelle, Ame è senza dubbio quello più incline a lasciare che il suo stato d'animo influenzi il meteo, quasi non fosse del tutto consapevole del ruolo che hanno in quanto signori della pioggia, della neve, dell'oscurità e così via.


Sono giorni che lui si limita a osservare fuori dalla finestra della sua stanza nel palazzo Shiki. La camera al secondo piano è sempre rimasta quella da che ha memoria, oserebbe dire quasi dalla sua nascita o comunque da un'infanzia lontana così tanti secoli da rendergli difficile collocarla in anni precisi ormai. I loro alloggi non hanno mai badato a modestia o spese e ancora oggi basta entrarvi per riconoscerli subito come quelli dei signori: ampi spazi, mobilio dei legni più pregiati, decorazioni lavorate dai più grandi artisti e nei metalli o pietre più preziosi. Certo, ognuno con il suo stile - Yuki non pensa di aver mai visto una camera più diametralmente opposta alla propria quanto lo è quella di Taiyou: un concentrato di... cose molto pesanti e molto appariscenti in cui Yuki non pensa potrebbe mai sopravvivere nemmeno considerando la propria immortalità. Ogni tanto quando la visita ha bisogno poi di tornare alla propria e ritrovare la pace interiore che l'arredamento minimalista e semplice a cui è abituato gli offre. Non è esattamente spoglio, ma essenziale. Abbastanza monocromatico, in effetti. Forse poco interessante per la grande maggioranza della sua famiglia e di certo, una volta, alla base di un senso di inferiorità che non crede se ne sia mai andato davvero ma che pensa sia comunque molto migliorato.


Buona parte dei suoi fratelli e delle sue sorelle agiscono sul tempo atmosferico dall'esterno. Raggiungono un punto in cui sentono di poter fare il loro lavoro nel modo migliore - per alcuni di loro è vicino al mare, per altri sul picco di una delle montagne più alte della regione - e lasciano il proprio potere libero di mutare il cielo e abbattersi sulla terra, qualunque sia la loro forma. Taiyou sostiene che il mare gli dà la sensazione di riflettere e amplificare il calore, per esempio, e dunque in estate è pressoché impossibile trovarlo lontano da lì durante le ore diurne. Sua sorella Yami, invece, preferisce la solitudine delle vette inesplorate, abbandonate. Si concentra meglio, dice, e prova la tranquillità di chi è certo di aver sfiorato tutta la terra con la propria oscurità perché vede che è così. Yuki invece lo fa dalla sua stanza, da cui non riuscirebbe nemmeno a controllare il proprio operato se non fosse che la finestra principale si affaccia proprio sul mondo degli uomini. E dal momento che non ricorda con certezza se la camera sia sempre stata quella, non saprebbe dire se sia stato solo fortunato a finire proprio lì lui che non sente il bisogno di scendere nel mondo mortale per fare il proprio lavoro o se qualcuno sia stato accomodante nei suoi confronti una volta notate le sue abitudini.


In ogni caso, quando l'inverno avanza e le temperature si fanno davvero gelide, lui rilascia il suo potere e fa nevicare. Al contrario di Taiyou e Ame, però, lui non ha mai sentito questo bisogno di scatenare il proprio umore perché in base a questo la neve cadesse più o meno copiosa. Semplicemente, se è necessaria una bufera, lui la scatena; se deve scendere solo una soffice neve silenziosa, lui la rilascia in maniera graduale e costante. Da quanto ne sa e ricorda, anche per Yami è così. Quindi, forse, non c'è davvero qualcosa che non va in lui.


Sua sorella lo ha salutato ormai due ore fa, pronta a discendere sulla cima della montagna mortale perché la notte potesse prendere il posto del giorno. Yuki non ha fatto scendere altra neve dopo la bufera, consapevole che avrebbe portato i livelli di disagio tra gli umani troppo in alto e reso più complicato il lavoro dei fratelli. Oltretutto l'inverno sta finendo e, di conseguenza, deve far sì che la primavera possa affacciarsi timidamente senza troppa resistenza da parte sua. Da una manciata di minuti a questa parte, però, di tanto in tanto in lontananza si sente il cielo borbottare, tuoni distanti che non si capisce se intendano avvicinarsi oppure no. Di solito, quando succede, Ame non è di buon umore.


*


Il rumore di passi pesanti che pestano nel corridoio in legno man mano che avanzano verso la porta della sua stanza sono per lui fin troppo riconoscibili. Non si stupisce affatto, quindi, quando sente volare qualche parola a tono riguardo l'essere lasciati in pace e, poco dopo, la porta viene aperta facendo entrare Ame. Il fratello se la richiude subito alle spalle, facendo schioccare stizzito la lingua tra i denti. In lontananza, Yuki sente il cielo borbottare di nuovo.


«Che rompi palle.» sbotta riferendosi a chiunque abbia (inutilmente) cercato di fermarlo fuori dalla sua stanza. Yuki lo osserva, ancora fermo vicino alla finestra: la cassapanca in legno, con una morbida copertura in stoffa azzurrina lo ha ospitato finora, accolto nella comodità del punto da cui preferisce osservare un mondo che può influenzare ma nel quale si è recato davvero poche volte. Più da bambino che ora, quasi sempre accompagnato da altri. Ame non ha mai avuto una fisicità molto diversa dalla sua, tanto che quando erano più piccoli avrebbero potuto scambiarli per gemelli se solo il loro schema di colori e i lineamenti fossero stati più simili. Arrivati a questa età, fatta di mille e mille anni, entrambi hanno finito con il lasciar crescere i capelli al punto da doverli legare perché non siano d'impiccio, eppure le lunghezze e le acconciature sono completamente diverse. Lo sguardo di Yuki segue la figura del fratello mentre continua a lamentarsi di chi non sa fare il suo lavoro lì al palazzo, filtrando buona parte di quelle parole già sentite in più occasioni - consapevole di come il malumore di Ame sia proprio come un acquazzone estivo: violento, improvviso ma breve.


I capelli scuri di Ame sono lunghi abbastanza perché lui li tenga legati in una coda alta e, anche così, arrivano a sfiorargli comodamente la schiena appena oltre la linea delle spalle. Il nastro di stoffa semplice con cui li tiene su è di un verde completamente diverso da quello dei suoi abiti, che mescolano una sfumatura più scura e forte con una che va lentamente sfociando nel verde acqua. Yuki se lo ricorda bene, quel nastro, perché è stato lui a regalarglielo: era la prima volta che si incontravano, dopo la prima neve che Yuki aveva fatto cadere sul mondo mortale e che quindi lo rendeva ufficialmente adatto al suo ruolo, dandogli quindi la possibilità di incontrare i suoi fratelli. Gli avevano consigliato di portare un dono per tutti loro, qualcosa di pensato che mostrasse la sua buona volontà e il suo impegno nel farsi accettare. Così aveva cercato di scoprire quante più cose possibili su di loro: per Taiyou aveva scelto del cibo, perché gli avevano detto che si occupava di far sì che il sole splendesse alto nel cielo per ore, agevolando moltissime attività per i mortali. Per Yami, una sorella di cui conosceva niente più dell'indole tranquilla e solitaria e delle sue ore sulle cime delle montagne mentre vegliava su un mondo addormentato, aveva scelto un rotolo contenente più di mille poesie e racconti brevi. Per Ame, i cui interessi sembravano impossibili da definire tanto quanto era difficile azzardare un'ipotesi su quanto sarebbe durata la pioggia in base al suo umore, Yuki aveva scelto un nastro semplice ma di buona fattura. E dal momento che gli avevano detto che il colore rappresentativo di suo fratello era il verde, lui aveva scelto una sfumatura brillante che potesse magari rallegrarlo nei momenti in cui il suo umore minacciava di precipitare. Ma si era rivelata la scelta sbagliata non appena aveva visto i suoi abiti e Yuki, pieno di vergogna, aveva cercato di nasconderglielo a costo di ammettere di non aver portato nulla per lui. E poi era scoppiato a piangere. Ma Ame non solo aveva preso il nastro e lo aveva indossato, ma non se lo era mai più tolto.


Il movimento di passi altrui lo distrae da quel ricordo e lo porta a focalizzarsi di nuovo su suo fratello, già dimentico di qualsiasi cosa lo abbia innervosito. I tuoni distanti, per ora, non si sentono più. Ame si lascia cadere seduto sul letto, senza molta attenzione a come le vesti si possano sgualcire se ci si siede sopra in un certo modo e senza assicurarsi di stenderle più possibile. Yuki lo guarda scrutarlo, gli occhi verdi su di sé, prima di vederlo dare un paio di pacche sul letto per invitarlo a unirsi a lui. Sposta le iridi grigie fuori dalla finestra un'ultima volta, portando lo sguardo a scivolare verso il basso: il mondo degli uomini, nel silenzio della notte e ricoperto di neve, dorme ancora indisturbato.


Yuki si alza, si muove lentamente a coprire la poca distanza tra dove sedeva prima e il letto e si adagia con più cura del fratello sul materasso; volta leggermente il busto per poterlo guardare, mentre le mani in un gesto automatico si assicurano di sistemare la treccia in cui sono legati i propri capelli bianchi sulla spalla. «Come stai, fratello?» domanda quindi, pacato e attento, cercando di comprendere da subito se il malumore che sembra sparito fosse dovuto a qualcosa di altrettanto passeggero o se ci sia qualcosa di cui parlare che potrebbe farlo riemergere. Ame lo guarda, inarca un sopracciglio quasi stesse valutando qualcosa sul suo viso, poi sbuffa: «Sono tre giorni che non ci vediamo.» dice, lo fa suonare come un'accusa che però non è mai rivolta a Yuki ma a chi ha scelto di applicare queste regole. Sono infatti pochi di loro a potersi incontrare liberamente - in effetti, solo lui e Yami possono nella maggior parte dei casi. Sua sorella e Taiyou si incrociano pochissimo, per non influenzarsi a vicenda, al di là delle occasioni speciali. Taiyou e Ame stesso sono del tutto incompatibili (caratterialmente, ma anche per cosa comandano e cosa possono scatenare). Yami e Ame hanno un buon rapporto, da quanto sa; coesistono bene, specie nelle notti di tempesta. Lui e Ame... non è che non possano stare insieme. Ma a volte è capitato che la pioggia diventasse grandine quando non avrebbe dovuto, del tutto fuori stagione. E altre la neve è durata troppo poco, rischiando di far sciogliere troppo presto un cumulo sostanzioso abbastanza da rischiare una valanga. Erano molto piccoli, ma Yuki ricorda bene la sgridata a seguito della quale quelle regole sono state imposte anche a lui.


«Odio quando non possiamo vederci.» lo sente aggiungere e gli viene spontaneo abbassare lo sguardo. Sa che non lo sta incolpando, perché Ame è consapevole tanto quanto lui di non poterci fare nulla, ma... gli dispiace. E mentirebbe se dicesse di non sentire la sua mancanza. E' tutto più semplice quando è piena estate e a parte qualche acquazzone passeggero per evitare situazioni troppo gravi nel mondo mortale, né lui né Ame devono fare granché e possono quindi passare insieme tutto il tempo che vogliono. L'inverno e il tardo autunno, invece, sono i momenti peggiori. Gli occhi grigi si soffermano sulla mano di Ame che vede prendere la propria, e vengono poi alzati sul suo viso quando lo sente sbuffare divertito «Hai le mani gelide.» lo prende bonariamente in giro.


«Mi dispiace... con la neve e tutto il resto-» comincia, ma Ame ridacchia e lo interrompe «Non fa niente.» perché d'altronde la temperatura delle sue mani non lo hai mai fermato dal tenergliele, dall'intrecciare le loro dita o dal farsi toccare. Nemmeno una volta.


«Yuki.» lo chiama e lui non riesce mai a rivolgere la propria attenzione a niente e nessuno oltre lui «Mh?» «Posso restare stanotte?» lo sente chiedere ed è sleale da parte sua. Come se Yuki potesse dirgli di no. Come se volesse dirgli di no. Vede Ame muoversi, piegare leggermente il busto in avanti fino ad avere il viso vicino al suo: gli posa un bacio sulla guancia, struscia il naso contro la linea della sua mascella; la sua mano libera, quella che non tiene quella di Yuki, sfiora la treccia e ci giochicchia appena, distrattamente. Yuki inspira ed espira, lentamente. E' un'agitazione a cui non saprà mai abituarsi, non importa quante volte lui e Ame siano vicini a quel modo. Lo sente spostare le dita dalla sua treccia alla sua guancia, i polpastrelli gli sfiorano il viso e la sua bocca è vicinissima quando le punte dei loro nasi si toccano e gli occhi di Ame sono impossibili da non guardare. Uno sbuffo lieve si infrange contro il proprio viso e lui si muove impercettibilmente, strusciando appena la punta del naso contro quella del fratello.


«Resta.»


*

Si baciano a lungo. Non è la prima volta e non sarà l'ultima - è così che hanno cominciato: baci lenti, casti all'inizio per capire se potevano spingersi oltre, se entrambi volessero farlo. Poi lo sfiorarsi di labbra è diventato più audace, più prolungato, uno stuzzicarsi a vicenda a volte. Un titubante tentativo di toccare le labbra di Ame con la lingua, incerto, inesperto. E da Ame sono arrivati i primi morsi leggeri, giocosi. Provocatori, poi. I contatti semplici tra le loro bocche hanno avuto il tempo di diventare più profondi, più completi. Yuki non pensa abbiano imparato insieme, anche se Ame dice di sì; ha la sensazione che le sue non siano le prime labbra che suo fratello ha baciato, ma anche se all'inizio gli causava dei sentimenti negativi che non era capace di gestire, il modo in cui Ame lo adora ha fatto sì lui riuscisse a relegare quelle emozioni negative da qualche parte nella sua testa da cui ormai riemergono molto di rado.


Inaspettatamente, ha capito presto che Ame ama baciarlo più di quanto ami il resto di ciò che fanno. Non che non voglia toccarlo o spingersi dentro di lui, ma il tempo che dedica a baciarlo, tutte le volte che lo fa in ogni possibile occasione ha reso facile comprenderlo. E Yuki non aspettava altro per darsi una scusa e dirsi che lo fa per lui, riuscendo a mettere a tacere l'imbarazzo dato da un carattere timido grazie alla devozione che prova nei suoi confronti.


Le lenzuola sotto di lui sono morbide, carezzano un corpo ormai del tutto privato dei vestiti. Ame è sopra di lui, al momento chino a baciargli il collo, senza mordicchiare la pelle e non perché non voglia ma perché rispetta il pudore che porta Yuki a non volere dei segni evidenti lì dove possono essere visti e dove lasciano veramente poco spazio al dubbio sulla loro natura. In cambio, gli permette di marchiare il suo corpo ovunque Ame voglia: non si è opposto quando lo ha sentito succhiare la pelle nella parte interna del braccio o sul fianco o nell'interno coscia. Ame si allontana dal suo collo e cerca un contatto visivo con lui. Il modo in cui lo guarda gli annoda lo stomaco - vede in Ame l'adorazione e l'amore viscerale che gli dimostra, che Yuki a volte non è sicuro di meritare ma del quale non riesce a fare a meno nemmeno volendo.


L'altro si piega su di lui, lo bacia di nuovo sulle labbra e intanto Yuki sente la sua mano scendere in una lunga carezza contro il fianco, scivolando fino alla coscia, insinuandosi tra le sue gambe e guidando una di esse a spostarsi, allargarsi verso l'esterno. Gli lascia un bacio giocoso sulla punta del naso e poi si sposta, fino a quando Yuki non lo sente tra le sue gambe, le ciocche di capelli sfuggiti alla presa del nastro che li lega a solleticargli la pelle.


Fuori ha cominciato a piovere.


*


Ame lo guida perché Yuki sposti il proprio corpo fino a essere sopra di lui: le gambe a entrambi i lati del suo corpo, Ame si è assicurato che lui riuscisse a distribuire bene il peso sulle ginocchia affondate nel materasso, sebbene non abbia mai smesso di sorreggerlo almeno in parte. Un braccio infatti gli cinge i fianchi, possessivo, addossando i loro corpi al punto che Yuki sente la propria eccitazione strusciare contro il corpo altrui mandandogli scariche di piacere che lo fanno tremare appena. Con la mano libera, invece, Ame sta sfiorando la sua apertura con nessun intento se non quello di stuzzicarlo fino allo sfinimento. Non lo fa mai con cattiveria ma Yuki ha capito che la cosa lo eccita - ed eccita anche lui - perciò non se ne è mai lamentato.


«Ame...» mormora piano il suo bisogno. In risposta sente non solo l'altro morderlo piano lì dove si trova con la bocca, vicino al petto, ma percepisce lo scrosciare dell'acqua fuori a testimonianza di come la pioggia ormai sia molto più fitta di due semplici gocce casuali. Il vento non preannuncia una tempesta, ma Yuki è abbastanza sicuro che di neve domani mattina ce ne sarà ben poca.


Ame sposta entrambe le mani fino a che esse non sono sui suoi fianchi e fa una pressione leggera ma eloquente, invitandolo a scendere lentamente sul membro teso ed eretto. Yuki si piega piano, incerto. Una mano di Ame si sposta dal suo fianco chissà dove, ma in ogni caso è certo che sia per aiutarlo; avverte la punta del suo pene sfiorarlo e avverte, con vergogna e imbarazzo, che il proprio corpo lo desidera nel modo più puramente istintivo possibile. Così continua a calarsi su di lui, sente la punta entrare e si morde il labbro inferiore pur senza fermarsi. La mano sul proprio fianco si stringe, ma non gli fa male; un gemito gli scivola fuori dalle labbra mentre Ame gli entra dentro completamente, quasi tremando di eccitazione, combattendo di sicuro l'istinto di affondare con molta meno attenzione, meno premura. Quando lo sente completamente dentro di sé, Yuki inspira, trattiene il fiato qualche secondo, lo rilascia. Le braccia cingono il collo altrui e vi si stringe addosso, cerca di far aderire i loro corpi più possibile così da non pensare a quello che è ancora un fastidio dentro di lui.


Ame sembra leggere in quel gesto un bisogno specifico e torna ad appropriarsi delle sue labbra, mentre una mano raggiunge la sua erezione e comincia a sfiorarla, lasciandovi carezze lente e lascive, sfregando i punti che sa lo eccitano di più. Yuki non riesce a concentrarsi su nessuna cosa in particolare eppure gli stimoli che gli arrivano sembrano provenire da tutto il suo corpo allo stesso tempo. Ame gli morde piano il labbro inferiore, poi lo succhia e per tutta risposta Yuki si muove d'istinto, si spinge contro di lui, contro la sua mano. La sente andare su e giù per tutta la propria lunghezza, ma sente anche il membro di Ame dentro di sé, impaziente.


«Ame...» mormora piano, staccandosi di poco dalla sua bocca, socchiudendo gli occhi per trovare quelli verdi di suo fratello, carichi di un desiderio che non gli è estraneo ma che gli chiude lo stomaco in una morsa forte e improvvisa ogni volta. Yuki lo sa bene che ad Ame piace sentirlo chiamare il suo nome come una preghiera. Non gli ha mai negato nessuna attenzione, non ha mai espresso il piacere che prova quando lo sente remissivo e molle tra le sue braccia, non ha mai detto di volerlo impotente sotto di sé. Lo rispetta troppo e questo Yuki lo sa. Però diventa evidente in alcuni momenti come l'eccitazione dell'altro aumenti in base ad alcune cose che dice, che fa. E se Ame prova per lui un'adorazione così totalizzante da non fargli chiedere di più, Yuki è ben disposto a donarglielo senza bisogno che gli venga domandato - il silenzio è sempre stato una cosa naturale per lui, comprendere semplicemente osservando è sempre stato il suo modo personale di riuscire a comunicare anche quando la timidezza glielo rendeva molto difficile. Se non potesse farlo per Ame, se non riuscisse a capire i suoi desideri e dare in cambio anche solo un briciolo dell'amore e della devozione di suo fratello verso di lui, sentirebbe di non meritare nulla di quanto gli viene offerto.


«Ame, per favore...» mugola piano, spingendosi con il bacino verso di lui, causando non solo la frizione tra il proprio membro e la mano dell'altro ma anche un movimento che porta lo stesso Ame a spingersi un poco dentro di lui. Lo sente soffocare un verso nella gola ma il braccio intorno alla sua vita stringe di più. «Ame...» lo chiama ancora una volta e capisce, quando sente un tuono improvviso in lontananza, che suo fratello ha appena raggiunto il limite di sopportazione. Le sue dita abbandonano la sua eccitazione, un sacrificio con cui deve fare i conti per sentirlo stringerlo in modo molto più urgente e possessivo. La prima spinta non arriva inaspettata, ma questo non gli impedisce di sentire una scarica di piacere improvvisa mentre Ame scivola fuori e poi affonda di nuovo dentro di lui. La posizione in cui sono, poi, rende la presenza dell'altro impossibile da ignorare, totale e assoluta.


«Yuki» lo sente pronunciare contro il suo collo e lo sente mordere, forse un po' più forte di quanto avrebbe fatto razionalmente, ma glielo perdona perché lui stesso sta perdendo di lucidità in maniera definitiva ora che le spinte cominciano a farsi più frequenti, il ritmo più veloce. Non è ancora febbrile però, e sa anche perché: Ame sta cercando un punto preciso contro cui andare, sta cercando il modo migliore di offrirgli più piacere possibile e Yuki sa che non impiegherà troppo a trovarlo e spera che sia così perché non pensa di poter resistere ancora a lungo. E, soprattutto, vuole che Ame abbia il completo controllo del suo corpo, che lo modelli a suo piacimento. Vuole concederglielo al cento per cento, dimentico del fatto che non dovrebbero ancora essere così vicini perché l'inverno non è ancora finito, di quanto si influenzino facilmente perché incapaci di stare lontani ogni volta che si trovano nella stessa stanza, di non guardarsi e non toccarsi e non desiderarsi.


Scioglie appena l'abbraccio e porta una mano vicino alla sua nuca, insinuando le dita tra i capelli scuri ancora legati, risalendo in piccoli tocchi casuali fino a sentire la consistenza del nastro che li lega. Scosta il viso per guardarlo, per cercare di nuovo un contatto visivo che Ame non gli nega, una muta risposta positiva a una domanda altrettanto tacita; Yuki prende un'estremità del nastro e tira, lentamente, sciogliendone il nodo prima e l'intreccio poi, fino a districarlo completamente e a lasciare libera la chioma color cioccolato di scivolare sulle spalle del fratello. Lascia andare il nastro, consapevole che lo ritroveranno comunque tra le lenzuola dopo, e le dita si infilano tra i capelli in carezze lievi, lente. Senza alcun preavviso e con un movimento repentino, Ame tira appena i suoi - che non ha mai sciolto dalla treccia invece - quanto è sufficiente a richiamare la sua attenzione e a fargli sfuggire un gemito tra le labbra, oltre che ad appropriarsi della sua bocca in un bacio che non ha nulla da spartire con la cura, l'affetto e l'adorazione che ha per lui. E' un bacio passionale, famelico quasi; si porta dietro quella parte della sua indole capace di scatenare una tempesta in pochi secondi, di rendere inaffidabile una giornata di pioggia perché non si sa mai se è destinata a finire presto e senza troppi danni o a scatenarsi fino a ingrossare i fiumi e far cedere le dighe. Non gli dà quasi tempo di respirare, eppure Yuki lo vuole esattamente così. Stringe la presa sulle ciocche dei suoi capelli che gli sfuggono tra le dita, non tanto quanto fa il fratello ma abbastanza da dirgli di continuare, di stringere ancora di più se vuole ma senza bisogno di dover parlare e interrompere un bacio che dice molto più di quanto Yuki sarebbe mai in grado di articolare.


Quasi non si ricorda dell'intento nascosto dietro le spinte lente di Ame finché un'ondata di piacere non lo fa boccheggiare, un gemito forte che si riversa nella bocca dell'altro. L'erezione di Ame dentro di lui si fa più ingombrante, più tesa. E Ame stesso lo stringe quasi si aspettasse di vederlo scappare, quando Yuki vorrebbe solo ripetere come una cantilena ancora, fallo di nuovo, spingi di più.


«Ame» ansima sulla sua bocca, socchiudendo gli occhi che non si era accorto di aver richiuso e trovando uno sguardo che lo eccita «Mh?» sente provenire dall'altro, e non sa se è per provocarlo, perché davvero vuole sapere cos'abbia da dire o se Ame non si fidi ad articolare più di un monosillabo. Ma a che pro? Ormai sono mossi da un piacere a cui non possono rinunciare, nessuno dei due, e fuori i tuoni borbottano in lontananza e il rumore della pioggia è così forte a causa di tutta l'acqua che sta venendo giù da far sembrare di essere sotto una cascata anziché sotto un cielo che risponde allo stato d'animo di suo fratello.


«Lo sai.» mormora piano, ottenendo in risposta un «Voglio che me lo dici.» dal suono quasi crudele per chi è stato viziato a non dover chiedere o, almeno, a poterlo fare in mille modi diversi dall'uso delle parole - con un gesto, con uno sguardo, a volte persino con un regalo. Adesso però non può usare niente di tutto questo. Inspira, fa per nascondersi con il viso contro il suo collo ma vi lascia un bacio timido, quasi fuori posto quando si considera che suo fratello sta facendo sesso con lui. Che ha fatto sesso con lui un numero di volte incalcolabile quasi quanto le loro età precise. Bacia, accenna qualche tocco di lingua, sfiora con i denti ma senza mordere. Risale piano, sulla mascella, poi devia verso l'orecchio. Succhia il lobo e lo sente stringerlo di più, mugugnare qualcosa, muovere il bacino. «Spingi.» gli sussurra, se per provocarlo o per pudore (nemmeno ci fossero mille occhi e mille orecchie in quella stanza in cui si trovano) non lo sa nemmeno lui «Dentro di me.» continua «Più... più forte.» azzarda e vorrebbe osare e dirgli più veloce ma non ne ha il tempo, la voce gli muore in gola quando Ame effettivamente spinge dentro di lui come richiesto e tocca la sua prostata.


Da lì è impossibile capire più molto. Yuki sente solo un piacere immenso - ogni volta che Ame affonda dentro di lui o che il proprio membro sfrega contro il suo stomaco o mentre Ame lo bacia e sembra non aver bisogno di altro. Forse non ne ha. A un certo punto Yuki dimentica anche di abbassare la voce, dimentica il pudore. C'è solo Ame dentro di lui, Ame che gli sussurra all'orecchio parole che in qualsiasi altro momento lo farebbero arrossire così tanto da obbligarlo a nascondere il viso. Invece Yuki ora sente anche di muoversi con lui, di cercare sempre più contatto, quasi fosse fisicamente possibile avere più di quello. Non controlla i gemiti, esattamente come non controlla i suoi desideri.


Ame dà un'ultima spinta poderosa, profonda. E lui sente il calore dentro di sé e riesce finalmente a raggiungere un punto tale del piacere da sentire le orecchie ronzare e la mente annebbiarsi, incapace di focalizzarsi su una qualsiasi cosa oltre l'orgasmo. Ha la vaga percezione di Ame spingere ancora una, due, tre volte dentro di lui e poi rallentare il ritmo piano, fino a fermarsi. Resta dentro di lui, la stretta attorno al proprio corpo fa quasi male, i corpi sudati e sporchi di sperma all'altezza dei loro stomaci.


E' confuso il momento in cui Ame fa sì che entrambi si ritrovino stesi, ma è palpabile invece quando esce da lui e qualcosa esce da lui. Sente la mano dell'altro muoversi per scivolare sul suo fianco e pulirlo, in una lenta premura che Yuki non è mai riuscito a impedirgli - a volte chiedendoglielo, ma ritrovandosi a scontrarsi con la testardaggine di suo fratello, altre tradito dalla stanchezza e dal sonno. Stavolta sente che non sarà diverso, ma gli si stringe addosso cercando calore, più che premura. C'è tempo, per quella.


Lo sente posargli un bacio sulla fronte sudata e socchiude gli occhi, un sospiro beato.


«Ame...?» mormora piano, stanco. Sente le sue dita sfiorargli la schiena in una carezza lenta e che si ripete, facendolo sciogliere più di quanto non sia già «Resta con me.» chiede, in un modo diverso da prima - non è il bisogno di unirsi come hanno appena fatto, ma la necessità di averlo lì al risveglio.


«Sempre.» gli risponde lui. Mentre scivola nel sonno, distrattamente sente il rumore della pioggia farsi più lento e cullarlo.


*


Si risveglia con lo stesso rumore. Quando apre gli occhi con lentezza, il corpo molle, pulito e coperto dalle lenzuola con cura la prima cosa che vede è il volto di Ame rilassato e addormentato. I capelli scuri sono rimasti sciolti, sparpagliati sul cuscino; è girato verso di lui e lo stringe in un abbraccio morbido. Il respiro regolare riflette la cadenza delle gocce di pioggia fuori dalla finestra che Yuki non può guardare se non girandosi. Non lo fa, per non svegliarlo e per godersi la rara vista di suo fratello dormiente - quando stanno insieme a quel modo, quando si uniscono con il sesso, Ame non si fa quasi mai trovare addormentato. E' uno spettacolo raro e prezioso.


L'odore della pioggia (l'odore di Ame) gli solletica il naso, portando con sé l'umidità e quel vago sentore di terra ed erba bagnate. Di sicuro, fuori, domani non ci sarà più neve.


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Prompt: boschi
Missione: m3 (week1)
Parole: 1208
Warnings: //



Col senno di poi, Dynaim ammette che sì, forse avrebbe dovuto imparare i nomi di suoi compagni di corso. O, almeno, di quelli di questo gruppo di ricerca. A sua discolpa, quelli della sua razza non sono portati a socializzare al di fuori del proprio clan - a parte suo zio Dalyar. E sì, non importa se lui è solo un drago per un quarto mentre suo zio lo è per metà e dovrebbe, quindi, essere il più guardingo dei due. Dynaim è sicuro che con suo zio qualcosa nel DNA abbia fallito. D’altronde, si parla dello stesso zio sposato per scelta con un umano. Bleah.


In ogni caso, il problelma adesso è un altro e, benché Dynaim sia convinto che dovrebbe chiamarsi la mia stupida accademia magica ha pensato che fosse una buona idea visitare gli uni la casa degli altri quando invece è un’idea di merda, ammette che in verità si tratta di lui che non ricorda i nomi dei tre sfigati che ora si sta portando dietro e ai quali non sa come dare indicazioni per non perdersi in quel bosco che invece, per lui, non ha segreti. Certo, potrebbe semplicemente chiamarli “uno”, “due” e “tre” ma sospetta che poi dovrebbe inutilmente perdere tempo a discutere con almeno uno di loro. Che stanchezza.


Il bosco di Ander è il più esteso di tutta la regione neutrale nonché la sede del saggio di Syelle. Un po’ come essere nel giardino del re, in pratica, solo che il saggio non fa troppi problemi sulla proprietà privata e l’inaccessibilità del luogo. Si estende per ettari ed ettari, una boscaglia piena di alberi per un’abbondante metà e di intricati sentieri in cui è facile smarrire la via senza i giusti punti di riferimento, tanto che i visitatori di altre regioni sono sempre accompagnati da una guida. Per tutta la parte a nord-est è quasi impossibile muoversi su un terreno che non sia scosceso, alla completa mercé della natura; verso sudo-ovest invece il bosco si fa un po’ meno fitto, in concomitanza anche del villaggio in cui Dynaim è nato e cresciuto - o solo cresciuto. Non ha mai capito questa storia di Ivirenth come patria dei draghi, a dirla tutta.


«Credete che… potremmo provare a muoverci?» domanda numero uno, che almeno è l’unica ragazza e quindi può chiamarla Femmina nella sua testa, finché una qualche illuminazione non gli suggerirà qualcosa di meglio. «No.» risponde secco, lo sguardo fisso su un punto chiamato raro mostro boschivo notturno che non capita mai in questa parte di bosco tranne quando gli déi mi odiano particolarmente”. Notturno, poi. Crepuscolare. In ogni caso, fuori posto di almeno trenta chilometri.


«Beh, Gazewintergilde» quale fantasia animi numero due per chiamarlo per cognome non lo sa. Masochismo, suppone. «Sei tu l’esperto della zona cresciuto nel bosco. Tiracene fuori.» commenta sarcastico «Se sapessi leggere i libri sapresti che dal bosco potresti uscire volando o percorrendo a occhio e croce due miglia. Auguri.» ribatte seccato, sprecando fin troppe parole per i suoi gusti. Numero tre tace e, a essere onesto, Dynaim quasi lo apprezza per questo. Intanto, dalla sua posizione, l’esemplare di Rukk se ne sta rilassato e ignaro di quattro ospiti non troppo distanti. Ora, Dynaim non vorrebbe aversi a che fare se possibile, ricordandosi bene le raccomandazioni di Hisei e le annotazioni sul suo bestiario personale: “Pacifico ma territoriale. No apparizioni a sorpresa. Nessuno vuole quasi un quintale di bestia agitata e spaventata a pochi metri di distanza”. Dynaim di sicuro non vuole.


«Esattamente… perché c’è questa cosa così vicina al villaggio? O in generale dove passano le persone?» domanda Femmina, la preoccupazione nella voce nonostante sia ostentando quanta più calma possibile. al suo contrario, Dynaim è abbastanza certo che numero tre stia per vomitare. 


«Non» comincia in un sussurro «agitarti. Se lo sente non potrai correre abbastanza velocemente, fidati.» gli fa presente con un’occhiata prima di tornare su Femmina per qualche secondo «E’ la magia del bosco. Magia antica con cui l’anziano stipula un contratto.» si limita a dire. Lei se lo fa bastare. Quel manzo impedito di numero due invece no. «Ascolta» lo sente cominciare e, davvero, sarebbe poi un crimine tanto imperdonabile abbandonarlo lì? Con una casuale spinta verso le fauci del Rukk, per esempio? Potrebbe farlo sembrare un incidente, con un po’ di impegno, Dynaim ne è sicuro… e poi chi mai potrebbe testimoniare in un bosco semi deserto? «già non capisco per quale motivo siamo dovuti venire in mezzo a un bosco per visitare dove sei cresciuto per questo stupido progetto.» parte con l’invettiva ma è Dynaim stesso a fermarlo.

«Ti ho mai detto che se lo offendi il bosco ti maledice?»

Il gelo attraversa il gruppo. Numero tre è probabile sia a un passo dallo svenimento ma Dynaim resta lì, a guardare numero due mortalmente serio. Quello sembra spiazzato, indeciso se credergli o no, confuso di certo nel vederlo così convinto e nel saperlo originario di lì – dunque, in linea teorica, di certo con più informazioni potenzialmente vere sul luogo.

«Lo dici per sfottermi.»

«Ho interessi e passatempi molto più costruttivi.» commenta Dynaim, mantenendo lo sguardo (di entrambi gli occhi, quindi anche di quello maledetto) su di lui. Non deve fare un bell’effetto e ne è consapevole. Il vento gli dà una mano con effetti speciali facendo muovere le fronde degli alberi in un modo assolutamente normale che la suggestione rende sinistro. Il Rukk, non troppo distante, si aggiusta un poco nella sua posizione attirando gli sguardi più o meno diretti degli altri tre. Numero due sembra convinto abbastanza da decidere di non farsi scappare altre offese riguardo il posto in cui si trovano, almeno finché non ne saranno fuori.

«Magia antica.» gli ricorda Dynaim con una scrollata di spalle «Nemmeno io saprei come salvarti.» conclude, non senza una certa soddisfazione a dirla tutta. Femmina intanto attira la sua attenzione con un tocco leggero sulla sua spalla – preferirebbe di no, ma per stavolta glielo concede. La guarda, in un tacito incalzarla.

«Credo si sia… addormentato?» pronuncia, facendo un cenno del capo verso il Rukk. Quello in effetti sembra riposarsi, il respiro regolare e i movimenti ormai minimi e relativi solo all’abbassarsi e alzarsi del dorso al ritmo del respiro. Dynaim annuisce e fa segno a tutti e tre di muoversi lentamente e seguendo i suoi passi.

Quasi un’ora dopo sono al villaggio – allontanatisi abbastanza hanno potuto usare la magia per volare e arrivare più velocemente, riuscendo a evitare di finire col tornare a notte fonda. Il bosco è meno fitto lì dove c’è l’agglomerato di case ed edifici in cui Dynaim è cresciuto e sua madre è stata fin troppo felice di cucinare per suo figlio e i compagni di quest’ultimo. Accennano al Rukk, all’aspetto sinistro del bosco a tratti e qualcuno accenna anche alle maledizioni. Lei lo guarda a metà tra il sospetto e il giudizio di un genitore che ha già capito fin troppo.

«Dynaim Gazewintergilde» lo richiama, il tono severo di chi sta per rimproverarti qualcosa «non avrete offeso il bosco di Ander dove il bosco poteva sentirvi, voglio sperare.»

Dynaim non è amante delle smancerie, ma vorrebbe tanto baciare sua madre per avergli appena retto il gioco quando non esiste luogo più innocuo al mondo del bosco in cui si trovano.

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Prompt: threesome
Missione: m2
Parole: 2738
Warnings: nsfw, blindfold, orgasm denial


Scegliere quel piccolo appartamento si è rivelata la decisione più oculata che Jun abbia preso negli ultimi mesi, a prescindere dal fatto di passarci raramente del tempo in condizioni normali e quando i suoi due adorabili fidanzati sono quasi dall’altra parte del mondo. Un tetto sopra la testa non gli manca, visto che Tatsuya gli ha offerto vitto e alloggio nel momento stesso in cui ha scelto di restare vicino a suo fratello e di far parte della sua organizzazione, ma non gli è mai sembrato il caso di portarli lì con la stessa nonchalance con cui si portano i propri partner in una casa dove si ha piena libertà in tutti gli spazi perché non condivisi con altri. E per quanto i Sievert possano essere ospitali con lui e imparentati con i suoi fidanzati, Jun è abbastanza sicuro di non voler assolutamente rischiare di ritrovarsi il giovane Glen ad aprire la porta della sua stanza a sorpresa e in momenti poco opportuni.

L’appartamento è di dimensioni minime, quanto sufficiente alla vita comoda di una persona o quella essenziale di due. A essere sincero quando è andato alla ricerca dell’abitazione prima e del mobilio poi, Jun si è rivelato di poche pretese – gli sta bene una cucina piccola con niente più di ciò che serve a potersi cucinare qualcosa, e non gli crea problemi avere una doccia anziché una vasca da bagno sebbene da buon giapponese gli risulti davvero strano a volte rinunciare a un lungo bagno rilassante. L’unica cosa di cui ha avuto davvero avuto bisogno è stata che la camera da letto potesse ospitare un materasso di dimensioni più che generose.

La porta non si chiude con facilità, ma a questo punto non è nemmeno troppo necessario che sia chiusa quando hanno a disposizione l’intimità dell’intero appartamento.

«Jun…»

Il mugugno frustrato di Rafail non è una sorpresa. Jun può percepirlo tremare contro le proprie labbra, contro la propria lingua. Lo sta stuzzicando già da un po' in effetti e Rafail non è mai stato una persona particolarmente paziente, specie in certi frangenti, ed è proprio perché ne è consapevole che Jun a volte – solo a volte – ne approfitta e gli rende tutto difficile di proposito. L’erezione di Rafail è impossibile da ignorare completamente però, per questo decide di non esagerare e gli concede un tocco di lingua dopo l’altro, senza ancora prenderlo nella propria bocca. Il bacino di Rafail si  muove, impaziente, per sopperire alla cosa ma una mano che Jun ha mantenuto sul suo fianco finora stringe appena lì, quasi come un monito. Lo sente mugugnare di nuovo e quasi si sente in colpa.

Alla propria sinistra percepisce il suono delle lenzuola spostate e poco dopo Mihai rientra nel suo campo visivo.         Questione di secondi prima che senta una sua mano su di sé, dita a sfiorargli la schiena scivolando verso il basso. Non arrivano mai al sedere, fanno su e giù in una carezza senza fretta – poi risalgono, toccano la spalla, scivolano lungo il braccio fino al polso. Un tocco leggero che sembra quasi esplorare qualcosa di sconosciuto, ma di misterioso nel corpo di Jun per i gemelli non c’è nulla. Poco dopo, la bocca di Mihai è contro il suo orecchio per andare a mordere piano il lobo, più per attirarne l’attenzione che non per altro. Lo distrae abbastanza da fargli portare lo sguardo su Mihai e incontrare un sorrisetto divertito a cui arriva solo risalendo con un’occhiata il suo corpo nudo. E’ eccitato, ma non se ne stupisce. Al contrario muove una mano per andare a toccarne il membro, lasciare qualche prima carezza morbida. L’espressione soddisfatta di Mihai dice tutto ciò che ha bisogno di sapere per il momento.

Dedicarsi a entrambi i gemelli contemporaneamente non è una cosa che fa sempre. A volte dà attenzioni a uno dei due e in poco tempo si ritrova l’altro a occuparsi di lui; oppure, in molte più occasioni di quanto tenda a ricordare lui stesso, i gemelli si prendono il tempo di stimolarlo insieme fino a farlo venire. Non è impossibile, però, fare quello che sta facendo ora: concedere finalmente un contatto più profondo a Rafail, prendendo la sua erezione nella propria bocca e succhiando, e al tempo stesso masturbare Mihai con la propria mano.

«Cazzo.» sibila Rafail e Jun li sente iniziare quasi insieme a muovere il bacino, Rafail verso la sua bocca e Mihai per andare incontro alle attenzioni della sua mano. Alterna un ritmo più veloce a uno più lento, una scelta che in parte sembra eccitarli maggiormente ma alla lunga finisce con il renderli impazienti. Se da una parte Mihai lo tiene sotto controllo, però, Rafail stringe un poco la presa sui suoi capelli; Jun lo sente, sa che è un miracolo l’altro si stia trattenendo dal spingere dentro la sua bocca ancora di più.

Sono entrambi vicini al climax probabilmente e per questo Jun si ferma: la mano, le cui carezze rallentano fino a fermarsi e la bocca, che si allontana con lentezza concedendo niente più di un ultimo tocco di lingua sulla punta che fa tremare i fianchi di Rafail.

«I swear to God—» sente Rafail cominciare, l’accento americano gli sfugge tra le labbra ma la frase non viene finita. Quando Jun alza lo sguardo si accorge che Mihai ha poggiato la bocca su quella del fratello, un bacio che non ha niente né di casto né di fraterno. Rafail ha giusto un paio di secondi di ribellione prima di rispondervi attivamente e, anzi, cercando quasi di imporsi. Jun li guarda entrambi come ha fatto altre volte, lasciando che si rivolgano quelle attenzioni e sentendosi per nulla indifferente alla cosa. Torna dritto, rispetto alla posizione in cui era poco prima e si muove, ginocchia che affondano sul materasso fino a quando non si trova verso il fondo del letto.

I gemelli sono entrambi sul letto, semi stesi ora: Rafail sulla schiena, le gambe ancora in parte aperte per aver fatto spazio allo stesso Jun poco prima, Mihai accanto a lui e su un fianco, il viso all’altezza di quello del fratello e impegnato a baciarlo ancora. Jun si muove, fino a portare di nuovo il viso fra le sue gambe. Al contrario di prima però devia verso l’interno coscia dove posa un bacio, un altro, poi un morso lieve. Sente Rafail muoversi d’istinto, in risposta, e gli viene naturale sorridere contro la sua pelle prima e tornare a stuzzicare quello stesso punto poi, carezzandolo con la lingua, mordicchiando, succhiando piano fino ad arrossarlo e lasciare un segno inequivocabile. E lo fa gettando un’occhiata di tanto in tanto verso entrambi - mentirebbe se dicesse di non essere eccitato a propria volta dal vederli coinvolti in quel bacio e, di certo, la frizione che c’è a più riprese tra le lenzuola e il suo basso ventre non aiuta a mantenersi paziente.

Nonostante questo muove il viso, abbandona quell’interno coscia e risale, piano; non sfiora nemmeno il membro ancora eccitato e insoddisfatto ma punta all’inguine per cominciare a risalire con i baci: poco sotto l’ombelico, all’altezza dello stomaco, sul petto, così vicino a uno dei capezzoli da sfiorarlo con le labbra, la clavicola, il collo. Su quello si sofferma però, succhia fino a lasciare la pelle arrossata anche lì. Sente Rafail sibilare qualche altra parola che non coglie appieno ma che lo porta ad alzare il viso - abbandonando il collo altrui - per cercarlo con lo sguardo. Solo allora si rende conto che i gemelli non si stanno più baciando, che Rafail lo guarda con gli occhi dorati che sembrano quasi liquidi, offuscati come sono dal desiderio. Mihai però attira la sua attenzione, una mano si posiziona sotto il suo mento per guidare Jun a rivolgere la sua attenzione su di lui. Ha un sorriso indecifrabile sulle labbra.

«Jun» pronuncia, il tono basso con cui non si preoccupa, però, di celare il desiderio in nessun modo «cosa vuoi fare?» lo sente domandare e capisce che gli sta lasciando una scelta precisa. Lui alterna lo sguardo tra loro, si sofferma per una manciata di secondi su Rafail ma quando torna a guardare Mihai lui sembra aver interpretato i desideri del fratello prima ancora che questi li rendesse palesi anche per Jun. La mano che Mihai aveva avvicinato al suo volto lo abbandona, ma solo per prendergli il polso e guidarlo vicino alla propria bocca quanto serve a schiudere le labbra e iniziare a succhiargli l’indice. Lo fa guardandolo dritto negli occhi e, trovandosi ancora in mezzo alle gambe di Rafail, sente quest’ultimo muoversi d’istinto, quasi rispondendo a quello che vede con tutto il proprio corpo.

La lingua di Mihai si muove lungo il suo dito, poi tra l’indice e il medio quando decide di alternare le carezze umide al succhiare vero e proprio. Jun non ha bisogno di chiedere per sapere che Mihai lo sta facendo perché lui possa, con quelle stesse dita, preparare Rafail.

*

Sente Rafail lasciarsi scappare un verso direttamente nella sua bocca, a metà tra il frustrato e l’eccitato. Jun lo accoglie mentre lo bacia, scostandosi solo quando si decide a provocarlo ancora prendendo tra i denti il suo labbro inferiore. Le sue dita hanno abbandonato la preparazione dell’altro lasciandolo insoddisfatto per la seconda volta di fila stasera e non ha dubbi, Jun, sul fatto di essere pericolosamente vicino al limite di sopportazione dell’altro. A sua discolpa, Mihai non gli ha reso semplice concentrarsi da quando ha cominciato a prepararlo a sua volta, affondando le dita dentro di lui e reclamando a più riprese un suo bacio. Quasi come a volersi regolare in base a quanto fatto al fratello, anche Mihai ha smesso di prepararlo - non senza causargli una fastidiosa sensazione di mancanza nel tirare fuori le dita - nello stesso momento e ha lasciato libero Jun di rispondere ai bisogni del fratello quando Rafail ha allungato le braccia e cinto alla meno peggio il collo di Jun per reclamare attenzioni. 

Almeno fin quando Mihai non ha proposto di bendare Jun. E lui non si è opposto, non disprezzando affatto l’idea di una privazione sensoriale di qualche tipo e soprattutto non temendo nulla nella sfera intima con i gemelli, consapevole dell’attenzione al consenso di cui hanno parlato fin dalla prima volta in cui hanno provato a spingersi oltre il sesso semplice e hanno deciso di dare ogni tanto una possibilità a qualcosa di un poco più spinto. Così si scosta da Rafail e dalle sue labbra, per il tempo sufficiente a permettere a Mihai di poggiare la benda sui suoi occhi e di legarla dietro la sua testa. Privato della vista, ogni singolo tocco arriva a sorpresa, inaspettato. Le mani di Mihai scivolano lungo il suo corpo, si soffermano sui fianchi e lo guidano con pazienza fin quando Jun non sente la propria eccitazione sfiorare l’entrata di Rafail.

Un gemito gli sfugge tra le labbra, aspettativa malcelata mentre le braccia di Rafail stringono maggiormente e lo attirano ancora di più a sé. Jun gli si spinge dentro senza fretta, assaporando ogni centimetro di pelle che entra dentro l’altro, di sentirlo stretto intorno al proprio membro e di sentire i versi che abbandonano la bocca di Rafail. Il bacio aggressivo, quasi rabbioso non tarda ad arrivare, reso impaziente da entrambi gli orgasmi che gli ha negato e che rendono il più giovane pericolosamente vicino all’apice già così. Le mani di Mihai, non a sorpresa in effetti, fanno una maggiore pressione sui fianchi di Jun in un tacito monito a restare fermo, a non spingere ancora.

Lo sente piegarsi un poco, posare un bacio dopo l’altro sulla sua schiena che quasi lo distraggono dalla punta del membro altrui che comincia a penetrarlo. Non si priva, Jun, di rendere vocale il piacere che sente nell’avere Mihai dentro di lui, specie quando l’altro comincia a mordere piano la pelle vicino al collo. Non c’è forza nella stretta dei denti, ma uno stuzzicare divertito, provocatorio. Poi la prima spinta arriva e allo stesso tempo la mano di Rafail affonda le dita tra i suoi capelli, all’altezza della nuca, attirandolo verso di sé per appropriarsi delle sue labbra.

«Muoviti.» gli sibila sulle labbra dando un morso decisamente meno gentile di quello di Mihai, un accenno nemmeno troppo vago di dolore che però gli manda al tempo stesso una scarica di piacere lungo la schiena.

Mihai spinge dentro di lui e Jun, lentamente, comincia a spingere dentro Rafail. Mihai è sempre stato meno vocale del fratello e anche in questa occasione non è da meno – Rafail non si priva di rendere chiaro se e quando prova piacere, cosa gli piaccia, se trovi eccitante quello che gli viene fatto o quello che vede. Come ora, ammaliato da un Jun bendato sopra di lui e dentro di lui. Glielo dice nei brevi istanti in cui interrompe il bacio, in cui non cerca la sua lingua con la propria. Jun sente anche il suo membro strusciare contro il proprio corpo e non ha molti dubbi sul fatto che Rafail non resisterà ancora a lungo prima di venire.

Una mano – Rafail? Mihai? Non lo sa più – gli scosta le ciocche più lunghe dal collo e lì la bocca di Mihai si poggia in un bacio prima e in un morso poi, prima che il mento si affacci sopra la spalla di Jun e le labbra gli sfiorino l’orecchio cominciando a sussurrare complimenti. Il ritmo di Mihai dentro di lui è lento, ma si spinge più a fondo che può e sibila contro di lui solo quando Jun gli si stringe intorno, eccitato dalla spinta che ha appena toccato la sua prostata. Rafail intanto si è allontanato dalla sua bocca, ha deviato sul collo e ha appena morso così forte da strappargli un gemito di dolore – eppure subito dopo la sua lingua ha preso a lasciare carezze lente e umide sulla parte di pelle offesa.

Jun decide di averlo lasciato insoddisfatto abbastanza, complice sentirsi davvero poco lontano dal raggiungere l’orgasmo a propria volta. Comincia a spingere più forte, più velocemente, certo che Mihai finirà con l’aggiustare il suo ritmo al proprio e avendone conferma di lì a poco. Si rivela essere questione di davvero poche spinte ancora, infatti. Rafail si svuota per primo contro il suo stomaco, caldo, sudato e con la bocca che cerca con impazienza quella di Jun. Non lo vede ma conosce bene il modo in cui i lineamenti dell’altro cambiano quando il piacere è tanto da annebbiargli la mente e quell’immagine, benché non possa vederla, lo eccita quanto è sufficiente ad abbandonarsi alle ultime spinte di Mihai dentro di sé. Viene quasi in contemporanea con Mihai, affondando un’ultima volta dentro Rafail stimolando quest’ultimo nonostante sia appena venuto anche lui. Mihai stringe la presa della propria mano contro il suo fianco, affonda le dita con forza, un «Jun» roco e carico di desiderio pronunciato contro il suo collo.

Ci vuole qualche momento a tutti e tre per decidere di muoversi. Mihai esce da lui per primo e poi lo sostiene nel fare lo stesso per lasciare Rafail eccitato e finalmente soddisfatto lì, steso sul materasso. E’ sempre Mihai a liberarlo dalla benda, restituendo a Jun la vista così da potersi godere la figura di Rafail abbandonato al piacere che ancora percorre il suo corpo, il respiro veloce che fa abbassare e alzare il suo petto. Però è proprio Mihai a reclamare un bacio lungo, profondo e lento, quello che non ha avuto perché lo ha concesso a suo fratello per tutto il tempo fin quando non hanno raggiunto l’amplesso.

Jun glielo concede con piacere, lascia scivolare le dita tra i capelli biondi appena umidi, assapora gli strascichi di un’eccitazione che sta scivolando via. «Jun» lo chiama ancora, un sussurro di cui non c’è davvero bisogno se non per rimarcare un possesso o una necessità – o entrambe. Jun gli lascia tutto il tempo di cui ha bisogno, gli rivolge ogni attenzione. Lo sente spingere il bacino contro il suo, forse più d’istinto che per cercare altra frizione e Jun muove una mano, sfiora con la punta delle dita la sua schiena dall’alto al basso, scendendo fino a toccare con i polpastrelli l’inizio della curva del sedere. Non infila le dita da nessuna parte, si limita a fargliele sentire fin troppo vicine alla sua apertura.

Mihai tace, ma si spinge di nuovo contro di lui, la richiesta inequivocabile.

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Fandom: originali
Prompt: Immagine 1 (m2)
Parole: 2570
Rating: pg13
Warnings: stupidità a palate. Humor, nonsense. Jerrica be strong.



Jerrica sapeva che il suo era un lavoro duro, ma sapeva anche di essere vitale per tante persone nel suo luogo di origine. Certo, a volte era un mestiere ingrato, consegnare la felicità: quando non ci si riusciva, infatti, le persone tendevano ad abbandonarsi alla disperazione e alla rabbia e alla delusione, quindi se la prendevano con Jerrica e i suoi colleghi. Per fortuna il fatto di non parlare faccia a faceva sì che si riuscissero a evitare spiacevoli incidenti, ma gli insulti, le ingiurie erano spesso all’ordine del giorno. Rimanere felici, e soprattutto con il desiderio di continuare a far sì che la felicità raggiungesse tutti in egual misura, non era semplice ma Jerrica teneva duro.

C’erano giorni più semplici e giorni più duri, ma la cosa davvero importante era non arrendersi.

Il telefono squillò e Jerrica lo guardò per un momento; quando arrivava una chiamata dietro l’altra era ancora più difficile, ma lei mise in moto la sua piccola routine: prima di tutto, si sedette ben dritta sulla sedia. Poi, subito dopo, si assicurò di avere la sua tisana calda e appena recuperata dalla cucina - perché, in periodo di quarantena, si era costretti a lavorare da casa quando si poteva - e infine, poco prima di spingere il pulsante che le avrebbe fatto prendere la chiamata, allungò una mano per accarezzare il morbido pancino del furetto di peluche che teneva vicino allo schermo del computer.

Quasi rischiò di perdersi nella meravigliosa sensazione di soffice sotto la sua mano, ma grazie alla tanta esperienza maturata, riuscì a non perdere la chiamata.

«Salve sono Jerrica della linea di supporto “Felicità è a un passo da te”, in cosa posso esserle utile?»
Dall’altra parte il silenzio l’accolse per un attimo; non era raro che qualche chiamata cadesse nonostante lei o i suoi colleghi riuscissero a connettersi, ma le sembrava di sentire un respiro dall’altra parte. Di lì a poco, infatti, una voce spezzata gli parlò.

«Signorina...»

Sembrava così disperato! Era la voce di un maschio, senza dubbio, forse nemmeno molto grande. Così a naso non avrebbe azzardato a dargli più di ventitré, ventiquattro anni.

«Sì, mi dica…?» cercò di suonare ancora più cortese, sorridendo per abitudine anche se era ben conscia di come l’altro non potesse vederla. Un sospiro sconsolato la raggiunse prima della risposta.

«Chiamo perché… avevo fatto un ordine.» comincia lentamente a spiegare e Jerrica, con pazienza, lascia che prenda il suo tempo «Si trattava dell’ultima cosa che mi mancava per realizzare qualcosa di… di molto importante. Signorina, lei ha mai desiderato di essere diversa da come è?»

La domanda la colse alla sprovvista, sia perché molto di rado le rivolgevano domande personali, sia perché non sapeva bene cosa rispondere o se rispondere. Non si sentiva a suo agio a parlare di sé con gli sconosciuti, specie senza poterli guardare negli occhi, ma alla fine decise che avrebbe potuto inventare qualsiasi cosa e il cliente non l’avrebbe mai saputo. Poteva sembrare sleale ma, in fondo, quando chiedevano queste cose era per cercare di avvicinarsi in qualche modo, di instaurare un contatto empatico; non gli interessava davvero sapere gli affari suoi.

«Non lo abbiamo forse sognato tutti?» disse quindi, anni di fanfiction piene di cliché a venire in suo soccorso. Non di rado l’avevano salvata, anche in passato. Era sempre così, con quelli che non bazzicavano l’ambiente fandomico: usavi una qualsiasi cosa che chiunque del giro avrebbe smascherato in un secondo, e loro non sospettavano niente.

Comunque, come volevasi dimostrare, all’altro bastò sapere che in teoria lei poteva capirlo.

«Bene.» sembrò prendere il coraggio necessario a proseguire con la sua confessione inconfessabile «Avevo ordinato questa cosa… ed è arrivata oggi. Non sa la gioia, era l’ultimo giorno utile, se fosse arrivata domani avrei dovuto aspettare almeno un altro mese.» disse sofferente alla sola idea. Jerrica rimase ad ascoltare.
«Ho aperto il pacco felice, come non sono mai stato, e quando ho visto il contenuto… orrore
«Non era quello che ha ordinato?»
«Era diverso.» rispose, senza riuscire a celare la delusione nella voce, quanto si sentisse tradito. Capitava di rado, ma Jerrica riusciva anche a mettersi nei panni altrui a volte: chi avrebbe mai voluto ordinare la felicità e non vederla arrivare come l’aveva scelta, modellata, immaginata?

«Però» sentì riprendere il ragazzo, a fatica, forse per nulla aiutato da quello che sembrava il principio di un nodo in gola «l’ho aperto. E l’ho provato, sa, perché mi sono detto: puoi lasciar andare tutto così? Senza tentare? Lo avrei rimpianto per tutta la vita.»

Jerrica aggrottò la fronte. Se davvero lo aveva provato e nonostante questo non andava bene… era impossibile prenderlo indietro. Non potevano consegnare poi in futuro, a un’altra persona, la felicità usata di un altro a prescindere dalla forma che questa avesse al momento e da quanto fosse simile a quella che un giorno questa fantomatica altra persona avrebbe potuto chiedere.

«E alla fine… andava bene?» tentò, pur sapendo bene la risposta ancora prima di udirla.

«No!» l’altro replicò con più enfasi. Jerrica comprese che era vicino al crollo e, dunque, comprese di dover fare la domanda scomoda preparandosi a tutto ciò che ne sarebbe conseguito.

«Signore, devo chiederglielo a questo punto.» fu la premessa, cortese ma decisa «Cosa ha ordinato, aperto e provato?»

Un breve silenzio preannunciò la tragedia. Lo sentì scoppiare in lacrime subito dopo aver ululato - mentalmente una scelta lessicale molto discutibile - un «LENTI PER LICANTROPI.»

Jerrica dovette fermarsi. La sua mano si avvicinò al furetto, ma senza ancora toccarlo. Forse poteva farcela anche da sola.

«Mi perdoni» si schiarì un poco la voce «cosa intende precisamente per lenti da licantropo?»
«Lenti a contatto per vestirmi da licantropo!» ribadì lui, ormai un pianto disperato dall’altra parte della cornetta digitale che erano in realtà le cuffie di Jerrica «Avevo preso queste lenti, erano perfette, il design che volevo. Desidero essere un licantropo da tutta la vita, capisce, tutta la vita!» lo sentì tirare su con il naso, un rumore un po’ disgustoso, ma non era il caso di farglielo notare e soprattutto, se anche avesse potuto farlo, non adesso. 

«Il venditore era affidabile, così le ho ordinate. Ho fatto dei calcoli matematici, sa? Contato i chilometri tra me e il venditore dopo averlo cercato in internet, simulato che il pacco si potesse muovere con un furgone e dunque quanto avrebbe potuto macinare mantenendo una velocità costante, togliendo il tempo perso ai caselli, e le fermate obbligatorie. Mi ero tenuto un buon margine, ben cinque pause autogrill in una giornata mi sembrano anche troppe e poi i pasti e magari qualche ora di sonno ipotizzando che non avesse un co-pilota come nei film! Capisce, signorina Jerrica, cosa le sto dicendo? IO IN MATEMATICA E FISICA HO AVUTO IL DEBITO PER CINQUE ANNI EPPURE HO FATTO TUTTO QUESTO DA SOLO.» e via, lacrime su lacrime, la disperazione sempre più grande. Quella era il tipo di chiamata che un novellino non avrebbe non solo mai saputo o potuto gestire, ma che lo avrebbe annientato. 

Prendere coscienza di non essere infallibili era una cosa, ma capire di poter distruggere una persona senza essere in grado di fare niente per rimediare… quello ti spezzava. A volte per sempre.

«Ed era andato tutto bene, tutto bene… poi le ho aperte. Ho guardato la bottiglietta, ed erano secche, ma lei mi capisce vero? Cosa avrebbe fatto lei se avesse dovuto scegliere tra rinunciare al sogno senza nemmeno tentare o soffrire, sacrificarsi un po’ per farcela?»

Jerrica avrebbe voluto dirgli che mai nella vita avrebbe messo nei propri occhi, peraltro molto sensibili, delle lenti palesemente troppo secche. Ma evitò, perché avrebbe potuto fare qualche gesto sconsiderato al telefono con lei e non era così che voleva finire il suo turno di lavoro - e la sua carriera, se i capi avessero scoperto che aveva spinto (volontariamente o meno) una persona a un gesto sconsiderato.

Johnny, il suo collega, aveva fatto una battuta con un cliente che sembrava in ripresa e quello aveva mangiato dieci chili di yogurt fino a finire dal medico per problemi intestinali. Una brutta storia, e Johnny? Sparito, dall’oggi al domani.

C’era chi diceva che adesso spalava letame in campagna dai suoi.

«Però, vede-»
«E alla fine le ho messe, quindi, ma mi si sono subito arrossati gli occhi e ho dovuto toglierle.» proseguì tra i singhiozzi «Io non lo so, signorina Jerrica. Ormai un altro paio non arriverà mai in tempo» quasi poteva sentire le sue lacrime infrangersi contro l’impietosa superficie del tavolo «ma devo almeno liberarmi di queste restituendole. Quel venditore ha infranto il mio sogno, capisce? La prossima Luna Piena è così lontana...»

Jerrica tacque. La situazione era grave e, dopo molti anni dal suo apprendistato, non era sicura di saperla gestire al meglio o di avere tutte le risorse per farlo. La decisione, la scelta delle parole era già di norma un processo molto delicato ma a questo punto lo era ancora più di prima. 

«Ascolti» disse mentre con la mano arrivava, infine, a toccare la pancia morbida del furetto di peluche. Ne avrebbe avuto molto bisogno. «purtroppo, vede… io capisco la sua perdita» cominciò con cautela «tuttavia, il suo acquisto… è un tipo di prodotto che, una volta aperto e utilizzato, non si può riconsegnare. Capisce… nessuno potrebbe mai ordinarlo o metterlo.» proseguì, attenta a pesare ogni singola sillaba che stava uscendo dalla propria bocca. Inspirò, sentendo il silenzio dall’altra parte.

Poi, all’improvviso, il pianto disperato che si era chetato da poco esplose di nuovo in tutta la sua forza.

«NON PUO’ ESSERE» esclamò il giovane dall’altra parte, riuscendo miracolosamente a essere ancora comprensibile tra il pianto e i singhiozzi e il respiro affannato «Lei deve aiutarmi, signorina Jerrica! Io-- io devo riconsegnarlo! Capisce cosa significherebbe per me tenerlo in casa? Ogni giorno, fino alla prossima Luna Piena, lo vedrei qui e penserei a questo momento, alla delusione, alle sconforto… non penso di farcela, signorina Jerrica. Siamo in quarantena, non posso uscire, non posso far venire nessuno a sostenermi… non sono così forte. Già questa chiamata-»

«Un momento, un momento» lo interruppe cercando di mantenere un tono confortante «non sia precipitoso. Pensi, invece, a quale fortuna ha avuto seppure nella tragedia.»

Lo sentì calmarsi, almeno un poco, pian piano; sembrava confuso, lo sarebbe stata anche lei, specie perché a questo punto l’unica cosa che le era rimasta da fare era sfruttare ciò che l’esperienza le aveva insegnato in tanti anni, una tecnica che però - come ci si poteva aspettare, essendo l’ultima spiaggia in situazioni come quella - era complessa e necessitava di tanta pratica alle spalle. Bisognava farla con convinzione, però. Gli inglesi dicevano go big or go home, e Jerrica lo capiva.

Non potevi cominciare a usare la tattica della supercazzola e non portarla a compimento contro tutto e contro tutti.

«Cosa… cosa intende dire?» gli sentì chiedere e sospirò. Forse aveva una possibilità.

«Mi perdoni, innanzitutto, posso chiederle come si chiama?»
«Gianfredo.»
«Bene, signor Gianfredo.» riprese «Mi dica, di che colore sono i suoi occhi?»
«Azzurri...» replicò quello confuso. Andava bene: più si confondevano, più la supercazzola funzionava.

«Quindi un colore chiaro, occhi  molto delicati.» disse Jerrica «Capisce, signor Gianfredo? Se lei non avesse notato il rossore, non si sarebbe accorto che la rigidità di quelle lenti non andava bene. Le avrebbe messe, tenute tutta la notte mentre ululava alla luna.»
«Beh, sì, ma-»
«Avrebbe scoperto troppo tardi che forse quelle lenti potevano provocarle danni agli occhi. E alla prossima Luna Piena...» assunse un tono più grave «si sarebbe davvero potuto godere la prossima Luna Piena, a quel punto?» concluse, rimanendo in attesa.

Se questa non funzionava… sarebbero stati grossi guai. Sentendolo incerto, diede un’ultima spintarella. Go big or go home, si disse.

«Quindi forse, se anche avesse il pacco in casa» lasciò perdere di consigliargli di buttarlo, era chiaro che ora, sconvolto e in lacrime e spezzato dal dolore non riuscisse a ragionare con lucidità «le ricorderebbe di una piccola delusione che è un prezzo da pagare per la gioia di domani. Delle prossime Lune che verranno.»

Aveva dato tutto. Jerrica sapeva che se Gianfredo avesse rifiutato questa sua spiegazione, non ci sarebbe stato più nulla di adatto per convincerlo.

Per lunghi, interminabili istanti, Jerrica pensò di avercela fatta; quando però la voce di Gianfredo risuonò nel suo auricolare, capì dal suo pianto che no: non c’era speranza.

«Signorina Jerrica!!!» esclamò, la cornetta del telefono tra le mani, la disperazione a colorare il suo tono di mille sfumature diverse, oscure «Senza queste lenti non posso essere me stesso! Lei lo capisce, vero? Lei non voleva fare la centralinista di gente stupida da piccola, vero? Aveva un sogno! Ne sono certo! Aiuti me a coronare il mio sogno! Cominci con il liberarmi di questo oggetto, mi lasci vivere nella speranza e non nel rimpianto! La prego!»

La povera Jerrica stava per gettare la spugna quando un “dlin” che lei poteva sentire, ma Gianfredo no, attirò la sua attenzione; era la notifica della messaggistica della piattaforma lavorativa, dove gli operatori una volta vicini e ora costretti alla distanza dalla quarantena che li vedeva lavorare ognuno a casa sua utilizzavano per aiutarsi. 

Aprì con un veloce clic di mouse la finestra di dialogo e vide il nome di Pancrazio digitare un ulteriore messaggio oltre quello mandato.


Pancrazio scrive: come va? Appena chiuso una chiamata felice!


Digitò velocemente, mentre lacrime e disperazione si consumavano dall’altra parte della sua chiamata.


Jerrica scrive: solo disperazione.
Pancrazio scrive: davvero? Che è succ? Tutto appost’?
Jerrica scrive: ma che ne so, Pancrà. ‘na follia. C’ho sto disperato che voleva fa’ il licantropo stasera e mo non può e giù, saranno cinque minuti che piagne in ‘sta cazzo di chiamata, ma perché a me.
Pancrazio scrive: ma serio dici? E la supercazzola?
Jerrica scrive: lascia sta’. Ti scrivo dopo.


«Quindi la prego, signorina Jerrica! LA PREGO.» supplicò ormai distrutto nel corpo e nello spirito il povero Gianfredo.

Jerrica non poteva fare altro. Sapeva che sarebbe stato inutile inoltrare la richiesta al venditore, ma a questo punto… e poi mancavano tre minuti alla chiusura del turno, e sì lei aiutava gli altri a vedersi consegnata la felicità ma voleva essere felice anche lei, e questo significava staccare dal lavoro, spegnere la postazione improvvisata fino al giorno seguente, mangiare cose grasse e guardare il nuovo drama BL in tv.

E poi, a essere sincera… era stata colpita dalle sue parole. Poche, ma c’erano state, ora non si ricordava dove e quando. 

«La prego... » ripeté ancora una volta, mesto, Gianfredo «Non mi costringa a rimanere in chiamata finché non sarò certo di non fare una sciocchezza se lasciato da solo...»

Jerrica tacque, un nodo alla gola a impedirle di rispondere - professionale e cortese come la sua azienda la voleva - a quella sincerità disarmante, a quel fuoco in lei ormai spento da tempo, ma soprattutto all’idea di ore e ore di smocciolata in viva voce anziché della gayness che meritava.

«Ebbene, io l'aiuterò. Le sue parole mi hanno convinta.» disse - bugiarda! - al giovane sperando di fermare le sue lacrime e soprattutto quel delirio.

«Tuttavia,» si concesse quella piccola, microscopica libertà «con i tempi che corrono, credo comunque che la parola CORONARE - anche se riferito a un sogno - sia una scelta del lessico infelice.»

Avrebbe avuto i suoi maledetti gay. Magari se li sarebbe pure sognati furry e che ululavano alla luna, dopo questa storia del licantropo. 

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Fandom: originali
Prompt: Iniquissimam pacem justissimo bello antefero (Preferisco la pace più ingiusta alla più giusta delle guerre) (m5)
Rating: giallo
Parole: 290
Warnings: //



Le sedie grattano sul pavimento mentre chi le ha occupate per le tre ore precedenti si allontana lasciando la stanza. 

Reiji è un uomo che è passato inosservato per buona parte della sua vita: uno bambino come tanti, uno studente bravo ma che non occupava posizioni di prestigio a scuola, un insegnante gentile e capace ma non di fama mondiale o niente del genere. E' stato un padre che non aveva preventivato di esserlo e poi un giorno l'arroganza di chi era a capo di una delle parti di uno sciocco conflitto gli aveva strappato via una figlia che non era nemmeno sicuro di aver conosciuto quanto avrebbe voluto, ma che era già parte della sua vita. 

Per una guerra che non era la sua, una vittoria di cui non avrebbe sentito alcun sapore.

Gli uomini che gli stanno dando le spalle sono semplici, "invisibili" come lui in una società dove le abilità speciali sono più di quanto il governo possa immaginare; non hanno nulla in comune eppure sono lì, hanno appena optato per un'uccisione con l'idea di portare la pace sparita da troppo tempo.

Un sacrificio per il bene comune non è qualcosa di cui Reiji pensa potrà mai andare fiero e forse, se fosse meno accecato dal dolore e dalla rabbia, penserebbe a un metodo alternativo ma la consapevolezza che finché quell'uomo sarà al vertice altri come lui perderanno tutto ciò che fa parte del loro piccolo mondo non rende accettabile nessun'altra soluzione.

Potrà essere una pace insanguinata, ingiusta, ma quale guerra invece non lo è?

«Reiji-san, hai dei ripensamenti?»

Tanti, ma nessuno abbastanza forte.

«Ne avrei molti di più se scegliessi di vincere la guerra onestamente.» pronuncia «Se un uomo deve morire per salvarne mille, che muoia.»

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Fandom: originali
Prompt: Etiam innocentes cogit mentiri dolor (Il dolore rende bugiardo anche un uomo innocente) (m5)
Rating: arancione
Parole: 309
Warnings: linguaggio colorito, menzioni di tortura



L'uomo nella cella tace, sfinito; il suo corpo è stato torturato a sufficienza per estrapolargli informazioni, ma non al punto da portarlo a essere in fin di vita. L'umidità del luogo penetra nelle ossa di vittima e carnefice, ma non c'è tempo né per i ripensamenti né tantomeno per i sensi di colpa.

Eishi lascia la cella e che a richiuderla alle sue spalle sia il sottoposto di cui non ricorda nemmeno il nome, a dirla tutta, ma è stato scelto da Jin e tanto gli basta a fidarsi che saprà fare il suo lavoro. Fuori, il disprezzo di Tohru pare quasi dargli il bentornato: vorrebbe dire che la cosa lo turba, ma il punto è che nell'essere teneri in certi momenti non c'è nulla da guadagnare e se è circondato da gente troppo buona o corretta per esserlo, Eishi non ha problemi a fare il cattivo della situazione. Non sa se Tohru non accetti solo i suoi modi di fare o se li critichi perché non accetta niente che venga da lui, ma anche di questo Eishi non ha voglia di preoccuparsi, né una ragione per farlo.

«Era necessario torturarlo?»

«Sto ancora aspettando la tua idea migliore.» ribatte senza alcuna inflessione nel tono. Può quasi sentire Tohru vibrare di rabbia alle sue spalle.

«Ti sto chiedendo che senso avesse, quale cazzo è il tuo piano, faccia di merda!»

Eishi ferma i propri passi, lo guarda; gli scappa da sorridere, ma non c'è né allegria né complicità nel modo in cui lo guarda: «Perché lo useremo contro i suoi stessi compagni. E' un bene che tu non sappia quanto la paura del dolore renda schiavi gli altri e quanto anche il più fedele degli uomini può diventare un traditore. Chiunque mentirebbe per sfuggire alla tortura, dopo averla provata.»

Non si aspetta lo capisca, Tohru.

Nessuno dovrebbe, a diciassette anni. 

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Fandom: originali
Prompt: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt (Il fato conduce colui che vuole lasciarsi guidare, trascina colui che non vuole) (m5)
Rating: giallo (accenni di morti)
Parole: 486
Warnings: //



Sometimes Tatsuya dreams of it. It doesn't matter that he's far away from his homeland, from what he was there - a mafia leader, a squad leader, a citizen moving through the streets where he grew up and where he lost everything. He dreams of fire and screams, of people leaving and never coming back - despite the fact that they came back, so many times he lost count, until he had the strenght to try and rewind that scene of death, until he understood that death never come back. Not if you don't have what it takes in terms of determination and someone to sacrifice. A life for a life.

Sometimes he has the feeling of numbness he felt back then when he was going astray in his own consciousness; sometimes he wakes up in the middle of the night with the urge to scream until his lungs burn - he doesn't, to not worry his partner and not scare their son.

If he thinks at that moment, he wonders: was his lack of power, or was just fate? 

He cursed fate once when his mother died and then again when he saw the building in fire. He thought fate can go die, but maybe he should have listened, maybe it was a warning. 

In response, fate dragged his ass where he was supposed to be: between humans, not gods who decide who dies and who lives.


«Tatsuya-san?»

Yukinaga's voice catches him off guard. When he looks at him, Yuki's expression is attentive, trying to figure out by himself if something is wrong; Tatsuya smiles vaguely: «What were you saying?»

«They send us a request from Russia.» Yukinaga replies, not very happy about it. Tatsuya knows that his subordinates are not fond of Russia at all, giving what happened almost every time they went there for work «Seems like they need assistance.»

«Your thoughts about it?» he asks, taking advantage of the situation to teach him - because someday Yukinaga will be a leader, if he stays with them until then. He must know that making decisions is part of this whole mechanism called "a group".

«...I would prefer to avoid it if possible.» he says, too honest for his own good «No offense for Rodion, but Russia is never something good, usually.»

«It isn't at all, I agree.» Tatsuya can't help but chuckle, because come on. «But?» he presses the younger one, knowing there's more to it.

«But maybe not going will make things worst. So I suppose we can't really help it.»

«Is it your instict?»

«No, I just think that if we have the chance to make the relationship better we should do it...?»

Ah, Tatsuya thinks, such a wiser leader we will have.

«Let's do it, then. Call the others for me.» 

For sure, this group will be blessed and leaded by fate this time and it won't be towards ruin.

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